ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 235, 236, 237,
238  e  299  (quest'ultimo  nella parte in cui abroga l'art. 660 cod.
proc.  pen.)  del  d.lgs.  30 maggio  2002, n. 113 (Testo unico delle
disposizioni  legislative  in  materia  di  spese  di  giustizia),  e
dell'art. 239  del  d.P.R.  30 maggio 2002, n. 114 (Testo unico delle
disposizioni  regolamentari  in  materia di spese di giustizia), come
riprodotti  nel  d.P.R.  30 maggio  2002,  n. 115  (Testo unico delle
disposizioni  legislative  e  regolamentari  in  materia  di spese di
giustizia),  con  riferimento  agli  artt. 76, 97, comma primo, e 111
della  Costituzione,  nonche',  in via subordinata, dell'art. 7 della
legge  8 marzo  1999,  n. 50  (Delegificazione e testi unici di norme
concernenti     procedimenti     amministrativi     -     Legge    di
semplificazione 1998),     con    riferimento    all'art. 76    della
Costituzione,   promossi   con   ordinanze  del  25 settembre  e  del
4 novembre 2002 dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale
di  Verona,  iscritte  ai nn. 505 e 558 del registro ordinanze 2002 e
pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica,  1ª  serie
speciale, n. 47 dell'anno 2002, e n. 1 dell'anno 2003.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 26 marzo 2003 il giudice
relatore Annibale Marini.

                          Ritenuto in fatto

    1. - Il  giudice  per  le  indagini  preliminari del Tribunale di
Verona, in qualita' di giudice dell'esecuzione, con due ordinanze, di
contenuto  sostanzialmente  identico,  del  23 settembre  2002  e del
4 novembre    2002,    ha   sollevato   questione   di   legittimita'
costituzionale  «degli  artt.  da 235 a 239 e 299 (quest'ultimo nella
parte in cui abroga l'art. 660 cod. proc. pen.)» del d.lgs. 30 maggio
2002,  n. 113  (Testo unico delle disposizioni legislative in materia
di  spese  di  giustizia), come riprodotti nel decreto del Presidente
della   Repubblica   30 maggio   2002,   n. 115  (Testo  unico  delle
disposizioni  legislative  e  regolamentari  in  materia  di spese di
giustizia),  con  riferimento  agli  artt. 76, 97, comma primo, e 111
della  Costituzione,  nonche',  in via subordinata, dell'art. 7 della
legge  8 marzo  1999,  n. 50  (Delegificazione e testi unici di norme
concernenti     procedimenti     amministrativi     -     Legge    di
semplificazione 1998),     con    riferimento    all'art. 76    della
Costituzione.
    In  punto  di rilevanza, il rimettente espone di essere investito
di  istanze  di  conversione  di pene pecuniarie e di dovere, quindi,
fissare  l'udienza  ex  art. 666  cod. proc. pen. per gli adempimenti
previsti dall'art. 238 del d.lgs. n. 113 del 2002.
    Il  medesimo giudice ritiene, tuttavia, che le norme del suddetto
d.lgs.,  poi  trasfuse  nel  d.P.R.  n. 115 del 2002, con le quali e'
stata   attribuita   al   giudice   dell'esecuzione   la  competenza,
precedentemente  spettante  al magistrato di sorveglianza, in tema di
rateizzazione  e  conversione  di  pene  pecuniarie,  si  pongano  in
contrasto,   sotto   diversi   profili,  con  gli  evocati  parametri
costituzionali.
    Osserva  preliminarmente  il  rimettente  che la fonte del potere
legislativo   esercitato   nella   specie  dal  Governo  si  rinviene
nell'art. 7  della  legge n. 50 del 1999, come modificato dall'art. 1
della  legge  24 novembre  2000, n. 340, che ha attribuito al Governo
stesso  la delega al riordino delle norme legislative e regolamentari
nelle  materie  ivi  elencate,  mediante  l'emanazione di testi unici
comprendenti  le  disposizioni contenute in un decreto legislativo ed
in  un  regolamento  emanati  ai  sensi degli artt. 14 e 17, comma 2,
della legge 23 agosto 1988, n. 400, attenendosi ai criteri e principi
direttivi dettati dallo stesso art. 7 della legge n. 50 del 1999.
    La  previsione  della emanazione di un d.lgs. renderebbe evidente
la  natura  non  meramente  compilativa  dell'intervento  di riordino
normativo  rimesso  all'esecutivo, fermo restando che la capacita' di
innovazione  del  sistema andrebbe riconosciuta solamente al suddetto
ddecreto  legislativo  e  non anche al successivo testo unico, avente
funzione  di  mera  raccolta delle disposizioni contenute nel decreto
legislativo e nel regolamento.
    Nella  specie, dunque, dovrebbe riconoscersi rango legislativo al
solo  d.lgs.  n. 113 del 2002, stante la natura meramente compilativa
del successivo d.P.R. n. 115 del 2002.
    Cio'  posto,  rileva il rimettente che il citato art. 7, comma 1,
della  legge  n. 50  del 1999 indica le materie oggetto di delega con
riferimento ad una pluralita' di fonti esterne alla stessa legge. Nel
preambolo  del  d.lgs. n. 113 del 2002 le materie rispetto alle quali
il  Governo  ha  ritenuto  di  esercitare  la delega sono individuate
mediante  il  riferimento ai numeri 9, 10 e 11 dell'allegato numero 1
della  legge  n. 50 del 1999, che hanno, rispettivamente, riguardo al
«Procedimento  di  gestione  e  alienazione  dei  beni  sequestrati e
confiscati», al «Procedimento relativo alle spese di giustizia» ed ai
«Procedimenti per l'iscrizione a ruolo e il rilascio di copie di atti
in   materia   tributaria  e  in  sede  giurisdizionale,  compresi  i
procedimenti  in camera di consiglio, gli affari non contenziosi e le
esecuzioni  civili mobiliari e immobiliari». Il contenuto di ciascuna
delle  suddette  materie  e'  ulteriormente  definito  - nel suddetto
allegato  -  mediante l'indicazione dei testi normativi contenenti la
relativa disciplina.
    Osserva  al  riguardo  il  rimettente  che  - a prescindere dalla
conformita'  di  una  siffatta modalita' di indicazione delle materie
oggetto  di delega con l'art. 76 Cost., secondo il quale la delega va
conferita  «per  oggetti definiti» - tra le materie cosi' individuate
non si rinverrebbe comunque quella delle pene pecuniarie e della loro
conversione in caso di insolvenza del condannato.
    E'   pur  vero  che,  nella  Relazione  allo  schema  di  decreto
legislativo,  si  afferma  che  l'inserimento  nel  testo unico della
materia   relativa   alle   pene   pecuniarie   sarebbe  giustificato
dall'essere  essa  «comune a quella delle spese processuali». Ritiene
peraltro il giudice a quo che, in tal modo, si attribuisce prevalenza
-  in  contrasto  con  il  tenore  della  legge di delega - alla mera
titolazione delle materie indicate nell'allegato numero 1 della legge
n. 50  del  1999  piuttosto  che  al  contenuto  degli specifici atti
normativi  richiamati  in quell'allegato. Ne conseguirebbe, pertanto,
l'illegittimita'  costituzionale  di  tutte  le  norme  impugnate per
mancanza  di  una  valida  delega  a  disciplinare  anche  la materia
relativa alle sanzioni pecuniarie.
    In via subordinata, il rimettente rileva che l'asserita comunanza
tra  la  materia  delle  spese  di  giustizia  e  quella  delle  pene
pecuniarie  potrebbe al piu' riguardare il momento della riscossione,
ma  certo  non  potrebbe  spingersi  «fino ad attrarre momenti e fasi
diversi  che  attingono  profili  sostanziali, come la tematica della
conversione  delle  pene  pecuniarie  in  relazione alla competenza a
provvedervi  e  al  rito».  Gli artt. 237 e 238 del d.lgs. n. 113 del
2002,  nella  parte  in cui attribuiscono la competenza a disporre la
conversione   delle   pene  pecuniarie  al  giudice  dell'esecuzione,
sarebbero  dunque in ogni caso illegittimi per mancanza di una valida
delega   a   disciplinare  anche  la  materia  relativa  alle  regole
processuali ed alla competenza.
    In  via di ulteriore subordine, il rimettente osserva ancora che,
tra  i  criteri  direttivi  dettati dall'art. 7, comma 2, della legge
n. 50 del 1999, l'unico che non si sostanzia nell'indicazione di mere
regole  di  buona  normazione  e'  quello di cui alla lettera d), che
prevede  la  possibilita' di effettuare un «coordinamento formale del
testo  delle  disposizioni  vigenti,  apportando, nei limiti di detto
coordinamento,  le  modifiche  necessarie  per  garantire la coerenza
logica  e  sistematica  della  normativa  anche al fine di adeguare e
semplificare  il  linguaggio  normativo».  Il  potere  attribuito  al
legislatore  delegato risulterebbe pertanto chiaramente limitato, nel
senso  di  escludere  qualsiasi  modifica sostanziale delle strutture
portanti  della  disciplina  delle  materie  cui  la delega stessa si
riferisce.
    A  questa  precisa  limitazione  il  legislatore  delegato non si
sarebbe   attenuto,  avendo  introdotto  una  serie  innumerevole  di
innovazioni  radicali  della  disciplina vigente, quale appunto - per
cio'  che  nella  specie  interessa - lo spostamento della competenza
riguardo  al  procedimento  di conversione delle pene pecuniarie. Gli
artt. 237  e  238  del  decreto  legislativo si porrebbero percio' in
contrasto,   anche   sotto   tale   profilo,   con   l'art. 76  della
Costituzione.
    Se  invece  si ritenesse la delega idonea a consentire interventi
innovativi  del  preesistente  tessuto normativo, sarebbe allora - ad
avviso  sempre del rimettente - l'art. 7 della legge n. 50 del 1999 a
porsi  in contrasto con l'art. 76 della Costituzione, «nella parte in
cui non detta criteri e principi direttivi idonei a definire i tratti
fondamentali  e  le  scelte rilevanti con riferimento alle specifiche
materie delegate».
    Rileva  da  ultimo il giudice a quo che l'attribuzione all'organo
della  cognizione  di  incombenze  ulteriori  e  marginali rispetto a
quelle   proprie   della   giurisdizione  penale  determinerebbe  una
inevitabile  perdita  di  efficienza  del sistema giudiziario, tenuto
anche  conto, nella specie, della complessita' della procedura di cui
all'art. 666 cod. proc. pen. Per tale aspetto gli artt. 237 e 238 del
decreto   legislativo  si  porrebbero  in  contrasto  anche  con  gli
artt. 97, comma primo, e 111 della Costituzione.
    2. - Si  e'  costituito  in  entrambi  i  giudizi, con memorie di
identico   contenuto,  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato   e   difeso   dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,
concludendo  per  la  declaratoria  di  manifesta inammissibilita' o,
comunque, di infondatezza della questione.
    In  via preliminare, l'Avvocatura rileva che l'art. 239 del testo
unico  non  e'  norma  legislativa  ma  regolamentare,  derivando dal
decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 114 (Testo
unico  delle  disposizioni  regolamentari  in  materia  di  spese  di
giustizia),  ed  e'  pertanto  sottratto al sindacato di legittimita'
della Corte costituzionale.
    Ancora  in  via  preliminare,  deduce  l'Avvocatura il difetto di
rilevanza  della questione con riguardo agli artt. 235, 236 e 237 del
d.lgs.  n. 113 del 2002, trattandosi di norme di cui il giudice a quo
non deve fare applicazione.
    Nel  merito,  la  parte  pubblica  assume che, con l'art. 238 del
d.lgs.  n. 113  del 2002, il legislatore delegato avrebbe soddisfatto
un'esigenza  di coerenza ed uniformita' del sistema con riferimento a
principi  gia'  esistenti  nell'ordinamento,  quali  quelli  espressi
nell'art. 42  del  d.lgs.  28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla
competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della
legge  24 novembre  1999, n. 468), che attribuisce appunto al giudice
di  pace  competente per l'esecuzione l'adozione dei provvedimenti in
ordine alla rateizzazione e alla conversione della pena pecuniaria.
    La   norma  costituirebbe,  dunque,  frutto  di  una  scelta  non
arbitraria  ne'  irragionevole  del  legislatore e non si porrebbe in
contrasto  con  il parametro (peraltro non evocato dal rimettente) di
cui all'art. 25 della Costituzione.
    Quanto  al  prospettato  eccesso  di delega, l'Avvocatura ricorda
come la giurisprudenza della Corte abbia avuto modo di evidenziare il
naturale  rapporto  di  «riempimento»  che  lega  la norma delegata a
quella  delegante,  alla  luce  della  ratio che ispira quest'ultima,
cosicche'  il  silenzio  della  legge  di  delegazione  non osterebbe
all'emanazione  di  norme  che  rappresentino  un coerente sviluppo e
completamento della scelta espressa dal legislatore delegante e delle
ragioni ad essa sottese.
    Il  parametro di cui all'art. 97 della Costituzione sarebbe, poi,
inconferente,  in  quanto la disposizione costituzionale in questione
riguarderebbe  solamente  la  pubblica amministrazione e non anche la
funzione giurisdizionale.
    Il riferimento, infine, all'art. 111 della Costituzione sarebbe -
ad  avviso ancora dell'Avvocatura - «contraddittorio ed inammissibile
per manifesta non rilevanza».

                       Considerato in diritto

    1. - Il  giudice  per  le  indagini  preliminari del Tribunale di
Verona, con due distinte ordinanze, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 76,  97,  comma  primo,  e 111 della Costituzione, questione di
legittimita'   costituzionale  «degli  artt.  da  235  a  239  e  299
(quest'ultimo  nella  parte  in  cui  abroga  l'art. 660 c.p.p.)» del
d.lgs.   30 maggio  2002,  n. 113  (Testo  unico  delle  disposizioni
legislative  in materia di spese di giustizia), «come riprodotti» nel
decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo
unico  delle  disposizioni  legislative e regolamentari in materia di
spese di giustizia).
    Ad  avviso  del  rimettente, le norme impugnate, disciplinando il
procedimento  di  conversione delle pene pecuniarie ed in particolare
attribuendo   al  giudice  dell'esecuzione  la  relativa  competenza,
precedentemente  spettante al magistrato di sorveglianza, sarebbero -
sotto  diversi  e concorrenti profili - in contrasto con i principi e
criteri  direttivi  contenuti nella norma di delega di cui all'art. 7
della  legge  8 marzo  1999,  n. 50 (Delegificazione e testi unici di
norme    concernenti   procedimenti   amministrativi   -   Legge   di
semplificazione 1998).
    Le  medesime  norme,  inoltre,  assegnando incombenze ulteriori e
marginali   all'organo  deputato  all'esercizio  della  giurisdizione
penale,  comprometterebbero l'efficienza del sistema giudiziario, con
conseguente  lesione  del  principio di buon andamento della pubblica
amministrazione e di quello della ragionevole durata del processo.
    Stante  l'assoluta identita' delle questioni, i due giudizi vanno
riuniti per essere decisi con un unico provvedimento.
    2. - Deve  preliminarmente  rilevarsi  che  l'art. 239 del d.P.R.
n. 115   del   2002   non   e'  norma  di  rango  legislativo  bensi'
regolamentare,  non derivando - come il rimettente mostra di ritenere
-  dal  d.lgs.  n. 113  del 2002, ma dal d.P.R. 30 maggio 2002 n. 114
(Testo  unico delle disposizioni regolamentari in materia di spese di
giustizia).
    In quanto norma secondaria, essa e' dunque sottratta al sindacato
di  legittimita'  costituzionale,  il che comporta la declaratoria di
inammissibilita' della questione proposta.
    3. - Ancora  in via preliminare, va osservato che il rimettente -
investito,   quale   giudice   dell'esecuzione,   di   un'istanza  di
conversione  di pena pecuniaria - non e' chiamato a fare applicazione
degli  artt. 235  e  236  del  d.lgs. n. 113 del 2002, trattandosi di
norme attinenti alla disciplina della riscossione.
    La  questione  va percio' dichiarata inammissibile per difetto di
rilevanza,    mentre    va   rigettata   l'ulteriore   eccezione   di
inammissibilita'  sollevata  dall'Avvocatura  - sempre per difetto di
rilevanza - con riguardo al successivo art. 237, in quanto e' proprio
tale    norma    ad   attribuire   al   rimettente,   quale   giudice
dell'esecuzione, la competenza nel giudizio a quo.
    4. - Nel  merito,  la  questione  di  legittimita' costituzionale
degli  artt. 237,  238  e 299 (quest'ultimo nella parte in cui abroga
l'art. 660   cod.  proc.  pen.)  del  d.lgs.  n. 113  del  2002,  con
riferimento all'art. 76 della Costituzione, e' fondata.
    4.1. - Il  decreto  legislativo di cui si tratta trova il proprio
fondamento  nella  delega  contenuta  nell'art. 7 della legge 8 marzo
1999,  n. 50  (Delegificazione  e  testi  unici  di norme concernenti
procedimenti  amministrativi.  Legge  di  semplificazione 1998), come
modificato dall'art. 1 della legge 24 novembre 2000, n. 340.
    Dal  preambolo  dello  stesso  decreto  legislativo si evince, in
particolare, che la delega e' esercitata con riferimento alle materie
indicate  ai  numeri 9, 10 e 11 dell'allegato numero 1 della predetta
legge  n. 50  del 1999, che rispettivamente attengono al procedimento
di  gestione  e  alienazione  dei  beni  sequestrati e confiscati, al
procedimento  relativo alle spese di giustizia ed ai procedimenti per
l'iscrizione  a  ruolo  e  il  rilascio  di  copie di atti in materia
tributaria  e  in  sede  giurisdizionale,  compresi i procedimenti in
camera  di  consiglio,  gli  affari  non  contenziosi e le esecuzioni
civili mobiliari e immobiliari.
    Come si legge nella relazione illustrativa del testo unico, i tre
procedimenti  -  meglio  individuati,  nella  legge  di  delega,  con
specifico riferimento alle fonti della relativa disciplina - «coprono
l'intera  materia  delle  spese di giustizia», che puo' dirsi percio'
costituire l'oggetto sostanziale della delega stessa.
    Le  norme  denunciate  riguardano  la disciplina del procedimento
giurisdizionale di conversione delle pene pecuniarie, con particolare
riguardo  alla relativa competenza, che viene sottratta al magistrato
di  sorveglianza  per  essere, in via generale, attribuita al giudice
dell'esecuzione.
    Si  desume  dalla  gia'  citata  relazione illustrativa del testo
unico  che  il  legislatore  delegato ha ritenuto che tale disciplina
rientrasse  nell'oggetto della delega, quale sopra individuato, sulla
base  di  una  valutazione  di  sostanziale «comunanza» della materia
delle pene pecuniarie con quella delle spese di giustizia.
    Una simile prospettazione non puo' tuttavia essere condivisa.
    Contrariamente  a  quanto sostenuto nella menzionata relazione al
testo  unico,  l'esistenza della delega, specie nelle materie coperte
da   riserva   assoluta  di  legge  -  quale  e',  ex  art. 25  della
Costituzione, quella riguardante la competenza del giudice - non puo'
essere  desunta  dalla  mera «connessione» con l'oggetto della delega
stessa.
    Il  legislatore  delegato  -  indipendentemente dall'ampiezza dei
contorni  che  vogliano  attribuirsi  alla  materia  delle  spese  di
giustizia  - era, dunque, sicuramente privo del potere di dettare una
disciplina  del procedimento di conversione delle pene pecuniarie che
comportasse  -  come  quella  impugnata - una radicale modifica delle
regole di competenza.
    Va  conseguentemente  dichiarata  l'illegittimita' costituzionale
degli artt. 237, 238 e 299 (nella parte in cui abroga l'art. 660 cod.
proc.  pen.)  del  d.lgs.  30 maggio  2002,  n. 113, restando in tale
pronuncia assorbita ogni altra censura.