IL TRIBUNALE

    Letti  gli atti del procedimento penale n. 30181/02 R.G. mod. 16,
1774/96-2 RGNR, relativo all'imputato P.A.;
    Premesso  in  fatto  che  il  predetto  imputato  era  evocato in
giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 589, primo, secondo
e  terzo  comma  c.p. nonche' dell'art. 186 primo e secondo comma del
Codice  della  strada  (fatti  del  16 febbraio 1996, in occasione di
incidente stradale);
    Che  questo  giudice  chiedeva  notizie  circa  lo  stato mentale
dell'imputato   mediante  la  trasmissione  di  documentazione  dalle
strutture sanitarie pubbliche locali;
    Che  a seguito di cio' veniva acquisita documentazione da cui tra
l'altro risultava:
        che  l'imputato  era stato in cura presso il Centro di Salute
Mentale  di  Fabriano,  essendo  stato  seguito continuativamente dal
28 gennaio  1997  al  2 dicembre  1998,  a  seguito  di  diagnosi  di
«disturbo   psicotico  N.A.S.»  insorto  durante  l'espletamento  del
servizio militare;
        che  alla  data  del 26 marzo 1999 l'imputato risultava per i
responsabili del servizio psichiatrico pubblico «affetto da "Disturbo
Borderline  di  Personalita'",  quadro  clinico caratterizzato da una
modalita'  pervasiva  di instabilita' delle relazioni interpersonali,
dell'immagine  di  se' e dell'umore e da una marcata impulsivita» con
«abusi  saltuari  di sostanze stupefacenti ed alcool e, in periodi di
elevata  esposizione  allo stress, scompensi psicotici caratterizzati
dal conparire di disturbi dell'ideazione di tipo paranoide»;
        che  concorreva  con  il  predetto  quadro  un  disturbo post
traumatico  da stress, che poteva «aver contribuito a slatentizzare i
tratti disfunzionali di personalita' connessi al sottostante disturbo
di personalita»;
        che una nota del 3 dicembre 1999 indicava una riaccentuazione
dei  sintomi  in  concomitanza ad (altro) incidente stradale avvenuto
nel luglio 1999;
        che  l'imputato  era  stato  ricoverato  presso  il  Servizio
psichiatrico  di  diagnosi  e  cura  di Jesi dal 13 settembre 1999 al
16 settembre 1999, a seguito del quale aveva ricominciato ad assumere
una  terapia  farmacologica  a  base  di  neurolettici, ansiolitici e
stabilizzanti dell'umore;
        che successivamente l'imputato era stato ricoverato presso la
stessa struttura, inizialmente a livello volontario e poi con T.S.O.,
stante la sua assoluta mancanza di collaborazione;
        che successivamente era continuata la terapia farmacologica;
        che  la certificazione datata 13 marzo 2000 a firma di medico
della AUSL 5 di Jesi dava conto di «un quadro clinico psicopatologico
caratterizzato da una condizione persistente di depersonalizzazione e
derealizzazione, con frequenti episodi francamente psicotici».
    Considerato,  in  diritto,  che  risulta  dunque  dalla  predetta
documentazione  acquisita  che  l'imputato, nel periodo successivo al
tragico  incidente,  era  malato  di mente. Risulta inoltre un quadro
tale  che  imporrebbe  di  approfondire  se  -  per la gravita' della
malattia  segnalata  non  da  consulenti  di  parte,  ma da strutture
pubbliche - la  malattia mentale stessa non fosse presente al momento
del   fatto  (anche  se  qui  potrebbe  venire  in  rilievo  la  nota
controversia  tra  fattore  scatenante,  mera concausa della malattia
mentale  ovvero malattia mentale «autonomamente sviluppatasi»: ma per
l'appunto cio' postulerebbe l'approfondimento peritale accennato).
    Tale   perizia,   in   caso  di  esito  della  stessa  nel  senso
dell'infermita'  di  mente  al  momento  del  fatto,  potrebbe essere
risolutiva per escludere l'imputabilita'.
    E  tuttavia,  prima  di  interrogarsi  sull'opportunita'  o sulla
necessita'  di una perizia psichiatrica, questo giudice deve porsi il
problema  fondamentale  di  come  utilizzare  il concetto di malattia
mentale rispetto al diritto positivo.
    E  in  tale  diritto  positivo  com'e' noto, viene in rilievo, in
primo  luogo,  il  disposto  degli  artt. 85-87-88-90  c.p. (v. anche
art. 220, secondo comma c.pp.).
    L'indagine  che  deve effettuare questo giudice dev'essere subito
alleggerita   dalle   questioni   piu'   generali,   che  addirittura
coinvolgono il modo d'essere di un sistema penale.
    In  altre  parole,  per  quello che qui interessa, non occorre in
alcun modo occuparsi di tutte le questioni che attengono:
        alla  pretesa  duplicazione  concettuale  tra  art. 42, primo
comma ed art. 88 c.p., sostenuta da parte della dottrina;
        alla  problematica  relativa  alla capacita' di volere di cui
agli  artt. 85  ed  88  c.p.  come  «libero volere», intendendosi con
questo  la  capacita'  di  agire  «liberamente» il che comporta a sua
volta  il  quesito se possa, almeno in parte, affermarsi che comunque
la  norma sottenda il problema del «libero arbitrio», il che e' stato
espressamente escluso nella relazione al codice, non avendo voluto il
legislatore  prendere posizione sul punto (affermando sostanzialmente
che  trattasi  di problemi metagiuridici) ma che parte della dottrina
in  qualche modo ripresenta in sede ermeneutica, non ritenendo che la
capacita'  o  l'imputabilita'  possa  attenere ad altri che all'«uomo
libero»;
        alla  problematica relativa alle finalita' della pena (scuola
classica, scuola positiva, nuova difesa sociale ecc. ecc.).
    Occorre invece prendere le mosse dalla costante giurisprudenza in
materia,  la  quale sostanzialmente, e sia pure con qualche episodico
precedente  difforme,  ha  un  orientamento  pacifico  nel ricondurre
l'infermita'  di  mente  ad  una  «patologia» clinicamente accertata.
Solitamente,  ma  non  sempre,  la  giurisprudenza esclude dal novero
delle  «infermita»  psichiche  quelle che non si traducano nelle c.d.
psicosi. Talvolta si assiste anche alla specificazione, apprezzata da
parte della letteratura psichiatrica forense, che la malattia mentale
deve essere stata causa specifica del reato e non mero stato generale
del   soggetto:   e'   questa,   sotto   varie   forme,  la  dottrina
dell'incapacita' di intendere e di volere come valore di malattia.
    Ricorrente  e'  poi  la  distinzione tra psicosi vera e propria e
c.d.  nevrosi  la  quale  non  darebbe  luogo  a compromissione della
capacita' di intendere e di volere.
    Quasi  sempre,  inoltre,  v'e'  la  sottolineatura circa la «base
organica» della malattia rilevante ex art. 88 e 89 c.p.
    Queste affermazioni si trovano nella copiosa giurisprudenza degli
ultimi  50  anni  talvolta  affiancate, talaltra, per cosi' dire, «in
ordine  sparso»,  poiche'  viene  colto ora l'uno ora l'altro aspetto
ovvero  perche'  empiricamente  la  giurisprudenza  stessa  cerca  di
risolvere   gli  stessi  imbarazzi  e  contraddizioni  della  cultura
psichiatrica.
    Su   questi   presupposti   si  attesta  anche  la  piu'  recente
giurisprudenza.
    Si  pone ora la questione di chi, in primo luogo, debba accertare
la  malattia  mentale,  in  ipotesi  penalmente rilevante. Il quesito
sembrerebbe  banale  e pedestre, poiche' la risposta obbligata e' che
l'incapacita'   viene   accertata  dal  giudice  sulla  scorta  delle
risultanze  processuali ed in primo luogo della perizia psichiatrica.
Ma,  per  l'appunto,  deve essere chiaro su quali premesse necessarie
deve  essere  condotta  la  perizia  psichiatrica.  E  allora,  utile
conclusione puo' essere quella secondo la quale la perizia non potra'
mai  essere  affidata  ad  un  esperto nelle discipline psicologiche,
perche'  la  psicologia si occupa delle condotte mentali in generale,
mentre la psichiatria si occupa della diagnosi (oltre che della cura)
della malattia mentale.
    Inoltre,  altra  ulteriore  conseguenza, anch'essa apparentemente
banale,  e'  che  la  psichiatria, come fonte di conoscenza umana, si
pone esclusivamente come «scienza».
    Certamente  il  perito  in genere, puo' essere versato nelle piu'
varie  forme  di  conoscenza  umana,  ivi comprese quelle a carattere
artistico,  ma  la  perizia  psichiatrica  non puo' che porsi secondo
criteri scientifici.
    Una  volta  accertato  che il giudice deve ricorrere alla scienza
psichiatrica,  altra  utile specificazione e' quella che attiene alla
nozione stessa di scienza.
    Senza  volersi  in  alcun  modo addentrare, neppure per cenni, in
questioni di filosofia della scienza, non si puo' tuttavia trascurare
che lo stesso soggetto di conoscenza media, tra i quali va annoverato
lo  stesso  operatore  del  diritto,  deve  utilizzare il concetto di
«scienza»  sul  quale  attualmente  si  conviene  (con  esclusione di
quello, generalissimo, che equivale a sinonimo di «conoscenza».
    La  nozione  di  scienza  ha  oggi  abbandonato quel carattere di
conoscenza  assoluta  ed  universale  alla  quale  ambiva  nei secoli
precedenti, almeno come fine raggiungibile.
    Si  puo' anzi dire, forse esagerando, che uno dei postulati della
scienza  moderna e' proprio l'impossibilita' di raggiungere tale fine
(e  si  esagererebbe  proprio  perche'  tale  affermazione  ha in se'
un'eccessiva assolutezza).
    Requisito  essenziale  della  scienza moderna e' che tutte le sue
acquisizioni,   per  avere  valore,  devono  essere  suscettibili  di
riscontro che puo' essere:
        sia  di  natura assolutamente deduttiva: un matematico esegue
una  dimostrazione  ponendo all'attenzione della comunita' matematica
tutti  i  passaggi attraverso i quali essa si svolge, in maniera tale
che  la comunita' stessa possa discutere il valore e l'importanza del
lavoro.  Assolutamente  emblematica  in  tal  senso, e mediaticamente
importante  perche'  giunta agli onori delle cronache giornalistiche,
e' la dimostrazione del c.d. ultimo teorema di Fermat, vale a dire la
dimostrazione  che  xn  +  yn = zn  non puo' dare alcuna soluzione in
numeri  interi  per  n  maggiore  di  2. Tale dimostrazione, oltre ad
essere contenuta in oltre 200 pagine, aveva un errore nella sua prima
formulazione,  errore  emendato  proprio grazie alla segnalazione dei
matematici coinvolti nella verifica;
        sia  di natura in tutto o in parte empirica: viene annunciato
un  nuovo  e rivoluzionario farmaco ovvero un nuovo protocollo medico
nella cura del cancro; la procedura di scoperta della molecola ovvero
il  protocollo  di  cura  deve  essere  messo  a  disposizione  della
comunita'   scientifica  per  le  verifiche  sperimentali  del  caso;
altrimenti la scoperta del farmaco e la pretesa cura non hanno valore
scientifico e, poiche' la medicina e la farmacologia non hanno valore
di conoscenza se non sub specie di scienza, non hanno affatto valore.
    Certamente  lo  sforzo  intellettuale,  anche in tema di scienza,
procede  anche  per  altre  vie,  non  deduttive  ne'  induttive: una
congettura si affaccia gia' pronta alla mente del ricercatore, e solo
dopo  se  ne trova la giustificazione mediante il procedere razionale
(la  genesi di cio' e' tuttora ignota). Non puo' essere sottovalutato
questo dato, ma esso non appartiene direttamente alla scienza.
    La  psichiatria deve porsi come scienza, essendo una branca della
medicina,  e  come tale deve avere acquisizioni comunemente accettate
dalla  generalita'  degli  esperti  che  praticano  tale  disciplina.
L'affermazione  potrebbe  sembrare  azzardata  se  si pone mente alle
difficolta'  in cui ancora si dibatte la psichiatria e le discussioni
non  ancora sopite circa l'eziologia di determinati fenomeni morbosi.
Ma  si  tratta  di  difficolta' che appartengono in maggiore o minore
misura  a  tutti  i  rami  delle scienze applicate e non per questo i
risultati  cui  pervengono le varie discipline non sono utilizzati in
maniera  fruttosa  nella vita di tutti i giorni. Essi possono ed anzi
debbono  essere  utilizzati  anche dal giurista. Per quello che a noi
interessa, rimane accertato, alla luce delle moderne acquisizioni:
        1)   che  la  maggior  parte  delle  malattie  mentali  hanno
un'accertata  concomitante carenza o eccesso di sostanze che fanno da
mediatori chimici nelle interazioni neuronali;
        2)  che  spesso  vi  sono una serie di fattori concausali che
possono  prendere  il nome di fattori scatenanti la malattia, senza i
quali:  a)  la  malattia  avrebbe potuto anche non manifestarsi; b) o
avrebbe  potuto manifestarsi con minore gravita'; c) o avrebbe potuto
manifestarsi piu' tardivamente;
        3)  che  le  malattie  mentali,  in  precedenza  classificate
unitariamente,   abbisognano   invece   di  importanti  ed  ulteriori
specificazioni,  per cui, ad esempio, e' corretto parlare di «spettro
schizofrenico»   per  dare  conto  di  una  serie  di  manifestazioni
patologiche,  anche  molto  diverse  tra loro, riconducibili in quale
maniera alla vecchia nozione di schizofrenia;
        4)  che  la  comorbidita' tra malattie mentali e' un fenomeno
piu'  accentuato  di  quanto  in  precedenza  non  si sospettasse (ad
esempio,  depressione  e disturbo ossessivo compulsivo, depressione e
disturbi da abuso di sostanze alcoliche, ecc.);
        5)  che  la summa divisio tra nevrosi e psicosi, ancora molto
radicata  nella  terminologia  comune,  e'  praticamente abbandonata,
mentre  il termine nevrosi viene ancora utilizzato, soprattutto dalla
psichiatria   di   scuola  europea,  ma  semplicemente  come  termine
equivalente   a  «sindrome»  o  «malattia»  e  senza  quella  valenza
spiccatamente    «psicodinamica»    assegnatale   soprattutto   dalla
psicanalisi;
        6)  che  la  gravita' delle malattie mentali non si manifesta
(solo)  in  termini  di  qualita',  cioe'  in relazione ad un tipo di
malattia,  ma  anche e soprattutto in relazione al tipo di intensita'
nell'ambito della stessa malattia;
        7)   che   per  talune  malattie  la  familiarita'  e'  molto
accentuata,    il   che   depone   per   l'origine   genetica   della
predisposizione a questo tipo di malattie: appare corretto parlare di
predisposizione   in   tutti  i  casi  in  cui  la  malattia  dipenda
dall'interazione  di  una  serie di geni e non dal difetto di un solo
gene,  per  cui  il  meccanismo  complesso  di interazione tra i geni
coinvolti potrebbe essere influenzato in maniera piu' o meno positiva
dagli stimoli ambientali;
        8) che anche per le malattie di marcata origine genetica, non
puo'  darsi  luogo  ad  alcun  determinismo  rozzamente  inteso,  per
intendersi  secondo  i canoni piu' rudi della scuola positiva di fine
ottocento,  sia perche', come detto, la malattia sarebbe in ogni caso
poligenica  e  sempre,  in  questa  ipotesi,  diviene  importante  il
contributo  ambientale,  sia perche', trattandosi di geni non tutti a
carattere  dominante,  essi  possono  risentire del positivo influsso
dell'allele, in ipotesi sano, portato dal genitore non affetto;
        9)  che,  infine,  anche  la  dicotomia  tra malattia «a base
organica» o «biologica» e malattia «a base funzionale» (o espressione
equivalente),   tende   ad   essere  abbandonata.  Tutte  le  recenti
acquisizioni  delle  neuroscienze  e della biomedicina danno conto di
una complessita' tale dell'organismo vivente che immaginare una mente
ad  un  piano  superiore  ed  un  corpo  confinato  nel sottoscala e'
un'ipotesi  del  tutto  infruttuosa.  Nel  campo della psichiatria, i
progressi  della  misurazione  sperimentale  danno conto di eccesso o
difetto di determinate sostanze proprio in correlazione a determinati
stati  patologici, per cui la mancanza di riscontro su base fisica di
determinati  disturbi  psichici  non puo' essere preso per fondare la
dicotomia in parola;
        10)  che  gli  apporti della psicodinamica e della sociologia
possono  essere  senz'altro  utilizzati  nella  diagnosi e nella cura
della  malattia  mentale,  senza  voler ridurre la psichiatria a mera
dimensione  biologica,  sia per le innegabili influenze dell'ambiente
cui  sopra  si  e'  fatto  cenno,  sia  perche' la complessita' della
materia, cui attualmente le neuroscienze non possono fornire tutte le
risposte  (ne'  si  sa  se  lo potranno fare in futuro) impongono una
sorta  di pragmatismo eclettico. Ovviamente per un'utile fruizione di
tali contributi va abbandonato ogni dogmatismo da parte di tutti.
    Appare  chiaro  che oggi la scienza e la scienza in generale e la
psichiatria  in  particolare non puo' essere la stessa del 1930. Gia'
questo  comporterebbe un grave attacco alla validita' dei presupposti
scientifici della normativa recata dagli artt. 85-88-89 c.p.
    Infatti,  tanto  per  fare  un esempio, la ricorrente distinzione
operata  dalla  giurisprudenza tra malattia «in senso proprio» ovvero
malattia   che  ha  base  clinica,  la  quale  comporta  l'infermita'
rilevante  per  escludere  o diminuire la capacita' di intendere e di
volere,   e   «i  disturbi  della  personalita',  le  nevrosi,  ecc.»
riecheggia   chiaramente,   quando   non   riprende   pari  pari,  la
terminologia  desueta  di cui sopra, al punto 9. Qui, ovviamente, non
si   discute   se   un   soggetto   con   disturbo  di  personalita',
psichiatricamente  classificabile  come  tale,  debba  o  meno essere
considerato   incapace   di  intendere  e  di  volere:  il  discorso,
piuttosto, e' metodologico, nel senso che appare inesatto in partenza
negare  la qualifica di malattia mentale al disturbo di personalita'.
Non  si  capisce  perche'  il  disturbo  di personalita' interessi la
psichiatria  se non e' rapportabile alla nozione di malattia mentale,
se  non  usando  la  battuta  rinvenibile  in  un  celebre manuale di
psichiatria forense, vale a dire che gli psichiatri, nella loro ansia
classificatoria,   debbono   trovare   un'etichetta   per   qualsiasi
manifestazione comportamentale. Il che, comunque, rimane una battuta,
ed  anche  poco  al  di sopra di quella secondo cui per lo psichiatra
sono  tutti pazzi, ed il primo pazzo e' lui stesso. In realta' rimane
l'assoluta  difficolta'  di  conciliare  le  risultanze della scienza
psichiatrica con asserzioni che si rinvengono nella giurisprudenza le
quali danno come premesse scontate affermazioni che sono in contrasto
con  quanto  sopra richiamato. Come mero esempio ricordiamo che Cass.
Sez.  I, n. 4029/92 stabilisce che la sindrome ansioso depressiva non
e'  associabile  ad  alcuna  entita' nosologica. Si rinviene, in tale
affermazione,  la  traccia  di  una tripartizione tutt'ora in voga in
dottrina  ed  in  giurisprudenza,  secondo  la quale vi sarebbero tre
distinti paradigmi circa i «modelli» di malattia mentale:
        il  paradigma  medico  o  nosografico  elaborato da Kraepelin
verso  l'inizio  del  novecento,  secondo il quale il malato di mente
sarebbe  tale  al sussistere di una specifica ed accertabile malattia
fisica  del  sistema  nervoso centrale. La disamina della malattia si
svolge  attraverso l'essenziale apporto di criteri di classificazione
trasposti  in  «tavole nosografiche», per cui il disturbo psichico e'
riconducibile  ad  una  malattia  mentale  solo  se  nosograficamente
inquadrabile;
        il  paradigma  psicologico,  variamente definito, ma comunque
improntato     alla     valorizzazione     dell'universo    interiore
dell'individuo, della psicodinamica, del «vissuto», ecc. ecc. ecc.;
        il  paradigma  sociologico,  per  cui la malattia di mente e'
riconducibile  agli  influssi  dell'ambiente, o della societa'. Nelle
sue  teorizzazioni piu' estreme, il paradigma sfocia in quella che e'
stata chiamata «antipsichiatria».
    Il  secondo  ed  il  terzo paradigma, per le considerazioni sopra
fatte,  non  appartengono al metodo scientifico. La loro validita' va
cercata  in  altri campi del conoscere. I loro eventuali apporti alla
scienza psichiatrica sono di contenuto empirico, talora importanti ma
non  sistematici.  Non  possono  autonomamente  venire in rilievo per
essere  confutati  o confermati, perche' sfuggono, per la loro stessa
essenza  al  momento della verifica sperimentale (secondo l'ormai ben
noto insegnamento di Popper).
    Il  primo  paradigma  faceva  certamente  parte  integrante della
migliore scienza psichiatrica nel 1920 o nel 1930, ma appartiene oggi
alla storia della scienza.
    Attualmente  la  scienza  psichiatrica  pone le sue fondamenta su
sistemi  di classificazione a carattere pragmatico, rispetto ai quali
sono  fondamentali  il  Manuale  c.d.  DSM  (diagnostic and statistic
manual  of mental disorder) nelle sue successive versioni, nonche' la
corrispondente versione a cura dell'OMS ICD.
    L'elemento  saliente  che  caratterizza  queste  versioni  e'  la
costante  revisione  dei dati e delle classificazioni, che da un lato
sottolinea  il carattere ateorico delle stesse e dall'altro da' conto
di   un'elaborazione   continua   della  materia  in  relazione  alle
acquisizione che via via vengono fatte.
    Accedendo   a   tali   impostazioni,   che  non  possono  trovare
alternative  secondo  la  migliore  scienza ed esperienza attuale, si
comprende come il metodo nosografico era correttamente preso in esame
quale  presupposto  dell'infermita' psichica dal legislatore del 1930
(la  relazione  al Re vi fa indiretto ma chiaro accenno), ma non puo'
essere il presupposto scientifico attuale.
    Ma   ammettendo   che  l'impianto  complessivo  costituito  dagli
artt. 85-88-89,    i    quali    poggiano,    nell'applicazione    ed
interpretazione,  su  premesse  che  non  si  discostano  molto dalle
premesse  proprie  di  una  scienza  psichiatrica vecchia di 70 anni,
possa   in   qualche  modo  superare  le  enormi  riserve  sulla  sua
ragionevolezza,  il  punto veramente dolente riguarda l'art. 90 c.p.,
il  quale  puo'  essere letto sia quale norma autonoma sia in lettura
integrata con il disposto degli articoli riguardanti l'imputabilita'.
In  altre  parole,  il  lettore  (e  l'interprete)  puo' scegliere di
leggere,  in  un primo tempo, gli artt. 85-88-89 c.p., e ne ricavera'
che  non  e'  imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto
era,  per  infermita',  in  uno  stato  di mente tale da escludere la
capacita'  di  intendere  e di volere. Di seguito l'art. 90 c.p. puo'
essere letto come una sorta di interpretazione autentica del disposto
normativo  di  cui agli artt. 85-88-89 c.p., nel senso che «gli stati
emotivi  o  passionali»  non possono mai configurare quell'infermita'
che  comporta  una  stato di mente tale da escludere (o anche solo di
scemare)  la  capacita' di intendere e di volere. In tal modo v'e' un
complesso    normativo    di    unitaria    lettura,   quello   degli
artt. 85-88-89-90  c.p.  Ma il lettore puo' anche intendere l'art. 90
c.p.  come  lo intende autorevole corrente dottrinale, e cioe' che vi
siano  «stati  emotivi  o  passionali»  che alterano il funzionamento
della   psiche   in   maniera   patologica.  E  di  fronte  a  questa
possibilita',  due  sono  le  opzioni, cioe' ammettere che vi sia uno
stato  «emotivo  o  passionale»  che comporta l'infermita/incapacita'
ovvero  che,  in  ogni caso, operi una fictio juris secondo la quale,
seppure  lo  stato  emotivo  o  passionale comporta un'incapacita' di
intendere  o  di  volere, tale incapacita' assoluta o parziale non e'
giuridicamente valutabile.
    La  giurisprudenza  di Cassazione puo', grosso modo, suddividersi
in 3 filoni:
        v'e'  un  gruppo  di  sentenze  che  affermano  che gli stati
emotivi   o   passionali   non   possono   mai   rilevare   ai   fini
dell'incapacita'  di  intendere  o  di  volere  (sez.  I, n. 1319/67;
n. 316/68  ;  sez  II,  n. 3707/76  ;  sez.  III,  n. 467/79; sez. I,
n. 2897/83  ;  sez. IV, n. 14358/90 ; sez. I, n. 7523/91; n. 4029/92;
n. 4954/93; 967/98, sez. VI, n. 7845/97);
        v'e'  un  gruppo  di  sentenze  che  affermano  che gli stati
emotivi o passionali possano anche comportare uno squilibrio psichico
tale  da  poter  dar  luogo  alla  malattia  mentale:  di solito tale
evenienza  e' vista come «eccezionale» (sez. I, n. 739/72; n. 4123/73
;  sez.  III,  n. 800/60; n. 2511/80; n. 9357/80; n. 6710/83; sez. V,
n. 2123/85;   sez.  VI,  n. 2285/85;  sez.  I,  n. 9084/87;  sez.  V,
n. 8660/90; sez. I, n. 1347/91);
        v'e'  infine  un  gruppo di sentenze che sembrano tentare una
specificazione  dello  stato  emotivo  o  passionale,  rilevante  per
escludere  o  diminuire  la capacita' di intendere e di volere, quale
«manifestazione»   di   una   vera   e  propria  patologia  (sez.  I,
n. 10911/76;  sez.  III,  n. 2439/64;  sez.  VI,  n. 153/82;  sez. I,
n. 12429/94; n. 3170/95; n. 5885/97).
    In  realta',  leggendo  i repertori e piu' ancora confrontando le
motivazioni  per  esteso,  si ha talvolta la netta impressione che il
contrasto sia meramente terminologico ed in realta' la giurisprudenza
sia preoccupata di dare risposte adeguate al caso concreto, spesso di
valenza   delicata.   In   realta'  si  tratta  di  sforzi  veramente
ammirevoli,  sol  che si consideri che la nozione di «stati emotivi o
passionali»  e'  uno  strumento  che seriamente non puo' avere alcuna
utilizzazione.  Il legislatore del 1930 utilizzava il vocabolario che
poteva  avere  a disposizione, che era quello di certa criminologia e
psichiatria  di fine ottocento e di inizio del novecento. Certamente,
a loro volta, tali espressioni prendono forma piu' dai momenti topici
del romanzo popolare che da una terminologia scientifica.
    Oggi,  comunque,  nessun  equivoco  e'  piu'  possibile.  Si puo'
certamente  convenire  con  chi  dice che in tali casi le espressioni
piu'  o  meno infelici non devono essere preclusive all'utilizzazione
delle  situazioni sottostanti, che non possono che avere un carattere
convenzionale. Il fatto e' che la convenzione creatasi poggia su basi
scientificamente scorrette.
    Il  giurista  e  l'operatore  del  diritto  deve certamente farsi
carico  di  questa  discrepanza  tra  scienza  come  oggi va intesa e
scienza   come   presupposta   dal   legislatore   del   1930,  dalla
giurisprudenza  e  dalla  dottrina:  «questa  Corte non intende certo
escludere  che il sindacato sulla costituzionalita' delle leggi, vuoi
per  manifesta  irragionevolezza  vuoi  sulla base di altri parametri
desumibili  dalla  Costituzione,  possa e debba essere compiuto anche
quando la scelta legislativa si palesi in contrasto con quelli che ne
dovrebbero  essere  i  sicuri  riferimenti  scientifici  o  la  forte
rispondenza  alla  realta'  delle  situazioni  che  il legislatore ha
inteso  definire.  Nella  materia  del  diritto  penale, anzi, questo
specifico  riscontro  di  costituzionalita'  deve essere compiuto con
particolare  rigore,  per le conseguenze che ne discendono sia per la
liberta'  dei  singoli  che  per la tutela della collettivita» (Corte
cost. sentenza n. 114 del 9-16 aprile 1998).
    Ritiene  questo  giudice che la base scientifica su cui poggia la
normativa   del   1930,   nonche'   le   elaborazioni   dottrinali  e
giurisprudenziali  pressoche'  dominanti,  sia «incontrovertibilmente
erronea» ovvero «raggiunga un tale livello di indeterminatezza da non
consentire  in  alcun  modo  un'interpretazione  ed  una applicazione
razionali  da  parte  del  giudice»  (per  usare le espressioni della
decisione appena richiamata).
    D'altro  canto, che le acquisizioni della scienza debbano imporre
una  rivisitazione  degli  istituti giuridici appare ugualmente ovvio
(v., in tema di accertamenti per escludere o affermare la paternita',
quanto  viene  affermato da Corte cost. n. 170/99, n. 134/85). Quando
pero'   la  rivisitazione  non  puo'  porsi  in  termini  di  diversa
applicazione,  pur  sempre compatibile con il dettato della norma, ma
la  nuova  acquisizione  scientifica configge con la norma stessa, e'
quest'ultima a dover venire meno.
    Occorre ora sottolineare nettamente che le conclusioni alle quali
perviene  la  scienza  psichiatrica sono di carattere neutro rispetto
alla   problematica   generale  garantismo/repressione,  perche'  non
attengono  al  livello di risposta penale rispetto al fatto criminoso
ma  al  «come»  la  malattia  mentale,  eventualmente  causa  di  non
imputabilita',   viene   accertata.   Del   resto,   anche   oggi  la
giurisprudenza  non  ha  difficolta'  ad  ammettere  che non tutte le
infermita'  mentali  danno  luogo  all'incapacita'  di intendere e di
volere.
    Resta  da  vedere  se  l'eliminazione  di norme cosi' importanti,
almeno  apparentemente,  possa creare seri problemi al sistema penale
(questo  giudice  infatti denuncia non solo l'art. 90, ma il completo
impianto normativo costituito dagli artt. 85-88-89-90).
    A  parte l'ovvia considerazione secondo la quale, se si parte dal
presupposto da cui procede questo rimettente, secondo cui trattasi di
strumenti  normativi sostanzialmente inservibili, non si vede come la
loro  eliminazione  potrebbe provocare danni, occorre dire che quanto
ripugna  alla  coscienza  sociale,  quanto  attiene alla possibilita'
dell'uomo  di  scegliere  tra valore e disvalore, ecc. ecc., potrebbe
benissimo  essere spostato sul terreno dell'applicazione dell'art. 42
c.p.
    Gia'  il legislatore del 1930 osserva che mentre l'art. 85 regola
la  generica capacita' di agire nel campo penale senza riferimento ad
un determinato fatto concreto, l'art. 42 prevede l'effettiva volonta'
del  caso  concreto,  per cui si tratterebbe di due posizioni diverse
della volonta'. Nella capacita' di diritto penale o imputabilita', la
volonta'   e'   considerata  al  momento  della  possibilita'.  Nella
effettiva  responsabilita'  penale  la  volonta'  e'  considerato nel
momento  della sua attuazione (Relazione al Re, n. 26). Oltre a cio',
il  giurista  potrebbe  utilmente  rinunciare  ad  ogni definizione o
pre-definizione  della infermita' mentale, eliminando cosi' tutti gli
imbarazzi   che  attengono  alle  prese  di  posizione  piu'  o  meno
metafisiche.
    Di   conseguenza,  questo,  giudice  ritiene  rilevante  (poiche'
finalizzata   a   vagliare   norme  la  cui  applicazione  altrimenti
s'imporrebbe  per  il  prosieguo  del  processo) e non manifestamente
infondata   la   questione   di   legittimita'  costituzionale  degli
artt. 85-88-89-90   c.p.  in  quanto  presuppongono  una  nozione  di
infermita',  nella specie psichica, superata dalle nuove acquisizioni
della  scienza  ed  in quanto tale, non utilizzabile in alcun modo, e
pertanto  contrastanti  con  il  criterio  di  ragionevolezza  di cui
all'art. 3  della Cost. nonche' in quanto, utilizzando una nozione di
infermita'   come   sopra   descritta,   precludono   al  giudice  il
potere-dovere    della    motivazione    dei    suoi    provvedimenti
giurisdizionali, poiche' l'iter logico di tale argomentazione sarebbe
irrimediabilmente  inficiato  dalla  incongruita'  della  nozione  di
infermita' comunemente utilizzata.