IL GIUDICE DI PACE


                            O s s e r v a

    Il  cittadino  straniero Ben Youdef Dodi, imputato del delitto di
cui  all'art. 385  c.p.  e'  stato  tratto  a  giudizio con citazione
diretta  per  l'udienza  del  28  marzo  2003  (decreto  emesso il 14
novembre  2002  - procedimento n. 95/2003 mod. l6 - n. 1780/2001 Mod.
22).
    La  questura  di  Ancona,  con  domanda  pervenuta  via  fax il 7
febbraio  2003,  ha  chiesto  il rilascio del nulla osta per eseguire
l'espulsione  dell'imputato,  secondo  quanto  previsto dall'art. 13,
comma   terzo   del   decreto  legislativo  n. 286/1998,  cosi'  come
modificato dalla legge n. 189 del 30 luglio 2002.
    Ritiene  il  giudicante  di  non  poter, allo stato, aderire alla
richiesta,  in  quanto  sussistono  gravi  motivi che fanno ritenere,
anche  in considerazione dell'art. 13, comma 3-quater, l'applicazione
della  norma  in esame lesiva sia del diritto inviolabile alla difesa
sancito  dall'art. 24 della Costituzione per l'impossibilita' e/o per
le difficolta' dello straniero espulso di essere e stare in giudizio,
sia  del  diritto  di  eguaglianza  cristallizzato  nell'art. 3 della
Costituzione.
    Risulta,    infatti,    evidente    in   tale   ultima   ipotesi,
l'ingiustificata   e   illogica  disparita'  di  trattamento  tra  lo
straniero che ha commesso un reato per il quale e' prevista l'udienza
preliminare  e  lo  straniero  che  e'  stato  tratto  a giudizio con
procedimento  direttissimo  o  per  il  quale  sia  stata disposta la
citazione diretta ex art. 550 c.p.p.
    I   due   rilievi   non   possono  prescindere  dall'analisi  dei
presupposti per emettere la sentenza di non luogo a procedere:
        1. - deve  trattarsi  di  un  immigrato  clandestino  o di un
soggetto  al  quale  sia  stato revocato il permesso di soggiorno con
emissione del decreto di espulsione;
        2. - il  decreto  deve essere stato eseguito e deve aversi la
«prova dell'avvenuta espulsione»;
        3. - non deve essere stato ancora emesso il provvedimento che
dispone il giudizio.
    In  sostanza,  tralasciando  il  discorso  giuridico attinente ai
requisiti  che  definiscono la condizione di «immigrato clandestino»,
il  giudice  puo'  pronunciare  la  sentenza  ex art. 425 c.p.p. solo
quando  per  il  reato commesso dallo straniero e' prevista l'udienza
preliminare.
    Il provvedimento che dispone il giudizio costituisce, dunque, una
«frontiera»  oltre la quale l'immigrato clandestino non ha diritto ad
una  pronuncia ai sensi dell'art. 425 c.p.p., ne' tanto meno a quella
di  proscioglimento  prima  del  dibattimento  (art. 469  c.p.p.), in
quanto  il  limite posto dall'art. 13, comma 3-quater e' tassativo ed
invalicabile.
    Cio'  e'  dimostrato  indirettamente  anche  dall'art. 16, sempre
della  legge  in esame, che prevede, in caso di sentenza di condanna,
la  possibilita' da parte del giudice di poter sostituire la pena con
la   sanzione   dell'espulsione,   sostitutiva   o  alternativa  alla
detenzione.
    Sussiste,  dunque,  un  vuoto  normativo tra il provvedimento che
dispone  il  giudizio  e  la  sentenza di primo grado, che, di fatto,
pregiudica i diritti sopra menzionati, perche' l'imputato clandestino
tratto  in  giudizio con citazione diretta, qualora sia rilasciato il
nulla osta (soprattutto una volta espulso), non ha la possibilita' di
difendersi,  ne'  di  poter  essere  prosciolto con la formula di non
doversi  procedere.  La  rilevanza  della questione sollevata risulta
certa,  qualora  si  consideri  che,  per  le  considerazioni svolte,
l'eventuale nulla osta all'espulsione comporterebbe la violazione per
l'imputato  di  diritti  inviolabili,  costituzionalmente  tutelati e
protetti.