IL TRIBUNALE Nel procedimento ex art. 310 c.p.p. promosso dal difensore nell'interesse di: Forgione Diego nato a Sinopoli il 1° aprile 1939, detenuto agli arresti domiciliari in Via Pisacane n. 13 localita' Campoverde (Aprilia - Latina), assistito e difeso dall'avv. Michele D'Agostino del foro di Milano e dall'avv. Fabrizio Merluzzi del foro di Roma; Forgione Giovanni nato a Sinopoli il 17 maggio 1953, detenuto agli arresti domiciliari in Via Pisacane n. 13 localita' Campoverde (Aprilia - Latina), assistito e difeso dall'avv. Michele D'Agostino del foro di Milano; Forgione Giuseppe nato a Taurianova il 12 luglio 1961, detenuto agli arresti domiciliari in Via Pisacane n. 13 localita' Campoverde (Aprilia - Latina), assistito e difeso dall'avv. Michele D'Agostino del foro di Milano. Con atto depositato in data 27 gennaio 2003, avverso l'ordinanza emessa da g.i.p. presso il Tribunale di Milano in data 10 dicembre 2002 con la quale veniva respinta l'istanza della difesa di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare, applicata agli indagati in relazione ai reati di cui agli artt. 416 commi 1, 2, ult. comma c.p., 7 legge 12 luglio 1991 n. 203 (associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di truffe aggravate, acereditandosi come persone legate alla cosca della 'ndrangheta degli «Alvaro» di Sinopoli e prospettando a soggetti titolari di attivita' la possibilita' di ricevere cospicui finanziamenti previo versamento, a titolo di anticipo, di una cauzione da attribuire sia al costo dell'operazione sia come contributo alla 'ndrina degli «Alvaro» che offriva la possibilita' di acquistare denaro «sporco» verso corresponsione di una somma inferiore, costituendo la proposta di finanziamento e di riciclaggio del denaro l'artifizio idoneo a indurre in errore le vittime che, ritenendo di aderire a un'operazione di riciclaggio, anticipavano la somma di denaro richiesta, in particolare Forgione Diego, Forgione Giovanni e Forgione Giuseppe costituendo e organizzando l'associazione delineandone il programma, intervenendo nei momenti decisivi di diversi episodi criminosi e procedendo alla divisione dei proventi, su tutto il territorio nazionale nel periodo 1997 - 1998), 640, 61 n. 7, 110 c.p., 7 legge 12 luglio 1991, n. 203 (truffa di lire 330 milioni, 220 mila marchi tedeschi nonche' di lire 500 milioni in assegni e lire 1 miliardo e 500 milioni in titoli «Remo Perfetti S.r.l.» ai danni di Tiziano Perfetti e Giulio Gelfi, in Milano e in provincia di Torino dalla primavera 1997 al marzo 1998 [contestata ai soli Forgione Diego e Forgione Giuseppe), 640, 61 n. 7, 110 c.p., 7 legge 12 luglio 1991, n. 203 (truffa di lire 600 milioni ai danni di Fustinoni Claudio, Magno Luciana, Raimondi Cominesi Angelo, in Bergamo, Galliate, San Giorgio Canadese, dall'aprile al novembre 1997 [contestata al solo Forgione Giuseppe]), 640, 61 n. 7, 110 c.p., 7 legge 12 luglio 1991, n. 203 (truffa di lire 200 milioni ai danni di Giacominelli Romano e Ricci Dino, in Santhia', Roma, Carisio, Nicotera e Vibo Valentia dal gennaio 1998 al marzo 1998 [contestata al solo Forgione Giovanni]), tutti reati meglio indicati, descritti e contestati ai singoli indagati nell'impugnato provvedimento coercitivo ai capi 2 (per Forgione Diego, Forgione Giovanni e Forgione Giuseppe), 7 (per Forgione Diego e Forgione Giuseppe), 8 (per Forgione Giuseppe), 16 (per Forgione Giovanni); Letti gli atti pervenuti il 22 novembre 2002; All'esito dell'udienza camerale odierna e sciogliendo la riserva ha emesso la seguente ordinanza. In data 17 ottobre 2002 la Corte di Appello di Firenze, pronunciandosi sull'impugnazione proposta avverso la sentenza di condanna per i reati sopra indicati pronunciata dal Tribunale di Firenze anche nei confronti degli odierni ricorrenti in data 20 luglio 2001, dichiarava l'incompetenza della medesima a.g. di Firenze in ordine ai reati contestati ai citati Forgione Diego, Forgione Giovanni, Forgione Giuseppe e ad altri coindagati, trasmettendo gli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano con nota in data 28 ottobre 2002. Pervenuti gli atti in data 29 ottobre 2002, il p.m. presso il Tribunale di Milano chiedeva al g.i.p., in data 2 novembre 2002, l'emissione ai sensi dell'art. 27 c.p.p. delle misure cautelari indicate nei confronti degli indagati gia' sottoposti a misura, ritenendo non scaduti i termini custodiali a seguito del rinvio con regresso e stimando necessaria, nei confronti dei predetti, la misura cautelare in atto. Con ordinanza in data 4 novembre 2002, il g.i.p. presso il Tribunale di Milano riteneva sussistenti i gravi indizi di colpevolezza come esplicitati e descritti nella motivazione della ordinanza di misura cautelare emessa in data 8 luglio 1999 dal g.i.p. presso il Tribunale di Firenze nei confronti degli odierni ricorrenti e di altri coindagati, motivazione che doveva intendersi integralmente riportata e che si allegava all'ordinanza. Rimarcava inoltre il giudice che gli elementi gia' esposti nel provvedimento coercitivo dovevano ritenersi rafforzati in sede di giudizio, come risultava dalla motivazione della sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Firenze in data 20 luglio 2001, la cui motivazione doveva ritenersi parimenti riportata. In punto di esigenze cautelari il g.i.p. riteneva sussistente il pericolo di recidiva, tenuto conto dell'inserimento degli indagati in gruppi di spicco della criminalita' calabrese, della reiterazione dei fatti e della capacita' di disporre di una struttura per il compimento dei delitti addebitati, nonche' dei precedenti, richiamando ancora una volta in punto di esigenze la motivazione dell'ordinanza che a suo tempo aveva applicato la custodia in carcere. Applicava quindi nei confronti di Forgione Diego la misura della custodia in carcere e nei confronti di Forgione Giuseppe e di Forgione Giovanni la misura degli arresti domiciliari. In sede di interrogatorio Forgione Diego negava ogni addebito e lamentava come per gli stessi fatti gia' fosse stato posto agli arresti domiciliari dalla Corte di appello di Firenze; Forgione Giuseppe e Forgione Giovanni si avvalevano della facolta' di non rispondere. In data 15 novembre 2002 il g.i.p. presso il Tribunale di Milano, a seguito di istanza presentata dalla difesa, sostituiva con gli arresti domiciliari la misura della custodia in carcere gia' applicata a Forgione Diego. Con l'istanza respinta la difesa chiedeva la scarcerazione degli indagati essendo decorso ai sensi dell'art. 304 comma 6 c.p.p. il doppio del termine di fase a seguito del regresso alle indagini preliminari dopo la dichiarazione di incompetenza per territorio. Con il provvedimento impugnato il g.i.p. rilevava che la questione relativa alla decorrenza dei termini nella specie implicava modalita' di calcolo dei medesimi (computando anche il periodo di tempo relativo a fasi eterogenee, rispetto a quella del regresso), per i quali pendeva giudizio di legittimita' costituzionale innanzi alla Corte costituzionale. Richiamandosi quindi alla giurisprudenza che affermava il solo computo del periodo temporale relativo a fasi omogenee rispetto a quella in cui era avvenuto il regresso. Con l'atto di appello la difesa lamentava l'erroneita' dell'impugnato provvedimento, posto che, rilevata la pendenza del giudizio di costituzionalita', il giudice avrebbe dovuto a sua volta sollevare la questione e non respingere l'istanza. Qualunque fosse la modalita' di calcolo il termine di fase doveva ritenersi comunque scaduto, in quanto il termine per i reati in esame doveva ritenersi di sei mesi e, comunque, risultava trascorso anche il termine di due anni indicato dal g.i.p. Aggiungeva inoltre che stava per scadere pure il termine massimo di quattro anni e che l'infliggenda pena, in caso di adesione degli indagati a un rito alternativo, sarebbe stata pari alla custodia gia' subita. L'appello e' fondato nei limiti di seguito precisati, dovendo essere sollevata questione di legittimita' costituzionale. Osserva questo collegio come, essendo stata contestata l'aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 7 della legge n. 203/1991, il contestato reato di cui all'art. 416 c.p. deve ritenersi rientrare nei delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo. In quanto tale il reato in esame rientra nella previsione di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), ed essendo punito con pena superiore nel massimo a sei anni comporta l'applicazione del termine custodiale di cui all'art. 303, comma 1, lettera a) n. 3 per la fase delle indagini preliminari. Non risulta poi che risulti decorso, limitatamente alla fase delle indagini preliminari detto termine, posto che la misura coercitiva originaria e' stata emessa l'8 luglio 1999 e il decreto dispositivo del giudizio da parte del g.i.p. presso il Tribunale di Firenze e' stato emesso il 20 aprile 2000, mentre la dichiarazione di incompetenza da parte della Corte di appello di Firenze che ha determinato il regresso e' stata pronunciata il 17 ottobre 2002, con la conseguenza che non risulta decorso il termine di un anno, ne' nell'originaria fase delle indagini preliminari ne' nella fase successiva al regresso, e parimenti non risulta decorso il termine doppio (di due anni) relativo ad entrambe le fasi. Neppure risulta decorso il termine massimo complessivo di quattro anni, ne' questo tribunale puo' tenere conto dell'eventuale adesione a riti alternativi essendo circostanza futura e incerta, rimessa alla volonta' della parte che non risulta essersi ancora determinata e sulla quale quindi questo collegio non puo' effettuare alcuna plausibile prognosi. Quanto poi alla pretesa attenuazione delle esigenze per il decorso del tempo nessun elemento diverso da quelli gia' valutati recentemente in sede di riesame ex art. 309 c.p.p. risulta sopravvenuto e dedotto nel presente procedimento incidentale, cosi' che neppure sotto questo profilo potrebbe essere giustificata la liberazione degli indagati. Risulta pertanto determinante nel caso di specie, stabilire se ai fini del computo del doppio del termine di fase a seguito del regresso debba calcolarsi il solo periodo di tempo trascorso in fase omogenea rispetto a quella a cui il procedimento e' regredito (nella specie la fase delle indagini preliminari), ovvero tutto il periodo di tempo trascorso nel frattempo anche in fasi eterogenee rispetto a quella in cui il procedimento e' regredito. Su questo punto il tribunale ritiene che debba essere sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 303, comma 2, c.p.p. - nella parte in cui impedisce di computare, ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304 comma 6, i penodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento e' regredito - e che conseguentemente il presente procedimento incidentale debba essere sospeso in attesa della decisione della Corte costituzionale, ferma restando la misura cautelare in atto. Invero, la lettura delle norme adottata dalla Corte di assise di appello di Milano nel provvedimento impugnato - secondo cui la disposizione di cui all'art. 304 comma 6 c.p.p. (contenente il divieto di superamento del doppio del termine di fase) non poteva applicarsi fuori dai casi di sospensione dei termini massimi di custodia cautelare, come esplicitato dalla sedes materiae e dal fatto che l'avverbio «comunque» doveva interpretarsi come «nonostante le sospensioni previste dai commi precedenti» - pur aderente all'indirizzo interpretativo che si era tradizionalmente e pressoche' unanimemente affermato (cfr. ex plunimis Cass. sez. V n. 5057 14 gennaio 1997, Cavallo, RV 206573; Cass. sez. I n. 4301 28 settembre 1998 Accardo RV 211413; Cass. sez. I n. 2120 23 giugno 1992 Mamare RV 191169), non tiene tuttavia conto della sentenza n. 292/1998 della Corte costituzionale che ha dichiarato l'infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 303, comma 4, c.p.p. in riferimento all'art. 3 Cost. nella parte in cui non prevede che, oltre al superamento del termine complessivo, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento del doppio del termine di fase, allorche' si verifichi la regressione del procedimento a norma dell'art. 303, comma 2, cp.p. (che contempla fra l'altro l'ipotesi di specie, di regressione a seguito di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione. Con la citata sentenza la Corte costituzionale ha infatti sostenuto che la norma di cui all'art. 304, comma 6, cit. in punto di scarcerazione dell'imputato per superamento del doppio del termine di fase, ha carattere autonomo, rispetto alle altre disposizioni di cui all'art. 304, e deve pertanto essere applicata sia nel caso in cui quel termine sia stato sospeso o prorogato (art. 304, commi 1, 2 e 4), sia nel caso in cui il termine sia cominciato a decorrere nuovamente a seguito di regressione del procedimento (art. 303, comma 2). Cio', argomentava il giudice delle leggi, doveva ricavarsi dal fatto che nel previgente codice di rito il tetto massimo della custodia cautelare era disciplinato in un'unica norma (l'art. 272), insieme alla regressione del procedimento e alla sospensione dei termini di fase, cosi' che non poteva esservi dubbio che esso si riferisse anche alle ipotesi di regressione e non solo a quelle di sospensione. Anche nel nuovo testo l'avverbio «comunque» risultava significativo della generalita' di applicazione del divieto di superamento del doppio del termine di fase, quindi anche alle ipotesi di regressione previste nell'articolo precedente. Tale soluzione ermeneutica doveva poi ritenersi conforme al principio del favor libertatis che aveva ispirato la novella del 1995 e alla logica dell'art. 13 Cost., che non potevano incontrare limiti nei casi, quali quello del regresso del procedimento, in cui il ritardo nella definizione del procedimento non dipendeva da comportamenti colpevoli dell'imputato. Detta sentenza era stata criticata e ritenuta non convincente sotto piu' profili, in quanto proprio l'evoluzione storica della normativa (che aveva contemplato un termine massimo complessivo nell'art. 303 c.p.p., ove era disciplinato anche il caso del regresso, mentre aveva stabilito il divieto del superamento del doppio del termine di fase in altra disposizione, l'art. 304, concernente la sospensione dei termini) dimostrava come la norma di cui all'art. 304, comma 6, si riferisse ai soli casi di sospensione e non fosse quindi applicabile al di fuori della sede che le era propria, l'avverbio «comunque» dovendosi interpretare come un riferimento alla sussistenza del divieto nonostante la possibilita' di sospendere. Al contrario, l'esegesi seguita dalla Corte costituzionale nella citata sentenza non consentiva di spiegare le ragioni per le quali l'art. 303, comma 2, disponesse che, in caso di regressione del procedimento, i termini decorressero «di nuovo» «dalla data del provvedimento che dispone il regresso o il rinvio» «relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento», a conferma di come la soluzione ermeneutica del giudice delle leggi contraddicesse la lettera della norma e il sistema codicistico cosi' come risultante dalla nuova formulazione legislativa. Pertanto, accanto a decisioni che avevano integralmente aderito alla linea interpretativa della sentenza della Corte costituzionale (cfr. Cass. sez. VI 9 luglio 1999 Latella RV 214680; Cass sez. VI 16 giugno 1999 Piscopo RV 214737), in altre sentenze si era profilato un diverso orientamento del giudice di legittimita', che faceva leva sul limitato effetto vincolante della decisione della Corte e proponeva pertanto un diverso insegnamento. Risulta invero fuor di dubbio che la citata sentenza n. 292/1998 debba qualificarsi come sentenza interpretativa di rigetto, trattandosi di sentenza che non ha dichiarato l'illegittimita' della norma, ma ha solamente ritenuto infondata la questione di costituzionalita' proposta per la presenza di una soluzione interpretativa dell'enunciato normativo sospettato di illegittimita', tale da ritenersi compatibile con la nostra Carta costituzionale. E' noto infatti come, a seguito di un lungo dibattito giurisprudenziale, si sia affermata la tesi, da ritenersi del tutto convincente, secondo cui le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale hanno valore vincolante solo nel giudizio a quo, mentre nell'ambito di giudizi diversi costituiscono un precedente autorevole dal quale peraltro i giudici possono discostarsi purche' optino per una soluzione ermeneutica che, ancorche' non coincidente con quella proposta dalla Corte, cio' nondimeno debba ritenersi non collidente con le norme e i principi costituzionali affermati. In caso contrario, al giudice che ritenesse non convincente la soluzione interpretativa proposta dalla Corte costituzionale e che non rinvenisse altra interpretazione conforme ai principi costituzionali enunciati dalla Corte medesima, non resterebbe che riproporre il quesito di costituzionalita' in ordine alle norme controverse (cfr. Cass. sez. un. 29 gennaio 1996, Clarke; Cass. sez. un. 24 settembre 1998, Gallieri; Cass. sez. un. 18 gennaio 1999, Alagni). Proprio in detta linea si e' inserita la decisione delle sezioni unite della Cassazione n. 4 del 29 febbraio 2000, Musitano, che ha precisato come l'art. 303, comma 2, costituisca applicazione del principio di autonomia dei singoli termini di fase, in conformita' alla previsione di cui alla direttiva di cui all'art. 2, n. 61, della legge delega per l'approvazione del codice di procedura penale, cosi' che, pur non potendosi prescindere dall'affermazione della Corte costituzionale secondo cui il divieto del superamento del doppio dei termini di fase deve applicarsi anche ai casi di regresso del procedimento prescindendo dalla sospensione dei termini, cio' nondimeno ai fini del calcolo del doppio del termine di fase, devono computarsi i soli periodi relativi a fasi tra loro omogenee (in cio' concretandosi la predetta autonomia dei termini di fase) e non anche tutti gli intervalli di tempo relativi a fasi diverse da quelle in cui il procedimento e' regredito. Dopo l'intervento delle sezioni unite, la Corte costituzionale e' stata chiamata a pronunciarsi nuovamente sulla questione e ha ribadito nuovamente l'infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, confutando nel contempo la tesi seguita dalle sezioni unite della Cassazione in tema di computo dei soli termini omogenei ai fini del calcolo per il superamento del doppio dei termini di fase: il giudice delle leggi ha infatti rimarcato come la sentenza n. 292/98 concernesse proprio il caso di imputato per il quale il superamento del doppio del termine si era determinato in relazione al decorso tempo reale in fasi eterogenee (cfr. Corte cost. n. 429/1999, n. 214/2000 e n. 529/2000). Cio' ha provocato contrasto interpretativo in merito alla questione se dovesse calcolarsi, ai fini del superamento del doppio dei termini di fase, solo il periodo di custodia trascorso in relazione a fasi tra loro omogenee, ovvero anche in relazione al tempo trascorso in fasi eterogenee, questione sulla quale veniva chiamata a pronunciarsi nuovamente la Cassazione a sezioni unite. Con ordinanza 10 luglio 2002 n. 28 (depositata in data 25 luglio 2002) le sezioni unite sollevavano questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 303, comma 2, c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 13 della Costituzione, nella parte in cui la norma processuale citata impedisce di computare, ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento e' regredito, questione di illegittimita' sulla quale non risulta che la Corte costituzionale si sia ancora pronunciata. Con detta ordinanza il supremo collegio osservava che il metodo di calcolo proposto con la sentenza Musitano risulta coerente con la lettera dell'art. 302, comma 2, c.p.p. (secondo cui i termini decorrono «di nuovo» a seguito del regresso, escludendo quindi che nel frattempo siano continuati a decorrere) e con la concezione definita «monofasica» o «endofasica» dell'impianto codicistico in materia di termini di custodia cautelare, come puo' rilevarsi dal fatto che il codice conosce solo la distinzione tra termine di fase e termine complessivo (riguardante cioe' tutte le fasi), mentre in nessun luogo viene in considerazione il periodo «interfasico», cosi' che la fictio iuris giustificativa di un indifferenziato inglobamento delle fasi intermedie tra quella originaria e quella in cui il procedimento e' regredito risulta priva di base normativa. Lo stesso metodo di calcolo della sentenza Musitano risulta poi rispettoso del principio di proporzionalita' del termine di custodia cautelare, posto che questo non va riferito alla sola gravita' del reato ma deve altresi' essere ancorato alla ragionevole durata delle attivita' previste nella singola fase, cosi' che la durata del relativo termine risulta discrezionalmente fissata anche in relazione alla fase del procedimento avuto riguardo alle attivita' da compiere in questo, con la conseguenza che il calcolo di intervalli temporali propri di fasi eterogenee, al fine del superamento del doppio del termine stabilito per una determinata fase, risulterebbe del tutto arbitrario e sganciato dai predetti canoni di proporzionalita' e ragionevolezza. Ne', secondo il supremo collegio, sarebbe ragionevole addossare all'autorita' il rischio dell'invalidita' del passaggio di fase in quanto non dovuto a comportamento colpevole dell'imputato, posto che la lettura dell'art. 304, comma 6, effettuata dalla Corte costituzionale accomuna indifferentemente l'ipotesi di regressione incolpevole ex art. 303, comma 2, a quella di evasione (certamente colpevole ex art. 303, comma 3), conclusione necessitata dal fatto che il citato comma 6, dell'art. 304, richiama sia il comma 2 sia il comma 3 del codice di rito. Allontanarsi dal criterio di calcolo indicato dalla sentenza Musitano risulterebbe pertanto foriero di ulteriori irrazionalita' e contraddizioni del sistema. Quanto poi al principio del minimo, sacrificio della liberta' personale, l'esperienza successiva al pronunciamento della sentenza Musitano ha dimostrato come il calcolo dei termini «interfase» ovvero il solo calcolo dei termini «omogenei» (quelli della sola fase in cui il procedimento e' regredito, prima della regressione e dopo la regressione), non siano di per se stessi e in astratto uno piu' favorevole e l'altro meno favorevole all'imputato: basti pensare che gli imputati di cui alle sentenze Cass. sez. VI n. 5874 23 maggio 2001, Martinelli e Cass. sez. I n. 42794 del 28 novembre 2001 Schiavone, non erano stati scarcerati proprio perche' l'intera detenzione antecedente al regresso era stata imputata alla fase in cui il procedimento era regredito, mentre sarebbero stati rimessi in liberta' se si fosse seguito il sistema Musitano. Per queste ragioni doveva ritenersi che la soluzione proposta dalla sentenza Musitano, pur diversa da quella proposta dalla Corte, fosse stata ritenuta rispettosa dei principi di cui agli artt. 3 e 13 della Costituzione. Tale conclusione, osservavano le sezioni unite nell'ordinanza 10 luglio 2002 citata, non poteva peraltro riaffermarsi oggi, posto che la Corte costituzionale con la citata ordinanza n. 529/2000 ha espressamente chiarito che il cumulo di tutti i periodi di custodia cautelare anche relativi a fase eterogenee fosse l'unico metodo di calcolo coerente con l'art. 13 Cost. che impone di ridurre al minimo il sacrificio della liberta' personale. D'altro canto, osservavano sempre le sezioni unite, l'art. 303, comma 2, cosi' come redatto esprime una norma che impedisce di addizionare, ai fini del superamento del doppio del termine di fase, anche gli intervalli temporali decorsi in fasi eterogenee, cio' per le ragioni gia' sopra indicate, rispetto alle quali la recente modifica dell'art. 303 non consente di discostarsi. In particolare le ultime modifiche di cui alle leggi 5 giugno 2000 n. 144 e 19 gennaio 2001 n. 4, non hanno toccato il comma discusso (il secondo) e l'aver consentito la legge n. 4/2001, in casi eccezionali, una interconnessione tra le fasi, deve ritenersi viceversa confermativa del principio generale dell'autonomia dei termini di fase, che non puo' essere derogato se non da espresse disposizioni legislative, mancanti in punto di superamento del doppio del termine di fase. Mancando quindi qualsiasi soluzione alternativa compatibile con la Costituzione e non potendosi ritenere in via interpretativa che l'art. 303, comma 2, c.p.p. consenta il calcolo di termini di fase eterogenei, le sezioni unite hanno quindi sollevato questione di costituzionalita' nei termini prima ricordati. La medesima questione si pone negli esatti termini anche nel caso di specie, posto che calcolando i soli termini omogenei (secondo il metodo della sentenza Musitano), gli odierni appellanti non dovrebbero essere liberati (come si e' visto sopra), mentre cio' dovrebbe avvenire se si calcolasse anche il periodo di tempo interfase (essendo gia' scaduti i tre anni in data 10 maggio 2002 come osservato dalla difesa). D'altro canto, per le ragioni sopra viste, questo collegio ritiene che l'art. 303, comma 2 c.p.p., cosi' come formulato, non consenta il calcolo di termini relativi a fasi eterogenee ai fini della verifica del superamento del doppio del termine, metodo di calcolo gia' indicato dalla Corte come unico in grado di assicurare il rispetto degli artt. 3 e 13 della Costituzione. La decisione del presente appello non puo' pertanto prescindere dalla decisione sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 303, comma 2, citato. Risulta pertanto rilevante e non manifestamente infondata detta questione in relazione agli artt. 3 e 13 della Costituzione, nella parte in cui l'art. 303, comma 2, del codice di procedura penale impedisce di computare, ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento e' regredito. Il presente procedimento incidentale va quindi sospeso in attesa della decisione della Corte ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87 del 1953, ferma restando la misura cautelare in atto, mandandosi alla cancelleria per gli adempimenti previsti dalla medesima legge n. 87 del 1953.