IL TRIBUNALE

    Nel  procedimento  ex  art. 310  c.p.p.  promosso  dal  difensore
nell'interesse di:
        Forgione  Diego  nato  a Sinopoli il 1° aprile 1939, detenuto
agli  arresti  domiciliari in Via Pisacane n. 13 localita' Campoverde
(Aprilia  -  Latina), assistito e difeso dall'avv. Michele D'Agostino
del foro di Milano e dall'avv. Fabrizio Merluzzi del foro di Roma;
        Forgione Giovanni nato a Sinopoli il 17 maggio 1953, detenuto
agli  arresti  domiciliari in Via Pisacane n. 13 localita' Campoverde
(Aprilia  -  Latina), assistito e difeso dall'avv. Michele D'Agostino
del foro di Milano;
        Forgione  Giuseppe  nato  a  Taurianova  il  12  luglio 1961,
detenuto  agli  arresti  domiciliari  in Via Pisacane n. 13 localita'
Campoverde  (Aprilia  - Latina), assistito e difeso dall'avv. Michele
D'Agostino del foro di Milano.
    Con  atto depositato in data 27 gennaio 2003, avverso l'ordinanza
emessa  da  g.i.p.  presso il Tribunale di Milano in data 10 dicembre
2002   con  la  quale  veniva  respinta  l'istanza  della  difesa  di
scarcerazione  per  decorrenza  dei  termini  di  custodia cautelare,
applicata  agli  indagati in relazione ai reati di cui agli artt. 416
commi  1,  2,  ult.  comma  c.p.,  7  legge  12  luglio  1991  n. 203
(associazione  per  delinquere  finalizzata  alla  commissione di una
serie  indeterminata di truffe aggravate, acereditandosi come persone
legate  alla  cosca  della  'ndrangheta  degli «Alvaro» di Sinopoli e
prospettando  a  soggetti  titolari  di  attivita' la possibilita' di
ricevere  cospicui  finanziamenti  previo  versamento,  a  titolo  di
anticipo,  di una cauzione da attribuire sia al costo dell'operazione
sia  come  contributo  alla  'ndrina  degli  «Alvaro»  che offriva la
possibilita'  di  acquistare  denaro «sporco» verso corresponsione di
una  somma  inferiore,  costituendo la proposta di finanziamento e di
riciclaggio  del  denaro  l'artifizio  idoneo  a indurre in errore le
vittime  che,  ritenendo  di  aderire a un'operazione di riciclaggio,
anticipavano  la  somma  di denaro richiesta, in particolare Forgione
Diego,   Forgione   Giovanni   e   Forgione  Giuseppe  costituendo  e
organizzando  l'associazione  delineandone il programma, intervenendo
nei  momenti  decisivi di diversi episodi criminosi e procedendo alla
divisione  dei proventi, su tutto il territorio nazionale nel periodo
1997  - 1998), 640, 61 n. 7, 110 c.p., 7 legge 12 luglio 1991, n. 203
(truffa di lire 330 milioni, 220 mila marchi tedeschi nonche' di lire
500  milioni  in  assegni  e  lire 1 miliardo e 500 milioni in titoli
«Remo  Perfetti  S.r.l.» ai danni di Tiziano Perfetti e Giulio Gelfi,
in Milano e in provincia di Torino dalla primavera 1997 al marzo 1998
[contestata  ai  soli  Forgione  Diego  e Forgione Giuseppe), 640, 61
n. 7,  110  c.p.,  7 legge 12 luglio 1991, n. 203 (truffa di lire 600
milioni  ai  danni  di  Fustinoni  Claudio,  Magno  Luciana, Raimondi
Cominesi   Angelo,   in  Bergamo,  Galliate,  San  Giorgio  Canadese,
dall'aprile al novembre 1997 [contestata al solo Forgione Giuseppe]),
640,  61  n. 7,  110  c.p., 7 legge 12 luglio 1991, n. 203 (truffa di
lire  200  milioni  ai  danni di Giacominelli Romano e Ricci Dino, in
Santhia', Roma, Carisio, Nicotera e Vibo Valentia dal gennaio 1998 al
marzo  1998  [contestata  al  solo  Forgione  Giovanni]), tutti reati
meglio   indicati,   descritti   e  contestati  ai  singoli  indagati
nell'impugnato  provvedimento  coercitivo  ai  capi  2  (per Forgione
Diego,  Forgione Giovanni e Forgione Giuseppe), 7 (per Forgione Diego
e  Forgione  Giuseppe),  8  (per Forgione Giuseppe), 16 (per Forgione
Giovanni);
    Letti gli atti pervenuti il 22 novembre 2002;
    All'esito  dell'udienza camerale odierna e sciogliendo la riserva
ha emesso la seguente ordinanza.
    In  data  17  ottobre  2002  la  Corte  di  Appello  di  Firenze,
pronunciandosi  sull'impugnazione  proposta  avverso  la  sentenza di
condanna  per  i  reati  sopra  indicati pronunciata dal Tribunale di
Firenze  anche  nei  confronti  degli  odierni  ricorrenti in data 20
luglio 2001, dichiarava l'incompetenza della medesima a.g. di Firenze
in  ordine  ai  reati  contestati  ai citati Forgione Diego, Forgione
Giovanni,  Forgione  Giuseppe e ad altri coindagati, trasmettendo gli
atti  alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano con
nota in data 28 ottobre 2002.
    Pervenuti  gli  atti  in  data 29 ottobre 2002, il p.m. presso il
Tribunale  di  Milano  chiedeva  al  g.i.p., in data 2 novembre 2002,
l'emissione  ai  sensi  dell'art. 27  c.p.p.  delle  misure cautelari
indicate  nei  confronti  degli  indagati  gia'  sottoposti a misura,
ritenendo  non  scaduti i termini custodiali a seguito del rinvio con
regresso e stimando necessaria, nei confronti dei predetti, la misura
cautelare in atto.
    Con  ordinanza  in  data  4  novembre  2002,  il g.i.p. presso il
Tribunale   di   Milano   riteneva  sussistenti  i  gravi  indizi  di
colpevolezza  come  esplicitati  e  descritti nella motivazione della
ordinanza di misura cautelare emessa in data 8 luglio 1999 dal g.i.p.
presso il Tribunale di Firenze nei confronti degli odierni ricorrenti
e   di   altri   coindagati,   motivazione   che   doveva  intendersi
integralmente  riportata  e  che si allegava all'ordinanza. Rimarcava
inoltre  il  giudice  che gli elementi gia' esposti nel provvedimento
coercitivo  dovevano  ritenersi  rafforzati in sede di giudizio, come
risultava  dalla  motivazione  della  sentenza di condanna emessa dal
Tribunale  di  Firenze  in  data  20  luglio 2001, la cui motivazione
doveva  ritenersi parimenti riportata. In punto di esigenze cautelari
il  g.i.p. riteneva sussistente il pericolo di recidiva, tenuto conto
dell'inserimento   degli   indagati   in   gruppi   di  spicco  della
criminalita'   calabrese,   della  reiterazione  dei  fatti  e  della
capacita'  di disporre di una struttura per il compimento dei delitti
addebitati,  nonche'  dei precedenti, richiamando ancora una volta in
punto di esigenze la motivazione dell'ordinanza che a suo tempo aveva
applicato la custodia in carcere.
    Applicava  quindi nei confronti di Forgione Diego la misura della
custodia  in  carcere  e  nei  confronti  di  Forgione  Giuseppe e di
Forgione Giovanni la misura degli arresti domiciliari.
    In  sede  di interrogatorio Forgione Diego negava ogni addebito e
lamentava  come  per  gli  stessi  fatti  gia' fosse stato posto agli
arresti  domiciliari  dalla  Corte  di  appello  di Firenze; Forgione
Giuseppe  e  Forgione  Giovanni  si  avvalevano della facolta' di non
rispondere.
    In data 15 novembre 2002 il g.i.p. presso il Tribunale di Milano,
a  seguito  di  istanza  presentata  dalla difesa, sostituiva con gli
arresti   domiciliari  la  misura  della  custodia  in  carcere  gia'
applicata a Forgione Diego.
     Con l'istanza respinta la difesa chiedeva la scarcerazione degli
indagati  essendo  decorso  ai  sensi dell'art. 304 comma 6 c.p.p. il
doppio  del  termine  di  fase  a  seguito del regresso alle indagini
preliminari dopo la dichiarazione di incompetenza per territorio.
    Con   il  provvedimento  impugnato  il  g.i.p.  rilevava  che  la
questione relativa alla decorrenza dei termini nella specie implicava
modalita'  di  calcolo  dei  medesimi (computando anche il periodo di
tempo  relativo  a  fasi eterogenee, rispetto a quella del regresso),
per  i  quali pendeva giudizio di legittimita' costituzionale innanzi
alla  Corte  costituzionale. Richiamandosi quindi alla giurisprudenza
che  affermava  il solo computo del periodo temporale relativo a fasi
omogenee rispetto a quella in cui era avvenuto il regresso.
    Con   l'atto   di   appello   la  difesa  lamentava  l'erroneita'
dell'impugnato  provvedimento,  posto  che,  rilevata la pendenza del
giudizio  di costituzionalita', il giudice avrebbe dovuto a sua volta
sollevare la questione e non respingere l'istanza.
    Qualunque fosse la modalita' di calcolo il termine di fase doveva
ritenersi comunque scaduto, in quanto il termine per i reati in esame
doveva  ritenersi  di sei mesi e, comunque, risultava trascorso anche
il termine di due anni indicato dal g.i.p.
    Aggiungeva  inoltre che stava per scadere pure il termine massimo
di  quattro  anni e che l'infliggenda pena, in caso di adesione degli
indagati a un rito alternativo, sarebbe stata pari alla custodia gia'
subita.
    L'appello  e'  fondato  nei  limiti di seguito precisati, dovendo
essere sollevata questione di legittimita' costituzionale.
    Osserva   questo   collegio   come,   essendo   stata  contestata
l'aggravante  ad  effetto  speciale  di  cui  all'art. 7  della legge
n. 203/1991,  il  contestato  reato  di  cui  all'art. 416  c.p. deve
ritenersi rientrare nei delitti commessi avvalendosi delle condizioni
previste   dall'art. 416-bis   c.p.   ovvero  al  fine  di  agevolare
l'attivita'  delle  associazioni  previste  dallo stesso articolo. In
quanto  tale  il  reato  in  esame  rientra  nella  previsione di cui
all'art. 407, comma 2, lett. a), ed essendo punito con pena superiore
nel massimo a sei anni comporta l'applicazione del termine custodiale
di  cui  all'art. 303,  comma  1,  lettera  a) n. 3 per la fase delle
indagini preliminari.
    Non  risulta  poi  che  risulti  decorso, limitatamente alla fase
delle  indagini  preliminari  detto  termine,  posto  che  la  misura
coercitiva  originaria  e'  stata emessa l'8 luglio 1999 e il decreto
dispositivo  del  giudizio da parte del g.i.p. presso il Tribunale di
Firenze e' stato emesso il 20 aprile 2000, mentre la dichiarazione di
incompetenza  da  parte  della  Corte  di  appello  di Firenze che ha
determinato  il regresso e' stata pronunciata il 17 ottobre 2002, con
la  conseguenza  che  non  risulta decorso il termine di un anno, ne'
nell'originaria  fase  delle  indagini  preliminari  ne'  nella  fase
successiva  al  regresso,  e parimenti non risulta decorso il termine
doppio (di due anni) relativo ad entrambe le fasi.
    Neppure risulta decorso il termine massimo complessivo di quattro
anni,  ne' questo tribunale puo' tenere conto dell'eventuale adesione
a riti alternativi essendo circostanza futura e incerta, rimessa alla
volonta'  della  parte  che  non risulta essersi ancora determinata e
sulla  quale  quindi  questo  collegio  non  puo'  effettuare  alcuna
plausibile prognosi.
    Quanto  poi  alla  pretesa  attenuazione  delle  esigenze  per il
decorso  del  tempo  nessun  elemento diverso da quelli gia' valutati
recentemente   in   sede   di  riesame  ex  art. 309  c.p.p.  risulta
sopravvenuto  e  dedotto nel presente procedimento incidentale, cosi'
che  neppure  sotto  questo  profilo  potrebbe essere giustificata la
liberazione degli indagati.
    Risulta pertanto determinante nel caso di specie, stabilire se ai
fini  del  computo  del  doppio  del  termine  di  fase a seguito del
regresso  debba calcolarsi il solo periodo di tempo trascorso in fase
omogenea  rispetto a quella a cui il procedimento e' regredito (nella
specie  la  fase delle indagini preliminari), ovvero tutto il periodo
di  tempo trascorso nel frattempo anche in fasi eterogenee rispetto a
quella in cui il procedimento e' regredito.
    Su  questo  punto il tribunale ritiene che debba essere sollevata
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 303,  comma 2,
c.p.p.  -  nella  parte  in  cui  impedisce di computare, ai fini dei
termini  massimi di fase determinati dal successivo art. 304 comma 6,
i  penodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da
quelli  in  cui il procedimento e' regredito - e che conseguentemente
il  presente  procedimento incidentale debba essere sospeso in attesa
della  decisione della Corte costituzionale, ferma restando la misura
cautelare in atto.
    Invero,  la lettura delle norme adottata dalla Corte di assise di
appello  di  Milano  nel  provvedimento  impugnato  -  secondo cui la
disposizione  di  cui  all'art. 304  comma  6  c.p.p.  (contenente il
divieto  di  superamento  del  doppio del termine di fase) non poteva
applicarsi  fuori  dai  casi  di  sospensione  dei termini massimi di
custodia cautelare, come esplicitato dalla sedes materiae e dal fatto
che  l'avverbio  «comunque»  doveva interpretarsi come «nonostante le
sospensioni   previste   dai   commi   precedenti»   -  pur  aderente
all'indirizzo interpretativo che si era tradizionalmente e pressoche'
unanimemente  affermato  (cfr.  ex  plunimis  Cass. sez. V n. 5057 14
gennaio  1997,  Cavallo, RV 206573; Cass. sez. I n. 4301 28 settembre
1998 Accardo RV 211413; Cass. sez. I n. 2120 23 giugno 1992 Mamare RV
191169),  non  tiene  tuttavia conto della sentenza n. 292/1998 della
Corte costituzionale che ha dichiarato l'infondatezza della questione
di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 303,  comma  4, c.p.p. in
riferimento  all'art. 3  Cost.  nella  parte  in cui non prevede che,
oltre  al  superamento del termine complessivo, possa essere causa di
scarcerazione  anche  il  superamento del doppio del termine di fase,
allorche'  si  verifichi  la  regressione  del  procedimento  a norma
dell'art. 303, comma 2, cp.p. (che contempla fra l'altro l'ipotesi di
specie,  di regressione a seguito di annullamento con rinvio da parte
della Corte di cassazione.
    Con  la  citata  sentenza  la  Corte  costituzionale  ha  infatti
sostenuto che la norma di cui all'art. 304, comma 6, cit. in punto di
scarcerazione dell'imputato per superamento del doppio del termine di
fase,  ha carattere autonomo, rispetto alle altre disposizioni di cui
all'art. 304,  e  deve  pertanto essere applicata sia nel caso in cui
quel  termine  sia  stato sospeso o prorogato (art. 304, commi 1, 2 e
4),  sia  nel  caso  in  cui  il  termine  sia cominciato a decorrere
nuovamente a seguito di regressione del procedimento (art. 303, comma
2).  Cio',  argomentava  il giudice delle leggi, doveva ricavarsi dal
fatto  che  nel  previgente  codice  di  rito  il tetto massimo della
custodia  cautelare  era disciplinato in un'unica norma (l'art. 272),
insieme  alla  regressione  del  procedimento  e alla sospensione dei
termini  di  fase,  cosi'  che  non poteva esservi dubbio che esso si
riferisse  anche  alle  ipotesi di regressione e non solo a quelle di
sospensione.  Anche  nel  nuovo testo l'avverbio «comunque» risultava
significativo  della  generalita'  di  applicazione  del  divieto  di
superamento del doppio del termine di fase, quindi anche alle ipotesi
di  regressione  previste  nell'articolo  precedente.  Tale soluzione
ermeneutica  doveva  poi  ritenersi  conforme  al principio del favor
libertatis  che  aveva  ispirato  la  novella  del 1995 e alla logica
dell'art. 13  Cost.,  che  non  potevano  incontrare limiti nei casi,
quali  quello  del regresso del procedimento, in cui il ritardo nella
definizione del procedimento non dipendeva da comportamenti colpevoli
dell'imputato.
    Detta  sentenza  era  stata  criticata e ritenuta non convincente
sotto  piu'  profili,  in  quanto  proprio l'evoluzione storica della
normativa  (che  aveva  contemplato  un  termine  massimo complessivo
nell'art. 303   c.p.p.,  ove  era  disciplinato  anche  il  caso  del
regresso,  mentre  aveva  stabilito  il  divieto  del superamento del
doppio  del  termine  di  fase  in  altra  disposizione,  l'art. 304,
concernente  la  sospensione dei termini) dimostrava come la norma di
cui all'art. 304, comma 6, si riferisse ai soli casi di sospensione e
non  fosse  quindi  applicabile  al  di  fuori  della sede che le era
propria,   l'avverbio   «comunque»  dovendosi  interpretare  come  un
riferimento  alla  sussistenza del divieto nonostante la possibilita'
di   sospendere.   Al   contrario,   l'esegesi  seguita  dalla  Corte
costituzionale  nella  citata  sentenza non consentiva di spiegare le
ragioni  per le quali l'art. 303, comma 2, disponesse che, in caso di
regressione  del  procedimento,  i  termini  decorressero  «di nuovo»
«dalla  data  del  provvedimento che dispone il regresso o il rinvio»
«relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento», a conferma
di   come   la   soluzione   ermeneutica   del  giudice  delle  leggi
contraddicesse  la lettera della norma e il sistema codicistico cosi'
come risultante dalla nuova formulazione legislativa.
    Pertanto,  accanto  a decisioni che avevano integralmente aderito
alla  linea  interpretativa della sentenza della Corte costituzionale
(cfr.  Cass. sez. VI 9 luglio 1999 Latella RV 214680; Cass sez. VI 16
giugno 1999 Piscopo RV 214737), in altre sentenze si era profilato un
diverso orientamento del giudice di legittimita', che faceva leva sul
limitato  effetto  vincolante della decisione della Corte e proponeva
pertanto  un  diverso insegnamento. Risulta invero fuor di dubbio che
la  citata  sentenza  n. 292/1998  debba  qualificarsi  come sentenza
interpretativa  di  rigetto,  trattandosi  di  sentenza  che  non  ha
dichiarato  l'illegittimita'  della  norma,  ma ha solamente ritenuto
infondata  la questione di costituzionalita' proposta per la presenza
di  una  soluzione interpretativa dell'enunciato normativo sospettato
di  illegittimita', tale da ritenersi compatibile con la nostra Carta
costituzionale.
    E'   noto   infatti   come,  a  seguito  di  un  lungo  dibattito
giurisprudenziale,  si  sia affermata la tesi, da ritenersi del tutto
convincente,  secondo cui le sentenze interpretative di rigetto della
Corte costituzionale hanno valore vincolante solo nel giudizio a quo,
mentre  nell'ambito  di  giudizi  diversi costituiscono un precedente
autorevole  dal  quale peraltro i giudici possono discostarsi purche'
optino  per  una soluzione ermeneutica che, ancorche' non coincidente
con  quella  proposta dalla Corte, cio' nondimeno debba ritenersi non
collidente  con  le  norme  e i principi costituzionali affermati. In
caso contrario, al giudice che ritenesse non convincente la soluzione
interpretativa   proposta   dalla  Corte  costituzionale  e  che  non
rinvenisse  altra interpretazione conforme ai principi costituzionali
enunciati  dalla  Corte  medesima,  non  resterebbe che riproporre il
quesito  di  costituzionalita' in ordine alle norme controverse (cfr.
Cass.  sez.  un. 29 gennaio 1996, Clarke; Cass. sez. un. 24 settembre
1998, Gallieri; Cass. sez. un. 18 gennaio 1999, Alagni).
    Proprio  in detta linea si e' inserita la decisione delle sezioni
unite  della  Cassazione  n. 4 del 29 febbraio 2000, Musitano, che ha
precisato  come  l'art. 303,  comma  2,  costituisca applicazione del
principio  di  autonomia  dei singoli termini di fase, in conformita'
alla previsione di cui alla direttiva di cui all'art. 2, n. 61, della
legge delega per l'approvazione del codice di procedura penale, cosi'
che,  pur  non  potendosi  prescindere  dall'affermazione della Corte
costituzionale  secondo cui il divieto del superamento del doppio dei
termini  di  fase  deve  applicarsi  anche  ai  casi  di regresso del
procedimento   prescindendo   dalla  sospensione  dei  termini,  cio'
nondimeno  ai fini del calcolo del doppio del termine di fase, devono
computarsi  i soli periodi relativi a fasi tra loro omogenee (in cio'
concretandosi  la predetta autonomia dei termini di fase) e non anche
tutti  gli  intervalli  di tempo relativi a fasi diverse da quelle in
cui il procedimento e' regredito.
    Dopo l'intervento delle sezioni unite, la Corte costituzionale e'
stata  chiamata  a  pronunciarsi  nuovamente  sulla  questione  e  ha
ribadito  nuovamente  l'infondatezza  della questione di legittimita'
costituzionale, confutando nel contempo la tesi seguita dalle sezioni
unite  della  Cassazione in tema di computo dei soli termini omogenei
ai  fini  del  calcolo  per  il superamento del doppio dei termini di
fase:  il  giudice  delle leggi ha infatti rimarcato come la sentenza
n. 292/98  concernesse  proprio  il  caso di imputato per il quale il
superamento del doppio del termine si era determinato in relazione al
decorso tempo reale in fasi eterogenee (cfr. Corte cost. n. 429/1999,
n. 214/2000 e n. 529/2000).
    Cio'   ha  provocato  contrasto  interpretativo  in  merito  alla
questione  se  dovesse calcolarsi, ai fini del superamento del doppio
dei  termini  di  fase,  solo  il  periodo  di  custodia trascorso in
relazione  a  fasi  tra  loro  omogenee, ovvero anche in relazione al
tempo  trascorso  in  fasi  eterogenee,  questione sulla quale veniva
chiamata a pronunciarsi nuovamente la Cassazione a sezioni unite.
    Con  ordinanza 10 luglio 2002 n. 28 (depositata in data 25 luglio
2002)  le  sezioni  unite  sollevavano  questione  di  illegittimita'
costituzionale  dell'art. 303,  comma  2,  c.p.p.  in  relazione agli
artt. 3  e  13  della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  la norma
processuale  citata  impedisce  di  computare,  ai  fini  dei termini
massimi  di  fase  determinati  dal  successivo  art. 304, comma 6, i
periodi  di  detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da
quelli   in   cui   il   procedimento   e'  regredito,  questione  di
illegittimita' sulla quale non risulta che la Corte costituzionale si
sia ancora pronunciata.
    Con  detta  ordinanza il supremo collegio osservava che il metodo
di  calcolo proposto con la sentenza Musitano risulta coerente con la
lettera  dell'art. 302,  comma  2,  c.p.p.  (secondo  cui  i  termini
decorrono  «di  nuovo»  a seguito del regresso, escludendo quindi che
nel  frattempo  siano  continuati  a  decorrere)  e con la concezione
definita  «monofasica»  o  «endofasica»  dell'impianto codicistico in
materia  di  termini  di  custodia cautelare, come puo' rilevarsi dal
fatto che il codice conosce solo la distinzione tra termine di fase e
termine  complessivo  (riguardante  cioe'  tutte  le fasi), mentre in
nessun  luogo viene in considerazione il periodo «interfasico», cosi'
che la fictio iuris giustificativa di un indifferenziato inglobamento
delle  fasi  intermedie  tra  quella  originaria  e  quella in cui il
procedimento e' regredito risulta priva di base normativa.
    Lo  stesso  metodo di calcolo della sentenza Musitano risulta poi
rispettoso  del principio di proporzionalita' del termine di custodia
cautelare,  posto  che  questo non va riferito alla sola gravita' del
reato  ma deve altresi' essere ancorato alla ragionevole durata delle
attivita'  previste  nella  singola  fase,  cosi'  che  la durata del
relativo termine risulta discrezionalmente fissata anche in relazione
alla  fase del procedimento avuto riguardo alle attivita' da compiere
in  questo, con la conseguenza che il calcolo di intervalli temporali
propri  di  fasi  eterogenee,  al fine del superamento del doppio del
termine  stabilito  per  una determinata fase, risulterebbe del tutto
arbitrario  e  sganciato  dai  predetti  canoni di proporzionalita' e
ragionevolezza.
    Ne',  secondo  il supremo collegio, sarebbe ragionevole addossare
all'autorita'  il  rischio  dell'invalidita' del passaggio di fase in
quanto  non dovuto a comportamento colpevole dell'imputato, posto che
la   lettura   dell'art. 304,   comma   6,   effettuata  dalla  Corte
costituzionale  accomuna  indifferentemente  l'ipotesi di regressione
incolpevole  ex  art. 303,  comma 2, a quella di evasione (certamente
colpevole  ex  art. 303,  comma 3), conclusione necessitata dal fatto
che  il citato comma 6, dell'art. 304, richiama sia il comma 2 sia il
comma 3 del codice di rito.
    Allontanarsi  dal  criterio  di  calcolo  indicato dalla sentenza
Musitano  risulterebbe pertanto foriero di ulteriori irrazionalita' e
contraddizioni del sistema.
    Quanto  poi  al  principio  del minimo, sacrificio della liberta'
personale,  l'esperienza  successiva al pronunciamento della sentenza
Musitano ha dimostrato come il calcolo dei termini «interfase» ovvero
il solo calcolo dei termini «omogenei» (quelli della sola fase in cui
il  procedimento  e'  regredito,  prima  della  regressione e dopo la
regressione),  non  siano  di  per  se  stessi e in astratto uno piu'
favorevole  e l'altro meno favorevole all'imputato: basti pensare che
gli  imputati  di  cui  alle sentenze Cass. sez. VI n. 5874 23 maggio
2001,  Martinelli  e  Cass.  sez.  I  n. 42794  del  28 novembre 2001
Schiavone,  non  erano  stati  scarcerati  proprio  perche'  l'intera
detenzione  antecedente  al  regresso era stata imputata alla fase in
cui  il procedimento era regredito, mentre sarebbero stati rimessi in
liberta' se si fosse seguito il sistema Musitano.
    Per  queste  ragioni  doveva  ritenersi che la soluzione proposta
dalla  sentenza Musitano, pur diversa da quella proposta dalla Corte,
fosse stata ritenuta rispettosa dei principi di cui agli artt. 3 e 13
della Costituzione.
    Tale  conclusione, osservavano le sezioni unite nell'ordinanza 10
luglio  2002 citata, non poteva peraltro riaffermarsi oggi, posto che
la  Corte  costituzionale  con  la  citata  ordinanza  n. 529/2000 ha
espressamente  chiarito  che il cumulo di tutti i periodi di custodia
cautelare  anche  relativi  a fase eterogenee fosse l'unico metodo di
calcolo  coerente con l'art. 13 Cost. che impone di ridurre al minimo
il sacrificio della liberta' personale.
    D'altro  canto,  osservavano sempre le sezioni unite, l'art. 303,
comma  2,  cosi'  come  redatto  esprime  una  norma che impedisce di
addizionare,  ai fini del superamento del doppio del termine di fase,
anche  gli  intervalli temporali decorsi in fasi eterogenee, cio' per
le  ragioni  gia'  sopra  indicate,  rispetto  alle  quali la recente
modifica dell'art. 303 non consente di discostarsi. In particolare le
ultime  modifiche di cui alle leggi 5 giugno 2000 n. 144 e 19 gennaio
2001  n. 4, non hanno toccato il comma discusso (il secondo) e l'aver
consentito   la   legge   n. 4/2001,   in   casi   eccezionali,   una
interconnessione  tra  le fasi, deve ritenersi viceversa confermativa
del  principio  generale  dell'autonomia dei termini di fase, che non
puo'  essere  derogato  se  non da espresse disposizioni legislative,
mancanti in punto di superamento del doppio del termine di fase.
    Mancando  quindi  qualsiasi soluzione alternativa compatibile con
la  Costituzione  e  non potendosi ritenere in via interpretativa che
l'art. 303,  comma  2,  c.p.p. consenta il calcolo di termini di fase
eterogenei,  le  sezioni  unite  hanno  quindi sollevato questione di
costituzionalita' nei termini prima ricordati.
    La medesima questione si pone negli esatti termini anche nel caso
di  specie,  posto che calcolando i soli termini omogenei (secondo il
metodo   della   sentenza   Musitano),  gli  odierni  appellanti  non
dovrebbero  essere  liberati  (come  si  e' visto sopra), mentre cio'
dovrebbe  avvenire  se  si  calcolasse  anche  il  periodo  di  tempo
interfase  (essendo  gia'  scaduti  i tre anni in data 10 maggio 2002
come osservato dalla difesa).
    D'altro  canto,  per  le  ragioni  sopra  viste,  questo collegio
ritiene  che  l'art. 303,  comma  2 c.p.p., cosi' come formulato, non
consenta  il  calcolo  di  termini relativi a fasi eterogenee ai fini
della  verifica  del  superamento  del  doppio del termine, metodo di
calcolo  gia'  indicato dalla Corte come unico in grado di assicurare
il rispetto degli artt. 3 e 13 della Costituzione.
    La  decisione  del presente appello non puo' pertanto prescindere
dalla   decisione  sulla  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 303,  comma  2,  citato.  Risulta  pertanto rilevante e non
manifestamente  infondata detta questione in relazione agli artt. 3 e
13  della  Costituzione,  nella parte in cui l'art. 303, comma 2, del
codice  di  procedura  penale  impedisce  di  computare,  ai fini dei
termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6,
i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da
quelli in cui il procedimento e' regredito.
    Il  presente procedimento incidentale va quindi sospeso in attesa
della  decisione  della Corte ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87
del 1953, ferma restando la misura cautelare in atto, mandandosi alla
cancelleria  per  gli adempimenti previsti dalla medesima legge n. 87
del 1953.