IL TRIBUNALE

    Letti  gli  atti  relativi al ricorso congiunto per la cessazione
degli  effetti civili del matrimonio concordatario depositato in data
21  maggio 2002 da Sernia Stefano e Morfini Chiara (avv. G. Laforgia)
ed scritto sotto il numero d'ordine 2376 r.a.c.n.c. dell'anno 2003;
    Sentito il procuratore delle parti;
    Viste  le  conclusioni rassegnate dal p.m. con atto del 31 maggio
2002;
    Sciolta  la  riserva  di cui al verbale dell'udienza in camera di
consiglio del 18 febbraio 2003;

                        Osserva quanto segue

    1. La fattispecie.
    I  ricorrenti,  coniugi  separati consensualmente in virtu' della
convenzione  omologata  in  data  11-21  marzo  1997  ed  attualmente
residenti,  rispettivamente,  in  Verona  ed  in  Bari,  hanno  adito
congiuntamente   questo   Tribunale  per  ottenere  la  pronunzia  di
cessazione  degli effetti civili del matrimonio concordatario da essi
contratto in Bari il 15 febbraio 1992, allegando che:
        dall'unione matrimoniale non sono nati figli;
        sin  dall'udienza  di  comparizione  dell'11 marzo 1997 hanno
vissuto separati, senza mai riconciliarsi;
        la  ricostituzione  della comunione spirituale e materiale e'
oramai impossibile;
        l'autosufficienza economica di entrambi determina la rinuncia
reciproca ad ogni pretesa di assegno e patrimoniale in generale;
        la moglie non potra' piu' utilizzare il cognome del marito.
    All'udienza in camera di consiglio, il procuratore delle parti ha
dichiarato  che  entrambe  sono  magistrati  e  che una di esse a' in
servizio nel Tribunale di Bari.
    Sulla   base  di  sittatte  risultanze  processuali,  ritiene  il
Collegio di dover promuovere d'ufficio incidente di costituzionalita'
nei sensi qui di seguito esposti.
    2. La questione di legittimita' costituzionale.
    A) L'inquadramento.
    A  norma  dell'art.  4,  comma  1,  della  legge 1° dicembre 1970
n. 898,  come  sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987 n. 74,
la  domanda  congiunta  per  ottenere lo scioglimento o la cessazione
degli effetti civili del matrimonio puo' essere proposta al tribunale
del luogo di residenza o di domicilio dell'uno o dell'altro coniuge.
    La  competenza territoriale del giudice adito in applicazione del
suddetto  foro  alternativo ed inderogabile (come si ricava dall'art.
28  c.p.c.  che  esclude  la  derogabilita', fra l'altro, nelle cause
previste nel n. 3 dell'art. 70 c.p.c. e nei procedimenti in camera di
consiglio),  e'  destinata  pero'  a  cedere  a fronte dell'acclarata
qualita'  di  magistrato  in  servizio  in questo ufficio giudiziario
rivestita  da  uno  dei  coniugi  istanti  e  del conseguente rilievo
officioso dell'incompetenza ex art. 30-bis c.p.c. («Foro per le cause
in  cui sono parti i magistrati»), introdotto dall'art. 9 della legge
2 dicembre 1998 n. 420, che prescrive: «le cause in cui sono comunque
parti  magistrati,  che  secondo le norme del presente capo sarebbero
attribuite  alla  competenza  di  un ufficio giudiziario compreso nel
distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie
funzioni,  sono  di competenza del giudice, ugualmente competente per
materia,  che  ha sede nel capoluogo del distretto di Corte d'appello
determinato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale».
    Nonostante  talune divergenze dottrinali, alla competenza sancita
dalla  norma  ora  menzionata  sembra infatti preferibile riconoscere
natura funzionale ed inderogabile nonche' la resistenza propria delle
cc.dd.   competenze   «forti»,  soprattutto  in  virtu'  della  ratio
uniformatrice  rispetto  alle  regole  in  proposito  dettate  per il
processo penale e delle finalita' di salvaguardia di valori immanenti
la  stessa  giurisdizione,  quali  la terzieta' e l'imparzialita' del
giudice, cui essa tende.
    Ne  discende,  per  un  verso,  l'ineludibile  rilevabilita'  del
relativo  difetto  ex  officio  (e, quindi, anche in contrasto con la
scelta  delle parti - eventualmente comune, come nel caso del ricorso
congiunto  ex art. 4 cit. - di adire quel determinato giudice) e, per
altro   verso,   la   prevalenza   su   ogni  altro  foro,  ancorche'
inderogabile,  stabilito  in  base non soltanto alle disposizioni del
capo  I,  tit.  I,  libro  I  del codice di rito (in questo novero va
peraltro  collocato  proprio  il foro ex art. 4, comma 1, l. div., la
cui  inderogabilita',  come  detto, promana direttamente dall'art. 28
c.p.c.),  secondo  la  lettera  dell'art.  30-bis  c.p.c., ma, stante
l'ingiustificata  e  verosimilmente  inavvertita  portata restrittiva
della formula legislativa e la sua doverosa interpretazione estensiva
come  in  ogni  caso  in cui appaia evidente, alla stregua della mens
legislatoris, che la legge dica meno di quanto ragionevolmente voglia
dire  (non  vi sarebbe alcuna plausibile ragione giuridica per negare
l'applicabilita'  e  la  prevalenza del foro speciale dei magistrati,
per  esempio,  rispetto al foro dell'opposizione a decreto ingiuntivo
ex  art.  645  c.p.c.  o  rispetto al foro del consumatore ex art. 12
d.lgs.  n. 50/1992), a qualunque disposizione di legge, codicistica e
non, fondante un criterio di competenza concorrente con l'art. 30-bis
c.p.c.
    In  tali  sensi  s'e'  invero formato il primo e sinora unico - a
quanto  consta  -  orientamento di legittimita' (Cass. 16 maggio 2002
n. 7119),  gia'  implicitamente  avallato  dalla Corte costituzionale
(ord.  8  -  16  luglio  2002  n. 348), cui anche questo Tribunale ha
prestato  adesione in almeno un paio di propri precedenti: sicche' su
tali  eterogenee,  ma  coerenti  basi giurisprudenziali, pare potersi
cogliere un'attuale unita' interpretativa, un «diritto vivente» della
norma,  da  assumersi  come dato oggettivo del caso costituzionale da
risolvere.
    Ne'   l'ampiezza   concettuale  del  prioritario  e  fondamentale
elemento  obiettivo  del  foro  per  i  magistrati, che l'art. 30-bis
c.p.c.  individua  puramente e semplicemente nelle «cause» («in cui i
magistrati sono comunque parti»), senza specificazione alcuna, ne' di
materia  ne'  di  rito,  autorizza l'interprete ritenere che ne possa
restare  esente la domanda congiunta di divorzio ex art. 4, comma 1 e
13, legge n. 898/1970.
    Invero  proprio  l'estrema genericita' della dizione legislativa,
correlata  alla  finalita'  di piena attuazione della giurisdizione -
deve  intendersi: in tutte le manifestazioni tipiche di tale funzione
-  perseguita dal legislatore, pone il giudice nell'impossibilita' di
adottare,   in   via  interpretativa,  opzioni  restrittive  che,  in
sostanza,  si  risolverebbero in inamissibili interventi parzialmente
abrogativi,  di fatto, del precetto processuale. La convinzione della
necessaria  inclusione  del giudizio di divorzio promosso con istanza
congiunta  fra le «cause» che, laddove vedano coinvolto un magistrato
nelle  vesti  di  «parte», sono assoggettate inderogabilmente al foro
dell'art. 30-bis c.p.c. comunque positivamente sorretta e corroborata
da una serie di argomenti normativi, sistematici giurisprudenziali.
    La  concorde  volonta'  manifestata  dalle  parti  a  mezzo della
domanda  congiunta  non  produce di per se' alcun effetto estintivo o
modificativo  ne'  dello status coniugale, ne' dei rapporti personali
ed  economici  che  ne discendono, nel senso che essa non e' idonea a
determinare  non  solo  lo scioglimento o la cessazione degli effetti
civili  del  matrimonio, ma neppure la regolamentazione dei diritti e
dei  doveri genitoriali o delle rispettive attribuzioni patrimoniali;
in giurisprudenza si e' sottolineato che persino queste ultime, nella
sede del divorzio cosiddetto (sebbene impropriamente) consensuale, si
producono  sempre e soltanto per mezzo della pronuncia del tribunale,
che   non   si   limita,  come  nell'omologazione  della  separazione
consensuale,  ad  esercitare  un potere di controllo su atti posti in
essere  da  altri soggetti e destinati a conservare la loro autonomia
logico-giuridica,  ma  ingloba  e  fa  proprie, come mero presupposto
della  decisione,  le  pattuizioni intervenute tra le parti (Cass. 19
settembre  2000  n. 12389;  sulla  necessita'  che  anche gli accordi
economici  fra  i  divorziandi  vengano  recepiti dalla pronuncia del
giudice,  all'esito  della  verifica  dei  presupposti  legali  della
domanda divorzile, si veda pure Cass. 8 luglio 1996 n. 6664).
    In  altre  parole, la previsione normativa dell'istanza congiunta
di  divorzio  -  come  si  e' sostenuto da una parte della dottrina -
sembra  destinata  ad  operare  non  sul piano sostanziale, bensi' su
quello,   processuale,   ossia   dell'adozione   del  piu'  veloce  e
semplificato  rito camerale, fermo restando che il titolo al quale si
riconnettono  tutti  gli effetti giuridici, pur congiuntamente voluti
dalle  parti,  e'  in  ogni  caso rappresentato dalla sentenza emessa
all'esito  della  verifica  dei  presupposti,  richiesta dall'art. 4,
comma  13,  l.  div.;  sentenza  alla quale, vertendosi in materia di
diritti  e status non disponibili, deve essere (come pacificamente e)
riconosciuto   valore  costitutivo,  senza  che  possa  invocarsi  in
contrario  quella  giurisprudenza  di  legittimita'  che  ammette  la
delibazione  di  sentenze  straniere  di  divorzio per mutuo consenso
(Cass. 21 giugno 1995 n. 6973, 19 aprile 1991 n. 4235, 17 aprile 1991
n. 4104,  18  gennaio  1991  n. 490),  essendo  evidente che altro e'
ritenere  la  non  contrarieta' di tale istituto di diritto straniero
all'ordine  pubblico  italiano  agli stretti fini del procedimento di
delibazione gia' disciplinato dagli artt. 796 ss. c.p.c. ed ora dagli
artt.  64  ss.  legge  n. 218/1995,  altro e' ritenere la validita' e
l'efficacia  esclusive  della  comune  volonta'  dei  divorziandi per
conseguire   la   formale   dissoluzione   del  vincolo  coniugale  e
disciplinare i rapporti conseguenti.
    Nel  procedimento  divorzile su domanda congiunta v'e' dunque, da
parte  del  giudice adito, esercizio di giurisdizione in senso pieno,
che  concretamente  si manifesta in un complesso di attivita' (alcune
necessarie, altre eventuali), quali:
        il  riscontro  circa la compiuta indicazione delle condizioni
inerenti  alla  prole  ed ai rapporti economici (art. 4, comma 13, l.
div.);
        la  verifica  dei presupposti del divorzio (in primis, quelli
elencati  dall'art.  3  legge n. 898/1970), che, da un lato, non puo'
esaurirsi - come significativamente osservato in giurisprudenza - «in
una  mera  presa  d'atto  di  situazioni  evidenti  ed inconfutabili,
potendo  richiedere  le  indagini compatibili con il rito camerale, a
norma  dell'art.  738  c.p.c.»  (Cass.  14  ottobre 1995 n. 10763), o
quegli altri approfondimenti istruttori comunque resi necessari dalla
causa di divorzio specificamente dedotta (si pensi all'inconsumazione
del matrimonio), e, dall'altro, non, puo', in caso di esito negativo,
che condurre ad una pronuncia reiettiva;
        la valutazione non formale, ma di merito circa la rispondenza
delle  condizioni  concordate all'interesse dei figli, nella quale si
innesta  la  possibilita'  di audizione delle parti per gli opportuni
suggerimenti   integrativi   o  correttivi  (specificamente  prevista
dall'art. 4, comma 13, l. div.), o della prole minore (quanto meno ai
sensi  e  per gli effetti di cui alla generale disposizione dell'art.
12  della  convenzione  di New York 20 novembre 1989, sui diritti del
fanciullo, ratificata con legge 27 maggio 1991 n. 176)
        la   pronuncia   della  decisione  nella  forma  autoritativa
principe  della  «sentenza»,  che, tralasciando i controversi profili
dell'impugnabilita'  (ammessa con i mezzi ordinari da Cass. 19 giugno
1996  n. 5664)  e  dei  relativi  termini,  e' sicuramente soggetta a
passare  in  giudicato  ed  a  produrre  i propri effetti costitutivi
normalmente solo da tale momento.
    L'esclusione della connotazione consensualistica o negoziale pura
in  favore dell'essenziale dimensione giurisdizionale, esaltata dalla
caratterizzazione  dei  poteri  del  giudice  in  senso non meramente
formale  o  notarile, ma anche discrezionale, valutativo e decisorio,
pone  automaticamente  il procedimento divorzile su istanza congiunta
all'interno dell'amplissimo raggio d'azione dell'art. 30-bis c.p.c.
    Non   risultano   significative  del  contrario  le  collocazioni
dottrinali,  non  ignote  al  Collegio, nell'area della giurisdizione
volontaria.  Cio'  perche', se davvero di giurisdizione volontaria si
tratta,  essa,  secondo quanto sancito del tutto condivisibilmente da
una  recente  pronuncia  della  Corte di legittimita' (Cass. 7 giugno
2002   n. 8318),   non   e'  in  quanto  tale  sottratta  alla  sfera
d'applicazione del citato art. 30-bis, nella misura in cui l'esigenza
di  salvaguardare  la  serenita'  e  l'imparzialita'  del giudicante,
evitandogli il disagio di decidere nei confronti di un magistrato che
eserciti  le  proprie  funzioni  nello  stesso distretto, si pone nei
procedimenti   in  questione  non  meno  che  in  quelli  contenziosi
ordinari,  potendosi  dunque sostenere, con solido costrutto logico e
giuridico,  che  l'impiego  di  una  formula letterale tanto ampia ed
indeterminata non puo' non apprezzarsi come sintomatica di una voluta
onnicomprensivita',  che  non  ammette posticce linee di demarcazione
fra procedimenti strutturalmente contenziosi e non.
    Resta  fermo,  peraltro,  che  anche nel procedimento di divorzio
congiunto  non  pare prospettarsi un'autentica reductio ad unum della
fisiologica  dualita'  delle  parti  in  causa,  solo  apparentemente
inestente  ovvero  un'assoluta  neutralizzazione del contraddittorio,
rispetto  alla  quale,  pertanto,  non  si porrebbe alcun problema di
terzieta'  ed  imparzialita'  del  giudice:  cio'  vuoi  perche' tali
caratteri  essenziali della giurisdizione devono permanere integri in
ogni  occasione  in  cui il giudice sia chiamato all'attuazione della
volonta'  della legge, se del caso, anche in contrasto con le domande
di  chi  agisce; vuoi perche' i coniugi che congiuntamente richiedono
la  pronuncia  divorzile espongono un interesse non unico o identico,
bensi'  solo  convergente  verso  il  conseguimento  di  un risultato
oggettivamente   comune  ma  soggettivamente  differenziato,  finendo
entrambi  per esercitare contestualmente un proprio diritto che trova
nell'altro  il  suo soggetto passivo; vuoi infine perche' l'alterita'
delle  posizioni  che,  confluendo nella sede del divorsio su istanza
congiunta,  devono ivi trovare una giusta composizione ad opera di un
giudice  veramente  terzo ed imparziale, e' pur sempre rivelata dalla
necessaria presenza della parte pubblica.
    Invero, proprio su quest'ultimo fronte argomentativo e' possibile
rinvenire  un  preciso,  speculare  dato  di  normazione positiva che
sembra  confortare  la  scelta  interpretativa qui divisata in ordine
all'accezione  della  parola  «cause»,  laddove si consideri che alla
medesima  parola,  utilizzata nell'art. 70 c.p.c. per indicare i casi
di  intervento obbligatorio del pubblico ministero, viene comunemente
riconosciuta  una  latitudine  applicativa che abbraccia non soltanto
svariati  procedimenti di volontaria giurisdizione, ma, giustappunto,
anche  la domanda congiunta di divorzio: quest'ultima, in forza della
previsione  del n. 3 dell'art. 70 c.p.c. («cause riguardanti lo stato
...  delle  persone»),  cui  deve  farsi  risalire  la  comune prassi
giudiziaria  di  comunicare  preventivamente al p.m. in sede gli atti
relativi  alle  istanze  ex  art. 4, comma 13, l. div., non potendosi
condividere,   in   ragione   della  tassativita'  delle  ipotesi  di
partecipazione  obbligatoria del p.m. al processo civile (cosi' Cass.
25  gennaio 1968 n. 224), l'ipotesi dell'applicazione estensiva della
previsione  dell'art.  5, comma 1, l. div., espressamente dettata per
il procedimento di divorzio contenzioso.
    In  conclusione,  una  volta  definito  l'ambito  applicativo del
precetto  processuale  in  esame  nei  sensi  sopra  illustrati  (con
particolare  riferimento:  alla  natura della competenza de qua, alla
sua   prevalenza   su  ogni  altro  criterio  con  essa  in  concreto
concorrente,   al   regime   della   rilevabilita'   ed  all'ampiezza
concettuale  dell'elemento  oggettivo  delle «cause») e positivamente
verificata  la sussumibilita' della fattispecie dedotta nel paradigma
dello  stesso  art. 30-bis  c.p.c., deve dubitarsi della legittimita'
costituzionale  della  norma, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.,
nella  parte in cui si applica ai giudizi di cessazione degli effetti
civili del matrimonio proposti con ricorso congiunto da magistrato in
servizio  nel  distretto  di  Corte  d'appello comprendente l'ufficio
giudiziario  competente  ai  sensi  dell'art.  4,  comma  1, legge 1°
dicembre 1970 n. 898.
    B) La rilevanza.
    La competenza costituisce notoriamente un presupposto processuale
ed  il  suo  difetto  impone  al  giudice la preliminare declaratoria
negativa.
    Ne'  deriva  che  la  soluzione  della  questione di legittimita'
costituzionale della regola di competenza stabilita dall'art. 30-bis,
comma  1,  c.p.c.  e'  certamente  rilevante  nel  presente giudizio,
dipendendo  da  essa la sussistenza o meno, in capo al giudice adito,
della potestas iudicandi sulla domanda proposta.
    C) La non manifesta infondatezza.
    E'  stato  gia'  bene  e ripetutamente evidenziato nelle sedi del
dibattito prima parlamentare, poi dottrinale e giurisprudenziale, che
l'introduzione   dell'art. 30-bis   c.p.c.  risponde  alla  finalita'
ordinamentale  generale, avente piena valenza costituzionale, di dare
attuazione,   tanto   apparente   quanto   effettiva,   ai   principi
dell'imparzialita' e della terzieta' della giurisdizione in ogni tipo
di processo.
    In  via  di approccio al sindacato interinale e prima facie della
norma   deve   dunque   subito   escludersi   la  fondatezza  di  una
prospettazione  del dubbio in termini assoluti, ovvero di intrinseca,
radicale  e complessiva contrarieta' a Costituzione dell'istituzione,
anche  nel processo civile in generale, come gia' nel processo penale
(art.  11 c.p.p.) e nei giudizi di responsabilita' civile per i danni
cagionati  nell'esercizio  delle  funzioni  giudiziarie (art. 4 legge
n. 117/1988),  di  un  foro  speciale  per la trattazione delle cause
riguardanti   i   magistrati,   essendo   stata   viceversa  ritenuta
costituzionalmente  censurabile in passato, sino all'intervento della
legge  2  dicembre  1998  n. 420,  l'omessa  previsione  da parte del
legislatore, di un foro ad hoc nell'ambito della giurisdizione civile
tout  court,  tanto  da  occasionare specifici interventi del Giudice
delle  leggi,  risolti  pero'  in  punto  di  inammissibilita'  delle
relative  questioni  in  funzione  della  pluralita'  delle possibili
soluzioni  costituzionalmente  corrette e della conseguente spettanza
esclusiva al legislatore del compito di stabilire, nell'esercizio del
suo   potere   discrezionale,   quando,   nel   generale  ambito  dei
procedimenti  civili,  ricorra  quell'identita'  di  ratio che impone
l'estensione pura e semplice del criterio di cui all'art. 11 c.p.p. e
quando  invece  tale  ratio  non  ricorra  affatto o sia realizzabile
attraverso  la  previsione  di  un  foro derogatorio appropriato alla
specifica  materia  (Corte  cost., sent. 12 marzo 1998 n. 51 e ord. 6
novembre 1998 n. 370).
    Gli   argomenti   per  una  corretta  impostazione  del  tema  di
incostituzionalita'    sembrano   allora   potersi   convenientemente
attingere  dal  distinto  versante  delle  modalita'  dell'intervento
legislativo   di   cui   alla  legge  n. 420/1998,  consistito  nella
sostanziale  omologazione, fra i due fondamentali modelli di processo
(civile   e   penale),   delle   regole  attuative  dei  principi  di
imparzialita'   e  terzieta'  del  giudice,  mediante  la  previsione
generale  ed a spettro applicativo praticamente illimitato di un foro
speciale    determinato   in   ragione   della   peculiare   qualita'
professionale  di  una  delle  parti  (magistrato) e dell'ufficio nel
quale essa esercita le proprie funzioni.
    In  tale  prospettiva non puo' non venire innanzitutto in risalto
quell'attivita'  di indirizzo della (allora) sopravveniente attivita'
legislativa svolta dalla stessa Corte costituzionale in occasione del
menzionato   giudizio   incidentale   vertente  sulla  conformita'  a
Costituzione  della mancata estensione ai giudizi civili dell'art. 11
c.p.p.,  definito  con  la sentenza n. 51 del 1998, ed estrinsecatasi
nell'elaborazione   di   una  sorta  di  «monito  circa  il  modo  di
provvedere»,  alla luce del quale avrebbe dovuto essere sapientemente
calibrata  l'introduzione  del  foro  per  i  magistrati nel processo
civile.  In  particolare,  la Corte sottolinea che, in considerazione
della  netta,  ontologica  distinzione fra processo civile e processo
penale  (rilevata sotto i profili degli interessi protetti, del ruolo
delle  parti,  del  meccanismo  di  convincimento  del giudice, della
pluralita',  nell'uno,  e della tendenziale unicita', nell'altro, dei
criteri  determinativi  della  competenza  territoriale),  le  scelte
legislative   in   materia,  pur  nella  costituzionalmente  doverosa
attuazione  del  principio  di  imparzialita-terzieta'  del  giudice,
avente  pieno valore costituzionale, cor riferimento a qualunque tipo
di  processo  (cosi'  gia' secondo Corte cost., sent. 7 novembre 1997
n. 326),  avrebbero  dovuto  svolgersi  «secondo  linee direttive non
necessariamente  identiche  per  i  due  tipi di processo», «cosi' da
evitare   che   vengano,   sacrificati   altri   interessi  e  valori
costituzionalmente  rilevanti»,  quali  il  diritto  di  agire  e  di
difendersi in giudizio.
    Del  rischio  di  un'indebita  assimilazione  fra  le  discipline
processuali derogatorie della competenza territoriale ordinaria nelle
cause  riguardanti  i  magistrati  doveva,  in  verita',  essere  ben
avvertito lo stesso legislatore, allorquando, in sede di relazione al
Senato  sul  disegno di legge n. 484 (successivamente unificato ad un
articolato  di  iniziativa  governativa  e  trasfuso  nel  definitivo
progetto  n. 1846/D),  affermo'  che  «non  pochi  motivi inducono ad
escludere  l'opportunita'  di  un  foro  speciale  per tutte le cause
civili  in  cui  sia  parte  un  magistrato»,  salvo  poi a «tradire»
l'intenzione   con   l'approvazione  di  una  norma  che,  come  gia'
osservato,   appare   di  tutt'altro  segno,  nella  misura  in  cui,
prevedendo  lo spostamento della competenza secondo i criteri dettati
dall'art.  11  c.p.p. in relazione a tutte le «cause» nelle quali sia
comunque  parte  un  magistrato in servizio nel distretto di Corte di
appello    comprendente    l'ufficio   giudiziario   territorialmente
competente  in  base  alle  regole  ordinarie, sembra avere con tutta
evidenza,  da  un  lato, puramente e semplicemente esteso al processo
civile  il  meccanismo derogatorio generalizzato vigente nel processo
penale in tema di competenza per le cause riguardanti i magistrati e,
dall'altro,  pretermesso  qualsivoglia valutazione di bilanciamento -
da  condursi  alla  stregua  delle  varie  e multiformi tipologie del
processo civile - fra i principi, di eguale rilevanza costituzionale,
della  imparzialita-terzieta'  del  giudice,  da  un  lato,  e  della
pienezza  ed  effettivita'  della  tutela giurisdizionale dall'altro,
aprendo  in tal modo la via ad irragionevoli compressioni del secondo
in  tutti  quei  peculiari  contesti  processuali in cui non emergono
obiettive  ragioni  idonee a giustificare l'incondizionata prevalenza
del primo.
    Percorrendo  itinera argomentativi non dissimili da quelli appena
tracciati,  il sindacato di costituzionalita' dell'art. 30-bis c.p.c.
e'   di   recente   pervenuto   al   primo  favorevole  apprezzamento
dell'illegittimita'  della  norma,  nella  parte  in  cui  essa trova
applicazione  ai  processi di esecuzione forzata promossi da o contro
magistrati  in servizio nel distretto di Corte d'appello comprendente
l'ufficio  giudiziario  competente  ai  sensi dell'art. 26 c.p.c. (C.
cost., sent. 12 novembre 2002 n. 444).
    Ad  eguale  favorevole  apprezzamento  puo',  ad avviso di questo
Tribunale,  pervenirsi  con  riguardo  alla fattispecie della domanda
congiunta  di cessazione degli effetti civili del matrimonio, oggetto
del giudizio che ne occupa.
    Premesso    che   la   preventiva   sperimentazione   di   misure
interpretative   di   salvaguardia,   ossia  la  ricerca  di  opzioni
ermeneutiche  della  norma  che  ne consentano una lettura diversa da
quella   in   dubio,  oltre  che  passibile  di  una  valutazione  di
conformita'   a   Costituzione,   sempre   doverosa  per  il  giudice
remittente,   deve   ritenersi  nella  specie  gia'  infruttuosamente
compiuta   allorquando   si   e'  approfonditamente  scandagliata  la
questione dell'applicabilita' dell'art. 30-bis c.p.c. ai procedimenti
di  divorzio  su  istanza congiunta (con particolare riferimento alla
valenza  del  termine  «cause»:  v.  supra,  par.  2.A),  traendosene
conclusivamente  la convinzione positiva, appare evidente che il foro
speciale  per  i  magistrati,  prevalendo  su  quello  di residenza o
domicilio  dell'uno  o  dell'altro  coniuge, alternativamente fissato
dall'art.  4,  comma 1, l. div., costringe le parti ad allontanarsi -
talora a distanze anche notevoli - dal luogo nel quale una o entrambe
vivono o hanno fissato la sede principale dei propri interessi.
    Sicche'  il  distanziamento  del  processo  dal  foro della legge
divorzile,  che,  per  intuibili  ragioni  di opportunita', era stato
avvedutamente  fatto  coincidente  dal  legislatore  del  1987 con il
centro  della  vita  di  almeno  uno  degli interessati, non soltanto
aggrava  le condizioni della tutela giudiziale, in danno degli aventi
diritto,  da un punto di vista materiale, ossia in termini di tempi e
di  costi,  ma rende ai predetti pure sensibilmente piu' difficoltosa
e,  in  ipotesi,  persino non compiutamente perseguibile l'attuazione
dei  loro  diritti  e  di  quelli  della  loro  prole,  quante volte,
nell'esercizio   dei   poteri   istruttori,   valutativi  e  decisori
riconosciuti  al  giudice  dalla  legge  (si  veda  supra, par. 2.A),
quest'ultimo   possa   ritenere  necessario,  o  anche  semplicemente
opportuno,   assumere   informazioni   dalle  parti  personalmente  o
ascoltare  i  figli  minori  sul  quelle  condizioni  regolative  del
divorzio che direttamente li riguardino (affidamento, incontri con il
genitore non affidatario, ecc.).
    D'altro   canto,  non  e'  inverosimile  che  lo  stesso  giudice
competente  ai  sensi  dell'art.  30-bis  c.p.c.,  consapevole  degli
aggravi  che  ne deriverebbero sia per il giudizio, sia per le parti,
possa   tendere   ad  approfondire  con  minor  rigore  le  questioni
«meritevoli»   scaturenti   dalla   concorde   disciplina   divorzile
prospettata dai coniugi.
    Ne'  puo'  trascurarsi,  fra  i  negativi  effetti  indotti dello
spostamento del foro competente in una sede distante da quella ove si
volge  la  vita  quotidiana  e, normalmente, l'attivita' di lavoro di
almeno  una delle parti, quello di tipo psicologico consistente in un
non  voluto  differimento  nel  tempo della realizzazione del proprio
interesse  ad  ottenere  il divorzio o in un artificioso innalzamento
del  livello  di  tolleranza  delle  limitazioni  dei  propri diritti
personali  e  patrimoniali  scaturenti dallo scioglimento del vincolo
coniugale,  l'uno  o  l'altro  causati  dalle maggiori difficolta' di
esercizio della difesa in giudizio.
    In  ogni  caso  emerge  con  nettezza,  sotto  i  profili  appena
esaminati,  il  vulnus  che  l'art.  30-bis c.p.c. arreca in subiecta
materia  al  diritto  alla  pienezza ed all'effettivita' della tutela
giurisdizionale, sancito in termini assoluti dall'art. 24 Cost.
    A  fronte  di  siffatto,  concreto ed obiettivo, sacrificio di un
diritto  primario  costituzionalmente  garantito si rinviene soltanto
un'astratta  ed  immotivata  valutazione  di superiore rilevanza e di
piu'  forte  esigenza  di  protezione dell'imparzialita-terzieta' del
giudice  investito  di  una  domanda  congiunta  di divorzio di altro
magistrato in servizio nello stesso distretto di Corte d'appello.
    Di  contro,  non appare fondatamente revocabile in dubbio che, in
un'attenta   ed   equilibrata   ponderazione   comparativa  dei  beni
costituzionali  in gioco, a quello della pienezza e dell'effettivita'
della   tutela   giurisdizionale  non  possa  non  riconoscersi  peso
prevalente  se  e'  vero  che  in  un procedimento divorzile azionato
congiuntamente  dai  coniugi,  i  quali, per definizione, adiscono la
giustizia  sulla  base di concordi allegazioni e richieste, i margini
perche'  il  giudice adito possa essere o comunque risultare di fatto
condizionato  dalla presenza in causa di un magistrato-parte sono, se
pur  non  inesistenti, almeno sensibilmente ridotti rispetto a quelli
ipotizzabili  in  un  divorzio  contenzioso:  tanto piu' che l'organo
giudicante non e' monocratico, ma necessariamente collegiale.
    Semplificando  all'estremo  il  ragionamento,  la  non  manifesta
infondatezza  della  questione  di  legittimita'  costituzionale  qui
sollevata  si  concentra  nel dubbio se la trattazione di una domanda
congiunta  di divorzio ponga un'esigenza di imparzialita' del giudice
cosi'  forte  da giustificare costituzionalmente lo spostamento della
competenza  nei  sensi  previsti  dall'art.  30-bis  c.p.c.;  con  la
conseguenza che, dovendo il dubbio risolversi negativamente ad avviso
del  Tribunale, detta norma non soltanto si presenta irragionevole in
se',   per   via   della  formulazione  in  termini  generali  e  non
differenziati in relazione alle diverse tipologie processuali civili,
ma  irragionevolmente  discrimina,  rispetto  alla  realizzazione del
primario  diritto  di  azione,  situazioni  soggettive (quella di chi
svolge  la  professione  di  magistrato nel distretto coincidente con
quello  in  cui  si  trova  il giudice competente ex art. 4 l. div. e
quella  di  chi  svolge  la  medesima  professione  altrove  o non e'
magistrato)  il cui elemento differenziale non sembra giustificare il
diseguale trattamento.
    In  definitiva,  il  difetto  di  congruo bilanciamento tra i due
interessi  di  rilievo  costituzionale  sopra richiamati qualifica in
termini  di  irragionevolezza  la scelta legislativa qui censurata ed
integra la concorrente violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
    Sicche',   mutuando   ed   adattando   la   conclusiva,   limpida
affermazione     contenuta     nella    recente    declaratoria    di
incostituzionalita'  dell'art.  30-bis  c.p.c.  emessa  con la citata
sentenza  n. 444  del 2002, la norma impugnata, nella parte in cui si
applica al procedimento di divorzio instaurato con domanda congiunta,
irragionevolmente  assume  come  preminente  l'esigenza  di  tutelare
l'imparzialita-terzieta'   del  giudice  divorzile,  concependola  in
termini  del  tutto  generali ed astratti, non correlati ai connotati
tipici  di quel procedimento, ed illegittimamente trascura l'esigenza
di  garantire  piena ed effettiva tutela giurisdizionale alle pretese
azionate dalle parti.
    3. Le possibili illegittimita' costituzionali consequenziali.
    E'  innegabile la piena coincidenza fra la norma sulla pompetenza
che  viene  qui elevata a sospetto d'incostituzionalita' in relazione
alla  domanda  congiunta  di  cessazione  degli  effetti  civili  del
matrimonio, nella specie portata alla cognizione di questo Tribunale,
e   quella,   di  contenuto  e  portata  applicativa  sostanzialmente
identici,   riferibile   all'ipotesi   della   domanda  congiunta  di
scioglimento  del  matrimonio, alternativamente prevista dall'art. 4,
comma 1,  della  legge  1°  dicembre  1970  n. 898; donde l'obiettiva
ricorrenza  dei  presupposti  per  la  declaratoria di illegittimita'
conseguenziale    dell'art. 30-bis    c.p.c.    anche   relativamente
all'ipotesi  da ultimo considerata, ai sensi dell'art. 27 della legge
11 marzo 1953 n. 87.
    Non  possono,  invero,  neppure nascondersi le evidenti simmetrie
logico-giuridiche  fra  i  casi  di  domanda  congiunta di divorzio e
quelli  di  domanda  congiunta  sia di omologazione della separazione
consensuale (art. 711 c.p.c.), sia di modifica delle condizioni della
separazione  o  del divorzio, consensuali o giudiziali (artt. 710-711
c.p.c.  e 9 legge 1° dicembre 1970 n. 898), se e' vero che proprio la
Corte  costituzionale, sia pure ad altri fini, ha in passato messo in
evidenza    «il    parallelismo,    le   profonde   analogie   e   la
complementarieta'  funzionale»  delle  procedure  di separazione e di
divorzio, esaltati dallo stesso legislatore con l'art. 23 della legge
n. 74  del  1987 (sentenza 15.4.1992 n. 176; negli stessi sensi e' la
sentenza   9   novembre   1992   n. 416);   ragione   per   la  quale
l'illegittimita'  dell'art. 30-bis  c.p.c. puo' prospettarsi anche in
relazione ai suddetti «altri» casi di domanda congiunta.
    Sennonche',  trattandosi  di  fattispecie  processuali diverse da
quella   oggetto   del   giudizio   a  quo,  ogni  valutazione  circa
l'esercitabilita'  in  concreto  dei  poteri di cui al citato art. 27
legge n. 87/1953 spetta esclusivamente al Giudice delle leggi.