IL MAGISTRATO Visti gli atti del procedimento avente ad oggetto l'espulsione a titolo di sanzione alternativa alla detenzione ai sensi dell'art. 16, quinto comma, decreto-legge 25 luglio 1998, n. 286, modificato dall'art. 15, legge 30 luglio 2002, n. 189, relativo a Massoudi Hassan, nato in Marocco il 17 settembre 1979, attualmente detenuto presso la Casa circondariale di Reggio Emilia, in espiazione della pena di anni sei di reclusione, di cui a sentenza emessa dal g.i.p. presso il Tribunale di Milano per violazione degli artt. 73 del d.P.R. n. 309, 9 ottobre 1990, 337, 582, 585 c.p.; in data 28 marzo 2000; O s s e r v a Dalle informazioni acquisite si rileva la sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 16, quinto comma, T.U., citato, atteso che il detenuto deve espiare pena residua inferiore a due anni (fine pena al 21 febbraio 2005), che non consegue a condanna per delitto richiamato dall'art. 407, comma secondo, lettera a) c.p.p. Il medesimo e' stato correttamente identificato, come si evince da informative della Questura di Bologna del 12 marzo 2003, e sussistono i presupposti di cui all'art. 13, secondo comma, lettera a), decreto-legge 25 luglio 1998, n. 286, poiche' gli e' stato revocato, con decreto del Questore di Bologna del 7 gennaio 2000, il permesso di soggiorno di cui era titolare. Dalle informazioni acquisite non emergono inoltre elementi relativi ad alcuna delle condizioni richiamate dall'art. 19 decreto-legge 25 luglio 1998, n. 286. Dalle relazioni dell'equipe preposta al trattamento penitenziario presso la Casa circondariale di Reggio Emilia emerge d'altra parte che il detenuto ha sempre mantenuto buona condotta inframurale, ha partecipato all'opera rieducativa, frequentando numerosi corsi scolastici e di formazione professionale, conseguendo apprezzamenti da parte degli insegnanti, ed ha fruito con regolarita' dei permessi premio concessi ai sensi dell'art. 30-ter legge 26 luglio 1975, n. 354, presso la cooperativa sociale «La Speranza» di Reggio Emilia. Gli educatori preposti all'osservazione personologica attestano correttezza nei rapporti con gli operatori, disponibilita' al colloquio, buona revisione critica del reato, atteggiamento propositivo con intendimenti di recupero e ravvedimento, idonei riferimenti familiari esterni. La Questura di Bologna con nota del 30 ottobre 2002 comunica inoltre che «non emergono elementi che lo facciano ritenere, al momento, persona di particolare pericolosita' sociale». Il Tribunale di sorveglianza di Bologna con ordinanza del 4 febbraio 2003 ha ammesso il detenuto alla fruizione della misura alternativa della semiliberta', rilevando che «il detenuto ha idonei riferimenti sul territorio nazionale, essendo in Italia dal 1996, con adeguata sistemazione alloggiativa e regolare lavoro, per cui il reato commesso, rispetto al quale gli operatori evidenziano buona revisione critica e ravvedimento, presenta carattere di occasionalita' e non e' indice di particolare propensione al delitto». Anche nel periodo successivo all'inizio della misura (piano di trattamento approvato il 12 febbraio 2003), il percorso rieducativo sta procedendo positivamente e pertanto puo' ritenersi che, proseguendo l'opera rieducativa, siano presenti le condizioni per un corretto recupero sociale della persona e per la formulazione di un giudizio prognostico favorevole sulla sua condotta futura. Per contro, in ipotesi di subitanea interruzione del trattamento rieducativo e di immediata scarcerazione ed espulsione del detenuto, deve ritenersi che sussista un concreto pericolo di recidiva, poiche' il condannato al rientro nel Paese d'origine troverebbe condizioni soggettive (per la carenza di idonei riferimenti lavorativi e familiari dopo un'assenza protrattasi per oltre sette anni) ed oggettive (connesse alla situazione economica della famiglia e del Paese) tali da favorire il reiterarsi di condotte antigiuridiche. Va detto inoltre che il rischio di recidiva rileva anche per l'ordinamento interno atteso che sulla base di un'attendibile massima d'esperienza, dedotta da un'analisi anche sommaria del fenomeno migratorio, deve ritenersi concreto il pericolo che il condannato dopo l'espulsione faccia rientro in condizione di clandestinita' nel territorio nazionale o d'altro Paese aderente all'Unione europea. Pur rilevata tale situazione di fatto, il magistrato di sorveglianza e' nella specie comunque obbligato a disporre la scarcerazione e l'espulsione del detenuto. L'ammissione del medesimo alla semiliberta' per giurisprudenza costante non modifica la qualificazione soggettiva di detenuto e non preclude l'applicazione della normativa. Il dato letterale contenuto nell'art. 16 del T.U. non lascia inoltre spazio, ad avviso di questo giudice, a diversi esiti ermeneutici atteso che al primo comma e' previsto un margine di discrezionalita' per il giudice del processo («il giudice ... puo' sostituire la pena con la misura dell'espulsione») mentre al quinto comma e' precluso al giudice di sorveglianza, verificati i presupposti formali, ogni sindacato di merito («nei confronti dello straniero ... e' disposta l'espulsione»); Ritiene tuttavia questo giudice che, per i motivi che di seguito si esporranno, sia fondato il dubbio di illegittimita' costituzionale della norma citata con riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma, 27, terzo comma, 97, 101, secondo comma, 102, primo comma, 111, secondo comma, della Costituzione, avuto particolare riguardo al principio di ragionevolezza che limita nella materia la discrezionalita' legislativa. Ritiene inoltre che per le ragioni sopra menzionate la questione di legittimita' della norma sia rilevante ai fini della decisione. 1. - Deve rilevarsi in via preliminare la natura giurisdizionale e non amministrativa del procedimento previsto dall'art. 16, quinto comma, del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, cosi' come modificato dall'art. 15 della legge n. 189 del 2002 (di seguito indicato come «art. 16, quinto comma, T.U.») e la conseguente possibilita' di eccepire in questa sede l'illegittimita' costituzionale della norma. L'estrema semplificazione del procedimento avanti al giudice non comporta infatti una diversa qualificazione attesa l'incidenza della decisione sulla liberta' personale. La procedura de plano d'altra parte e' stata gia' prevista per altri provvedimenti del giudice di sorveglianza, ad esempio in materia di permessi premio, dei quali la Corte costituzionale ha riconosciuto la giurisdizionalita' sull'assunto dell'incidenza sulle modalita' della pena, argomento che vale a fortiori quando come nella specie si ha incidenza sul quantum di pena in concreto eseguibile. La previsione di una procedura semplificata non rappresenta un tratto peculiare dell'istituto poiche' si inserisce nella tendenza dell'ordinamento penitenziario, accentuatasi negli ultimi anni, ad attribuire al giudice di sorveglianza quale organo monocratico il potere di emettere provvedimenti giurisdizionali interlocutori o in prima istanza (come accade per la detenzione domiciliare, la semiliberta' e l'affidamento in prova al servizio sociale con le potesta' introdotte dalla legge 27 maggio 1998, n. 165, ed anche per la liberazione anticipata in seguito alla recente riforma di cui alla legge 19 dicembre 2002, n. 277). Deve inoltre rammentarsi, a fugare ogni dubbio residuo, che la norma modifica l'art. 16 del testo unico, che prevede misure giurisdizionali, e non l'art. 13, che disciplina l'espulsione amministrativa. 2. - Come noto, la Corte costituzionale con sentenza n. 62 del 1994, ebbe a vagliare la legittimita' dell'ipotesi, per certi versi analoga, dell'espulsione di detenuti in esecuzione penale attribuita al giudice dell'esecuzione dall'art. 7, comma 12-bis e ter, della legge 28 febbraio 1990, n. 39, cosi' come modificata dalla legge 12 agosto 1993, n. 296. La Corte, riconoscendo allora all'istituto natura giuridica di sospensione dell'esecuzione penale, osservava come non potesse configurarsi nella specie una lesione diretta del principio di rieducazione previsto dall'art. 27, terza comma, Cost. poiche' tale principio concerne il trattamento penitenziario in quanto applicato e non viene direttamente in questione quando tale trattamento e' sospeso. La Corte nella stessa sentenza affermava inoltre che in materia di soggiorno ed espulsione degli stranieri la ponderazione dei diversi interessi pubblici in gioco «spetta in via primaria al legislatore primario, il quale possiede in materia un'ampia discrezionalita', limitata sotto il profilo della conformita' a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli». Dunque, pur affermando che in caso di sospensione della pena non si ha incidenza diretta sul principio di rieducazione, la Corte costituzionale sottolineava la necessita' di valutare in materia di espulsione la conformita' delle norme al principio di ragionevolezza, che funge da limite alla discrezionalita' legislativa. Tali principi sono stati ribaditi dalla stessa Corte con la sentenza n. 283 del 1994 ove si affermava che l'istituto dell'espulsione «proprio perche' produce l'effetto di sospendere la pena, implica un'interferenza su quest'ultima e, conseguentemente, sull'adempimento delle funzioni connesse all'applicazione del trattamento penitenziario». Ne consegue che la legittimita' delle norme in materia di espulsione deve essere valutata «con riguardo alla non manifesta irragionevolezza della scelta discrezionale con la quale il legislatore ha introdotto gli istituti nell'ordinamento penale». Nel valutare l'istituto dell'espulsione attribuita al giudice dell'esecuzione dalla legge n. 39 del 1990, modificata nel 1993, la Corte nella sentenza n. 64 del 1994 osservo' che tale limite della non manifesta irragionevolezza non risultava violato per tre ordini di motivi. La norma subordinava innanzitutto l'espulsione alla circostanza che la pena espianda non fosse superiore ai tre anni, cosi' da potersi dedurre che la pena abbia gia' raggiunte le finalita' sue proprie, sulla base «di una non irragionevole presunzione del legislatore». Inoltre la norma conferiva al giudice un sindacato discrezionale poiche' «non impone inderogabilmente al giudice competente - cioe' al giudice che procede se si tratta di imputato, o al giudice dell'esecuzione, se si tratta di condannato - di ordinare l'espulsione ma gli attribuisce il potere di decidere acquisite le informazioni degli organi di polizia, accertato il possesso del passaporto o di documento equipollente, sentito il pubblico ministero e le altre parti». Infine, la norma subordinava l'espulsione al consenso dell'interessato cosi' da «armonizzare la condizione dello straniero ai valori costituzionali». La sussistenza di tali tre condizioni (limite di pena, discrezionalita' del giudice e consenso del detenuto) consentiva dunque alla Corte di concludere nel senso che «il complesso degli elementi ora ricordati induce a ritenere non arbitraria, ne' palesemente irragionevole la scelta del legislatore». Da una lettura anche sommaria della norma introdotta dall'art. 16, quinto comma, T.U. come modificato dalla legge n. 189 del 2002, si evince per contro come dei tre parametri invocati dalla Corte costituzionale, soltanto il primo (relativo all'indicazione di un limite di pena) e' stato recepito dal legislatore, mentre manca qualsiasi riferimento tanto alla necessita' di una valutazione del giudice che al consenso dell'interessato. Per conseguenza, e' lecito dubitare della conformita' dell'istituto al principio di ragionevolezza richiamato dalla Corte. 3. - Tale dubbio di legittimita' costituzionale che deriva dal mancato accoglimento delle condizioni indicate dalla stessa Corte costituzionale, risulta ulteriormente rafforzato con riguardo all'istituto previsto dall'art. 16, quinto comma, T.U., in conseguenza dell'attribuzione al giudice di sorveglianza anziche' al giudice dell'esecuzione. Ad avviso di questo giudice l'assegnazione della competenza al magistrato di sorveglianza ed il nomen iuris («sanzione alternativa alla detenzione») inducono a ritenere che l'istituto sia senz'altro da ascrivere al novero delle misure alternative alla detenzione. Non vale in senso contrario il richiamo ad alcune peculiarita' dell'istituto, quali la mancanza di consenso della persona od il presupposto della persistente pericolosita' sociale del condannato anziche' della sua ridotta pericolosita', atteso che anche altre misure alternative richiedono requisiti analoghi (si veda in particolare la detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma primo-ter, legge 26 luglio 1975, n. 354). Sussistendo un interesse dello Stato, fatta espiare una prima parte di pena a titolo retributivo e di prevenzione generale, a non eseguire una costosa sanzione in una situazione di allarmante sovraffollamento carcerario, il legislatore del 2002 ha inteso introdurre per i detenuti stranieri privi di riferimenti sul territorio italiano, una misura alternativa deflativa analoga alla detenzione domiciliare ex art 47-ter, comma primo-bis, legge 26 luglio 1975, n. 354, gia' prevista con la riforma del 1998. Si deve escludere, infatti, che la misura persegua altre finalita' ed in particolare che sia diretta ad assicurare l'espulsione dei condannati non provenienti da Paesi aderenti all'U.E., atteso che nell'attuale quadro normativo tali finalita' di prevenzione speciale sono interamente soddisfatte dall'espulsione amministrativa a fine pena (gia' assicurata con l'art. 13 del Testo Unico del 1998) e non giustificano la scarcerazione anticipata del condannato. Quando necessario, l'effettiva esecuzione dell'espulsione puo' essere garantita con il temporaneo trasferimento del detenuto alla scadenza della pena nei centri di permanenza temporanea, sino alla compiuta identificazione od al reperimento del mezzo necessario al rimpatrio ed infatti l'impianto normativo diretto a raggiungere lo scopo di espellere i condannati e' stato consolidato con altre innovazioni normative introdotte nel Testo Unico dalla legge n. 189 del 2002, tra le quali assumono rilievo l'art. 15, comma 1-bis, che prevede l'obbligo di comunicazione al questore delle sentenze definitive «al fine di avviare la procedura di identificazione dello straniero e consentire, in presenza dei requisiti di legge, l'esecuzione dell'espulsione dopo la cessazione del periodo di detenzione» e l'estensione del periodo di restrizione nei centri di permanenza temporanea di cui all'art. 14, quinto comma. Vertendosi in materia di misure alternative alla detenzione, con funzione deflativa, dovrebbe ritenersi allora di tutta evidenza la necessita' di uniformarne la disciplina ai principi costituzionali sull'esecuzione penale. Deve essere sottolineato, comunque, che anche qualora si voglia attribuire alla misura de quo natura atipica di sospensione della pena, non puo' revocarsi in dubbio che l'attribuzione al magistrato di sorveglianza impone di valutarne la conformita' al principio della non manifesta irragionevolezza richiamato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 64 e 283 del 1994 avendo particolare riguardo alla funzione del magistrato di sorveglianza ed alla compatibilita' con il sistema delle misure previste in materia di trattamento rieducativo. 4. - La questione di legittimita' costituzionale, ad avviso di questo giudice, investe la norma in esame innanzitutto nella parte in cui - unico caso in materia penitenziaria - non prevede l'obbligo per il giudice che la applica di valutare nel merito le circostanze di fatto, il percorso trattamentale compiuto dal detenuto e l'efficacia in concreto della misura rispetto alle finalita' della pena. Ad avviso di questo giudice deve ritenersi che la previsione di una misura «automatica», che preclude al giudice di sorveglianza tale valutazione in concreto dell'idoneita' della misura al perseguimento delle finalita' rieducative e special-preventive della pena, si pone in radicale contrasto con i principi costituziona1i sanciti dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Il principio di rieducazione prescritto dalla Costituzione esige infatti che l'esecuzione penale sia informata al principio di differenziazione del trattamento, che e' stato recepito nell'ordinamento penitenziario, imponendo che la risposta alla criminalita' in sede di esecuzione penale sia modellata sulle diverse esigenze del caso concreto, e cio' non tanto per tutelare i diritti soggettivi del detenuto quanto al fine di raggiungere in concreto l'effettivo abbattimento del rischio di recidiva. Inoltre la norma viola gli artt. 3, 13, secondo comma, della Carta costituzionale nella parte in cui, precludendo una valutazione nel merito da parte del giudice, prescrive che, in materia di liberta' personale, condizioni personali diverse trovino identica risposta. Nell'ipotesi di straniero clandestino o irregolare e' preclusa ogni valutazione della sua pericolosita' residua. Previo accertamento della sussistenza dei presupposti formali per l'applicazione della norma, l'art. 16, quinto comma, T.U. prescrive sempre la sua scarcerazione ed espulsione senza che al giudice sia dato valutare se residui un'elevata pericolosita'. Anche in presenza di allarmanti informazioni di polizia acquisite agli atti o di numerosi precedenti penali per reati anche di notevolissimo allarme sociale il giudice e' obbligato ad applicare la misura deflativa. Si pensi a soggetto in espiazione di reato minore, ma che abbia commesso in passato delitti anche gravissimi, ad esempio in materia di violazione della liberta' sessuale, e che pertanto necessiti ancora di trattamento rieducativo (terapia psichiatrica, trattamento farmacologico ecc. ...). Si consideri ancora l'ipotesi di detenuto straniero ristretto per reati minori per il quale le autorita' di pubblica sicurezza rappresentino i collegamenti con la criminalita' organizzata od il terrorismo internazionale e per il quale, dunque, la misura dell'espulsione manca di qualsiasi efficacia preventiva. Il giudice e' obbligato comunque a procedere alla sua scarcerazione pur in presenza di un'alta probabilita' di recidiva, dell'elevato rischio di rientro in Italia in condizioni di clandestinita' o di reiterazione di reati all'estero (rispetto al quale non puo' assumersi un atteggiamento di assoluta indifferenza da parte dell'ordinamento italiano). Ed ancora, e' preclusa ogni valutazione dell'efficacia preventiva della misura nell'ipotesi in cui il detenuto risulti agli atti condannato anche per gravissimi delitti con sentenza non definitiva, scarcerato per decorrenza termini, atteso che l'art. 16 non richiama neppure gli artt. 13, terzo comma, e seguenti che dispongono l'acquisizione del nulla osta dell'autorita' giudiziaria procedente, che non puo' essere concesso per gravi delitti (come e' ovvio, la natura di misura giurisdizionale esclude infatti che possano ritenersi direttamente applicabili, se non espressamente richiamate dalla legge, le disposizioni previste in materia di espulsioni amministrative). La mancata previsione di un apprezzamento delle concrete condizioni di fatto, preclude al giudice anche la valutazione delle ipotesi in cui, per altro verso, il detenuto prima dell'entrata in vigore della legge o comunque nella parte di pena precedente i due ultimi anni di pena abbia maturato condizioni soggettive ed oggettive tali da consentire una prognosi favorevole di recupero sociale. In tali casi l'applicazione della misura prevista dall'art. 16, quinto comma, T.U. impedisce la realizzazione del trattamento rieducativo e del corretto recupero della persona ed espone anzi il soggetto ad un maggiore rischio di ricaduta (che, va detto ancora una volta, non concerne soltanto il pur rilevante pericolo di commissione di delitti all'estero, ma anche il concreto e probabile rischio di rientro in Italia in condizioni di clandestinita', con correlato alto pericolo di recidiva). Ne consegue che, irragionevolmente, la norma preclude al giudice il perseguimento di quelle finalita' di prevenzione speciale e tutela dell'ordine pubblico, cui si vorrebbe diretta la riforma de quo. 5. - Il contrasto di tale misura «obbligatoria» con le esigenze di ragionevolezza indicate dalla Corte costituzionale sono di tutta evidenza avuto riguardo al grave stravolgimento che essa comporta per l'intero sistema del trattamento rieducativo e delle misure alternative. La previsione di una misura a carattere automatico non consente infatti di calibrare l'intervento dell'istituzione penitenziaria sull'effettiva valutazione delle chances di recupero sociale della persona ed introduce elementi assolutamente arbitrari nella definizione dei percorsi trattamentali. Basti pensare che la norma impone al giudice di interrompere il percorso rieducativo procedendo all'obbligatoria espulsione dei detenuti con pena residua breve che abbiano commesso reati meno gravi, mentre consente l'ammissione agli istituti rieducativi dei detenuti ristretti per reati piu' gravi. Nel caso ad esempio di due detenuti condannati con la stessa sentenza per violazione della legge sugli stupefacenti, l'uno per la fattispecie semplice e l'altro per la fattispecie aggravata dello spaccio di ingente quantitativo, soltanto quest'ultimo continuera' a fruire di permessi premio o potra' essere ammesso all'affidamento in prova al servizio sociale, mentre per l'altro e' preclusa ogni valutazione del giudice. Nel caso di soggetti condannati in correita' per lo stesso fatto, di cui uno soltanto identificato, questi dovra' essere obbligatoriamente espulso dal giudice di sorveglianza, mentre il correo non identificato, per cui e' piu' arduo definire un percorso di recupero sociale, potra' continuare a fruire di permessi premio od essere ammesso all'affidamento in prova al servizio sociale. Ne consegue in questi casi addirittura un incentivo del legislatore alla permanenza in condizioni di clandestinita' e di non identificazione: a causa della «obbligatorieta» dell'espulsione introdotta dall'art. 16, quinto comma, T.U., il detenuto che voglia perseguire un progetto di recupero sociale non ha infatti interesse a consentire la sua corretta identificazione atteso che l'accertamento della sua identita' comporta necessariamente l'interruzione di ogni percorso riabilitativo. Ma la manifesta irragionevolezza del sistema e' vieppiu' confermata ove si ponga mente al fatto che dinnanzi al medesimo detenuto cio' che e' obbligatorio per il giudice di sorveglianza, non lo e' per il tribunale di sorveglianza. Accade pertanto, ad esempio, che il tribunale di sorveglianza sulla base della valutazione del percorso rieducativo possa valutare, come nel caso di specie, un detenuto meritevole della semiliberta' e che contemporaneamente il giudice di sorveglianza pur preso atto di tale valutazione sia obbligato a disporne l'espulsione. Cosi' come puo' accadere che il giudice di sorveglianza possa ritenere il detenuto estremamente pericoloso, negandogli l'accesso persino ai permessi premio, e nello stesso momento con l'altra mano ne debba disporre obbligatoriamente la scarcerazione ed espulsione. Ne risulta completamente stravolto, con riferimento alla categoria dei detenuti provenienti da Paesi non aderenti all'U.E. (che, si badi, rappresentano oltre un terzo della popolazione detenuta), il sistema delle misure alternative alla detenzione. L'art. 16, quinto comma, T.U. a cagione del suo carattere automatico non ha introdotto, come e' accaduto con la detenzione domiciliare di cui all'art. 47-ter, comma primo-bis, legge 26 luglio 1975, n. 354, un nuovo strumento deflativo, utilizzabile con discrezione dalla magistratura di sorveglianza nell'ambito dei suoi poteri, ma una deroga generalizzata all'art. 27, terzo comma, della Costituzione. A causa della mancata previsione di una valutazione nel merito delle condizioni personali del detenuto, la deflazione della legge n. 189 del 2002 ha sempre e comunque il sopravvento sulla rieducazione prevista dall'ordinamento penitenziario in applicazione dell'art. 27, terzo comma, Cost. Cio' determina la necessita', imposta dalla Costituzione agli artt. 3, 13, secondo comma, 27, terzo comma, 97, di introdurre anche al quinto comma dell'art. 16 T.U. il principio di discrezionalita' gia' previsto al primo comma, demandando alla valutazione del giudice, come accade per tutte le altre misure alternative alla detenzione, il contemperamento in concreto delle finalita' deflative con le finalita' di tutela dell'ordine pubblico e di rieducazione del reo. L'apprezzamento da parte del giudice delle condizioni oggettive e soggettive consentirebbe di armonizzare la norma con i principi costituzionali e con il sistema del trattamento rieducativo, atteso che peraltro, in ossequio ai principi sul giudicato nella materia della sorveglianza che prescrivono che le deliberazioni siano sempre adottate rebus sic stantibus, l'eventuale decisione di non espellere il detenuto non pregiudica comunque che la stessa possa essere rivista all'emergere di successivi elementi negativi nel corso del trattamento. 6. - La radicale limitazione della discrezionalita' del giudice si pone inoltre, ad avviso di questo giudice, in contrasto con i principi di cui agli artt. 101, secondo comma, 102 della Costituzione. Ovviamente, l'ordinamento penitenziario conosce gia' altri vincoli insuperabili per il giudice di sorveglianza, quali i termini di legge per l'accesso alle misure alternative o alcuni dei limiti introdotti con le note riforme del 1991 e 1992. E' pero' appena il caso di rammentare che tali limiti non configurano mai eccezioni al principio rieducativo atteso che, la Corte costituzionale, anche con riguardo all'art. 4-bis, primo comma, prima parte, ha dichiarato l'illegittimita' del divieto di applicazione di misure alternative alla detenzione ai condannati per cui la collaborazione e' impossibile, affermando che attraverso la collaborazione, indice di disponibilita' al recupero sociale, l'accesso al trattamento rieducativo resta accessibile al detenuto (principi recepiti dal legislatore con la recente riforma dell'art 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354 di cui alla legge 23 dicembre 2002, n. 279). Con l'art. 16, quinto comma T.U., invece, l'accesso al trattamento e' precluso al detenuto soltanto sulla base del titolo di reato commesso e dell'entita' della pena, senza alcuna possibilita' di accertamenti nel merito e non e' chi non veda l'incoerenza della scelta del legislatore che perseguendo meri scopi deflativi ha posto al giudice vincoli inderogabili che non aveva previsto neppure ove era in gioco la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblici. Gli altri vincoli posti al giudice di sorveglianza dall'ordinamento penitenziario non precludono inoltre al giudice lo svolgimento delle funzioni attribuite dalla legge poiche' esigendo un primo periodo di osservazione e trattamento inframurale commisurato alla gravita' del reato, l'acquisizione di informazioni di polizia ed alcuni divieti in seguito a revoche di misure alternative o fallimenti del percorso trattamentali, fungono semmai da indirizzo e criteri regolatori nell'esercizio delle funzioni. Diversa e' invece la situazione con riferimento all'istituto in esame, atteso che il vincolo posto al giudice, limitando il sindacato del giudice alla sola valutazione di presupposti formali, preclude di fatto l'esercizio delle funzioni giurisdizionali conferite alla magistratura di sorveglianza secondo il dettato dell'art. 102, 27, terzo comma della Costituzione. Il contrasto tra i vincoli posti all'esercizio della funzione giurisdizionale, la ratio della norma e le finalita' della funzione esercitata dalla magistratura di sorveglianza in ossequio al principio del trattamento rieducativo e' tale che nella specie la funzione giurisdizionale e' svilita a mero esercizio di potesta' amministrative. In particolare deve ritenersi che la norma, non consentendo al giudice un sindacato nel merito, impone al medesimo di emettere provvedimenti giurisdizionali incidenti in materia libertatis sulla base della mera verifica della sussistenza di un requisito amministrativo con menomazione del principio di sottoposizione del giudice solo alla legge di cui all'art. 101, secondo comma, della Costituzione. Nell'ipotesi, ad esempio, di provvedimento di revoca del permesso di soggiorno emesso dal questore, il legislatore non ha previsto alcun margine di valutazione per l'autorita' giudiziaria, che risulta vincolata alla decisione assunta dall'autorita' amministrativa di polizia, mentre quest'ultima conserva invece, anche in seguito alla riforma del 2002, un margine di valutazione discrezionale delle condizioni personali del condannato a prescindere dalla natura giuridica del fatto (l'art. 4 del T.U., riformato nel 2002, pur escludendo l'ingresso nel territorio per i condannati per delitti considerati gravi, ex art. 380 c.p.p. ecc..., non preclude infatti alle questure, quando il soggetto non sia ritenuto pericoloso, la proroga del permesso di soggiorno e, secondo l'interpretazione piu' diffusa, neppure la concessione di un nuovo permesso di soggiorno quando il condannato non ne abbia richiesto il rinnovo per forza maggiore a causa del protrarsi dello stato detentivo). 7. - Deve ritenersi infine che la norma de qua ponga dubbi di legittimita' costituzionale anche sotto altro e diverso profilo. L'art. 16, quinto comma, T.U. si limita a prevedere infatti la facolta' del solo condannato di proporre opposizione al decreto di espulsione e pare di tutta evidenza che il principio del contraddittorio in posizione di parita' delle parti, prescritto dall'art. 111 della Costituzione e' contraddetto dalla previsione della facolta' di opposizione soltanto in capo al detenuto e non anche per il p.m. Peraltro il problema si pone non soltanto in ipotesi di espulsione (con interesse del p.m. ad impugnare se ritiene che il soggetto non doveva essere espulso) ma anche per il caso di provvedimento di non espulsione, che potrebbe formare oggetto di doglianza tanto per il p.m. che per l'interessato. Non puo' tacersi della possibilita' di derivare tale facolta' di impugnazione anche in capo al pubblico ministero in sede interpretativa, desumendola dalla natura giurisdizionale del procedimento (ed infatti questo giudice ha introdotto la prassi di notificare tanto i provvedimenti di espulsione che di non espulsione alla Procura presso il tribunale di Reggio Emilia, competente per i provvedimenti dell'ufficio). Ma atteso che anche successivamente all'entrata in vigore della legge n. 189 del 2002, il legislatore ove ha inteso attribuire tale competenza al p.m. ha espressamente previsto una diversa disciplina (ad es. in materia di liberazione anticipata, ove e' prescritta l'acquisizione di un preventivo parere del p.m., e la successiva facolta' di reclamo al tribunale di sorveglianza), non pare che si possa fugare un dubbio di legittimita'. In punto di rilevanza si osserva l'impossibilita' di attivare il controllo di legittimita' in altra sede, apparendo il momento della decisione del magistrato di sorveglianza il limite estremo entro il quale e' possibile rilevare tale lesione delle prerogative giurisdizionali del p.m. 8. - Infine, ulteriore e distinto motivo di doglianza in ordine alla norma ha riguardo alla legittimita', con riguardo all'art. 24 della Costituzione, della previsione di una procedura de plano senza notifica del provvedimento al difensore, che non e' dunque in grado di contribuire alla presentazione dell'opposizione avanti al tribunale di sorveglianza. Ancora una volta, non pare che possa essere fugato ogni dubbio in sede interpretativa atteso che diversa e' ad esempio la disciplina in materia di liberazione anticipata, che richiama espressamente l'obbligo di notifica alle parti di cui all'art. 127 c.p.p. Per tali ragioni gli atti devono essere trasmessi alla Corte costituzionale ed il procedimento deve essere sospeso;