IL MAGISTRATO

    Visti  gli atti del procedimento avente ad oggetto l'espulsione a
titolo di sanzione alternativa alla detenzione ai sensi dell'art. 16,
quinto   comma,  decreto-legge  25 luglio  1998,  n. 286,  modificato
dall'art. 15,  legge  30 luglio  2002,  n. 189,  relativo  a Massoudi
Hassan,  nato  in  Marocco il 17 settembre 1979, attualmente detenuto
presso  la  Casa  circondariale di Reggio Emilia, in espiazione della
pena  di  anni sei di reclusione, di cui a sentenza emessa dal g.i.p.
presso  il  Tribunale  di  Milano  per  violazione degli artt. 73 del
d.P.R.  n. 309,  9 ottobre 1990, 337, 582, 585 c.p.; in data 28 marzo
2000;

                            O s s e r v a

    Dalle   informazioni  acquisite  si  rileva  la  sussistenza  dei
presupposti  per  l'applicazione  dell'art. 16,  quinto  comma, T.U.,
citato,  atteso che il detenuto deve espiare pena residua inferiore a
due anni (fine pena al 21 febbraio 2005), che non consegue a condanna
per  delitto  richiamato  dall'art. 407,  comma  secondo,  lettera a)
c.p.p.  Il  medesimo  e'  stato  correttamente  identificato, come si
evince  da informative della Questura di Bologna del 12 marzo 2003, e
sussistono  i  presupposti di cui all'art. 13, secondo comma, lettera
a),  decreto-legge  25 luglio  1998,  n. 286,  poiche'  gli  e' stato
revocato,  con decreto del Questore di Bologna del 7 gennaio 2000, il
permesso  di  soggiorno  di  cui  era  titolare.  Dalle  informazioni
acquisite  non  emergono  inoltre  elementi  relativi ad alcuna delle
condizioni  richiamate  dall'art. 19  decreto-legge  25 luglio  1998,
n. 286.
    Dalle relazioni dell'equipe preposta al trattamento penitenziario
presso  la  Casa  circondariale di Reggio Emilia emerge d'altra parte
che  il  detenuto  ha sempre mantenuto buona condotta inframurale, ha
partecipato   all'opera   rieducativa,  frequentando  numerosi  corsi
scolastici  e  di formazione professionale, conseguendo apprezzamenti
da  parte degli insegnanti, ed ha fruito con regolarita' dei permessi
premio  concessi  ai  sensi  dell'art. 30-ter  legge  26 luglio 1975,
n. 354, presso la cooperativa sociale «La Speranza» di Reggio Emilia.
Gli   educatori  preposti  all'osservazione  personologica  attestano
correttezza   nei  rapporti  con  gli  operatori,  disponibilita'  al
colloquio,   buona   revisione   critica   del  reato,  atteggiamento
propositivo  con  intendimenti  di  recupero  e  ravvedimento, idonei
riferimenti  familiari  esterni.  La Questura di Bologna con nota del
30 ottobre  2002  comunica  inoltre che «non emergono elementi che lo
facciano  ritenere,  al momento, persona di particolare pericolosita'
sociale».  Il  Tribunale di sorveglianza di Bologna con ordinanza del
4 febbraio  2003  ha  ammesso il detenuto alla fruizione della misura
alternativa  della semiliberta', rilevando che «il detenuto ha idonei
riferimenti sul territorio nazionale, essendo in Italia dal 1996, con
adeguata  sistemazione  alloggiativa  e  regolare  lavoro, per cui il
reato  commesso,  rispetto  al  quale gli operatori evidenziano buona
revisione    critica    e   ravvedimento,   presenta   carattere   di
occasionalita'   e  non  e'  indice  di  particolare  propensione  al
delitto». Anche nel periodo successivo all'inizio della misura (piano
di   trattamento   approvato   il   12 febbraio  2003),  il  percorso
rieducativo  sta  procedendo  positivamente e pertanto puo' ritenersi
che,  proseguendo  l'opera  rieducativa, siano presenti le condizioni
per  un corretto recupero sociale della persona e per la formulazione
di un giudizio prognostico favorevole sulla sua condotta futura.
    Per  contro, in ipotesi di subitanea interruzione del trattamento
rieducativo  e di immediata scarcerazione ed espulsione del detenuto,
deve ritenersi che sussista un concreto pericolo di recidiva, poiche'
il  condannato  al  rientro nel Paese d'origine troverebbe condizioni
soggettive  (per  la  carenza  di  idonei  riferimenti  lavorativi  e
familiari  dopo  un'assenza  protrattasi  per  oltre  sette  anni) ed
oggettive  (connesse  alla  situazione economica della famiglia e del
Paese)  tali da favorire il reiterarsi di condotte antigiuridiche. Va
detto   inoltre   che   il  rischio  di  recidiva  rileva  anche  per
l'ordinamento interno atteso che sulla base di un'attendibile massima
d'esperienza,  dedotta  da  un'analisi  anche  sommaria  del fenomeno
migratorio,  deve  ritenersi  concreto  il pericolo che il condannato
dopo  l'espulsione faccia rientro in condizione di clandestinita' nel
territorio nazionale o d'altro Paese aderente all'Unione europea.
    Pur   rilevata   tale  situazione  di  fatto,  il  magistrato  di
sorveglianza  e'  nella  specie  comunque  obbligato  a  disporre  la
scarcerazione  e l'espulsione del detenuto. L'ammissione del medesimo
alla   semiliberta'  per  giurisprudenza  costante  non  modifica  la
qualificazione  soggettiva  di detenuto e non preclude l'applicazione
della  normativa.  Il  dato letterale contenuto nell'art. 16 del T.U.
non  lascia  inoltre  spazio,  ad avviso di questo giudice, a diversi
esiti ermeneutici atteso che al primo comma e' previsto un margine di
discrezionalita'  per  il  giudice del processo («il giudice ... puo'
sostituire  la  pena con la misura dell'espulsione») mentre al quinto
comma   e'   precluso   al  giudice  di  sorveglianza,  verificati  i
presupposti  formali,  ogni sindacato di merito («nei confronti dello
straniero ... e' disposta l'espulsione»);
    Ritiene  tuttavia questo giudice che, per i motivi che di seguito
si esporranno, sia fondato il dubbio di illegittimita' costituzionale
della  norma  citata con riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma,
27,  terzo  comma,  97,  101,  secondo  comma, 102, primo comma, 111,
secondo  comma,  della  Costituzione,  avuto  particolare riguardo al
principio   di   ragionevolezza   che   limita   nella   materia   la
discrezionalita'  legislativa.  Ritiene  inoltre  che  per le ragioni
sopra  menzionate  la  questione  di  legittimita'  della  norma  sia
rilevante ai fini della decisione.
    1. - Deve  rilevarsi in via preliminare la natura giurisdizionale
e  non  amministrativa del procedimento previsto dall'art. 16, quinto
comma, del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998,
cosi'  come  modificato  dall'art. 15 della legge n. 189 del 2002 (di
seguito indicato come «art. 16, quinto comma, T.U.») e la conseguente
possibilita'    di   eccepire   in   questa   sede   l'illegittimita'
costituzionale    della    norma.   L'estrema   semplificazione   del
procedimento  avanti  al  giudice  non  comporta  infatti una diversa
qualificazione  attesa  l'incidenza  della  decisione  sulla liberta'
personale. La procedura de plano d'altra parte e' stata gia' prevista
per  altri  provvedimenti  del giudice di sorveglianza, ad esempio in
materia  di  permessi  premio,  dei  quali la Corte costituzionale ha
riconosciuto  la giurisdizionalita' sull'assunto dell'incidenza sulle
modalita' della pena, argomento che vale a fortiori quando come nella
specie si ha incidenza sul quantum di pena in concreto eseguibile. La
previsione  di  una  procedura semplificata non rappresenta un tratto
peculiare   dell'istituto   poiche'   si   inserisce  nella  tendenza
dell'ordinamento  penitenziario,  accentuatasi  negli ultimi anni, ad
attribuire  al  giudice  di  sorveglianza quale organo monocratico il
potere  di  emettere provvedimenti giurisdizionali interlocutori o in
prima   istanza  (come  accade  per  la  detenzione  domiciliare,  la
semiliberta'  e  l'affidamento  in  prova  al servizio sociale con le
potesta'  introdotte dalla legge 27 maggio 1998, n. 165, ed anche per
la liberazione anticipata in seguito alla recente riforma di cui alla
legge 19 dicembre 2002, n. 277).
    Deve  inoltre  rammentarsi,  a fugare ogni dubbio residuo, che la
norma   modifica  l'art. 16  del  testo  unico,  che  prevede  misure
giurisdizionali,   e   non  l'art. 13,  che  disciplina  l'espulsione
amministrativa.
    2. - Come  noto,  la  Corte costituzionale con sentenza n. 62 del
1994,  ebbe  a vagliare la legittimita' dell'ipotesi, per certi versi
analoga,  dell'espulsione di detenuti in esecuzione penale attribuita
al  giudice  dell'esecuzione  dall'art. 7,  comma 12-bis e ter, della
legge  28 febbraio  1990,  n. 39,  cosi'  come modificata dalla legge
12 agosto 1993, n. 296.
    La  Corte,  riconoscendo  allora all'istituto natura giuridica di
sospensione   dell'esecuzione  penale,  osservava  come  non  potesse
configurarsi  nella  specie  una  lesione  diretta  del  principio di
rieducazione  previsto  dall'art. 27, terza comma, Cost. poiche' tale
principio concerne il trattamento penitenziario in quanto applicato e
non  viene  direttamente  in  questione  quando  tale  trattamento e'
sospeso.
    La  Corte  nella stessa sentenza affermava inoltre che in materia
di  soggiorno  ed  espulsione  degli  stranieri  la  ponderazione dei
diversi  interessi  pubblici  in  gioco  «spetta  in  via primaria al
legislatore   primario,   il   quale  possiede  in  materia  un'ampia
discrezionalita',  limitata  sotto  il  profilo  della  conformita' a
Costituzione,  soltanto  dal  vincolo che le sue scelte non risultino
manifestamente irragionevoli».
    Dunque,  pur affermando che in caso di sospensione della pena non
si  ha  incidenza  diretta  sul  principio  di rieducazione, la Corte
costituzionale  sottolineava  la necessita' di valutare in materia di
espulsione la conformita' delle norme al principio di ragionevolezza,
che funge da limite alla discrezionalita' legislativa.
    Tali  principi  sono  stati  ribaditi  dalla  stessa Corte con la
sentenza   n. 283   del   1994   ove   si  affermava  che  l'istituto
dell'espulsione  «proprio  perche' produce l'effetto di sospendere la
pena,  implica  un'interferenza  su quest'ultima e, conseguentemente,
sull'adempimento   delle   funzioni   connesse  all'applicazione  del
trattamento  penitenziario».  Ne  consegue  che la legittimita' delle
norme  in  materia  di  espulsione deve essere valutata «con riguardo
alla non manifesta irragionevolezza della scelta discrezionale con la
quale  il  legislatore  ha  introdotto  gli istituti nell'ordinamento
penale».
    Nel  valutare  l'istituto  dell'espulsione  attribuita al giudice
dell'esecuzione  dalla  legge n. 39 del 1990, modificata nel 1993, la
Corte  nella  sentenza  n. 64 del 1994 osservo' che tale limite della
non  manifesta  irragionevolezza non risultava violato per tre ordini
di motivi.
    La  norma  subordinava innanzitutto l'espulsione alla circostanza
che  la  pena  espianda  non  fosse  superiore  ai tre anni, cosi' da
potersi  dedurre  che  la  pena abbia gia' raggiunte le finalita' sue
proprie,  sulla  base  «di  una  non  irragionevole  presunzione  del
legislatore».
    Inoltre  la norma conferiva al giudice un sindacato discrezionale
poiche' «non impone inderogabilmente al giudice competente - cioe' al
giudice   che  procede  se  si  tratta  di  imputato,  o  al  giudice
dell'esecuzione,   se   si   tratta   di  condannato  -  di  ordinare
l'espulsione  ma  gli  attribuisce il potere di decidere acquisite le
informazioni  degli  organi  di  polizia,  accertato  il possesso del
passaporto o di documento equipollente, sentito il pubblico ministero
e le altre parti».
    Infine,   la   norma   subordinava   l'espulsione   al   consenso
dell'interessato  cosi' da «armonizzare la condizione dello straniero
ai valori costituzionali».
    La   sussistenza   di   tali  tre  condizioni  (limite  di  pena,
discrezionalita'  del  giudice  e  consenso  del detenuto) consentiva
dunque  alla  Corte  di  concludere nel senso che «il complesso degli
elementi   ora  ricordati  induce  a  ritenere  non  arbitraria,  ne'
palesemente irragionevole la scelta del legislatore».
    Da   una   lettura   anche   sommaria   della   norma  introdotta
dall'art. 16,  quinto  comma, T.U. come modificato dalla legge n. 189
del  2002, si evince per contro come dei tre parametri invocati dalla
Corte  costituzionale, soltanto il primo (relativo all'indicazione di
un  limite  di  pena) e' stato recepito dal legislatore, mentre manca
qualsiasi  riferimento  tanto  alla necessita' di una valutazione del
giudice che al consenso dell'interessato.
    Per   conseguenza,   e'   lecito   dubitare   della   conformita'
dell'istituto al principio di ragionevolezza richiamato dalla Corte.
    3. - Tale  dubbio  di  legittimita' costituzionale che deriva dal
mancato  accoglimento  delle  condizioni  indicate dalla stessa Corte
costituzionale,   risulta   ulteriormente   rafforzato  con  riguardo
all'istituto   previsto   dall'art. 16,   quinto   comma,   T.U.,  in
conseguenza  dell'attribuzione al giudice di sorveglianza anziche' al
giudice dell'esecuzione.
    Ad  avviso  di  questo giudice l'assegnazione della competenza al
magistrato  di  sorveglianza ed il nomen iuris («sanzione alternativa
alla  detenzione»)  inducono a ritenere che l'istituto sia senz'altro
da  ascrivere al novero delle misure alternative alla detenzione. Non
vale   in   senso   contrario  il  richiamo  ad  alcune  peculiarita'
dell'istituto,  quali  la  mancanza  di  consenso della persona od il
presupposto  della  persistente  pericolosita' sociale del condannato
anziche'  della  sua  ridotta  pericolosita',  atteso che anche altre
misure   alternative   richiedono  requisiti  analoghi  (si  veda  in
particolare la detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma primo-ter,
legge 26 luglio 1975, n. 354).
    Sussistendo  un  interesse  dello  Stato, fatta espiare una prima
parte  di  pena a titolo retributivo e di prevenzione generale, a non
eseguire  una  costosa  sanzione  in  una  situazione  di  allarmante
sovraffollamento  carcerario,  il  legislatore  del  2002  ha  inteso
introdurre   per  i  detenuti  stranieri  privi  di  riferimenti  sul
territorio  italiano,  una  misura alternativa deflativa analoga alla
detenzione   domiciliare   ex  art  47-ter,  comma  primo-bis,  legge
26 luglio 1975, n. 354, gia' prevista con la riforma del 1998.
    Si   deve  escludere,  infatti,  che  la  misura  persegua  altre
finalita'   ed   in   particolare   che  sia  diretta  ad  assicurare
l'espulsione   dei  condannati  non  provenienti  da  Paesi  aderenti
all'U.E.,  atteso che nell'attuale quadro normativo tali finalita' di
prevenzione  speciale  sono  interamente  soddisfatte dall'espulsione
amministrativa  a  fine pena (gia' assicurata con l'art. 13 del Testo
Unico  del  1998)  e non giustificano la scarcerazione anticipata del
condannato. Quando necessario, l'effettiva esecuzione dell'espulsione
puo'  essere  garantita  con il temporaneo trasferimento del detenuto
alla  scadenza  della  pena nei centri di permanenza temporanea, sino
alla  compiuta identificazione od al reperimento del mezzo necessario
al rimpatrio ed infatti l'impianto normativo diretto a raggiungere lo
scopo  di  espellere  i  condannati  e'  stato  consolidato con altre
innovazioni  normative  introdotte nel Testo Unico dalla legge n. 189
del  2002,  tra le quali assumono rilievo l'art. 15, comma 1-bis, che
prevede   l'obbligo  di  comunicazione  al  questore  delle  sentenze
definitive  «al fine di avviare la procedura di identificazione dello
straniero   e   consentire,  in  presenza  dei  requisiti  di  legge,
l'esecuzione  dell'espulsione  dopo  la  cessazione  del  periodo  di
detenzione»  e  l'estensione del periodo di restrizione nei centri di
permanenza temporanea di cui all'art. 14, quinto comma.
    Vertendosi  in materia di misure alternative alla detenzione, con
funzione  deflativa,  dovrebbe  ritenersi allora di tutta evidenza la
necessita'  di  uniformarne  la disciplina ai principi costituzionali
sull'esecuzione penale.
    Deve  essere  sottolineato, comunque, che anche qualora si voglia
attribuire  alla  misura  de  quo natura atipica di sospensione della
pena,  non  puo' revocarsi in dubbio che l'attribuzione al magistrato
di sorveglianza impone di valutarne la conformita' al principio della
non  manifesta irragionevolezza richiamato dalla Corte costituzionale
nelle  sentenze n. 64 e 283 del 1994 avendo particolare riguardo alla
funzione del magistrato di sorveglianza ed alla compatibilita' con il
sistema delle misure previste in materia di trattamento rieducativo.
    4. - La  questione  di  legittimita' costituzionale, ad avviso di
questo giudice, investe la norma in esame innanzitutto nella parte in
cui - unico caso in materia penitenziaria - non prevede l'obbligo per
il  giudice  che  la applica di valutare nel merito le circostanze di
fatto,  il percorso trattamentale compiuto dal detenuto e l'efficacia
in concreto della misura rispetto alle finalita' della pena.
    Ad  avviso  di questo giudice deve ritenersi che la previsione di
una misura «automatica», che preclude al giudice di sorveglianza tale
valutazione  in concreto dell'idoneita' della misura al perseguimento
delle  finalita' rieducative e special-preventive della pena, si pone
in   radicale   contrasto   con  i  principi  costituziona1i  sanciti
dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
    Il  principio di rieducazione prescritto dalla Costituzione esige
infatti  che  l'esecuzione  penale  sia  informata  al  principio  di
differenziazione    del    trattamento,   che   e'   stato   recepito
nell'ordinamento   penitenziario,  imponendo  che  la  risposta  alla
criminalita' in sede di esecuzione penale sia modellata sulle diverse
esigenze  del  caso concreto, e cio' non tanto per tutelare i diritti
soggettivi  del  detenuto  quanto  al fine di raggiungere in concreto
l'effettivo abbattimento del rischio di recidiva.
    Inoltre  la  norma  viola  gli  artt. 3, 13, secondo comma, della
Carta  costituzionale nella parte in cui, precludendo una valutazione
nel  merito  da  parte  del  giudice,  prescrive  che,  in materia di
liberta'  personale,  condizioni  personali  diverse trovino identica
risposta.
    Nell'ipotesi  di  straniero  clandestino o irregolare e' preclusa
ogni valutazione della sua pericolosita' residua. Previo accertamento
della  sussistenza  dei  presupposti formali per l'applicazione della
norma,   l'art. 16,  quinto  comma,  T.U.  prescrive  sempre  la  sua
scarcerazione ed espulsione senza che al giudice sia dato valutare se
residui  un'elevata  pericolosita'.  Anche  in presenza di allarmanti
informazioni  di polizia acquisite agli atti o di numerosi precedenti
penali per reati anche di notevolissimo allarme sociale il giudice e'
obbligato  ad  applicare  la misura deflativa. Si pensi a soggetto in
espiazione  di reato minore, ma che abbia commesso in passato delitti
anche  gravissimi, ad esempio in materia di violazione della liberta'
sessuale,  e che pertanto necessiti ancora di trattamento rieducativo
(terapia   psichiatrica,  trattamento  farmacologico  ecc.  ...).  Si
consideri  ancora l'ipotesi di detenuto straniero ristretto per reati
minori  per il quale le autorita' di pubblica sicurezza rappresentino
i  collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata  od il terrorismo
internazionale  e  per  il  quale,  dunque, la misura dell'espulsione
manca  di  qualsiasi  efficacia  preventiva.  Il giudice e' obbligato
comunque  a  procedere  alla  sua  scarcerazione  pur  in presenza di
un'alta  probabilita' di recidiva, dell'elevato rischio di rientro in
Italia  in  condizioni  di  clandestinita' o di reiterazione di reati
all'estero  (rispetto al quale non puo' assumersi un atteggiamento di
assoluta indifferenza da parte dell'ordinamento italiano). Ed ancora,
e'  preclusa  ogni valutazione dell'efficacia preventiva della misura
nell'ipotesi  in  cui  il detenuto risulti agli atti condannato anche
per  gravissimi  delitti  con sentenza non definitiva, scarcerato per
decorrenza  termini,  atteso  che  l'art. 16 non richiama neppure gli
artt. 13,  terzo  comma, e seguenti che dispongono l'acquisizione del
nulla osta dell'autorita' giudiziaria procedente, che non puo' essere
concesso  per  gravi  delitti  (come  e'  ovvio,  la natura di misura
giurisdizionale  esclude  infatti  che possano ritenersi direttamente
applicabili,   se   non  espressamente  richiamate  dalla  legge,  le
disposizioni previste in materia di espulsioni amministrative).
    La   mancata   previsione  di  un  apprezzamento  delle  concrete
condizioni  di  fatto, preclude al giudice anche la valutazione delle
ipotesi  in  cui,  per altro verso, il detenuto prima dell'entrata in
vigore  della  legge  o comunque nella parte di pena precedente i due
ultimi anni di pena abbia maturato condizioni soggettive ed oggettive
tali  da  consentire  una prognosi favorevole di recupero sociale. In
tali  casi  l'applicazione della misura prevista dall'art. 16, quinto
comma,  T.U. impedisce la realizzazione del trattamento rieducativo e
del  corretto recupero della persona ed espone anzi il soggetto ad un
maggiore  rischio  di  ricaduta  (che, va detto ancora una volta, non
concerne soltanto il pur rilevante pericolo di commissione di delitti
all'estero,  ma  anche  il concreto e probabile rischio di rientro in
Italia  in  condizioni di clandestinita', con correlato alto pericolo
di  recidiva).  Ne consegue che, irragionevolmente, la norma preclude
al  giudice  il  perseguimento  di  quelle  finalita'  di prevenzione
speciale  e  tutela  dell'ordine pubblico, cui si vorrebbe diretta la
riforma de quo.
    5. - Il  contrasto  di tale misura «obbligatoria» con le esigenze
di  ragionevolezza  indicate dalla Corte costituzionale sono di tutta
evidenza avuto riguardo al grave stravolgimento che essa comporta per
l'intero   sistema   del   trattamento  rieducativo  e  delle  misure
alternative.
    La  previsione  di una misura a carattere automatico non consente
infatti  di  calibrare  l'intervento  dell'istituzione  penitenziaria
sull'effettiva  valutazione  delle  chances di recupero sociale della
persona   ed   introduce   elementi   assolutamente  arbitrari  nella
definizione  dei  percorsi  trattamentali. Basti pensare che la norma
impone  al giudice di interrompere il percorso rieducativo procedendo
all'obbligatoria  espulsione  dei detenuti con pena residua breve che
abbiano  commesso reati meno gravi, mentre consente l'ammissione agli
istituti rieducativi dei detenuti ristretti per reati piu' gravi. Nel
caso ad esempio di due detenuti condannati con la stessa sentenza per
violazione  della  legge sugli stupefacenti, l'uno per la fattispecie
semplice  e  l'altro  per  la  fattispecie aggravata dello spaccio di
ingente  quantitativo,  soltanto quest'ultimo continuera' a fruire di
permessi  premio  o potra' essere ammesso all'affidamento in prova al
servizio sociale, mentre per l'altro e' preclusa ogni valutazione del
giudice.  Nel  caso di soggetti condannati in correita' per lo stesso
fatto,  di  cui  uno  soltanto  identificato,  questi  dovra'  essere
obbligatoriamente  espulso  dal  giudice  di  sorveglianza, mentre il
correo  non  identificato, per cui e' piu' arduo definire un percorso
di recupero sociale, potra' continuare a fruire di permessi premio od
essere  ammesso  all'affidamento  in  prova  al  servizio sociale. Ne
consegue in questi casi addirittura un incentivo del legislatore alla
permanenza  in condizioni di clandestinita' e di non identificazione:
a    causa    della   «obbligatorieta»   dell'espulsione   introdotta
dall'art. 16,  quinto  comma, T.U., il detenuto che voglia perseguire
un progetto di recupero sociale non ha infatti interesse a consentire
la  sua  corretta identificazione atteso che l'accertamento della sua
identita'  comporta  necessariamente  l'interruzione di ogni percorso
riabilitativo.
    Ma   la   manifesta  irragionevolezza  del  sistema  e'  vieppiu'
confermata  ove  si  ponga  mente  al  fatto che dinnanzi al medesimo
detenuto cio' che e' obbligatorio per il giudice di sorveglianza, non
lo  e' per il tribunale di sorveglianza. Accade pertanto, ad esempio,
che  il  tribunale  di  sorveglianza sulla base della valutazione del
percorso  rieducativo  possa  valutare,  come  nel caso di specie, un
detenuto  meritevole  della  semiliberta' e che contemporaneamente il
giudice  di  sorveglianza  pur  preso  atto  di  tale valutazione sia
obbligato  a  disporne  l'espulsione. Cosi' come puo' accadere che il
giudice  di  sorveglianza  possa  ritenere  il  detenuto estremamente
pericoloso,  negandogli l'accesso persino ai permessi premio, e nello
stesso  momento  con l'altra mano ne debba disporre obbligatoriamente
la scarcerazione ed espulsione.
    Ne   risulta   completamente   stravolto,  con  riferimento  alla
categoria  dei  detenuti  provenienti  da Paesi non aderenti all'U.E.
(che,  si  badi,  rappresentano  oltre  un  terzo  della  popolazione
detenuta), il sistema delle misure alternative alla detenzione.
    L'art. 16,  quinto  comma,  T.U.  a  cagione  del  suo  carattere
automatico  non  ha  introdotto,  come  e' accaduto con la detenzione
domiciliare  di cui all'art. 47-ter, comma primo-bis, legge 26 luglio
1975,   n. 354,   un  nuovo  strumento  deflativo,  utilizzabile  con
discrezione  dalla  magistratura di sorveglianza nell'ambito dei suoi
poteri,  ma  una deroga generalizzata all'art. 27, terzo comma, della
Costituzione. A causa della mancata previsione di una valutazione nel
merito  delle  condizioni personali del detenuto, la deflazione della
legge  n. 189  del  2002  ha  sempre  e comunque il sopravvento sulla
rieducazione  prevista dall'ordinamento penitenziario in applicazione
dell'art. 27, terzo comma, Cost.
    Cio'  determina  la  necessita',  imposta dalla Costituzione agli
artt. 3,  13, secondo comma, 27, terzo comma, 97, di introdurre anche
al  quinto  comma  dell'art. 16 T.U. il principio di discrezionalita'
gia'  previsto  al  primo  comma,  demandando  alla  valutazione  del
giudice,  come  accade  per  tutte  le  altre misure alternative alla
detenzione,  il contemperamento in concreto delle finalita' deflative
con le finalita' di tutela dell'ordine pubblico e di rieducazione del
reo.
    L'apprezzamento da parte del giudice delle condizioni oggettive e
soggettive  consentirebbe  di  armonizzare  la  norma  con i principi
costituzionali  e  con il sistema del trattamento rieducativo, atteso
che  peraltro,  in  ossequio  ai principi sul giudicato nella materia
della  sorveglianza che prescrivono che le deliberazioni siano sempre
adottate  rebus sic stantibus, l'eventuale decisione di non espellere
il  detenuto  non  pregiudica  comunque  che  la  stessa possa essere
rivista  all'emergere  di  successivi elementi negativi nel corso del
trattamento.
    6. - La  radicale  limitazione della discrezionalita' del giudice
si  pone  inoltre,  ad  avviso  di questo giudice, in contrasto con i
principi   di   cui   agli   artt. 101,   secondo  comma,  102  della
Costituzione.
    Ovviamente,   l'ordinamento   penitenziario  conosce  gia'  altri
vincoli  insuperabili per il giudice di sorveglianza, quali i termini
di  legge  per  l'accesso alle misure alternative o alcuni dei limiti
introdotti con le note riforme del 1991 e 1992.
    E'  pero'  appena  il  caso  di  rammentare  che  tali limiti non
configurano  mai  eccezioni  al  principio rieducativo atteso che, la
Corte costituzionale, anche con riguardo all'art. 4-bis, primo comma,
prima   parte,   ha   dichiarato   l'illegittimita'  del  divieto  di
applicazione  di misure alternative alla detenzione ai condannati per
cui  la  collaborazione  e' impossibile, affermando che attraverso la
collaborazione,   indice   di  disponibilita'  al  recupero  sociale,
l'accesso  al  trattamento  rieducativo resta accessibile al detenuto
(principi  recepiti  dal  legislatore con la recente riforma dell'art
4-bis  legge  26 luglio  1975,  n. 354  di cui alla legge 23 dicembre
2002, n. 279). Con l'art. 16, quinto comma T.U., invece, l'accesso al
trattamento e' precluso al detenuto soltanto sulla base del titolo di
reato  commesso  e dell'entita' della pena, senza alcuna possibilita'
di  accertamenti  nel merito e non e' chi non veda l'incoerenza della
scelta  del legislatore che perseguendo meri scopi deflativi ha posto
al  giudice  vincoli  inderogabili che non aveva previsto neppure ove
era in gioco la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblici.
    Gli    altri   vincoli   posti   al   giudice   di   sorveglianza
dall'ordinamento  penitenziario  non precludono inoltre al giudice lo
svolgimento delle funzioni attribuite dalla legge poiche' esigendo un
primo  periodo  di osservazione e trattamento inframurale commisurato
alla gravita' del reato, l'acquisizione di informazioni di polizia ed
alcuni   divieti  in  seguito  a  revoche  di  misure  alternative  o
fallimenti  del percorso trattamentali, fungono semmai da indirizzo e
criteri regolatori nell'esercizio delle funzioni.
    Diversa  e'  invece la situazione con riferimento all'istituto in
esame, atteso che il vincolo posto al giudice, limitando il sindacato
del giudice alla sola valutazione di presupposti formali, preclude di
fatto  l'esercizio  delle  funzioni  giurisdizionali  conferite  alla
magistratura  di  sorveglianza  secondo il dettato dell'art. 102, 27,
terzo  comma  della  Costituzione.  Il  contrasto tra i vincoli posti
all'esercizio  della funzione giurisdizionale, la ratio della norma e
le   finalita'   della  funzione  esercitata  dalla  magistratura  di
sorveglianza  in ossequio al principio del trattamento rieducativo e'
tale  che  nella specie la funzione giurisdizionale e' svilita a mero
esercizio di potesta' amministrative.
    In  particolare  deve  ritenersi che la norma, non consentendo al
giudice  un  sindacato  nel  merito,  impone  al medesimo di emettere
provvedimenti  giurisdizionali  incidenti in materia libertatis sulla
base   della   mera   verifica  della  sussistenza  di  un  requisito
amministrativo  con  menomazione  del principio di sottoposizione del
giudice  solo  alla  legge  di cui all'art. 101, secondo comma, della
Costituzione.  Nell'ipotesi,  ad  esempio, di provvedimento di revoca
del  permesso di soggiorno emesso dal questore, il legislatore non ha
previsto  alcun  margine  di valutazione per l'autorita' giudiziaria,
che   risulta   vincolata   alla   decisione  assunta  dall'autorita'
amministrativa di polizia, mentre quest'ultima conserva invece, anche
in   seguito  alla  riforma  del  2002,  un  margine  di  valutazione
discrezionale delle condizioni personali del condannato a prescindere
dalla  natura  giuridica  del fatto (l'art. 4 del T.U., riformato nel
2002,  pur  escludendo l'ingresso nel territorio per i condannati per
delitti  considerati  gravi,  ex art. 380 c.p.p. ecc..., non preclude
infatti   alle   questure,   quando  il  soggetto  non  sia  ritenuto
pericoloso,   la   proroga  del  permesso  di  soggiorno  e,  secondo
l'interpretazione  piu'  diffusa,  neppure la concessione di un nuovo
permesso  di soggiorno quando il condannato non ne abbia richiesto il
rinnovo  per  forza  maggiore  a  causa  del  protrarsi  dello  stato
detentivo).
    7. - Deve  ritenersi  infine  che  la norma de qua ponga dubbi di
legittimita' costituzionale anche sotto altro e diverso profilo.
    L'art. 16,  quinto  comma,  T.U. si limita a prevedere infatti la
facolta'  del  solo  condannato di proporre opposizione al decreto di
espulsione   e   pare   di   tutta  evidenza  che  il  principio  del
contraddittorio  in  posizione  di  parita'  delle  parti, prescritto
dall'art. 111  della  Costituzione  e'  contraddetto dalla previsione
della  facolta'  di  opposizione  soltanto  in capo al detenuto e non
anche per il p.m.
    Peraltro   il  problema  si  pone  non  soltanto  in  ipotesi  di
espulsione  (con  interesse  del  p.m. ad impugnare se ritiene che il
soggetto  non  doveva  essere  espulso)  ma  anche  per  il  caso  di
provvedimento  di  non  espulsione,  che  potrebbe formare oggetto di
doglianza tanto per il p.m. che per l'interessato.
    Non  puo' tacersi della possibilita' di derivare tale facolta' di
impugnazione   anche   in   capo   al   pubblico  ministero  in  sede
interpretativa,   desumendola   dalla   natura   giurisdizionale  del
procedimento  (ed  infatti  questo giudice ha introdotto la prassi di
notificare  tanto i provvedimenti di espulsione che di non espulsione
alla  Procura  presso il tribunale di Reggio Emilia, competente per i
provvedimenti  dell'ufficio).  Ma  atteso  che  anche successivamente
all'entrata in vigore della legge n. 189 del 2002, il legislatore ove
ha  inteso  attribuire  tale  competenza  al  p.m.  ha  espressamente
previsto  una  diversa  disciplina  (ad es. in materia di liberazione
anticipata,  ove e' prescritta l'acquisizione di un preventivo parere
del  p.m.,  e  la  successiva  facolta'  di  reclamo  al tribunale di
sorveglianza),   non   pare   che   si  possa  fugare  un  dubbio  di
legittimita'.
    In  punto di rilevanza si osserva l'impossibilita' di attivare il
controllo  di  legittimita' in altra sede, apparendo il momento della
decisione  del  magistrato di sorveglianza il limite estremo entro il
quale   e'   possibile   rilevare   tale  lesione  delle  prerogative
giurisdizionali del p.m.
    8. - Infine,  ulteriore  e distinto motivo di doglianza in ordine
alla  norma  ha  riguardo alla legittimita', con riguardo all'art. 24
della  Costituzione, della previsione di una procedura de plano senza
notifica  del  provvedimento al difensore, che non e' dunque in grado
di   contribuire   alla   presentazione  dell'opposizione  avanti  al
tribunale  di  sorveglianza.  Ancora  una  volta,  non pare che possa
essere  fugato  ogni dubbio in sede interpretativa atteso che diversa
e' ad esempio la disciplina in materia di liberazione anticipata, che
richiama  espressamente  l'obbligo  di  notifica  alle  parti  di cui
all'art. 127 c.p.p.
    Per  tali  ragioni  gli  atti  devono essere trasmessi alla Corte
costituzionale ed il procedimento deve essere sospeso;