ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei   giudizi   di   legittimita'  costituzionale  dell'articolo 303,
comma 2,  del  codice di procedura penale, promossi con ordinanze del
25 luglio 2002 della Corte di cassazione - sezioni unite penali e del
3 ottobre  2002  del  Tribunale -  sezione  per il riesame di Milano,
iscritte rispettivamente al n. 434 e al n. 545 del registro ordinanze
2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, 1ª
serie  speciale,  dell'anno 2002  e  nella edizione straordinaria, 1ª
serie speciale, del 27 dicembre 2002.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nelle  camere  di  consiglio  del  26 febbraio  2003 e del
21 maggio 2003 il giudice relatore Carlo Mezzanotte.
    Ritenuto  che  con  ordinanza  in  data 25 luglio 2002 le sezioni
unite   penali   della   Corte  di  cassazione  hanno  sollevato,  in
riferimento  agli  articoli 3  e  13 della Costituzione, questione di
legittimita' costituzionale dell'articolo 303, comma 2, del codice di
procedura  penale, «nella parte in cui impedisce di computare ai fini
dei  termini massimi di fase determinati dal successivo articolo 304,
comma 6,  i  periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado
diversi da quelli in cui il procedimento e' regredito»;
        che  il  giudice  a  quo  riferisce di essere stato investito
della   interpretazione   delle   disposizioni  censurate  allorche',
intervenuta  l'ordinanza  n. 529  del  2000 di questa Corte, si erano
nuovamente   verificati  i  medesimi  contrasti  che  una  precedente
sentenza  delle  sezioni  unite  (la n. 4 del 2000, Musitano), si era
proposta di risolvere;
        che  l'ordinanza  ricorda  come,  con  la sentenza n. 292 del
1998,  la  Corte  costituzionale,  disattendendo  la costante lettura
invalsa  nella  giurisprudenza, aveva ritenuto che un'interpretazione
adeguata   del   sistema   normativo  consentiva  di  concludere  che
l'art. 304,  comma 6,  del  codice  di  procedura  penale, costituiva
limite  estremo  e  meccanismo  di  chiusura  della  disciplina della
custodia  cautelare, sicche' il superamento del doppio dei termini di
fase  era  causa  di scarcerazione anche nelle ipotesi di regressione
del procedimento (art. 303, comma 2, cod. proc. pen.);
        che,  prosegue  il  remittente, sorgeva tuttavia contrasto in
sede  di  legittimita'  non  gia'  sulla possibilita' di aderire alla
decisione  di  questa  Corte,  bensi'  sul  modo con cui calcolare il
termine  finale  in  caso  di regressione: parte della giurisprudenza
riteneva  che  si  dovesse  considerare  tutta la detenzione comunque
sofferta  dall'inizio  di  una  determinata  fase  o  grado  fino  al
provvedimento   che   dispone  il  regresso,  sommandola  con  quella
successiva,  mentre  altre  pronunce  affermavano  che  si  dovessero
congiungere  alla  detenzione  in  atto  nella fase o grado in cui il
procedimento  era  regredito  solo  i  periodi  di  privazione  della
liberta' gia' subiti nella fase o nel grado medesimo;
        che le sezioni unite - si ricorda ancora nell'ordinanza - con
la    sentenza    Musitano    accoglievano   la   seconda   soluzione
interpretativa,  sul  rilievo  che l'art. 303, comma 2, del codice di
procedura  penale,  nello  stabilire  che,  in caso di regressione, i
termini  «decorrono  di  nuovo»,  evidentemente esclude che i termini
stessi abbiano continuato a decorrere;
        che  quella  sentenza ha quindi affermato che il codice aveva
accolto  una  concezione monofasica o endofasica, come era desumibile
dal  fatto che il legislatore distingue fra termine di fase e termine
complessivo,    mentre    in   nessuna   disposizione   verrebbe   in
considerazione  un  periodo  «interfasico»,  con  la conseguenza che,
quando  l'art. 303,  comma,  2,  cod.  proc.  pen., fa riferimento ai
termini  che  decorrono  di  nuovo,  a questi si possono sommare, nel
rispetto  dell'art. 304,  comma 6,  solo  entita' omogenee, e cioe' i
periodi trascorsi nella stessa fase;
        che   l'anzidetta   sentenza  delle  sezioni  unite,  sebbene
dichiari   esplicitamente   di  non  aver  reperito  nella  ricordata
pronuncia  di  questa  Corte  alcun  suggerimento circa il sistema di
computo  dei termini, offrirebbe, in vari passaggi della motivazione,
argomenti  idonei a collegare l'interpretazione prescelta ai principi
costituzionali che questa Corte aveva affermato, e cioe' il principio
di proporzionalita' e quello della riduzione al minimo necessario del
sacrificio della liberta' personale;
        che  ad  avviso  del  remittente,  che  riprende  e  sviluppa
argomenti riferibili alla precedente sentenza delle sezioni unite, la
proporzionalita'   dei   termini   di  custodia  cautelare  non  puo'
razionalmente  prescindere  dalle  attivita'  previste  nella singola
fase,   durante  la  quale  deve  essere  consentito,  permanendo  la
custodia,  il  compimento  di  specifici  atti  processuali,  con  la
conseguenza  che imputare alla fase in cui il procedimento regredisce
l'intervallo  in  cui  non  era dato svolgere le attivita' proprie di
quella  fase  significherebbe scardinare l'assetto delle esigenze che
erano state contemperate;
        che   anche  il  principio  della  riduzione  al  minimo  del
sacrificio  della liberta' personale verrebbe, secondo questa logica,
rispettato,  poiche'  il  periodo  trascorso  nella  fase  intermedia
verrebbe   bensi'   «sterilizzato»,   ma   non   perduto,  in  quanto
«accreditato»  alla  fase di competenza ed a questa sommato quando il
procedimento l'avra' raggiunta;
        che  in  questo  modo  il  sacrificio per il soggetto sarebbe
comunque  di carattere transitorio e non potrebbe paragonarsi - in un
equilibrato  bilanciamento  degli interessi - agli effetti di rottura
del    sistema   che   il   criterio   del   cumulo   indifferenziato
irragionevolmente e' in grado di provocare;
        che   tuttavia   questa   interpretazione  costituzionalmente
plausibile appare azzardata alla luce della ordinanza n. 529 del 2000
di  questa  Corte,  dalla  quale  sorgerebbe  anzi  il  dubbio che il
criterio della cumulabilita' dei soli segmenti omogenei contrasti con
le  suindicate  disposizioni  costituzionali,  in  quanto la Corte ha
comunque  affermato  che  il  cumulo  di  tutti  i periodi e' il solo
coerente con l'art. 13 Cost., che impone di privilegiare la soluzione
che riduca al minimo il sacrificio della liberta' personale;
        che   pertanto   le   sezioni  unite,  sul  presupposto  «che
l'art. 303,  comma 2, cod. proc. pen. esprime una norma che, sia pure
considerando  i  principi  piu' volte ricordati e quindi - forse - in
contrasto  con essi, impedisce di addizionare, nel calcolo del doppio
del  termine finale di fase, periodi di detenzione sofferti in fasi o
gradi  diversi  da  quelli  in  cui  il  procedimento  e' regredito»,
chiedono a questa Corte, «nel rispetto delle reciproche attribuzioni,
di   intervenire   sulla  disposizione  indicata  con  una  pronunzia
caducatoria, se il dubbio dovesse rivelarsi fondato»;
        che  identica  questione  e'  stata sollevata dal Tribunale -
sezione  per  il  riesame di Milano con ordinanza del 3 ottobre 2002,
negli  stessi  termini  e  con  le medesime argomentazioni sviluppate
dalla Corte di cassazione;
        che  e'  intervenuto  in entrambi i giudizi il Presidente del
Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale  dello  Stato,  e ha chiesto che la questione sia dichiarata
inammissibile e comunque infondata;
        che  infatti,  ad avviso della difesa erariale, la questione,
avendo  ad oggetto la legittimita' di una certa interpretazione della
norma  che,  propugnata  da  una  precedente decisione della Corte di
cassazione,    e'   stata   espressamente   ritenuta   non   corretta
dall'ordinanza n. 529 del 2000, si ridurrebbe ad un quesito meramente
interpretativo, che i rimettenti avrebbero dovuto risolvere adottando
l'interpretazione conforme a Costituzione, ancorche' non condivisa;
        che  l'Avvocatura  dello  Stato  osserva, in via subordinata,
che,  quand'anche  fosse  vero  quanto  sostenuto  nelle ordinanze di
rimessione,  «il  dettato dell'art. 303, comma 2, cod. proc. pen. che
residuerebbe  come non toccato dalle precedenti pronunzie della Corte
[...]  ben  potrebbe avere una propria giustificazione in riferimento
alla   struttura   del   processo   penale   e   al  canone  generale
dell'autonomia  dei  termini  di  fase ispirato a principi egualmente
meritevoli  di  tutela,  quale, in primis, l'esigenza di tutela della
collettivita»,  profilo,  questo,  che  sembrerebbe  non essere stato
preso in considerazione dai rimettenti.
    Considerato  che le ordinanze di rimessione sollevano la medesima
questione,  sicche'  i  relativi  giudizi  possono essere riuniti per
essere decisi con unica pronuncia;
        che    la    questione    di    legittimita'   costituzionale
dell'articolo 303, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata
dalle  sezioni unite penali della Corte di cassazione, in riferimento
agli artt. 3 e 13 della Costituzione, nella parte in cui impedisce di
computare  ai  fini  dei  termini  massimi  di  fase  determinati dal
successivo   art. 304,   comma 6,  cod.  proc.  pen.,  i  periodi  di
detenzione  sofferti  in  una fase o in un grado diverso da quelli in
cui  il procedimento e' regredito, e' manifestamente inammissibile, e
analoga decisione deve riguardare l'ordinanza del Tribunale - sezione
per il riesame di Milano che ne ricalca l'iter argomentativo;
        che  infatti, piu' che motivare la non manifesta infondatezza
della questione, entrambe le ordinanze di rimessione si propongono di
dimostrare la coerenza con i parametri evocati dell'opposta soluzione
secondo  la  quale,  in  caso di regressione del procedimento, devono
essere computati soltanto i periodi di custodia cautelare sofferti in
fasi omogenee;
        che i giudici a quibus muovono dalla premessa che, secondo la
sentenza  di  questa  Corte n. 292 del 1998, l'articolo 304, comma 6,
del   codice   di  procedura  penale  costituisce  limite  estremo  e
meccanismo  di  chiusura  della  disciplina della custodia cautelare,
sicche'  il  superamento  del  doppio dei termini di fase e' causa di
scarcerazione  anche  nelle  ipotesi  di regressione del procedimento
(art. 303, comma 2, cod. proc. pen.);
        che  in  particolare  i remittenti ricordano che nella citata
sentenza  la  soluzione  indicata  discendeva  dall'applicazione  dei
principi  di  proporzionalita' dei termini di custodia cautelare e di
riduzione   al   minimo  necessario  del  sacrificio  della  liberta'
personale;
        che,  va  soggiunto, poco dopo questa Corte era tornata sulla
questione  con l'ordinanza n. 429 del 1999, la quale riaffermava come
soluzione   costituzionalmente   obbligata   quella  secondo  cui  il
superamento  di  un  periodo  di  custodia pari al doppio del termine
stabilito per la fase presa in considerazione determina la perdita di
efficacia  della  custodia  anche  se  quei  termini hanno iniziato a
decorrere nuovamente a seguito della regressione del processo;
        che  era  poi  intervenuta  la sentenza Musitano (Cass., sez.
un., n. 4 del 2000), per la quale, quando l'articolo 303, comma 2, fa
riferimento ai termini che decorrono di nuovo, a questi si potrebbero
sommare  solo entita' omogenee, e cioe' periodi di custodia cautelare
trascorsi nella stessa fase;
        che  ben due ordinanze di questa Corte avevano pero' ribadito
come  costituzionalmente  vincolata,  in  forza  del  valore espresso
dall'art. 13   Cost.,   l'interpretazione  secondo  cui  la  custodia
cautelare perde efficacia allorquando la sua durata abbia superato un
periodo  pari  al  doppio  del termine stabilito per la fase presa in
considerazione,  anche  nei  casi  di  regressione  del  procedimento
(ordinanza  n. 214  del 2000), e non avevano mancato di avvertire che
l'orientamento  seguito  e'  il solo coerente con l'art. 13 Cost., il
quale  impone  di privilegiare la soluzione interpretativa che riduca
al  minimo  il  sacrificio della liberta' personale (ordinanza n. 529
del 2000);
        che  nonostante la univocita' delle pronunce di questa Corte,
i  remittenti  sostengono  che  nella  ricordata sentenza Musitano vi
fosse  un evidente collegamento tra l'interpretazione prescelta circa
il   computo  dei  termini  in  caso  di  regressione  e  i  principi
costituzionali  affermati  da  questa  Corte nella ricordata sentenza
n. 292 del 1998;
        che  invero,  si  sostiene  nelle ordinanze di rimessione, il
principio  di  proporzionalita'  dovrebbe  essere inteso nel senso di
consentire,  permanendo  la  custodia  cautelare,  il  compimento  di
specifici  atti processuali, e cio' impedirebbe di imputare alla fase
in  cui  il  procedimento  regredisce un periodo di restrizione della
liberta' personale durante il quale non e' dato svolgere le attivita'
proprie di quella fase;
        che,  secondo  i  giudici  a  quibus,  anche  se  in  caso di
regressione  non vengono conteggiati i periodi di detenzione sofferti
in  fasi  non omogenee, la garanzia dell'art. 13 Cost. e il principio
del  minor  sacrificio  della  liberta'  personale non risulterebbero
vanificati,  poiche'  tali  periodi  verrebbero  computati in futuro,
quando il procedimento avra' raggiunto la fase successiva;
        che   dunque,   per  affermare  la  soluzione  posta  a  base
dell'odierna  questione,  le ordinanze di rimessione non adducono una
lettura  degli articoli 303, comma 2, e 304, comma 6, cod. proc. pen.
condotta  alla  stregua della sola legislazione ordinaria, ma muovono
proprio  da  una  interpretazione  dei  principi  costituzionali  che
presidiano   la   materia,   subordinando   pero'   il  principio  di
proporzionalita'    all'appagamento   delle   esigenze   della   fase
processuale  e  riducendo  il  principio  del  minor sacrificio della
liberta'  personale  ad  una sorta di «credito di liberta» spendibile
nelle eventuali fasi successive;
        che  peraltro  non  viene  qui in rilievo l'accezione, piu' o
meno   ristretta,   dei  principi  costituzionali  che  i  remittenti
assumono,  quanto  la  struttura  argomentativa  delle  ordinanze  di
rimessione,    che    si   fondano   sull'interpretazione   contenuta
nell'ordinanza  n. 529  del  2000  di  questa  Corte,  proprio mentre
riservano  ad  essa,  sul  piano  della consistenza di quei principi,
critiche severe;
        che  tanto  meno  puo'  essere ritenuto ammissibile un simile
approccio   alla   giustizia   costituzionale  se  si  considera  che
l'ordinanza  delle sezioni unite, oltre ad apparire perplessa (in una
motivazione    tutta    protesa,   nella   sostanza,   a   dimostrare
l'infondatezza  della questione, il denunciato contrasto si riduce ad
un  laconico  «forse»), si chiude con l'esplicito invito al «rispetto
delle   reciproche  attribuzioni»,  come  se  a  questa  Corte  fosse
consentito  affermare  i  principi costituzionali soltanto attraverso
sentenze  caducatorie  e  le fosse negato, in altri tipi di pronunce,
interpretare le leggi alla luce della Costituzione;
        che,   pertanto,   la   questione   deve   essere  dichiarata
manifestamente inammissibile.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.