ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei   giudizi   di   legittimita'  costituzionale  dell'articolo 297,
comma 3,   del   codice   di   procedura   penale,   come  modificato
dall'articolo 12  della  legge  8 agosto  1995,  n. 332 (Modifiche al
codice   di   procedura   penale   in  tema  di  semplificazione  dei
procedimenti,  di  misure cautelari e di diritto di difesa), promossi
con  due ordinanze dell'11 e del 16 ottobre del 2002 dal Tribunale di
Torino,  iscritte  rispettivamente al n. 555 e al n. 577 del registro
ordinanze 2002 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 1 e n. 3, 1ª serie speciale, dell'anno 2003.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 9 aprile 2003 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
    Ritenuto che, con ordinanza in data 11 ottobre 2002, il Tribunale
di Torino, chiamato a decidere sull'appello presentato da un imputato
avverso   l'ordinanza  con  la  quale  il  giudice  per  le  indagini
preliminari  presso il medesimo tribunale aveva respinto la richiesta
di  declaratoria  di  inefficacia  della misura cautelare in atto per
decorrenza  dei  termini massimi di custodia cautelare, ha sollevato,
in  riferimento  all'articolo 13,  ultimo  comma, della Costituzione,
questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 297, comma 3, del
codice  di procedura penale [come modificato dall'art. 12 della legge
8 agosto  1995,  n. 332  (Modifiche  al codice di procedura penale in
tema  di  semplificazione  dei procedimenti, di misure cautelari e di
diritto  di  difesa)],  «nella  parte  in  cui,  per l'ipotesi di una
pluralita' di ordinanze restrittive per fatti diversi, e' prevista la
decorrenza  del termine massimo della custodia cautelare, per tutti i
reati  in rapporto di connessione qualificata, a far tempo dalla data
della  contestazione  piu'  remota, esclusivamente nei casi in cui la
sussistenza  dei  gravi  indizi di colpevolezza in ordine ai fatti di
successiva  contestazione  non  risultasse  dagli  atti all'epoca del
primo  provvedimento;  o nella parte, almeno, in cui viene richiesta,
ai fini della diversificazione dei termini di decorrenza, la verifica
positiva  di  tempestivita' delle nuove contestazioni cautelari anche
fuori  dei  casi  in cui sia intervenuto provvedimento che dispone il
giudizio    relativamente   ai   fatti   oggetto   di   piu'   remota
contestazione»;
        che  il  remittente  premette  in fatto che l'ordinanza della
quale  e'  stata  chiesta  la  dichiarazione  di inefficacia e' stata
emessa  in  data  26  giugno 2002  in  relazione al reato di cui agli
artt. 110  del  codice  penale e 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309
(Testo  unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti
e   sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione  dei
relativi  stati  di  tossicodipendenza),  e  che  nei  confronti  del
medesimo  indagato  era  stata  disposta,  in  relazione  al reato di
rapina, altra misura cautelare in data 27 novembre 1999;
        che la richiesta di dichiarazione di inefficacia della misura
cautelare,  osserva  il  giudice  a  quo, era motivata sulla base del
rilievo  che tutti gli elementi posti a fondamento della stessa erano
noti  al  pubblico  ministero  sin  da  prima  della celebrazione del
giudizio  per  il  reato  di  rapina,  per  il quale l'imputato aveva
riportato  condanna,  ed  era  stata  respinta dal g.i.p. perche' gli
indizi   del   concorso   esterno   nell'associazione   a  delinquere
finalizzata  al  commercio  internazionale  di  sostanza stupefacente
erano  emersi  solo  successivamente  all'arresto in flagranza per il
reato   di  rapina,  sicche',  prima  di  quel  momento,  l'autorita'
giudiziaria  non  era  in  grado  di formulare a carico dell'imputato
l'ipotesi  di  reato  poi contestata con il provvedimento restrittivo
del 26 giugno 2002;
        che in proposito il tribunale, tenuto conto del fatto che gli
indizi  relativi al secondo reato si desumevano dalle intercettazioni
di  conversazioni  effettuate  prima  della emissione della ordinanza
cautelare  del  1999,  ma  trascritte  successivamente e in ogni caso
prima  del  rinvio  a  giudizio per il reato di rapina, sostiene che,
poiche'  i  fatti contestati con l'ordinanza cautelare del 2002 erano
gia'  desumibili  dagli  atti  prima  del rinvio a giudizio, dovrebbe
trovare  applicazione  «la  prima  parte dell'art. 297, comma 3, cod.
proc.  pen.»,  che  prevede,  in  tale ipotesi, la retrodatazione del
termine  iniziale  di  decorrenza dei termini di durata massima della
misura  cautelare  al giorno in cui e' stata eseguita o notificata la
prima  ordinanza,  con  la  conseguenza  che,  nel  caso di specie, i
termini  sarebbero gia' decorsi, dovendosi computare il termine dalla
data del 27 novembre 1999;
        che  cio'  precisato  in  fatto,  il  remittente  rileva  che
l'art. 297, comma 3, cod. proc. pen., nella sua formulazione attuale,
oltre  a  prevedere  che  la  retrodatazione  dei termini di custodia
cautelare  si  ha  non  soltanto  nei casi di ordinanze relative allo
stesso  fatto,  benche' diversamente circostanziato o qualificato, ma
anche nel caso di fatti diversi, quando sussista connessione ai sensi
dell'art. 12,  lettere b)  e  c),  limitatamente  ai  casi  di  reati
commessi  per eseguire gli altri, purche' i fatti diversi siano stati
commessi   anteriormente   alla   emissione  della  prima  ordinanza,
stabilisce  altresi' che la disposizione stessa non si applica quando
i  fatti  diversi  non erano desumibili dagli atti prima del rinvio a
giudizio  per  i  reati  rispetto  ai  quali  sussiste  il prescritto
rapporto di connessione;
        che  il  giudice a quo ricorda che questa Corte, con sentenza
n. 89   del   1996,   ha  dichiarato  non  fondata  la  questione  di
legittimita'  costituzionale dell'art. 297, comma 3, cod. proc. pen.,
nella  parte in cui prevede il medesimo regime della decorrenza della
seconda  misura  sia  nell'ipotesi di artificioso ritardo della nuova
contestazione   cautelare,   sia   nel  caso  in  cui  il  successivo
provvedimento  sia stato tempestivo in relazione al momento in cui il
fatto e' stato accertato;
        che,  ad  avviso  del  remittente,  dalla  motivazione  della
sentenza  della  Corte  costituzionale emergerebbe che il nuovo testo
dell'art. 297,  comma 3,  cod.  proc.  pen. mostra l'intendimento del
legislatore  di  stabilire  -  anche  nel  caso di distinte ordinanze
relative   a   fatti   diversi,   limitatamente  alle  situazioni  di
connessione  qualificata  ivi  indicate  -  la  regola  della  comune
decorrenza  dalla  prima ordinanza dei termini di durata delle misure
applicate, e cio' senza attribuire alcun peso alla circostanza che, a
quell'epoca,  tali  fatti  fossero gia' noti al pubblico ministero in
tutti  i  loro  elementi  rilevanti  a  livello  cautelare ovvero gli
fossero sconosciuti;
        che  tuttavia,  osserva il giudice a quo, in relazione a tale
soluzione,  in  base  alla quale deve escludersi qualsiasi margine di
valutazione  circa  la  tempestiva  richiesta  da  parte del pubblico
ministero   delle   misure   cautelari  successive  alla  prima,  con
riferimento  ai  predetti  fatti  diversi,  sarebbero state formulate
riserve,  soprattutto  per quel che riguarda la congruita', in chiave
di  ragionevolezza, della regola come desunta dall'art. 297, comma 3,
in  particolare  perche' questa disposizione, cosi' interpretata, non
distinguendo a seconda della tempestivita' o meno dell'iniziativa del
pubblico  ministero  in  ordine alle misure cautelari successive alla
prima,  ancorche'  per  fatti  diversi,  finirebbe per introdurre una
sorta   di  presunzione  assoluta  di  indebito  prolungamento  della
custodia  cautelare, sulla scorta di un meccanismo che non lascerebbe
spazio  ad  alcun apprezzamento circa la sussistenza di una colpevole
inerzia  o  di  un  artificioso  ritardo  del  pubblico ministero nel
richiedere la misura cautelare per il fatto diverso connesso a quello
anteriormente contestato;
        che  in  altri termini, prosegue il remittente, un meccanismo
processuale, quale quello previsto dall'art. 297, comma 3, cod. proc.
pen.,   risulterebbe   del   tutto  ragionevole  soltanto  quando  si
verificassero  situazioni  di  differimento  contra  legem, dovute ad
inerzie  o ritardi o ad altre improprie dilazioni nell'iniziativa del
pubblico  ministero in ordine all'adozione di provvedimenti cautelari
tutti   immediatamente   azionabili,   mentre   in  assenza  di  tali
presupposti  fattuali  il  medesimo  meccanismo apparirebbe del tutto
privo  di  ragionevolezza,  in  quanto  l'alterazione  (in  chiave di
retrodatazione  del  dies a quo di decorrenza) degli ordinari criteri
di  computo  dei  termini  delle  diverse misure, quali risultano dai
commi 1   e   2   dell'art. 297   cod.  proc.  pen.,  non  troverebbe
giustificazione  nella  esigenza di controbilanciare il rischio di un
surrettizio    svuotamento   della   garanzia   rappresentata   dalla
definizione  per  legge  dei  termini  massimi di durata delle misure
cautelari;
        che  tale orientamento interpretativo, osserva il remittente,
si sarebbe definitivamente consolidato con la pronuncia delle sezioni
unite 17 luglio 1997, Atene, la quale ha risolto in senso positivo il
contrasto  insorto  sulla  effettiva  possibilita' di estendere, alla
luce della novella del 1995, il gia' esistente regime derogatorio del
principio   generale   di   autonomia  delle  ordinanze  cautelari  a
situazioni cautelari afferenti a procedimenti diversi, utilizzando il
riferimento  alla  desumibilita' dagli atti non gia' come espressione
del   criterio  ispiratore  della  norma,  ma  quale  fondamentale  e
oggettivo  parametro  cui  ancorare, al di la' di valutazioni di tipo
soggettivistico, l'operativita' dell'istituto;
        che,  ad  avviso  del  Tribunale di Torino, il criterio della
desumibilita'  dagli  atti, concretamente ed efficacemente adottabile
in   un   contesto   processuale   caratterizzato  dalla  intervenuta
conclusione  delle  indagini preliminari relative al fatto o ai fatti
oggetto  della originaria contestazione cautelare (vertendosi in tale
ipotesi   in   una  situazione  processuale  ormai  cristallizzata  e
integralmente   conoscibile   dalle   parti),   comporterebbe  invece
obiettive  e  insuperabili  difficolta'  ove riferito ad una ipotesi,
quale quella delineata nella prima parte del comma 3, che inerisce ad
una situazione processuale in divenire, non integralmente conoscibile
dalle  parti  ed  essenzialmente  sottoposta, per quanto attiene alle
possibili  implicazioni  di  ordine  indiziario, ad una insindacabile
valutazione   dell'organo  inquirente,  unico  dominus  delle  scelte
investigative di segno accusatorio concretamente prospettabili;
        che,   infatti,   prosegue   sul   punto  il  remittente,  la
desumibilita'  dagli  atti di ipotesi delittuose ulteriori rispetto a
quelle  per  le quali si sta procedendo costituirebbe, in molti casi,
il  frutto  di  una  elaborazione logico-deduttiva svolta dall'organo
inquirente  sulla  base di una valutazione squisitamente soggettiva e
non efficacemente apprezzabile a posteriori in termini di obiettiva e
inoppugnabile  evidenza,  e  cio'  senza considerare che l'impiego di
tale criterio diverrebbe ancor piu' complesso perche', secondo quanto
affermato  dalla  Corte di cassazione, non e' sufficiente che entro i
limiti  temporali  di  cui  al primo e al secondo periodo del comma 3
dell'art. 297  cod.  proc.  pen.  sia stata acquisita e risulti dagli
atti  la mera notizia o il fatto-reato, essendo invece indispensabile
che sussista il quadro legittimante l'adozione della misura cautelare
sin  dall'epoca  della  emissione  della  prima  ordinanza  cautelare
(ovvero  dall'epoca  del rinvio a giudizio: art. 297, comma 3, ultima
parte, cod. proc. pen.);
        che,  ad  avviso  del giudice a quo, la interpretazione sopra
richiamata  si  discosterebbe  nettamente  dall'orientamento  seguito
dalla  Corte  costituzionale  nella sentenza 28 marzo 1996, n. 89, in
quanto  «attribuire alla norma in esame un implicito richiamo - anche
fuori dei casi in cui sia intervenuto un provvedimento che dispone il
giudizio   relativamente   ai   fatti  oggetto  di  una  piu'  remota
contestazione  -  alla  tardivita' della contestazione cautelare piu'
recente  quale  presupposto imprescindibile per la retrodatazione dei
termini  di  durata  massima  della  misura,  comporta, in assenza di
parametri normativamente predeterminati, una situazione di incertezza
in ordine alla data di decorrenza dei termini di durata massima delle
misure applicate successivamente per fatti in rapporto di connessione
qualificata  rispetto  a  quelli  di  piu'  remota contestazione, con
conseguente  indeterminatezza  della  durata complessiva delle misure
stesse»;
        che la disposizione censurata si porrebbe quindi in contrasto
con  l'art. 13,  ultimo  comma,  Cost.,  il quale, nel riservare alla
legge   la   determinazione  dei  limiti  massimi  alla  carcerazione
preventiva,  «demanda  al  legislatore  non  soltanto  la  scelta dei
criteri  di computo della durata massima della custodia cautelare, ma
anche la impostazione di tali criteri secondo schemi operativi atti a
precludere  qualsivoglia  margine di incertezza e discrezionalita' in
sede  applicativa,  sgombrando  il  campo  da  scomode  e  pericolose
interferenze   con  ambiti  endoprocedimentali  governati  da  scelte
discrezionali  di  taluna  delle  parti  ed  ancorando  gli ambiti di
decorrenza   ad   eventi   endoprocessuali   assolutamente  certi  ed
obiettivi»;
        che,  quanto  alla  rilevanza, il remittente osserva che, «in
applicazione  della  legge vigente cosi' come sopra interpretata, non
dovrebbe   essere   riconosciuta   ex   art. 303   cod.   proc.  pen.
l'inefficacia   sopravvenuta  della  misura  cautelare  in  corso  di
esecuzione»;
        che,   con  altra  ordinanza  in  data  16 ottobre  2002,  il
Tribunale  di Torino ha sollevato la medesima questione nel corso del
procedimento  avente  ad  oggetto  l'appello  di  un imputato avverso
l'ordinanza  con  la  quale il GIP presso il medesimo tribunale aveva
rigettato  la  richiesta di dichiarazione di inefficacia della misura
cautelare  applicata  nei  suoi  confronti in data 26 giugno 2002, in
relazione  ai reati di cui agli artt. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 e 110
cod.  pen.,  73  e 80 del medesimo d.P.R., per decorrenza dei termini
massimi di custodia cautelare;
        che il tribunale premette che il soggetto era stato arrestato
il  27 novembre  1999 per il concorso nei reati di detenzione e porto
di  un'arma,  di  rapina  e  di  lesioni  e  che  dalle conversazioni
telefoniche  intercettate,  comunicate  al  pubblico  ministero  dopo
l'arresto,  emergevano  indizi  di colpevolezza in ordine al reato di
associazione criminale dedita al traffico di sostanza stupefacente;
        che,   riferisce   il   remittente,   con  sentenza  in  data
22 novembre  2000,  l'imputato  era  stato  condannato per i reati di
porto  e  ricettazione  dell'arma,  mentre  in  relazione  alle altre
imputazioni  era stata emessa una pronuncia di non luogo a procedere,
e  che  nei  suoi  confronti,  per  i reati di cui agli artt. 73 e 74
d.P.R.  n. 309 del 1990, era stata applicata la misura della custodia
cautelare in carcere in data 26 giugno 2002;
        che, prosegue il giudice a quo, la richiesta di dichiarazione
di inefficacia della misura per decorrenza dei termini - formulata in
applicazione dell'art. 297, comma 3, cod. proc. pen., sul presupposto
che  tutti  gli  elementi  sui  quali si fondava la seconda ordinanza
cautelare  erano noti al pubblico ministero anteriormente al rinvio a
giudizio per il reato di porto e ricettazione di un'arma -, era stata
rigettata  dal  g.i.p.  sulla  base  del  rilievo  che,  prima  della
emissione   del   primo   provvedimento  cautelare  avrebbero  dovuto
sussistere   i   presupposti  legittimanti  l'emissione  del  secondo
provvedimento;
        che,  ad  avviso  del  tribunale, poiche' i fatti ai quali si
riferiva  l'ordinanza  cautelare  della  quale era stata richiesta la
dichiarazione di inefficacia per decorrenza dei termini massimi erano
gia'   desumibili   dagli  atti,  dovrebbe  trovare  applicazione  la
disposizione  di  cui  all'art. 297, comma 3, cod. proc. pen., con la
retrodatazione del termine iniziale di decorrenza dei termini massimi
della  misura  cautelare  al  giorno  in  cui  era  stata  eseguita o
notificata la prima ordinanza, sicche' i termini dovrebbero ritenersi
gia' decorsi;
        che,  sulla  base  di tali premesse in fatto, il Tribunale di
Torino,  con  provvedimento  di  tenore  identico  al  precedente, ha
sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 297,
comma 3, cod. proc. pen., nei medesimi termini gia' riportati;
        che   ha   spiegato  intervento  in  entrambi  i  giudizi  il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello Stato, e ha chiesto che la questione
venga dichiarata inammissibile;
        che, ad avviso della difesa erariale, il Tribunale di Torino,
nella  sostanza,  ritiene che la valutazione ex ante (cioe', da parte
del  p.m.)  della  desumibilita'  dagli  atti,  prima  del  rinvio  a
giudizio,  del  fatto ragione dell'ordinanza custodiale, non potrebbe
essere   condotta  con  criteri  oggettivi,  dipendendo  anche  dalla
soggettivita'  dell'organo  procedente  e  dalla  complessita'  degli
accertamenti  (anche  nel loro divenire), con conseguente incertezza,
nella fattispecie, dei limiti massimi della carcerazione preventiva;
        che,  per  come  posta,  secondo  l'Avvocatura,  la questione
sarebbe  inammissibile,  in  quanto  il  remittente,  incentrando  la
questione  sulla  desumibilita'  o  meno  dagli  atti,  da  parte del
pubblico  ministero,  dei  fatti  oggetto  dell'ordinanza custodiale,
finisce  per demandare alla Corte l'interpretazione della fattispecie
concreta  dei  giudizi  a  quibus: se cioe' quei fatti fossero o meno
desumibili  dagli  atti prima del rinvio a giudizio, dimenticando che
e'  proprio  il  giudice  del merito a dover valutare se il fatto sia
desumibile dagli atti prima del rinvio a giudizio;
        che  non  a caso, conclude l'Avvocatura, il remittente chiede
che  vengano  fissati  i  criteri  applicativi della norma denunciata
secondo  schemi  operativi  atti a precludere qualsivoglia margine di
incertezza  e  di discrezionalita' in sede applicativa, sgombrando il
campo    da    scomode   e   pericolose   interferenze   con   ambiti
endoprocedimentali  governati da scelte discrezionali di taluna delle
parti ed ancorando gli ambiti di decorrenza ad eventi endoprocessuali
assolutamente certi ed obiettivi.
    Considerato  che le due ordinanze del Tribunale di Torino pongono
la  medesima  questione  di  legittimita'  costituzionale,  sicche' i
relativi  giudizi  possono essere riuniti per essere decisi con unica
pronuncia;
        che  la  questione  di  legittimita'  costituzionale concerne
l'articolo 297,   comma 3,  del  codice  di  procedura  penale  [come
modificato   dall'articolo 12   della  legge  8 agosto  1995,  n. 332
(Modifiche  al  codice di procedura penale in tema di semplificazione
dei  procedimenti,  di  misure cautelari e di diritto di difesa)], il
quale,  «nella  parte  in  cui,  per  l'ipotesi  di una pluralita' di
ordinanze  restrittive  per  fatti diversi, prevede la decorrenza del
termine  massimo  della  custodia  cautelare,  per  tutti  i reati in
rapporto  di  connessione  qualificata,  a far tempo dalla data della
contestazione   piu'  remota,  esclusivamente  nei  casi  in  cui  la
sussistenza  dei  gravi  indizi di colpevolezza in ordine ai fatti di
successiva  contestazione  non  risultasse  dagli  atti all'epoca del
primo  provvedimento;  o nella parte, almeno, in cui viene richiesta,
ai fini della diversificazione dei termini di decorrenza, la verifica
positiva  di  tempestivita' delle nuove contestazioni cautelari anche
fuori  dei  casi  in cui sia intervenuto provvedimento che dispone il
giudizio    relativamente   ai   fatti   oggetto   di   piu'   remota
contestazione»,    violerebbe    l'art. 13,   ultimo   comma,   della
Costituzione,  perche' determinerebbe una situazione di incertezza in
ordine  alla  data  di decorrenza dei termini di durata massima delle
misure applicate successivamente per fatti in rapporto di connessione
qualificata, rispetto a quelli di piu' remota contestazione;
        che   la  questione  deve  essere  dichiarata  manifestamente
inammissibile per diverse e concorrenti ragioni;
        che,  in  primo  luogo,  dalla  formulazione  di  entrambi  i
dispositivi  delle  ordinanze  di  rimessione  emerge che l'art. 297,
comma 3,  cod. proc. pen. viene censurato in quanto, per l'ipotesi di
una pluralita' di ordinanze restrittive per fatti diversi in rapporto
di  connessione  qualificata,  prevederebbe  la  retrodatazione della
decorrenza   dei   termini   di  custodia  cautelare  dalla  data  di
contestazione  piu'  remota  «esclusivamente»  nei  casi  in  cui  la
sussistenza  dei  gravi  indizi di colpevolezza in ordine ai fatti di
successiva contestazione «non» risultasse dagli atti all'epoca;
        che,  forse  per  un  errore imputabile alla trascrizione, si
censura   una   norma   che   non  si  ricava  dal  tenore  letterale
dell'art. 297,  comma 3,  cod.  proc.  pen.,  il quale prevede che la
retrodatazione  della decorrenza dei termini relativi alla successiva
ordinanza  al  momento  di  emissione  della  prima,  «non si applica
relativamente  alle  ordinanze  per  fatti  non desumibili dagli atti
prima  del  rinvio  a  giudizio  per  il  fatto con il quale sussiste
connessione ai sensi del presente comma»;
        che  analogamente,  per quanto riguarda la questione proposta
in  via  subordinata,  l'art. 297,  comma 3,  cod.  proc. pen., viene
censurato attribuendogli una portata prescrittiva che la disposizione
non  possiede,  giacche'  si  assume  che  esso richieda «la verifica
positiva  di  tempestivita' delle nuove contestazioni cautelari anche
fuori  dei  casi  in cui sia intervenuto provvedimento che dispone il
giudizio    relativamente   ai   fatti   oggetto   di   piu'   remota
contestazione»;
        che  per  superare  i  dubbi  circa  l'esatta consistenza del
quesito  si  potrebbe  ipotizzare  che,  essendo il dispositivo delle
ordinanze  in  esame  modulato alla stregua di quello della ordinanza
che  ha  introdotto il giudizio di legittimita' costituzionale deciso
con  la  sentenza n. 89 del 1996, il Tribunale di Torino abbia voluto
riproporre,  nella sostanza, la medesima questione, e in questo senso
potrebbero  essere  lette  le  critiche che a quella sentenza vengono
mosse;
        che  tuttavia  a  chiarire  l'intendimento del remittente non
soccorrono  le  argomentazioni  della  parte  motiva delle ordinanze,
nelle  quali,  per  un  verso,  ci  si  duole  del  fatto  che la non
desumibilita'  dagli atti della piu' recente contestazione, prima che
sia intervenuto il provvedimento di rinvio a giudizio, non sarebbe di
facile  accertamento  in  quanto, in molti casi, sarebbero necessarie
complesse  valutazioni,  non  riducibili alla mera rilevazione di una
notitia  criminis,  per  poter  pervenire alla richiesta della misura
cautelare;  per  altro  verso,  si  invoca l'esigenza di certezza del
termine  massimo  di custodia cautelare a garanzia della effettivita'
della  prescrizione  contenuta  nell'ultimo  comma dell'art. 13 Cost;
certezza che non puo' aversi, o comunque e' contraddittorio invocare,
quando  si intenda valorizzare la complessita' di quegli accertamenti
ai  fini  della  desumibilita'  o  meno dagli atti, poiche' in questa
prospettiva  l'incertezza  deriverebbe  proprio  dal  fatto  di dover
distinguere  i  casi  di intempestivita' della contestazione dovuti a
inerzia   o   trascuratezza   da   quelli   derivanti  dall'obiettiva
difficolta' delle indagini;
        che   se  invece,  nonostante  le  evidenziate  incertezze  e
contraddizioni   nella   motivazione,  il  remittente  avesse  inteso
ribadire  l'enunciazione  della  sentenza  n. 89  del  1996, ispirata
all'esigenza  di  certezza  dei  termini  di custodia cautelare (come
porterebbe  a  ritenere  la circostanza che sia formalmente evocato a
parametro  il  solo  ultimo comma dell'art. 13 della Costituzione), a
fronte  di temperamenti operati dalla giurisprudenza di legittimita',
di  cui  si  riferisce nella motivazione stessa, non vi sarebbe stata
alcuna    necessita'   di   sollevare   questione   di   legittimita'
costituzionale, giacche' l'interpretazione della legge in conformita'
alla Costituzione non e' certo preclusa ai giudici comuni;
        che    pertanto   la   questione   deve   essere   dichiarata
manifestamente inammissibile.
    Visti  gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.