IL GIUDICE DI PACE

    Letti  gli  atti e sciogliendo la riserva assunta all'udienza del
22 aprile 2004;
    Premesso   che  con  distinti  ricorsi  successivamente  riuniti,
depositati  il 27 luglio 2001 la S.p.a. Banco di Sicilia ha convenuto
in  giudizio  il  proprio  ex dipendente Bellomo Pietro, chiedendo la
revoca  del  decreto ingiuntivo n. 740/2001 R.G., con il quale questo
tribunale  le  aveva  ingiunto  di  pagare  al  convenuto la somma di
L. 56.006.676.  pari  ai  quattro  quinti  del  T.F.R.  e delle altre
spettanze  di fine rapporto da lui maturate, e in via riconvenzionale
la  condanna  del  convenuto a pagarle la somma di L. 638.888.496, da
lui  illecitamente  sottrattele nello svolgimento delle mansioni alle
quali era adibito;
    Premesso,   inoltre,   che  lo  stesso  importo  chiesto  in  via
riconvenzionale   e'  stato  opposto  in  compensazione  atecnica  ex
art. 1243  c.c.  fino a concorrenza delle somme dovute al convenuto a
titolo di T.F.R. e altre spettanze di fine rapporto;
    Premesso,  ancora, che il convenuto, costituitosi in giudizio, ha
eccepito che il credito vantato dalla societa' non sarebbe opponibile
in  compensazione  oltre i limiti del quinto delle somme ingiunte, in
quanto  avente  natura  extracontrattuale, e in subordine ha eccepito
l'incostituzionalita',   per   contrasto   con  l'art. 3  Cost.,  del
combinato disposto degli artt. 1246 n. 3 e 545 terzo, quarto e quinto
comma,  nella  parte  in  cui  non  prevedono  espressamente  che  la
compensazione  e  il  pignoramento  di  quanto  dovuto  a  titolo  di
stipendio,  salario e altre indennita' relative al rapporto di lavoro
o  di  impiego  operi  nei  limiti  ivi previsti anche in relazione a
crediti  vantati  dal  datore di lavoro in dipendenza del rapporto di
lavoro o di impiego;
    Ritenuto  che,  secondo  il  costante  orientamento della suprema
Corte  di  leggittimita',  l'azione  volta  al risarcimento dei danni
cagionati  dal  lavoratore  nello  svolgimento  delle  mansioni cui e
adibito  (ivi  compresi  quelli scaturenti, come nella specie, da una
condotta  di appropriazione indebita) ha natura contrattuale, essendo
fondata   sulla   violazione   dei   doveri   di   diligenza  imposti
dall'art. 2104  c.c.  (cfr.  fra  le  piu' recenti Cass. nn. 4083 del
2002, 6664 del 2000, 950 e 13891 del 1999, 7861 del 1987);

                            O s s e r v a

    Dubita  parte  convenuta  della  legittimita'  costituzionale del
combinato  disposto  degli  artt. 1246  n. 3  c.c. e 545 c.p.c. nella
parte in cui non affermano che il pignoramento e la compensazione dei
crediti del lavoratore per retribuzioni e indennita' di fine rapporto
debba avvenire nei limiti del quinto anche nel caso in cui il credito
di  parte  datoriale  abbia origine dal medesimo rapporto di lavoro o
d'impiego.
    Va   premesso,   al   riguardo,   che  appare  ormai  consolidato
quell'orientamento  giurisprudenziale  secondo  cui non costituirebbe
compensazione  in  senso  proprio, bensi' mero conguaglio dare/avere,
come  tale  non  soggetto  ad  alcuna  delle  limitazioni  di  cui al
combinato  disposto  degli artt. citt., l'operazione che il datore di
lavoro compie detraendo dalla retribuzione l'importo corrispondente a
un proprio credito verso il lavoratore nascente dallo stesso rapporto
di  lavoro  (cfr.  fra le piu' recenti, Cass. nn. 9904 del 2003, 4174
del  1998, 6033 del 1997, 4873 del 1995, 3067 del 1990, 301 del 1988,
1245  del  1987,  5745  del  1982).  Ad  avviso del supremo Collegio,
infatti l'istituto della compensazione presupporrebbe l'autonomia dei
rapporti  cui si' riferiscono i rispettivi crediti e debiti, onde non
sarebbe  configurabile allorche' le contrapposte pretese scaturiscano
da  un unico rapporto, nel qual caso la loro valutazione importerebbe
soltanto  un  semplice  accertamento  contabile  di  dare/avere,  che
sfuggirebbe  non  solo  ai lim iti concernenti la rilevabilita' della
compensazione  ma altresi' ai limiti quantitativi entro cui essa puo'
essere proposta (cosi', in part. Cass. n. 1245 del 1987 cit.)
    Siffatta  compensazione  «atecnica»,  come  e' stata chiamata, si
fonderebbe   sul   rilievo  per  cui  operare  la  compensazione  fra
obbligazioni  derivanti dal medesimo rapporto, quando quest'ultimo e'
connotato   dalla  corrispettivita'  delle  prestazioni,  sarebbe  in
contrasto   con  la  funzione  sinallagmatica  del  contratto  e  con
l'interesse  del creditore a ottenere la controprestazione: come ebbe
ad esprimersi antica e autorevole dottrina, sarebbe strano compensare
le   obbligazioni  derivanti  da  un  solo  contratto  a  prestazioni
corrispettive,  anzi  contraddittorio con la finalita' del contratto,
ch'e' appunto quella di garantire a ciascun contraente la prestazione
convenuta.
    Per   quanto  consolidate,  le  suesposte  conclusioni  non  sono
necessariamente  convincenti.  Si  puo' infatti concordare con quella
dottrina   che,  richiamandole  criticamente,  ha  osservato  che  un
contratto  a  prestazioni  corrispettive  consistenti  nell'immediata
dazione di una somma di denaro o di altra quantita' di cose fungibili
ed  omogenee  sarebbe  nullo  per  mancanza di causa, sicche' sarebbe
inutile  cercare,  per cosi' dire, di preservare la funzionalita' del
sinallagma    contrattuale    introducendo    l'ulteriore   requisito
dell'autonomia   dei   rapporti   ai   fini  dell'operativita'  della
compensazione:  per  essere  causalmente  significativo,  infatti, il
contratto  dovrebbe  quanto meno prevedere che le prestazioni oggetto
degli  obblighi  corrispettivi,  per  quanto  omogenee e liquide, non
siano  contemporaneamente  esigibili,  onde  alla  compensazione  non
potrebbe comunque procedersi per mancanza di uno dei requisiti di cui
all'art. 1243 c.c.
    Se  cio'  e'  vero, non vi sarebbero ragioni per escludere che la
compensazione  operi  anche nei rapporti di debito/credito scaturenti
da  un medesimo rapporto giuridico e per negare che i medesimi limiti
posti  dal  combinato disposto di cui agli artt. 1246 n. 3 c.c. e 545
c.p.c.   debbano   trovare   applicazione   anche   nei  rapporti  di
debito/credito  fra  il  datore di lavoro e il lavoratore; e cio' pur
considerando  che  i  debiti  e  i  crediti  di cui trattasi, benche'
potenzialmente  diversi  quanto  a fatto costitutivo (non v'ha dubbio
che  il  debito  di  natura  risarcitoria  del lavoratore ha un fatto
costitutivo   diverso  da  quello  che  fonda  il  suo  credito  alla
retribuzione),  posseggono  indubbiamente  il medesimo titolo (inteso
quale «causa remota»), cioe' il contratto di lavoro.
    Non  puo' tuttavia tacersi che una simile proposta interpretativa
e'  ben lungi da quel che puo' convenientemente definirsi il «diritto
vivente»:  come gia' osservato, la giurisprudenza della suprema Corte
di legittimita' e' solidamente attestata in senso contrario, tanto da
ritenere che solo un'apposita pattuizione del contratto collettivo (o
del  contratto  individuale)  potrebbe  impedire il verificarsi della
compensazione  atecnica  e,  dunque,  l'estinzione  del  credito  del
lavoratore  ben  oltre  il  quinto di cui all'art. 545 comma 4 c.p.c.
(cosi' Cass. n. 9904 del 2003, cit.).
    E'  proprio  quest'ultima  conseguenza  -  che nel caso di specie
importerebbe  il  totale sacrificio delle somme dovute al convenuto a
titolo  di  T.F.R.  e  altre  spettanze di fine lavoro - a indurre il
giudicante a dubitare della legittimita' costituzionale della norma.
    Come  gia' affermato dalla Corte costituzionale (cfr. sent. n. 20
del  1968  e  ord.  n. 260  del  1987  la disposizione dell'art. 545,
comma 4  c.p.c.,  che  consente  il  pignoramento  (e,  in virtu' del
richiamo  di  cui  all'art. 1246  n. 3  c.c., la compensazione) di un
quinto  della  retribuzione  dovuta  al  lavoratore,  ha per scopo il
contemperamento dell'interesse del creditore con quello del debitore:
posto  che  la  privazione  di una parte del salario e' un sacrificio
normalmente  gravoso per il lavoratore, stante la funzione alimentare
della  retribuzione, il legislatore ha contenuto in limiti angusti la
somma pignorabile (e quindi compensabile). Di contro, e' evidente che
nessun   contemperamento   avviene   nella   norma  che  la  costante
giurisprudenza  di  legittimita'  ritiene di poter desumere dal testo
degli  artt. 1246  n. 3 c.c. e 545 c.p.c.: il lavoratore puo' vedersi
pignorare   (o   estinguere)  l'intero  credito  per  retribuzioni  e
indennita'  di  fine  rapporto  come conseguenza di un suo debito nei
confronti  del  datore di lavoro. E se cio' p uo' talora rispondere a
esigenze  di  giustizia  sostanziale  (sembra infatti ingiusto che il
datore  di'  lavoro  debba corrispondere al dipendente licenziato per
furto  o  appropriazione  indebita  i quattro quinti del T.F.R. senza
poter  defalcare  quanto illecitamente egli gli ha sottratto), non e'
meno   vero   che,  operando  in  tal  modo,  viene  completamente  a
vanificarsi  la funzione alimentare della retribuzione, che - a norma
dell'art. 36  Cost.  -  non  solo  remunera  quantita' e qualita' del
lavoro  prestato  ma  altresi'  assicura  al  lavoratore  e  alla sua
famiglia la possibilita' di condurre un'esistenza libera e dignitosa.
    E' il caso di precisare che non si vuol qui sostenere che, stante
la  funzione  alimentare  della  retribuzione,  il  datore  di lavoro
sarebbe  impedito financo a opporre l'exceptio inadimpleti contractus
e tenuto a corrispondere la retribuzione perfino se il lavoratore non
ha  prestato alcuna attivita': data la regola della post-numerazione,
un  diritto  alla retribuzione non puo' sorgere se non in presenza di
una  preventiva prestazione lavorativa, onde giammai potrebbe addursi
l'art. 36  Cost.  per  obbligare  il  datore  di  lavoro  a pagare il
lavoratore che non esegue la prestazione. Si vuol piuttosto rimarcare
che,  se  e' vero che i limiti alla compensazione sono preordinati ad
attuare  il  principio  del  solve  et repete, che e' proprio di quei
crediti che, per la natura del loro titolo, non ammettono remore alla
loro  soddisfazione,  e  se  e' vero che fra tali crediti figurano le
pretese    retributive,    siccome   funzionali   a   permettere   il
soddisfacimento  di  bisogni  primari  del  lavoratore  e  della  sua
famiglia,  consentire che il dator e di lavoro possa frustrare questi
ultimi,  opponendovi  propri controcrediti scaturenti dal rapporto di
lavoro,  non  appare  conforme  al disposto dell'art. 36 Cost.: basti
pensare  che  potrebbe portare all'assurdo di permettere al datore di
lavoro  di  rifiutarsi mese per mese di corrispondere la retribuzione
al proprio dipendente, nonostante questi abbia regolarmente lavorato,
in  considerazione del maggior credito vantato nei suoi confronti per
danni da pregresso inadempimento contrattuale.
    Peraltro,  il  fatto  che  i  reciproci  crediti  originino da un
medesimo  rapporto,  invece  che  da  rapporti differenti, non sembra
idoneo  a  fondare una cosi' marcata differenza di trattamento tra il
datore  di  lavoro e tutti gli altri creditori del lavoratore, tenuti
invece  a non poter opporre oltre il quinto i propri crediti, onde la
norma  in  questione,  potrebbe  essere passibile di censura anche ex
art. 3, primo comma Cost.
    Pertanto,  ritenuto  l'insegnamento  della  Corte  costituzionale
secondo  cui  il giudice a quo puo' proporre validamente la questione
di  legittimita'  costituzionale del significato normativo attribuito
dalla  giurisprudenza  dominante  alla  disposizione  applicabile nel
giudizio  principale  anche  qualora  mostri di non condividerlo e di
ritenere   possibile   un'interpretazione   diversa   e   conforme  a
Costituzione  (cfr. Corte cost. nn. 110 e 188 del 1995) e considerato
che  il  significato  univocamente attribuito dalla giurisprudenza di
legittimita'  al  combinato disposto degli artt. 1246 n. 3 c.c. e 545
c.p.c.  puo'  ormai considerarsi «diritto vivente», essendo frutto di
una  serie continua di pronunce uniformi (cfr. Corte cost. n. 108 del
1986,  in  motivazione),  va  senz'altro  sollevata  la  questione di
legittimita' costituzionale nei termini di cui in dispositivo, cui si
rinvia anche per i provvedimenti ulteriori.