IL GIUDICE DI PACE A scioglimento della riserva formulata all'udienza del 30 giugno 2003, nel procedimento civile n. 463/2003 R.G. promosso da Zulberti Martino contro Russo Gabriele, ha emesso la seguente ordinanza. Visto che la parte attrice ha prospettato la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 113, comma 2, c.p.c. in relazione agli artt. 3, 24, 101 comma 2, 111 comma 7, e 134 a sensi dell'art. 23, comma 1, legge n. 87/1953, per i seguenti motivi: premette che la causa in epigrafe e' del valore di euro 170 e pertanto per la soluzione di essa il giudice e' chiamato a giudicare secondo equita' ai sensi dell'art. 113, comma 2, c.p.c.; che per la soluzione della controversia il giudice e' chiamato ad applicare diverse disposizioni di diritto ed in particolare gli artt. 1272, 1703, 1709, e 1720 c.c., nonche' piu' in generale quelle di cui agli artt. 1362 e segg. c.c. relative all'interpretazione del contratto. Tra l'altro la controversia non pare di facile soluzione non fosse altro per il fatto che sul punto (e cioe' se al rappresentante processuale ex artt. 317 e 82 c.c., non tecnico del diritto, spetti un compenso ed in particolare quale esso sia e come lo si debba determinare) vi e' una completa mancanza di precedenti giurisprudenziali. Spettera' quindi al giudice adito, nell'interpretare le norme summenzionate, determinare se in base ad esse compenso e spese siano dovute dal mandante al rappresentate processuale e poi individuare le modalita' per quantificare il compenso stesso e soprattutto verificare che spetti la legittimazione passiva al convenuto, sig. Russo, e non piu' al debitore originario, sig. Ceretti; che tuttavia l'art. 113, comma 2, c.p.c. stabilisce che la decisione venga presa secondo equita' con tutte le conseguenze che ne conseguono sul piano dei motivi di impugnazione, primo fra i quali l'impossibilita' di denunciare la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, che come poc'anzi si e' accennato, sono alla base delle pretese attoree; che pertanto l'eventuale incostituzionalita' della norma (art. 113 comma 2 c.p.c.) ha una diretta rilevanza nel presente giudizio, in quanto, ove fosse reputata incostituzionale, il giudice adito dovrebbe pronunciare secondo diritto anziche' secondo equita'; che inoltre la questione sollevata non e' manifestamente infondata per i motivi di cui ora si dira'. P r e m e s s o Che l'art. 113 c.p.c. comma 2, cosi' come modificato dall'art. 21 legge n. 374/1991 ed in seguito dal d.l. 8 febbraio 2003, n. 18 conv. con mod. in legge n. 63/2003, stabilisce che «Il giudice di pace decide secondo equita' la causa il cui valore non eccede millecento euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalita' di cui all'art. 1342 c.c.», essendo quindi venuto meno, gia' a seguito della riforma del 1991, il riferimento ai «principi regolatori della materia» che il medesimo articolo faceva. Le conseguenze della portata di tale previsione vanno valutate tenendo ben presente la impostazione seguita dalla piu' recente giurisprudenza di legittimita' che ha fedelmente seguito l'impostazione che le sezioni unite della S.C. avevano fornito nella sentenza 716 del 1999, risolvendo i contrasti che si erano manifestati in seno alle sezioni semplici in relazione all'interpretazione dell'art. 113 comma 2 c.p.c. Le impostazioni che le sezioni semplici della Cassazione avevano seguito erano le seguenti: a) il g.d.p. e' comunque tenuto a seguire i principi regolatori della materia anche nei casi in cui debba, ex art. 113 c.p.c., decidere secondo equita' (Cass., 30 ottobre 1998, 10904); b) il g.d.p. deve in ogni caso procedere alla qualificazione giuridica dei fatti ed all'esame delle loro conseguenze giuridiche, pur potendo derogare, in riferimento a tali operazioni, alle nonne di diritto, in applicazione dei principi equitativi enucleabili da giudizi di valore conformi, secondo la sua interpretazione, al sentire comune, con la conseguenza che le sentenze di merito del g.d.p. sono ricorribili per cassazione nei casi previsti dall'art. 360 c.p.c. comma 1 n. 1, 2, 3, 4, 5 con l'unica limitazione che in relazione al n. 3 la violazione delle norme puo' essere riferita solo a norme costituzionali o dell'ordinamento comunitario e riguardo al n. 5 sono ricorribili per vizi motivazionali in relazione agli accertamenti di fatto posti a base del giudizio di equita' (Cass., 28 agosto 1998, n. 8569); c) il giudizio di equita' si snoda attraverso due momenti: 1) individuazione della regola di diritto applicabile alla fattispecie e l'attenuazione, motivata e consapevole, nel momento decisorio, della regola cosi' individuata, con la conseguenza che l'erronea individuazione delle norme astrattamente applicabili e' censurabile in cassazione ai sensi dell'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., mentre la successiva operazione di temperamento non potra' essere sottoposta ad alcun controllo di esaustivita', logicita' e completezza (Cass., 2 aprile 1998, n. 3397 e Cass. 24 agosto 1998, n. 8397); d) la pronuncia del g.d.p. secondo equita' e' vincolata al rispetto della Costituzione e dei principi generali dell'ordinamento, ma non soggetta all'osservanza delle norme che esprimono i principi regolatori della materia oggetto del giudizio (per tali dovendosi intendere quelli regolanti gli istituti giuridici relativi al rapporto dedotto), con la conseguenza che, non essendo piu' necessaria la determinazione delle conseguenze giuridiche, ma altresi' la qualificazione del fatto controverso, ed, esprimendo un'equita' sostitutiva e non correttiva, si fonda su di un giudizio di tipo intuitivo e non sillogistico, percio' non richiedente la preventiva individuazione della norma astratta applicabile al caso concreto e prescindente da ogni indagine razionale tra tale norma e i valori emergenti dalla realta' sociali posti alla base dell'equita'. La sentenza del g.d.p. sarebbe pertanto ricorribile per cassazione solo nei casi di violazione della Costituzione e dei principi generali dell'ordinamento, e non per inosservanza dei principi regolatori della materia, ne' per violazione delle norme sostanziali eventualmente applicate perche' ritenute conformi ad equita' e neppure per violazione o falsa applicazione delle norme applicabili al caso concreto (la cui individuazione non e' neanche richiesta). (Cass. 20 febbraio 1998, n. 1784; Cass., 1° ottobre 1998, n. 9754, Cass., 25 novembre 1998, n. 11970; e) infine l'ultimo filone giurisprudenziale ritiene che la sentenza del g.d.p., di valore inferiore ad Euro 1.100,00 e' sempre pronunciata secondo equita', anche ove il giudice abbia applicato una norma di legge riconosciuta corrispondente all'equita', ovvero abbia espressamente menzionato norme di diritto senza alcun riferimento all'equita', dovendosi presumere implicita la corrispondenza della norma giuridica applicata alla regola di equita'. La conseguenza e' che la sentenza del g.d.p., pronunciata a norma dell'art. 113 comma 2 c.p.c. e' impugnabile solo per gli errores in procedendo e non in iudicando. (Cass., 11 giugno 1988, n. 5794). Nel risolvere il conflitto le sezioni unite della Cassazione hanno deciso, nella sentenza n. 716 del 1999, che con particolare riferimento alla natura del giudizio: il giudice non e' tenuto a seguire i principi che regolano la materia; non e' necessaria ne' l'individuazione di tali principi, ne' l'individuazione delle norme giuridiche astrattamente applicabili e quindi non e' necessaria la qualificazione giuridica del rapporto dedotto; l'equita' non opera in via vicaria rispetto alla norma giuridica ove questa non sia .adeguata al caso concreto in ragione delle condizioni sociali, economiche, istituzionali, ma costituisce la regola della decisione, con la conseguenza che il g.d.p. non e' tenuto a compiere un previo accertamento della norma di diritto applicabile al caso concreto, ma deve senz'altro giudicarlo facendo applicazione delle norme di equita'; l'equita' con la quale decide il g.d.p. e' un'equita' sostitutiva e non correttiva/integrativa e si fonda su un giudizio intuitivo. Tutto cio' comporta delle dirette conseguenze anche sul piano dei possibili motivi di impugnazione e le sezioni unite hanno deciso che le sentenze del g.d.p. sono ricorribili per cassazione solamente nei seguenti casi: violazione di norme processuali; per violazione di norme costituzionali e comunitarie (con esclusione quindi anche dei principi generali dell'ordinamento); per motivazione meramente apparente. A seguito di quanto esposto il principio di diritto formulato dalla S.C. nella sentenza 716 del 1999 e' il seguente: «a seguito della nuova formulazione dell'art. 113 comma 2 c.p.c. nella decisione di una controversia di valore non superiore a lire due milioni, il g.d.p. non deve procedere alla previa individuazione della norma di diritto applicabile alla fattispecie, ma deve giudicarla facendo immediata applicazione dell'equita' formativa (sostitutiva), non correttiva (integrativa), fondata su di un giudizio di tipo intuitivo e non sillogistico, con osservanza, ai sensi dell'art. 311 c.p.c., delle norme processuali, nonche' di quelle in cui la regola del giudizio e' contenuta in una norma di procedura che rinvia ad una norma sostanziale, senza obbligo di rispetto dei principi regolatori della materia e dei principi generali dell'ordinamento, ma osservando le norme costituzionali nonche' quelle comunitarie, quando siano di rango superiore a quelle ordinarie. Pertanto il ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza costituisce un'impugnazione di sentenza di equita' - abbia il giudice dichiarato di aver applicato una norma equitativa o una norma di legge perche' rispondente all'equita' o si sia limitato ad applicare una norma di legge - ed e' ammissibile per violazione di norme processuali, nel senso sopra esposto (art. 360 comma 1 n. 1, 2 e 4 c.p.c.) laddove la censura di violazione di legge, attinente alla decisione di merito, e' consentita per violazione di norme costituzionali e di norme comunitarie, mentre la pronunzia secondo equita' non esclude poi la configurablilta' di censure ai sensi dell'art. 360, n. 4, c.p.c. nei casi di inesistenza della motivazione, ovvero ai sensi dell'art. 360 c.p.c. n. 5 c.p.c. allorche' l'enunciazione del criterio di equita' adottato sia inficiato da un vizio che attenendo ad un punto decisivo della controversia, si risolva in un'ipotesi di mera apparenza o di radicale ed insanabile contraddittorieta' della motivazione». Tale lettura della norma e' da ritenersi diritto vivente e pertanto l'eventuale incostituzionalita' della stessa e' da riferirsi proprio in relazione a tale diritto vivente. Tale impostazione e' stata infatti fedelmente seguita ed accolta da tutte le successive sentenze della Suprema Corte in particolare nelle seguenti: Cass., sez. III, n. 13958 del 1999; Cass., sez. III, n. 4592 del 2000; Cass., sez. I, n. 9799 del 2000; Cass., sez. I, n. 12395 del 2000; Cass., sez. I, 3673 del 2001; Cass., sez. III, 9213 del 2001; Cass., sez. III, n. 10667 del 2001; Cass., sez. III, n. 10486 del 2001; Cass., sez. III, n. 7448 del 2001; Cass., sez. III, n. 4223 del 2001; Cass., sez. II, n. 10429 del 2001; Cass., sez. III, n. 7540 del 2002. Pare quindi evidente che a seguito della sentenza delle sezioni unite si e' consolidato, nella giurisprudenza della suprema Corte, un uniforme indirizzo giurisprudenziale che ha accolto il principio di diritto fissato dalle sezioni unite, con la conseguenza il principio di diritto che emerge dall'art. 113 comma 2 c.p.c. e' da ritenersi diritto vivente, ma tuttavia un diritto vivente incostituzionale. Tali conclusioni rimangono valide anche dopo le modifiche introdotte dal d.l. 8 febbraio 2003 il quale, per quel che qui rileva, ha solamente innalzato ad Euro 1.100,00 il limite sotto il quale viene in rilievo il giudizio obbligatorio di equita'. Le principali conseguenze che tale norma viene cosi' a porre sono le seguenti: a) Viene completamente a mancare la certezza del diritto, che la codificazione ha introdotto nell'ordinamento, valore che la Corte costituzionale e' arrivata a definire «di valenza costituzionale». Le norme di diritto sulla base delle quali si debbono svolgere i rapporti giuridici finiscono per perdere qualunque utilita' atteso che poi non e' data azione per far valere il loro rispetto ed i diritti che da esse discendono in violazione dell'art. 24 Cost. Infatti se una norma giuridica protegge un particolare interesse, la violazione della norma o di quell'interesse, che abbia comportato delle conseguenze patrimoniali del valore tuttavia inferiore ad Euro 1.100,00 non potra' essere fatta valere in giudizio giacche', atteso il valore della controversia il giudice non dovra' neppure cercare di individuare quella norma giuridica (Cass., sez. I, 17 maggio 1995 n. 5422, e sez. III, 18 aprile 1995, n. 4328). b) La sentenza del giudice di pace, che ha deciso secondo equita' non potra' essere impugnata al pari delle sentenze pronunciate secondo diritto, neppure sotto il profilo della logicita' e non contraddittorieta' della motivazione. c) Tale previsione comporta uno stallo nei casi in cui l'applicazione delle norme di diritto sia necessaria per la soluzione del caso in quanto non sostituibile da regole d'equita'. Molteplici sono le ipotesi in cui l'applicazione delle norme di diritto, anziche' di quelle d'equita' appare necessaria per la soluzione di una controversia. Inoltre l'equita' e il diritto non si puo' presumere coincidano, ma anzi, al contrario spesso il diritto disciplina i rapporti giuridici in maniera del tutto contraria «al comune sentire del giusto e dell'ingiusto». Si pensi ad esempio al caso oggi sottoposto all'ill.mo giudice di pace. L'odierno istante si era impegnato a rappresentare un amico, il sig. Ceretti, avanti al g.d.p., per evitare che lo stesso, che aveva seri problemi finanziari, dovesse rivolgersi ad un avvocato per difendersi nella causa di opposizione proposta dalla sig.ra Barocchi. Considerando poi che l'instaurazione della causa, nella quale l'attrice Barocchi era rappresentata da ben due legali, aveva comportato nello stesso gravi ansie al punto da non farlo dormire la notte. Ora pare forse che, secondo quello che potrebbe essere «il comune sentire del giusto e dell'ingiusto» e considerati l'ambiente in cui l'obbligazione e' sorta, i criteri etici e sociali diffusi, un amico che abbia assunto la rappresentanza davanti al giudice di un altro amico, nel nostro caso il Ceretti, principalmente per aiutarlo a superare le ansie che l'instaurazione del procedimento gli aveva causato, non possa ed anzi, moralmente, non debba poi pretendere di essere pagato per l'opera compiuta. Questa forse potrebbe essere la soluzione di un giudizio di equita', ma non di un giudizio di diritto, il quale disciplina i rapporti fra i soggetti dell' ordinamento indipendentemente da quelli che siano i rapporti sociali fra di essi. Ebbene se al diritto tali rapporti sono del tutto indifferenti, tali potrebbero non essere all'equita' del giudice. Pare quindi evidente come un giudizio secondo diritto e uno secondo equita' potrebbero portare ad una decisione del tutto opposta della controversia in epigrafe. d) Ma l'art. 113 comma 2 c.p.c. crea altre inammissibili distorsioni nell'ordinamento. Si pensi ad esempio a tutte quelle norme che sono ritenute, per volere del legislatore, inderogabili dalla volonta' delle parti. Tali norme sono spesso poste nel superiore interesse pubblico, che, anche nei rapporti privatistici, si affianca a quello privato. Tuttavia nel momento in cui le parti si rivolgono al giudice esso, come specificato dalla suprema Corte, non dovra' «procedere alla previa individuazione della norma giuridica applicabile». Orbene se appunto il giudice all'individuazione di detta norma non dovra' procedere altresi' ignorera' quelle disposizioni inderogabili, poste per finalita' pubbliche e cosi' potra' pervenire ad una sentenza che frusta la volonta' del legislatore la quale appunto risulta dal carattere inderogabile di determinate norme sostanziali. Tali incongruenze sono frutto di una norma incostituzionale nei confronti degli artt. 3, 24, 101 comma 2, e 111 comma 7, 134 comma 1, Cost., contrarieta' che, seppur non colta o addirittura negata dalla sopracitata giurisprudenza di legittimita', e' stata invece acutamente sottolineata in dottrina. Infatti il consentire al giudice di disattendere il diritto vigente e di creare una sua legge personale costituisce un attentato ai principi fondamentali dello Stato di diritto e non appare ultroneo il dubbio di legittimita' costituzionale di un sistema cosi' congegnato. L'art. 113 comma 2 c.p.c. e' da ritenersi incostituzionale per i seguenti motivi: A) Contrarieta' all'art. 3 della Costituzione. Va preliminarmente sottolineato come l'art. 113 comma 2 c.p.c. abbia quale naturale conseguenza, nelle sole controversie di valore inferiore ad Euro 1.100,00, la riduzione della vigenza delle norme sostanziali le quali, non essendo vincolanti per il giudice, non rilevano sul rapporto al quale sarebbero astrattamente applicabili. Il trattamento sostanziale differente (con le conseguenze processuali conseguenti quale l'impossibilita' di ricorrere per cassazione in caso di violazione di legge) ha alla sua base il criterio del valore. Determinati rapporti, perche' ritenuti bagatellari, non possono venire risolti secondo diritto, ma solo secondo equita'. 1. - Innanzitutto va sottolineato come nelle relazioni di minore entita' si esauriscono solitamente le situazioni sociali dei meno abbienti e tuttavia in quei rapporti di minor valore a tali soggetti sarebbe precluso richiedere l'applicazione del diritto positivo e quindi di far valere ex art. 24 Cost. in sede giurisdizionale i diritti e il rispetto delle norme positivamente date, al pari di coloro che invece abbiano da far valere in giudizio un rapporto di maggior valore (e precisamente superiore ad Euro 1.100,00). Inoltre tenuto presente che la decisione di equita' puo' innegabilmente condurre, nel caso singolo, ad un esito imprevedibilmente diverso da quello cui il giudice dovrebbe pervenire applicando il diritto, comporta una evidente contrarieta' all'art. 3 Cost. in quanto una medesima situazione sostanziale riceve nel processo un trattamento radicalmente differente per il sol fatto che il valore della causa sia o meno inferiore ad Euro 1.100,00. 2. - Ma la disparita' risulta ancora maggiormente evidente nel caso in cui una pretesa della medesima natura e valore (ad esempio un credito di denaro o di altre cose fungibili e comunque di valore fino ad Euro 1.100,00) di una che invece sarebbe di competenza del giudice di pace ex art. 7 c.p.c., trovi tuttavia origine in un rapporto di competenza funzionale di altro giudice (es. Tribunale; commissione tributaria). Il riferimento va fatto in primo luogo a quei crediti, pur di valore inferiore ad Euro 1.100,00, che trovano origine in un rapporto di locazione o comodato e pertanto rientrano nella competenza funzionale del tribunale ai sensi dell'art. 447-bis del c.p.c. ovvero a quelli relativi ad una causa di lavoro. In quelle cause in materia di comodato e locazione il tribunale (cosi' come prima faceva il Pretore) giudichera' secondo diritto anche se il valore della causa e' inferiore ad Euro 1.100,00, per il sol fatto che non e' previsto che il tribunale nelle cause, pur devolute alla sua competenza funzionale, ma fino ad Euro 1.100,00, giudichi secondo equita'. Cosicche' ad esempio una causa di risarcimento danni (di valore inferiore ad Euro 1.100,00) relativa alla violazione dei doveri di conduttore sara' giudicata secondo diritto dal tribunale; una causa, come quella odierna, di risarcimento danni trovante origine nella violazione di norme estranee alla materia della locazione (o del comodato) verra' invece giudicata secondo equita'. Lo stesso dicasi per le cause in materia di lavoro subordinato le quali pure indipendentemente dal valore rientrano nella competenza funzionale del tribunale in composizione monocratica ai sensi dell'art. 409 c.p.c. La situazione risulta davvero disparitaria giacche' una controversia avente ad oggetto credito di lavoro (sempre inferiore ad Euro 1.100,00) riconducibile all'area del lavoro subordinato sara' decisa secondo diritto dal tribunale, una causa che invece abbia ad oggetto crediti del medesimo valore derivanti da un'attivita' lavorativa autonoma sara' decisa secondo equita' dal giudice di pace. Cosicche' una causa della medesima natura e valore di una competenza del giudice di pace (credito di cose fungibili del valore inferiore ad Euro 1.100,00), per il sol fatto di trovare origine in un rapporto devoluto alla competenza funzionale di un giudice diverso dal giudice di pace, ed appunto il tribunale, verra' giudicata secondo diritto, sara' ammesso il doppio grado di giurisdizione e sara' possibile il ricorso per cassazione in tutti i casi previsti dall'art. 360 c.p.c. Orbene se la logica sottesa alla previsione della possibilita' di un giudizio di equita' fosse che, in considerazione del basso valore di una causa, e' possibile non applicare la legge, cio' dovrebbe valere innanzi a tutti i giudici (giudice di pace e Tribunale) per cause analoghe e del medesimo valore. Tale disparita' sostanziale e processuale accordata a due situazioni analoghe (credito di cose fungibili di valore inferiore ad Euro 1.100,00) pare in contrasto con l'art. 3 Cost. e con il principio di ragionevolezza. Infatti se il giudizio d'equita' trova una sua ragion d'essere nel fatto che la causa e' di poco valore, dovrebbero subire il medesimo trattamento tutte le cause del medesimo valore, perche' tutte bagatellari. Invece il legislatore ha, con una scelta del tutto irragionevole, sottoposto al giudizio obbligatorio d'equita' le sole cause (a parita' di valore) di competenza del g.d.p. e tra l'altro non tutte, ma solo quelle che non ineriscano a rapporti giuridici conseguenti alla sottoscrizione di moduli o formulari. Cio' precisato si denuncia l'incostituzionalita' nei confronti dell'art. 3 Cost. dell'art. 113 comma secondo c.p.c. in relazione agli artt. 409 c.p.c. e 447-bis c.p.c. 3. - Il profilo della contrarieta' all'art. 3 Cost. e con il principio di ragionevolezza emerge ancor piu' evidente a seguito della recente modifica dell'art. 113 comma 2 c.p.c. ad opera del d.l. n. 18 del 2003 convertito, con modifiche, in legge n. 63/2003. Infatti e' fatta una deroga ai giudizi di equita' per le cause derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalita' di cui all'art. 1342 c.c. e cioe' a contratti conclusi compilando moduli o formulari. Il legislatore si e' infatti reso conto che un giudizio di equita' puo' portare a pronunce difformi riferite a identiche tipologie contrattuali ed ha voluto quindi escludere dal giudizio di equita' tutti i contratti conclusi mediante formulari o moduli. Il legislatore ha quindi emanato il decreto-legge citato in una situazione di ritenuta urgenza in cui un giudizio di equita' avrebbe potuto, a suo parere, portare ad un collasso del settore assicurativo a fronte delle recenti e numerose iniziative giudiziarie intraprese dai consumatori che hanno ritenuto di aver subito un danno a seguito del comportamento anticoncorrenziale tenuto da 39 compagnie assicurative e sanzionato dall'Antitrust. Ha quindi ritenuto che i contratti di assicurazione sono di solito predisposti su di un modulo o formulario e quindi ha, con una norma generale ed astratta, escluso che i rapporti dedotti in giudizio su di essi fondati siano decisi secondo equita'. Una tale previsione non ha fatto altro che escludere per tutti i contratti conclusi secondo quelle modalita' (e non solo i contratti di assicurazione) i dubbi di costituzionalita' espressi nel presente scritto, ma ha accentuato i dubbi per quanto attiene a tutte le altre controversie che ancora dovranno essere giudicate secondo equita'. Tuttavia nell'attuale vigenza del d.l. n. 18 (conv. in legge n. 63/2003) e' possibile prospettare un altro profilo di incostituzionalita' che null'altro e' che una specificazione di quello enunciato al punto precedente: cause del medesimo valore sono da una parte giudicate secondo legge (quelle derivanti da rapporti giudici relativi a contratti stipulati secondo le modalita' di cui all'art. 1342 c.c.) e dall'altra secondo soggettivi criteri equitativi. Risulta ancora piu' contrastante con l'art. 3 della Costituzione il fatto che controversie rientranti nella competenza del medesimo giudice siano talune decise equitativamente ed altre secondo diritto, per una scelta di politica legislativa per nulla ragionevole. Il legislatore si e' infatti reso conto (cfr. prefazione del decreto-legge) che l'equita' puo' a causa «del soggettivo apprezzamento da parte dei singoli giudici di pace, comportare pronunce difformi riferite a identiche tipologie contrattuali», ma tuttavia si e' limitato a stabilire che solo in relazione ai contratti conclusi mediante formulari tale rischio sia evitato, e quindi ha previsto per essi il giudizio secondo diritto. Orbene, va valutato innanzi tutto cosa si intenda per identiche tipologie contrattuali. Ritiene l'odierno istante che una tipologia contrattuale null'altro sia che un particolare tipo di contratto. Si potra' avere una tipologia contrattuale relativa alla compravendita, una relativa al mutuo, una relativa alla locazione, una relativa alla somministrazione etc. ... I contratti rientranti in tali tipologie potranno poi essere conclusi in diverse forme. Ove le parti scelgano la forma scritta ma non utilizzino un modulo od un formulario (e non si verifichi quindi la conclusione secondo una delle modalita' di cui all'art. 1342 c.c.) l'eventuale controversia avente ad oggetto rapporti giuridici derivante da quel contratto sara' decisa secondo equita'. Se invece le parti utilizzino un modulo o un formulario potranno ottenere un giudizio di diritto: applicazione della legge, possibilita' di appello, ricorribilita' per cassazione. E' palese la irragionevolezza della scelta del legislatore: se e' stato predisposto un formulario o un modulo per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali il giudizio di equita' viene meno. Se quel medesimo rapporto le parti hanno deciso di disciplinarlo senza ricorrere al formulario invece non potranno veder applicata la legge dal giudice, il quale dovra' invece applicare l'equita'. E' palese che tutti i rapporti giuridici, anche relativi a fattispecie contrattuali identiche, pur devoluti alla competenza del giudice di pace, che non trovino il loro fondamento in un modulo o un formulario, saranno giudicati secondo equita', mentre a quelli che su detti moduli sara' aperta la strada del doppio grado di giurisdizione e di una pronuncia secondo diritto. L'incostituzionalita' nei confronti dell'art. 3 della Costituzione sta proprio qui: una tipologia contrattuale non dipende dalla forma (mediante formulari o meno) con cui il contratto e' concluso, ma dagli elementi costitutivi ed identificanti il rapporto giuridico! Non si puo' confondere la forma con la tipologia contrattuale, ne' far dipendere dalla forma il tipo tutela giurisdizionale apprestata ad una identica situazione giuridica. Tutto cio' premesso, si ritiene che sia contrario al principio di ragionevolezza far dipendere dalla forma del contratto il tipo di tutela giudiziale che esso puo' trovare. Pertanto si ritiene l'art. 113 comma 2 incostituzionale, per contrarieta' con l'art. 3 della Costituzione e con il principio di ragionevolezza, nella parte in cui esclude, solo in base ad elementi formali, il giudizio di diritto previsto invece per i contratti che sono stati conclusi mediante sottoscrizione di moduli o formulari. 4. - Infine l'ulteriore profilo di contrarieta' si coglie nel caso in cui la causa di competenza del giudice di pace inferiore ad Euro 1.100,00 e quindi sottoposta al giudizio di equita' risulti connessa con altra causa di competenza di altro giudice. L'art. 40 commi 6 e 7 c.p.c. prevede infatti la realizzazione del simultaneus processus con la conseguenza che una causa (anche di valore fino ad Euro 1.100,00) di competenza del giudice di pace che tuttavia sia connessa ad altra causa pendente avanti al tribunale, verra' attratta nella sfera di competenza di quest'ultimo. Il giudice di pace infatti dovra', ex art. 40 comma 7 c.p.c., pronunciare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale. Cosicche' quella controversia che, se non fosse connessa, sarebbe stata decisa secondo equita', per il sol fatto che e' pendente, avanti al Tribunale, una causa cui e' connessa, rientrando cosi' nella competenza di quest'ultimo giudice, non verra' decisa secondo equita', ma secondo diritto. Orbene la circostanza che il criterio di giudizio (secondo equita' o secondo diritto) venga a dipendere, in concreto, dalla mera proposizione di una domanda connessa non puo' tradursi in una irragionevole disparita' di trattamento di identiche situazioni sostanziali. Va quindi rilevata la contrarieta' all'art. 3 della Costituzione dell'art. 113 comma 2 c.p.c. in relazione all'art. 40 commi 6 e 7 c.p.c. 5. - Un ulteriore profilo di incostituzionalita' si avra' in quei casi in cui l'applicazione delle norme di diritto si ponga necessaria per la soluzione della controversia in quanto insostituibili da norme di equita'. Il legislatore non ha infatti preso in considerazione il caso in cui il giudice civile non debba applicare norme civili per risolvere la controversia, ma sia tenuto ad applicare norme penali in quanto il danneggiato da reato ha deciso di agire in sede civile per il risarcimento del danno (inferiore ad Euro 1.100,00). Orbene secondo quanto dispone l'art. 113 comma 2 c.p.c. il giudizio innanzi al giudice di pace e' un giudizio intuitivo che non presuppone e non richiede la conoscenza della norma giuridica da applicare alla fattispecie. Pertanto legittimato sarebbe il g.d.p. a non prendere neppure in considerazione la norma penale ovvero applicarla come regola d'equita' solo nel caso in cui la reputi conforme all'equita'. La differenza delle conseguenze sostanziali fra la richiesta del risarcimento nell'ambito del giudizio penale mediante la costituzione di parte civile ovvero direttamente in sede civile si risolve in una inaccettabile differenziazione in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. B) Contrarieta' all'art. 24 della Costituzione. 1. - La contrarieta' dell'art. 113 comma 2 c.p.c. nei confronti dell'art. 24 della Costituzione, non avvertita dalla Corte di cassazione, e' invece stata fermamente sostenuta da autorevole dottrina (Cipriani, Il giudizio di equita' necessario, in Foro it., 1985, V, 39; E.F. Ricci, Note sul giudizio di equita', in Riv. dir. proc., 1993, 408; R. Martino, Il giudizio di equita' necessario secondo le Sezioni unite: profili di illegittimita' costituzionale, in Giust. civ., 1999, 3252, ss.). L'art. 24 comma 1 stabilisce che «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi». Cio' significa che se un diritto soggettivo e' attribuito ad un qualsiasi soggetto da una norma di diritto sostanziale, non vi e' «azione» degna di questo nome, se il giudice adito puo' disapplicare la norma dalla quale il diritto soggettivo discende o, addirittura, se, come impone l'art. 113 comma 2 quale diritto vivente, il giudice non e' tenuto nemmeno a ricercare quella norma. Pertanto e' da ritenere che il giudizio di equita', nel quale si possa prescindere o addirittura non sia neppure necessario conoscere le norme di legge astrattamente applicabili, finisce per disconoscere i diritti soggettivi che proprio quelle norme pongono, ponendosi cosi' in contrasto con l'art. 24 della Costituzione. A siffatta conclusione ancor piu' si giunge utilizzando come ausilio interpretativo dell'art. 24 della Costituzione l'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, secondo un procedimento, che si sta diffondendo nella giurisprudenza costituzionale e non solo del nostro Paese (cfr. Corte Est. sent. n. 168/1994), di interpretazione, anche evolutiva, della Costituzione alla luce di una convenzione internazionale sui diritti dell'uomo. Tale art. 6 Conv. cit. stabilisce che «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti». Come si vede se da un lato l'art. 24 della Costituzione stabilisce che «Tutti possono agire a tutela dei propri diritti», l'art. 6 della CEDU a sua volta dispone che esiste un vero e proprio diritto dell'uomo a rivolgersi ad un giudice che decida sui «rights» and «obligations» (cosi' diritti e doveri nella versione inglese della Convenzione). Ora, se tuttavia il giudice non deve ricercare, giusta l'art. 113 comma 2, la norma applicabile al caso sottoposto finira' per non decidere su quel diritto che detta norma prevede proprio perche' essa non ha ricercato. Pertanto ancora piu' evidente e' la contrarieta' dall'art. 113 comma 2 c.pc. all'art. 24 della Costituzione, letto questo alla luce del disposto dell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 2. - Se da una parte l'art. 113 comma 2 c.p.c. lede il diritto all'azione, dall'altra lede il diritto alla difesa del convenuto. Infatti e' noto che il valore della causa si determina dalla domanda (art. 10 c.p.c.) secondo il valore indicato dalla parte, sicche' criteri meramente soggettivi delle parti vengono ad incidere sulla forma secondo la quale al giudice sara' imposto decidere: secondo equita' o secondo diritto. Pertanto la parte che vanti un credito superiore ad Euro 1.100,00 semplicemente frazionando la pretesa risarcitoria in piu' azioni (la frazionabilita' del credito e' stata ritenuta conforme al principio di buona fede da Cass., sez. un., sentenza n. 108 del 2000) potra' far si' che la sentenza impugnata non solo sia frutto di un giudizio di equita', ma anche che non sia appellabile e altresi' che non sia ricorribile per cassazione per violazione delle norme di diritto, nonche' non sia censurabile sotto il profilo della motivazione se non nel caso in cui essa sia solo apparente o radicale od insanabile contraddittorieta'. E' palese che il diritto del convenuto di godere del doppio grado di giurisdizione, il diritto della possibilita' di veder applicate le norme di diritto, che prima ancora del giudizio, avevano regolato i rapporti fra le parti, il diritto di ricorrere per cassazione ex art. 24 e 111 comma 7 della Costituzione, possono venire frustrati per solo volere della controparte che, astutamente, abbia indicato un valore della controversia inferiore ad Euro 1.100,00. Tale possibilita' rimessa ad una delle parti di ledere le garanzie procedurali e sostanziali della controparte, che null'altro sono che espressione del diritto alla difesa di cui all'art. 24 Cost., si risolve proprio nella violazione dell'art. 24 della Costituzione. C) Contrarieta' all'art. 101 comma 2 della Costituzione. L'art. 101 comma 2 statuisce che «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Cio' comporta l'esclusiva soggezione del giudice alla legge ed impone che l'apprezzamento del giudice con riferimento a canoni e criteri extragiuridici sia circoscritto entro margini precostituiti. La contrarieta' della norma nei confronti dell'art. 101 comma 2 della Costituzione e' stata sostenuta dalla piu' accorta dottrina processualistica (Cerino Canova, Principio di legalita' e giudizio di equita', in Foro it., 1985, V, 30; Balena, Il processo davanti al giudice di pace, in Scritti in onore di E. Fazzalari, Torino, 1993, II, 732). Pare utile per analizzare il significato dell'art. 101 della Costituzione, partire da un'analisi dei lavori preparatori della Costituzione. I lavori preparatori dell'art. 101 della Costituzione hanno la loro genesi nella commissione per la Costituzione e specificatamente nella seduta del 13 dicembre 1946 venne discusso l'art. 2 del progetto Calamandrei cosi' concepito: «I giudici, nell'esercizio delle loro funzioni, dipendono soltanto dalla legge che essi interpretano ed applicano nel caso concreto secondo la loro coscienza, in quanto la riscontrino conforme alla Costituzione». Questa formulazione veniva criticata in seno alla commissione da Giovanni Leone - per parte sua proponente del seguente precetto: «Il potere giudiziario provvede alla interpretazione ed applicazione del diritto» - per il fatto che la soggezione del giudice alla legge, essendo comune a tutti i cittadini, avrebbe rappresentato una disposizione superflua. La replica del proponente Calamandrei e' illuminante. Egli ritenne infatti «che sia necessario affermare, contrariamente al parere dell'on. Leone, il principio della dipendenza del giudice dalla legge, che ha una grande importanza anche pratica, in relazione particolarmente a quegli ordinamenti giudiziari, in cui il giudice non e' vincolato dalla legge, ma decide caso per caso». La precisazione di Calamandrei convinceva anche l'on. Leone e faceva si che la commissione approvasse la formula da lui proposta, sia pure con l'eliminazione della conformita' della legge alla Costituzione. La regola cosi' stabilita formava oggetto di discussione da parte dell'assemblea costituente il 20 novembre 1947 quando venivano proposti emendamenti soppressivi di essa tra i quali quelli volti alla soppressione dell'espressione «secondo coscienza». A tale ultimo proposito l'on. Ruini, presidente della commissione per la Costituzione, osservava che «A fronte della formula originaria si presenta un dilemma: o questa e' una dichiarazione generica di ovvio significato, ed allora possiamo anche abbandonarla, senza molto rincrescimento; o apre la via ad una interpretazione che sarebbe pericolosa, ed allora vi e' una ragione in piu' per abbandonarla. Io non credo che, parlando di coscienza del giudice, si possa intendere la tendenza e l'ammissione del cosiddetto «diritto libero», costruzione teorica per me inammissibile; ma non discara, fra gli altri, all'hitlerismo. Ad ogni modo, poiche' e' stato manifestato un dubbio, ed il togliere l'inciso non nuoce, il comitato consente alla sua soppressione». Il testo che veniva cosi' abbreviato e successivamente approvato, si condensava nella formula del vigente art. 101 cpv.: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Ed e' questo un precetto che racchiude in se' due tratti espliciti e confermati nei lavori preparatori: l'indipendenza del giudice e pero' il dovere di conformarsi ad una norma precostituita. Pertanto la disposizione dell'art. 113 comma 2 c.p.c. che rimette al giudice il potere di decidere senza doversi conformare ad una norma precostituita e quindi, soggetto ad essa, farne applicazione, pare in conflitto con l'art. 101 comma 2 della Costituzione. D) Contrarieta' all'art. 111 comma 7 della Costituzione. L'art. 111 comma 7 della Costituzione stabilisce che «Contro le sentenze (...), pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, e' sempre ammesso ricorso per Cassazione per violazione di legge. Si puo' derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra». Tuttavia il ricorso per Cassazione per violazione di legge e' escluso nelle sentenze pronunciate secondo equita', proprio per il fatto che in quelle sentenze non viene applicato il diritto, ma sempre ed in ogni caso una regola d'equita'. La conseguenza, sostenuta dalla S.C., e' quindi che le sentenze del g.d.p. pronunciate secondo equita' non possono essere impugnate ex art. 360 comma 3, c.p.c. appunto per violazione di norme di diritto, se non nel limitato caso in cui le norme di diritto violate siano quelle costituzionali o comunitarie. Tuttavia l'art. 111 comma 7 della Costituzione non limita il ricorso per Cassazione alla violazione del diritto costituzionale o comunitario, ma si riferisce in generale alla «legge». Non puo' quindi ammettersi «che il controllo di determinate sentenze in sede di legittimita' sia circoscritto ad alcune soltanto delle violazioni di legge ipoteticamente denunciabili» (Balena, Il processo, cit., 732). E' quindi da ritenere che la lettura sistematica degli artt. 111 comma 7 Cost. e 101 comma 2 Cost., implichi che le sentenze debbano essere pronunciate sempre secondo diritto con la conseguenza che e' diritto costituzionalmente garantito di ogni soggetto dell'ordinamento denunciare la violazione di quel diritto mediante ricorso per cassazione (Verde, La nuova competenza del pretore e del conciliatore, in Riv. dir. proc., 1985, 171). Una diversa previsione, quale quella dell'art. 113 comma 2 c.p.c. che comporta da un lato che le sentenze non siano pronunciate secondo diritto e dall'altro che non siano impugnabili per violazione di norme di diritto (che appunto non vengono applicate) e' contraria all'art. 111 comma 7 della Costituzione. E) Contrarieta' all'art. 134 della Costituzione. La previsione secondo la quale il giudice non debba fare applicazione della norma giuridica comporta un ulteriore ordine di problemi. La suprema Corte ha ammesso che il giudice debba conformarsi alla Costituzione e solo in caso di violazione della stessa la sentenza possa essere impugnata per violazione di legge ex art. 360 comma 1 n. 3. Tuttavia tale previsione e' contraria all'art. 134 della Costituzione in quanto, in taluni casi, finirebbe per togliere alla Corte costituzionale il suo ruolo istituzionale di sindacare sulla costituzionalita' delle leggi. Infatti va valutato il caso in cui il giudice di pace abbia applicato una legge in quanto, a suo parere, equa, ma tale legge sia in conflitto e violi la Costituzione. Secondo quanto affermato dalla suprema Corte in caso di violazione della Costituzione la sentenza puo' essere impugnata per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e nel qual caso la norma di diritto violata sarebbe proprio la Costituzione, ma violata proprio sul presupposto dell'applicazione di una legge incostituzionale. Pertanto la Cassazione chiamata a pronunciarsi sulla violazione della Costituzione dovrebbe pronunciarsi sulla legittimita' costituzionale proprio di quella legge, equa, ma incostituzionale. Cio' facendo vi sarebbe un'impropria sostituzione di ruoli in quanto la incostituzionalita' di una legge finirebbe per essere decretata, nel caso di specie, da un organo differente dalla Corte costituzionale. Cosi' di fatto verrebbe meno il rispetto del sistema di sindacato accentrato della costituzionalita' delle leggi, in favore invece di uno diffuso, o meglio, accentrato nella Cassazione (essendo le sentenze cosi' emesse unicamente ricorribili per cassazione). Pertanto l'art. 113 comma 2 c.p.c., quale diritto vivente, e' da reputarsi in conflitto anche con l'art. 134 della Costituzione. Va infine aggiunto che una lettura sistematica degli artt. 24, 101 comma 2 e 111 comma 7 della Costituzione milita a sostegno della tesi di incostituzionalita' sostenuta, cosi' come appunto rilevato dalla dottrina. L'art. 24 sancisce il diritto d'azione e lo riconnette alla «tutela di un proprio diritto soggettivo ed interesse legittimo». L'art. 101 completa questo concetto stabilendo che quella norma giuridica, che e' fondamento del diritto e della sua tutela giudiziale, e' anche la misura della decisione del giudice: il vincolo posto all'attore trova piena corrispondenza in un omologo vincolo per il giudice. L'art. 111 comma 7 della Costituzione, con la previsione del ricorso per cassazione per violazione di legge conferisce ulteriore consistenza a questa relazione biunivoca diritto sostantivo-processo che regge l'intera vicenda giudiziale dalla domanda alla pronuncia. La recezione costituzionale dell'impugnazione di legittimita' implica «la consacrazione delle due funzioni essenziali che istituzionalmente appartengono alla Cassazione: nomofilachia e uniformita' della giurisprudenza» (Cerino Canova, op. cit., 31). E queste sono funzioni che si esplicano verso le sole pronunce di merito e consistono soprattutto nel controllo degli errores in iudicando e cioe' nelle violazioni delle norme di diritto materiale vincolanti per il giudice. Dette funzioni sono espressamente affidate alla suprema Corte dall'art. 65 r.d. n. 12 del 1941 che cosi' dispone: «La Corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unita' dal diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni». Tali attribuzioni ad essa affidate dalla legge ordinaria hanno poi assunto il rango costituzionale attraverso il disposto dell'art. 111 della Costituzione. E tuttavia la suprema Corte, nei confronti delle pronunce del g.d.p. nelle cause di valore inferiore ad Euro 1.100,00 pronunciate secondo equita' senza applicazione del diritto, non potra' esercitare dette funzioni in evidente contrasto non solo con l'art. 65 r.d. cit., ma proprio con l'art. 111 della Costituzione. Dal quadro costituzionale sovra esposto e' quindi da ritenere che la giurisdizione altro non sia che l'attuazione di norme di diritto materiale preesistenti con la conseguenza che una norma che discosti la funzione giurisdizionale da tale compito e' in conflitto con la Costituzione ed in particolare con gli articoli 24, 101 comma 2, 111 comma7. Non vi e' dubbio che la questione di costituzionalita' presupponga il recepimento della dottrina del diritto vivente, poiche', si preme sottolinearlo, e' impugnato l'art. 113 comma 2 c.p.c. secondo il diritto vivente e non l'art. 113 comma 2 c.p.c. come norma suscettibile di molteplici e differenti interpretazioni. Sembra pertanto utile brevemente riassumere il rapporto fra il diritto vivente e il giudizio di costituzionalita' cosi' come e' stato affrontato dalla piu' recente giurisprudenza costituzionale. Ove la questione di costituzionalita', come nel caso oggi all'attenzione di codesto ill.mo giudice, abbia ad oggetto il diritto vivente, cio' significa che si chiede che la Corte costituzionale sindachi la disposizione impugnata per il significato normativo attribuitole dall'interpretazione giurisprudenziale che si e' venuta consolidando. Gia' a partire dalla sent. 24 del 1978 la Corte costituzionale osservava: «L'interpretazione data alla norma denunziata dall'ordinanza di remissione riflette l'ordinamento ormai pacifico degli organi giurisdizionali istituzionalmente chiamati ad applicarla. Pertanto questa Corte non puo' non prenderne atto ed esaminare, movendo da tale presupposto, il dubbio di legittimita' costituzionale sollevato con l'ordinanza in epigrafe». E' poi in numerose altre decisioni riconosce che alla norma vivente «occorre aver riguardo per la soluzione della questione» (Corte costituzionale, sent. n. 32 del 1971), ovvero che la Corte e' «tenuta a pronunciarsi sulla legittimita' costituzionale della norma» espressione «di una cosi' diffusa linea interpretativa da non consentire che la si possa disattendere nella presente sede» (Corte costituzionale, sent. 113 del 1986). Tuttavia l'esistenza di un diritto vivente «non significa che esso equivale a diritto conforme alla Costituzione» (Corte costituzionale, sentt. 69 del 1982 e 167 del 1984). E quindi proprio nei casi in cui detto diritto vivente espressione di una consolidata giurisprudenza sia in conflitto con i precetti costituzionali potra' essere oggetto del sindacato di costituzionalita'. Il ruolo delle sezioni unite risulta secondo la Consulta essenziale, in particolare quando risolvendo un contrasto ermeneutico si determina il prevalere di una soluzione normativa sull'altra. In particolate pare utile citare la sentenza n. 260 del 1992 ove si parla di «diritto vivente formatosi per effetto della soluzione adottata dalle sezioni unite della Cassazione» ovvero la decisione n. 292 del 1985 ove si parla di «diritto vivente, autorevolmente rappresentato dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione che, con due ordinanze, ha eliminato il contrasto tra giudici di merito». E proprio nei confronti di un diritto vivente basato sull'interpretazione delle sezioni unite della Cassazione si sono avute declaratorie di incostituzionalita', in particolare nelle sentenze n. 185 del 1995; n. 332 del 1988; n. 692 del 1988; n. 1143 del 1988; n. 61 del 1991; 156 del 1991. Piu' recentemente a far chiarezza sulla possibilita' di sottoporre al vaglio della Corte costituzionale una consolidata e ferma esegesi della Cassazione sovvengono le sentenze n. 110 del 1995 e 118 del 1995. Nella sentenza n. 110 del 1995 cosi' si esprime la Consulta: «Quando il giudice a quo assume una interpretazione in termini di diritto vivente allora e' consentito chiedere l'intervento di questa Corte affinche' controlli la compatibilita' dell'indirizzo consolidato con i principi costituzionali». Nella successiva sentenza n. 118 del 1995 la Corte costituzionale ha ribadito il concetto gia' precedentemente espresso: «Assumendo l'interpretazione consolidata della Cassazione quale diritto vivente e' possibile chiederne una verifica sul piano della costituzionalita', rientrando cio' nel sindacato di legittimita' di questa Corte». Ed il caso odierno va guardato proprio in quest'ottica. Vi e' una sentenza delle sezioni unite della Cassazione, la n. 716 del 1999, cui ha fatto seguito una serie di pronunce delle sezioni semplici ad essa conformi, che si sono susseguite negli anni, accogliendone senza discostarsene l'insegnamento interpretativo. Pertanto proprio sulla base di quell'interpretazione delle sezioni unite, fatta propria anche dalle sezioni semplici, si puo' affermare l'esistenza di un diritto vivente dell'art. 113 comma 2 c.p.c. Ed e' nei confronti di esso che si chiede che la Corte costituzionale si pronunci sulla sua conformita' ai precetti costituzionali nei sensi che la Consulta ha ammesso, tra le altre, nelle succitate sentenze n. 110 del 1995 e 118 del 1995. Pertanto a nulla rilevano le altre interpretazioni possibili del concetto di equita' che sono state respinte dall'ormai consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimita'. L'equita' come risulta dall'art. 113, comma 2 c.p.c. sara' quindi, secondo quanto specificato nella sentenza n. 716 del 1999 della Cassazione, un'equita' sostitutiva, non integrativa, e nel procedimento di equita' il giudice non dovra' ricercare la norma astrattamente applicabile. Infine merita attenzione un'ultima riflessione sulla non manifesta infondatezza della questione sollevata. Va infatti precisato che al giudice a quo e' rimesso un giudizio sulla non manifesta infondatezza e quindi sull'esistenza di un fumus che la questione di costituzionalita' puo' avere, poiche', per volere del legislatore costituzionale, il giudizio sulla fondatezza della domanda spettera' solo ed unicamente alla Corte costituzionale. Ritiene l'odierno istante che le tesi sopra esposte non siano prive di un loro senso e, se non altro perche' prospettate anche da dottrina di indubbia autorevolezza (cfr. Cerino Canova, Balena), non possano ritenersi manifestamente infondate. Ed inoltre nella presente istanza sono state sollevati numerosi profili di illegittimita' della norma e certamente taluni di essi appaiono senza dubbio non manifestamente infondati. Sara' poi compito della Corte costituzionale analizzare ogni singolo profilo di illegittimita' qui sollevato. In particolare nel valutare la non manifesta fondatezza dei profili di illegittimita' costituzionale si sottolinea l'importanza di tener presente quel principio sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 349/1985 secondo la quale «L'affidamento del cittadino nella certezza giuridica costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto». Risulta certo evidente come una tutela giurisdizionale che non permetta di richiedere l'applicazione delle norme, ma si basi sulla applicazione di soggettive regole (varianti da giudice a giudice) certamente configge e mina quel principio di certezza giuridica che sta, secondo la Corte costituzionale, alla base dello Stato di diritto. Per tutti i suesposti motivi e' da ritenersi che la questione di costituzionalita' sollevata dell'art. 113 comma 2 c.p.c., secondo il diritto vivente, nei confronti degli artt. 3, 24, 101, comma 2 e 111, comma 7, 134 della Costituzione non sia manifestamente infondata. E' inoltre indubbio che l'eventuale incostituzionalita' dell'art. 113, comma 2 c.p.c. ha una diretta rilevanza nel presente giudizio poiche' la caducazione della norma ad opera della Corte costituzionale imporrebbe a S. V. ill.ma di giudicare secondo diritto anziche' secondo equita'. La rilevanza non consiste quindi solo nel fatto che l'esito delle controversia potrebbe essere differente se giudicata secondo diritto o secondo equita' sulla base di una possibile discrepanza fra regola d'equita' e regola di diritto, ma in particolare rileva per il fatto che la decisione, sia essa di accoglimento o di rigetto delle richieste attoree, sara' contenuta in una sentenza d'equita' o in una sentenza di diritto. Nel primo caso alla parte soccombente, attore o convenuto che sia, sara' impedito da una parte ricorrere per violazione di legge in Cassazione, perche' in ogni caso e' applicata la norma d'equita' (foss'anche coincidente con il dato legale), e dall'altra la sentenza non potra' essere censurata ove la motivazione appaia illogica o contraddittoria. L'art. 113, comma 2 c.p.c. preclude infatti la possibilita' di denunciare in Cassazione i vizi logici e di motivazione, tranne nei casi ove la motivazione sia da ritenersi meramente apparente o inesistente. Nei casi invece di motivazione solo illogica e contraddittoria non sara' ammessa alcuna forma di censura. E' quindi chiara la rilevanza della questione poiche' investe due punti fondamentali della decisione del presente procedimento: 1) l'obbligo di applicare la legge ovvero di applicare la regola d'equita' e quindi l'impossibilita' in quest'ultimo caso prescritto dall'art. 113, comma 2 c.p.c. di ricorrere contro la sentenza per violazione di legge poiche' la stessa non e' stata applicata essendo invece stata applicata la regola d'equita' anche nel caso in cui essa coincida con la legge; 2) la necessita' per il giudice di motivare con un procedimento logico-giuridico ineccepibile la sua decisione attesa l'impossibilita' del ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. tranne nei casi di mera apparenza o inesistenza della motivazione. Pertanto la questione sollevata e' rilevante nel presente giudizio in quanto direttamente incidente sulla natura della sentenza d'equita' o di diritto, decisoria della controversia con tutte le connesse conseguenze sul piano dell'impugnazione e sull'obbligo per il giudice di motivare adeguatamente e secondo un processo argomentativo esente da vizi logici. La rilevanza della questione attiene inoltre anche ad un altro profilo: l'interprete, ed in primis il giudice, e' sempre tenuto a seguire il procedimento esegetico di cui agli articoli 1362 ss. c.c. per interpretare un contratto. L'eventuale errore nel procedimento interpretativo seguito sara' sempre, in un normale procedimento di diritto, denunciabile sotto il profilo della violazione delle norme relative all'interpretazionne dei contratti. Pertanto la questione e' altresi' rilevante in quanto l'eventuale dichiarazione dell'illegittimita' della norma imporrebbe a codesto giudice il rispetto anche delle norme sull'interpretazione dei contratti al quale invece nell'attuale vigenza dell'art. 113, comma 2 c.pc. non e' affatto tenuto. Si precisa infine che nella presente causa si e' di fronte a due contratti intervenuti uno fra lo Zulberti ed il Ceretti (mandato) ed un secondo fra lo Zulberti ed il Russo (espromissione) e quindi le norme di cui agli articoli 1362 c.c. e segg. sarebbero certamente la fonte per l'interpretazione di detti contratti e vincolerebbero il giudice in un procedimento secondo diritto, ma non lo vincolano come ora in un giudizio secondo equita». Dopo quanto esposto, si ritiene quindi di sollevare nei limiti e nel senso come sopra prospettati, questione di legittimita' costituzionale.