IL TRIBUNALE

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    Il  giudice,  pronunciandosi a scioglimento della riserva assunta
all'udienza del 4 luglio 2003 nell'ambito del processo emarginato nei
confronti  di  Safadi  Abdelkrim,  nato  a  Casablanca  (Marocco)  il
4 gennaio  1961,  residente in Cuneo, via XXVIII Aprile n. 27, difeso
di fiducia avv. Aldo Serale del Foro di Cuneo;
    Premesso  che  Safadi  Abdelkrim  e'  stato citato a giudizio per
rispondere  dei  reati  di  cui  agli artt. 648, 474 c.p. commessi in
Torino il 17 marzo 2001;
        che   il  processo  a  suo  carico  si  trova  gia'  in  fase
dibattimentale,  essendo  stato  dichiarato aperto il dibattimento in
data  25 marzo  2003  ed  essendo state in pari data ammesse le prove
richieste dalle parti, la cui assunzione era prevista all'udienza del
4 luglio u.s.;
        che,  invece,  in  apertura  della scorsa udienza il pubblico
ministero ha proposto istanza di applicazione della pena nella misura
di  anni  1  mesi  6  di  reclusione  ed  Euro 300  di multa ai sensi
dell'art.  444,  comma  1  c.p.p.  come modificato dall'art. 1, legge
12 giugno 2003, n. 134;
        che,  data  la  gia'  avvenuta  scadenza dei termini previsti
dagli  artt. 446, comma 1 e 555, comma 2 c.p.p. per la presentazione,
dell'istanza  di  patteggiamento,  il  pubblico ministero ha invocato
l'applicazione  della  norma  transitoria di cui all'art. 5, comma 1,
legge  n. 134/2003,  il  quale testualmente recita: «l'imputato, o il
suo  difensore  munito  di procura speciale, e il pubblico ministero,
nella  prima  udienza utile successiva alla data di entrata in vigore
della  presente  legge,  in  cui sia prevista la loro partecipazione,
possono  formulare  la  richiesta  di  cui  all'art. 444 c.p.p., come
modificato  dalla  presente legge, anche nei processi penali in corso
di  dibattimento  nei  quali,  alla  data  di entrata in vigore della
presente  legge,  risulti  decorso il termine previsto dall'art. 446,
comma  1  c.p.p.  e  cio' anche quando sia gia' stata presentata tale
richiesta,  ma  vi  sia  stato  il  dissenso  da  parte del p.m. o la
richiesta  sia  stata  rigettata da parte del giudice e sempre che la
nuova   richiesta   non   costituisca   mera   riproposizione   della
precedente»;
        che il difensore dell'imputato, sebbene non munito di procura
speciale,  ha  chiesto  - in applicazione dell'art. 5, comma 2, legge
n. 34/2003  -  la  sospensione  del  dibattimento «per un periodo non
inferiore  a  quarantacinque giorni per valutare l'opportunita' della
richiesta»;
    Tutto cio' premesso;

                            O s s e r v a

    Ad  avviso  di  questo giudice, la disciplina dettata dalla legge
12 giugno  2003,  n. 134,  che ha introdotto nell'ordinamento il c.d.
«patteggiamento  allargato»,  ed  in particolare la norma transitoria
dettata  dall'art. 5  in  relazione  alla possibilita' di patteggiare
pene  contenute  entro i due anni di reclusione anche nei processi in
corso,  si pone in contrasto con la Costituzione, di cui pare violare
gli artt. 3 e 111 della Carta fondamentale.
    La possibilita' di proporre istanza di applicazione della pena ex
art.  444 c.p.p. in misura non superiore a due anni di reclusione era
gia'  prevista  prima dell'entrata in vigore della legge n. 134/2003,
la quale infatti non ha minimamente inciso su tale facolta'.
    E'   stato  evidenziato  dai  primi  commentatori  che  la  legge
n. 134/2003  non  ha  introdotto un «nuovo» istituto (vale a dire una
sorta di «terzo» rito alternativo), che si affianca al patteggiamento
gia'  contemplato nel codice di rito, bensi' - e piu' semplicemente -
ha   soltanto   ridisegnato  quest'ultimo,  ampliandone  l'ambito  di
applicazione.
    Infatti, anche a seguito delle modifiche apportate dalla novella,
l'istituto  rimane  disegnato  nei  suoi  caratteri  fondamentali  in
maniera  unitaria,  come  rito alternativo a quello ordinario, legato
alla  negoziazione  dell'entita'  della pena tra accusa e difesa, con
implicita    rinuncia   da   parte   dell'imputato   all'accertamento
dibattimentale dei fatti contestatigli in cambio dell'applicazione di
una pena diminuita fino ad un terzo.
    In  quest'ambito,  poi,  il  legislatore  ha tracciato un'inedita
linea  di  demarcazione  rappresentata dalla negoziazione di una pena
detentiva  non  superiore  ai due anni, ribadendo solo in questi casi
l'operativita' dei benefici originariamente collegati alla scelta del
rito   e   ammettendo,   sempre  solo  in  questi  casi,  un  accesso
indiscriminato  al  patteggiamento, senza limitazioni cioe' legate al
tipo del reato o del suo autore.
    Stando  cosi' le cose, si puo' senz'altro affermare che l'essenza
dell'intervento  di  riforma  puo' essere individuata sostanzialmente
nell'innalzamento  dei  limiti  della  pena  detentiva negoziabile ai
sensi dell'art. 444 c.p.p. e che l'obiettivo che il legislatore si e'
prefisso  attraverso la legge n. 134/2003 e' quello di alleggerire il
contenzioso   penale,   conferendo   al   patteggiamento  la  massima
potenzialita' deflattiva.
    Nella  realta',  tuttavia,  questo  obiettivo  non pare veramente
perseguito, almeno con riferimento, ai processi in corso, ai quali si
applica   la   norma  transitoria  di  cui  all'art.  5  della  legge
n. 134/2003.
    Tale  norma prevede una generalizzata restituzione in termini per
la  proposizione (o riproposizione) della richiesta di patteggiamento
anche  per reati in precedenza patteggiabili con pena contenuta entro
i  due  anni  di  reclusione  ed anche nei casi in cui l'imputato non
abbia   mai  manifestato  in  passato  la  volonta'  di  accedere  al
patteggiamento  e  sia  stato,  di  conseguenza, dichiarato aperto il
dibattimento.
    Inoltre, la norma in commento prevede la sospensione obbligatoria
del  dibattimento  per  un  periodo  minimo  di  45  giorni, solo che
l'imputato  ne  faccia  richiesta,  semplicemente  per  consentire  a
quest'ultimo di riflettere sull'opportunita' di presentare istanza di
patteggiamento,  e  tale  possibilita' e' concessa, ancora una volta,
anche nel caso in cui l'imputato - pur avendone avuto la possibilita'
- non abbia mai inteso presentare istanza alcuna.
    La  disciplina  complessivamente risultante confligge apertamente
con  l'obiettivo  della  deflazione  del  dibattimento perseguito dal
legislatore   e   si   pone  in  contrasto  con  gli  artt. 3  e  111
Costituzione.
    I  profili  di  incostituzionalita'  possono essere enucleati, ad
avviso di questo giudice, come segue.
    Quanto  al  contrasto  con l'art. 3 Costituzione, giova ricordare
anzitutto  che  dalla stessa Corte costituzionale e' stato piu' volte
posto in luce il carattere premiale del rito del patteggiamento (cfr.
ordinanza  n. 172  del  1998),  che  riposa sul fatto che l'interesse
dell'imputato  a beneficiare dei vantaggi conseguenti a tale giudizio
in  tanto  rileva  in  quanto  egli  rinunzi  al dibattimento e venga
percio'  effettivamente  adottata  una  sequenza  procedimentale  che
consenta   di  raggiungere  l'obiettivo  di  rapida  definizione  del
processo  perseguito dal legislatore con l'introduzione di detto rito
speciale (cfr. sentenza n. 129 del 1993).
    La   disciplina   transitoria   introdotta   dall'art.  5,  legge
n. 134/2003,  invece,  ha  totalmente  disatteso  il  principio della
rapida   definizione  del  processo,  prevedendo  una  indiscriminata
rimessione  in termini nei confronti di tutti gli imputati, per tutti
i  reati  ed  in relazione a tutti i processi in corso, a prescindere
dalla  fase processuale in cui si trovano e, dunque, anche in fase di
discussione.
    L'irragionevolezza di tale disciplina - completamente sbilanciata
in  favore  di  un  diritto  assoluto  dell'imputato, che non e' dato
rinvenire  nell'ordinamento  -  appare  ancora  piu'  evidente ove si
consideri  che,  a  semplice  richiesta  dell'imputato,  occorrerebbe
procedere  alla sospensione del processo per un periodo non inferiore
a  45 giorni  anche  nel  caso  in  cui,  come  quello che ci occupa,
l'imputato  non  ha  mai presentato nei termini di cui agli artt. 446
comma  1  e  555,  comma  2  c.p.p.  la  benche'  minima  proposta di
patteggiamento.
    In tal modo, evidentemente, egli ha gia' dimostrato nei fatti che
il  rito  premiale  del  patteggiamento  non  rivestiva per lui alcun
interesse e che, pertanto, intendeva sottoporsi al giudizio ordinario
di  merito, con tutte le garanzie anche in relazione all'accertamento
del  fatto e della responsabilita' che ne costituiscono indefettibile
corollario.
    La  riforma  del «patteggiamento allargato», dunque, non riguarda
tale categoria di imputati, posto che:
        a) identica  e'  la  pena entro la quale e' gia' possibile il
patteggiamento;
        b) identici  sono  i  benefici  sostanziali  connessi  ad una
pronuncia di patteggiamento;
        c) identici  sono  gli  atti sulla base dei quali operare, se
del caso, la scelta del rito deflattivo.
    Non si comprende, pertanto, in base a quale principio si dovrebbe
consentire  all'imputato di riflettere per un periodo non inferiore a
45  giorni  per  nuovamente valutare cio' che egli ha gia' ampiamente
valutato.
    Ed ancor piu' irragionevole appare la disciplina complessiva, ove
si  rifletta  sul  fatto  che  la  legge  non  prevede  il termine di
sospensione per proporre l'istanza di patteggiamento, ma soltanto per
valutare  l'opportunita'  di  tale  scelta,  con cio' ottenendosi nei
fatti  un  risultato  opposto a quello dichiaratamente perseguito dal
legislatore:  l'ingiustificata  lungaggine del processo piuttosto che
la sua rapida definizione!
    Cio'  determina  un  ulteriore  profilo  di  incostituzionalita',
ravvisabile  nella  violazione del principio della ragionevole durata
del processo di cui all'art. 111 Costituzione.
    E'  gia' stato posto in luce da piu' parti che il principio della
durata ragionevole del processo non e' stato introdotto per beneficio
esclusivo dell'imputato, che in realta' in alcuni casi ha l'interesse
opposto, cioe' l'interesse a veder procrastinare il piu' possibile la
conclusione  del  processo  a  suo carico per usufruire degli effetti
della prescrizione ovvero per evitare, ad esempio, l'espiazione della
pena  detentiva,  il pagamento di spese processuali o il risarcimento
del danno in favore delle parti civili.
    Il principio della ragionevole durata del processo, viceversa, e'
principio  di portata generale, posto a tutela e garanzia di tutte le
parti  processuali  e dunque anche della persona offesa e dell'intera
collettivita',  nonche'  dello  Stato:  la prima interessata a vedere
riconosciute   le   proprie   legittime   aspettative  ed  i  secondi
interessati   ad   un   rapido   accertamento   dei   reati  e  delle
responsabilita' individuali anche a fini di prevenzione sociale.
    L'interpretazione  estensiva dell'art. 111 Costituzione, inoltre,
appare   fondata   anche   alla  luce  della  produzione  legislativa
successiva alla modifica della norma costituzionale.
    E' noto infatti che l'Italia e' stata piu' volte condannata dalla
Corte  europea  per  l'eccessiva durata dei processi e la condanna si
fonda   sul  principio  che  ciascun  paese  deve  dotarsi  di  leggi
processuali che consentano una rapida definizione dei processi.
    Per ovviare alle condanne in sede europea, l'Italia ha introdotto
la  legge  24 marzo  2001,  n. 89,  che  assegna  alle  parti un'equa
riparazione  allorche'  il processo abbia avuto una durata eccessiva,
indipendentemente dalle ragioni che l'abbiano determinata.
    L'equa  riparazione  spetta  non solo all'imputato, ma anche alla
parte  civile,  dal  che  si  evince  che  la  ragionevole durata del
processo  non  e' un diritto solo dell'imputato, ma anche delle altre
parti processuali ed assurge quindi a principio generale.
    Numerose  sono,  infatti,  le  norme processuali che stabiliscono
tempi  ragionevolmente  contenuti  per  lo  svolgimento  di attivita'
processuali  o  per  l'esercizio  di  facolta'  che il codice di rito
riconosce all'imputato, ad esempio la scelta dei riti speciali: basti
pensare,  sotto  il  primo  profilo, all'art. 477 c.p.p. sulla durata
prosecuzione   del   dibattimento   e,   sotto  il  secondo  profilo,
all'art. 458  c.p.p.  per  la  richiesta  di  rito  abbreviato  o del
patteggiamento  in  caso  di  giudizio  immediato  (15  giorni  dalla
notifica  del  decreto,  a  pena  di decadenza), agli artt. 438 e 446
c.p.p.  per  la scelta di un rito alternativo all'udienza preliminare
(fino a che non siano formulate le conclusioni); agli artt. 446 e 555
c.p.p.  per  la  richiesta  di  riti  alternativi rispettivamente nel
giudizio  direttissimo  e giudizio per citazione diretta (prima della
dichiarazione di apertura del dibattimento).
    Come  si vede, si tratta di tempi contenuti e predeterminati, che
si  giustificano  con  lo  spirito deflattivo del rito perseguito dal
legislatore,  il  quale  puo'  dirsi rispettato esclusivamente quando
l'imputato fa in effetti risparmiare allo Stato tempo e risorse umane
ed economiche.
    Tornando alla disciplina transitoria in esame, si osserva come il
legislatore   abbia   improvvisamente   invertito  la  rotta  e,  pur
vertendosi  in  materia analoga a quella precedentemente disciplinata
dalle norme richiamate, ha introdotto termini eccessivamente dilatati
per  l'esercizio di una facolta' gia' riconosciuta all'imputato anche
prima  della  riforma  e  di  cui, pur potendo usufruirne, egli aveva
deciso di non avvalersi.
    Ed  ancor  piu'  dilatato  il termine appare ove si consideri che
quel  termine,  in  realta',  non  e'  concesso  per  esercitare  una
facolta',  ma soltanto per riflettere sull'opportunita' di esercitare
la  facolta',  ben potendo l'imputato allo scadere del periodo dei 45
giorni  decidere  unilateralmente  di  non proporre alcuna istanza di
applicazione  della  pena ovvero di non accettare quella proposta dal
pubblico ministero.
    Deve   quindi   affermarsi   che  non  corrisponde  ai  parametri
costituzionali  di  ragionevolezza  (art. 3  Cost)  e  di ragionevole
durata  del  processo  (art. 111  Cost.)  la  norma  che  consente di
sospendere  indiscriminatamente  il  processo  per  45  giorni  e  di
richiedere  l'applicazione della pena anche nei processi in corso per
reati  che  sarebbero  gia'  stati  prima  patteggiabili  ad una pena
contenuta  entro  i  due  anni di reclusione ed in cui l'imputato non
aveva presentato alcuna proposta in tal senso.
    Parimenti   irragionevole   e',   infine,   la  previsione  della
decorrenza  del  termine  di  riflessione  dalla prima udienza utile,
anziche' dall'entrata in vigore della legge.
    Ogni  cittadino  e'  tenuto  a  conoscere  le  leggi pubblicate e
correlativamente  ogni imputato e' posto in grado, dal momento in cui
la  legge n. 134/2003 e' stata pubblicata, di valutare l'opportunita'
di avvalersi della pena concordata.
    A cio' si aggiunga che ogni imputato e' assistito da un difensore
con il quale ha la immediata possibilita' di consultarsi per valutare
l'opportunita' della scelta de qua.
    Ne  consegue  che  non  appare  rispondere  ad alcun principio di
ragionevolezza e di contrazione dei termini di durata del processo la
concessione  di  un  termine,  di  durata  gia'  di per se' notevole,
decorrente  per  di piu' non gia' dall'entrata in vigore della legge,
ma  dalla  prima  udienza  utile  e  senza  alcuna  distinzione fra i
processi  nei  quali  l'istruttoria e' gia' in corso o addirittura e'
gia'  conclusa; processi nei quali, pertanto, il materiale probatorio
e'  interamente  noto  all'imputato  (e  al  suo  difensore),  che e'
oggettivamente   in  grado  di  valutare  fin  da  subito  le  scelte
processuali  e  non  necessita  affatto di una pausa di riflessione -
decorrente  per di piu' dalla prima udienza utile, che potrebbe anche
essere  successiva  di molti mesi all'entrata in vigore della legge -
per  dichiarare  se  intenda  patteggiare  oppure  no, senza che cio'
configuri alcuna lesione el diritto di difesa.
    Anche  sotto  questo  profilo,  dunque,  l'art. 5, comma 2, legge
n. 134/2003  contrasta  con  il principio costituzionale della durata
ragionevole   del   processo  e  nel  bilanciamento  tra  l'interesse
dell'imputato e l'interesse generale ad una durata ragionevole sembra
a questo giudice debba prevalere il secondo.
    Per   quanto   sopra   detto,   la   questione   di  legittimita'
costituzionale  pare  non  manifestamente  infondata  e,  quanto alla
rilevanza  nel  presente  giudizio,  va soltanto osservato che questo
giudice  dovrebbe  obbligatoriamente sospendere il processo in corso,
essendosi  verificati  i presupposti fissati dalla norma transitoria,
che se venisse per contro riconosciuta incostituzionale consentirebbe
l'immediata ripresa del processo.