IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

    Sciogliendo  la  riserva  di  cui all'udienza del 12 giugno 2003,
nell'ambito  del procedimento indicato in epigrafe, a carico di Salim
Mounir, meglio identificato in atti, indagato per il reato previsto e
punito  dall'art. 14,  comma 5-ter, d.lgs. n. 286/1998 per cosi' come
modificato  dalla legge n. 189/2002, perche', essendo stato raggiunto
da  un  ordine  del  questore  di  Bologna  del  5  novembre  2002, e
notificatogli  in  pari  data, di lasciare il territorio italiano nel
termine  di giorni cinque, non vi ottemperava; accertato in Prato, il
5 giugno 2003 ha emesso la seguente ordinanza.
    Salim  Mounir  e'  stato  tratto  in  arresto  da personale della
Questura  di  Prato  in  data  5  giungo  2003  in relazione al reato
previsto  dalla  norma sopra citata. Il pubblico ministero, dopo aver
disposto  la  liberazione  dell'indagato ai sensi dell'art. 121 disp.
att.  c.p.p.  (ritenendo che non si dovesse ne' si potesse richiedere
l'applicazione  di  una  misura  cautelare,  tenuto  conto dei limiti
edittali della pena prevista per il reato in questione), ha richiesto
la  convalida  dell'arresto  in  data  6 giugno 2003. L'indagato, nel
frattempo arrestato per altra causa, e' stato tradotto all'udienza di
convalida, fissata per il 12 giugno 2003, nella quale ha dichiarato -
in  sintesi  -  di  non  aver  potuto lasciare l'Italia per motivi di
salute e per mancanza dei soldi necessari al viaggio.
    Considerato dunque che la vicenda esaminata e' riconducibile alla
fattispecie  di  reato  contestata  dal  p.m. deve essere valutata la
questione  della  legittimita'  costituzionale  della  norma  che  ha
imposto  l'arresto  in  flagranza,  sulla cui convalida il giudice e'
adesso  chiamato  a  decidere;  tale  questione,  del resto, e' stata
proposta dallo stesso difensore.
    L'art. 14,  comma  5-quinquies della legge citata dispone infatti
che,  per  le  condotte  previste  dai  commi  5-ter  e 5-quater, sia
obbligatorio l'arresto del responsabile in flagranza di reato.
    Tale  disciplina,  applicabile  al  caso di specie e rilevante ai
fini   della  decisione  sulla  convalida  dell'arresto  -  giacche',
difettando   la  norma  di  copertura,  l'operata  restrizione  della
liberta'  personale  sarebbe  sfornita  di  titolo  giuridico  e  non
potrebbe superare il vaglio di questo giudice - effettivamente non si
sottrae  al  dubbio  di  legittimita' costituzionale, in relazione ai
parametri costituzionali e per le ragioni che seguono.
    1) Violazione dell'art. 13, terzo comma Costituzione.
    La  possibilita'  di  derogare  alla  regola generale dettata dal
secondo  comma  dell'art. 13,  che  impone  il  preventivo intervento
dell'autorita'  giudiziaria  in materia di restrizione della liberta'
personale,  si collega, alla stregua dell'art. 13, terzo comma Cost.,
alla  verifica della sussistenza di «casi eccezionali di necessita' e
urgenza».
    Gli   estremi   della   necessita'  e  dell'urgenza,  secondo  le
indicazioni  della Corte costituzionale, possono essere valutati come
sussistenti   in   relazione   all'esigenza   di  acquisizione  e  di
conservazione  delle  prove (Corte cost. nn. 3/1972; 79/1982) nonche'
all'assoggettabilita'  dell'arrestato  a giudizio direttissimo (Corte
cost.   nn. 126/1972;   173/1971),   finalita'   tutte   perseguibili
attraverso   l'immediato  intervento  dell'autorita'  di  polizia  in
temporanea vece dell'autorita' giudiziaria.
    Tali esigenze sono, per un verso, insussistenti, per altro verso,
legate ad un quadro normativo radicalmente mutato.
    Non  sono,  in  effetti,  ragionevolmente  configurabili esigenze
probatorie,  in  relazione al fatto illecito commesso dallo straniero
che nonostante l'espulsione sia rientrato nel territorio dello Stato,
destinate  ad  essere  soddisfatte  nel breve lasso di tempo che deve
intercorrere   tra   l'arresto   e  l'immediata  liberazione  imposta
dall'art. 121 disp. att. c.p.p.
    Quanto  alla  connessione tra arresto e giudizio direttissimo, va
rilevato  che  sino all'entrata in vigore del nuovo c.p.p., l'ipotesi
normale  era  quella  del  giudizio  direttissimo  nei  confronti  di
imputato  in  vinculis  (art. 502  c.p.p. previgente). Cio' era tanto
vero  che  il  primo  comma  dell'art. 502  prevedeva che, qualora il
tribunale  non  fosse  attualmente  impegnato  in  udienza penale, il
Procuratore  della  Repubblica  disponesse  perche'  l'arresto  fosse
mantenuto.  Con  l'introduzione  del terzo comma dell'art. 502 c.p.p.
1930,  ad  opera dell'art. 17 della legge 12 agosto 1982, n. 532, che
prevedeva l'applicabilita' del giudizio direttissimo anche al caso in
cui  l'arrestato,  dopo  essere  stato  presentato all'udienza, fosse
stato  liberato  ai  sensi  dell'art. 263-ter,  il  sistema non venne
completamente  scardinato,  in quanto, come reso palese dalla lettera
della  norma,  comunque  era  necessario  che  l'imputato fosse stato
presentato all'udienza prima della liberazione ad opera del tribunale
della  liberta'.  Soltanto  nei  casi,  definiti atipici, di giudizio
direttissimo  previsti  dalle  leggi  speciali, l'imputato non era in
stato di arresto.
    In  definitiva,  esisteva ordinariamente uno stretto collegamento
tra arresto e giudizio direttissimo.
    Il  vigente  codice di rito ha scisso i due momenti, imponendo al
p.m.,  pur  in  presenza  dei  presupposti  per procedere al giudizio
direttissimo,  di  disporre  l'immediata liberazione dell'arrestato o
del  fermato,  quando ritiene di non dovere richiedere l'applicazione
di misure coercitive (art. 121 disp. att. c.p.p.).
    Non  casualmente,  con previsione innovativa, l'art. 450, comma 2
c.p.p.  contempla  espressamente  la  possibilita'  di  celebrare  il
giudizio direttissimo nei confronti dell'imputato libero.
    In  astratto,  nulla  esclude,  s'intende, che il legislatore, in
specifici  settori,  possa  reintrodurre  un arresto strumentale alla
celebrazione  di  un  giudizio direttissimo, altrimenti difficilmente
realizzabile  nei  confronti  di  soggetti  che,  ove  non ristretti,
potrebbero  agevolmente  far  perdere  le  proprie  tracce.  Ma  tale
obiettivo, ove pure intuibile nelle intenzioni del legislatore che ha
emanato  le  norme  in esame, non si e tradotto in atto, in quanto le
innovazioni  normative  del  2002,  non  hanno  alterato la struttura
portante  del  codice  di procedura penale: infatti il p.m., al quale
l'esecuzione  dell'arresto  va  comunicata  immediatamente (art. 386,
comma  1  c.p.p.)  e a disposizione del quale l'arrestato deve essere
posto  al  piu'  presto  e  comunque  non  oltre  le ventiquattro ore
(art. 386,  comma  3  c.p.p.),  ha  l'obbligo di disporre l'immediata
liberazione.  Ne  consegue che, solo disattendendo il chiaro precetto
normativo  dell'art. 121 disp. att. c.p.p., e' possibile celebrare un
giudizio  direttissimo  nei  confronti di un imputato per il reato di
cui  all'art. 14,  comma  5-ter  della  legge 30 luglio 2002, n. 189,
ristretto nella propria liberta'.
    Se  cosi'  e',  deve  escludersi  che  la misura dell'arresto sia
sorretta  dal  nesso di strumentalita' rispetto alla celebrazione del
giudizio direttissimo.
    Le  considerazioni sovra esposte rivelano, inoltre, che la misura
dell'arresto  non  e'  funzionale neppure all'esecuzione di una nuova
espulsione  prevista  dall'art. 14,  comma  5-ter, legge citata. Tale
conclusione si fonda sulla mancata previsione di qualunque meccanismo
di  coordinamento  fra  le  iniziative  dell'Autorita' amministrativa
chiamata  a disporre e a dare attuazione all'espulsione e l'Autorita'
giudiziaria,   investita   non  solo  del  giudizio  sulla  convalida
dell'arresto  ma,  prima, anche del dovere di porre immediatamente in
liberta'  l'arrestato  nei  confronti  del  quale non sia, come nella
specie,  possibile  richiedere  fondatamente l'applicazione di misure
coercitive.
    Va  aggiunto  che,  essendo  assente  nella  struttura normativa,
l'indicato  coordinamento  non  puo'  nemmeno  realizzarsi, di fatto,
attraverso    la   mancata   adozione   del   provvedimento   imposto
dall'art. 121  disp.  att.  c.p.p.  sino al giudizio di convalida, in
quanto cio' si tradurrebbe nell'ingiustificata disapplicazione di una
norma  vigente  posta  a  presidio  di  un  fondamentale  diritto  di
liberta'.
    Ne'  e'  ragionevolmente  pensabile  che, nel brevissimo lasso di
tempo  imposto  al  p.m.  per  porre in liberta' l'arrestato, possano
essere   adottati   i  provvedimenti  con  i  quali  si  dispone  che
quest'ultimo  sia  accompagnato  immediatamente  alla frontiera o sia
trattenuto presso un centro di permanenza.
    Difetta,  pertanto,  in  radice  il  requisito  della  necessita'
dell'arresto    rispetto   a   qualunque   obiettivo   di   rilevanza
pubblicistica  tale da giustificare la sia pur temporalmente limitata
restrizione della liberta' personale.
    Del  resto proprio il limite di pena previsto, inidoneo a fondare
l'adozione  di  qualunque  misura  coercitiva  ai sensi dell'art. 280
c.p.p.,  dimostra  infatti il limitato rilievo che, nell'intendimento
del  legislatore,  il fatto di per se' considerato riveste in termini
di tutela della collettivita' (e, infatti, solo la reiterazione della
condotta  giustifica  il  ben  piu'  elevato  limite  di  pena di cui
all'art. 14, comma 5-quater, legge 30 luglio 2002, n. 189).
    2) Violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione.
    La   normativa   contestata   appare   finalizzata  a  conseguire
l'effettiva  espulsione  dello  straniero dal territorio italiano: e'
del  tutto incongrua la previsione di un meccanismo repressivo dotato
di  sanzione  penale,  giacche'  lo  stesso  obiettivo  sarebbe stato
raggiungibile  utilizzando  il  solo strumento amministrativo, quindi
senza  far ricorso alla privazione della liberta' personale, sia pure
per un periodo brevissimo.