LA CORTE COSTITUZIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel giudizio d'appello in materia pensionistica - iscritto al n. 1607 del registro di segreteria, ad istanza di Rita Lorenzetti, rappresentata e difesa dagli avvocati Fabio Lorenzoni e Mario Loria ed elettivamente domiciliata presso il loro studio, in Roma, via del Viminale n. 43, avverso la sentenza n. 594/01/C del 10 aprile 2001 pronunciata dalla Sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia nei confronti dell'INPDAP (subentrato nelle ex funzioni delle DDPPTT), in persona del legale rappresentante pro tempore. Visto l'atto d'appello; Esaminati tutti gli altri documenti di causa; Udita, alla pubblica udienza del giorno 3 ottobre 2003, la relazione del consigliere dott. Enzo Rotolo ed udito, altresi', nell'interesse dell'appellante, l'avv. Loria nonche', in rappresentanza dell'INPDAP, la dott.ssa Maria Laura Carcascio, munita di apposita delega; Ritenuto in fatto Con l'impugnata sentenza la Sezione giurisdizionale per la Lombardia ha respinto il ricorso che la sig.ra Rita Lorenzetti, gia' dipendente del Ministero giustizia, collocata a riposo per dimissioni con effetto dal 1° dicembre 1991, aveva proposto avverso il provvedimento della DPT di Varese col quale era stata nei suoi confronti disposta la sospensione, ab initio, del trattamento pensionistico di anzianita', prestando essa la sua attivita' lavorativa alle dipendenze dell'EURATOM, presso il centro di Ispra. Con tale motivazione infatti la predetta DPT aveva comunicato all'interessata, con lettera in data 8 febbraio 1993, di aver «provveduto ad assumere in carico la (sua) partita di pensione ... con pagamenti sospesi ai sensi dell'art. 10 del d.l. 29 gennaio 1983, n. 79, n. 17 convertito con modificazioni nella legge 25 marzo 1983, n. 79», relativo, come noto - all'estensione nei confronti dei dipendenti collocati anticipatamente a riposo secondo la richiamata disposizione, delle norme sui divieti di cumulo previsti dalla legge 30 aprile 1969, n. 153; la quale, all'art. 22, dopo aver nel settimo comma affermato il generale principio del divieto di cumulo tra pensione e retribuzione percepita in costanza di rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi, ha dettato col comma ottavo, aggiunto dall'art. 33-quinquies della legge 11 agosto 1972, n. 485 (di conversione del 30 giugno 1972, n. 267), una speciale disciplina derogatoria per i titolari di pensione svolgenti attivita' lavorativa «fuori dal territorio nazionale», escludendoli dal novero dei destinatari del predetto divieto. La ricorrente aveva impugnato l'atto di comunicazione sopra menzionato sostenendo motivatamente l'inapplicabilita', nei suoi confronti, dell'art. 7, comma secondo, della legge 29 dicembre 1990, n. 407, che aveva espressamente abrogato le parole «fuori dal territorio nazionale» contenute nel citato art. 22, facendo cosi' venir meno la deroga prevista da tale articolo in favore dei pensionati che avessero svolto la loro attivita' all'estero. La sezione adita, disattendendo l'assunto di parte ricorrente nel rilievo di tale intervenuta abrogazione, ha ritenuto di dover ricondurre la fattispecie nell'ambito della regola generale del divieto di cumulo pensione-retribuzione. Avverso tale pronuncia la sig.ra Lorenzetti, rappresentata e difesa dagli avvocati Lorenzoni e Loria, ha interposto appello sostenendo che erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto nella fattispecie operante il divieto di cumulo, dovendo la sfavorevole disposizione contenuta nella legge n. 407/1990 essere ora riguardata alla luce del significato maturato dopo l'entrata in vigore dell'art. 6, comma 8-bis, della legge 19 luglio 1993, n. 236 a tenor del quale «a decorrere dal 1° febbraio 1991, l'art. 7, comma 2, della legge 29 dicembre 1990, n. 407, non trova applicazione nei confronti dei dipendenti che, a tale data, prestavano servizio alle dipendenze delle Comunita' europee». L'appellante, ritenendo il suo caso pienamente rientrante nelle ipotesi puntualizzate dalla riferita disposizione normativa, stante l'ininterrotto servizio prestato fin dal 1° gennaio 1983, presso l'Euratom di Ispra, ha chiesto la riforma dell'impugnata sentenza, con ogni pronuncia conseguente, mentre l'INPDAP, costituitosi con una breve memoria, ha ritenuto infondato il proposto gravame dopo aver prospettato un'esegesi del complesso sistema normativo in termini di riferibilita' del beneficio in questione ai soli dipendenti degli organismi comunitari che alla data del 1° febbraio 1991, avessero prestato la loro opera al di fuori dei confini del territorio italiano. All'odierna pubblica udienza i rappresentanti delle parti in causa hanno insistito per l'accoglimento delle rispettive richieste conclusive. Considerato in diritto La questione all'esame del collegio pone il problema degli oggettivi presupposti di applicabilita' delle norme sull'esonero dal regime del divieto di cumulo pensione-retribuzione per i pensionati che, alla data del 1° febbraio 1991 (termine pacificamente osservato dalla fattispecie), abbiano prestato la loro attivita' lavorativa alle dipendenze delle comunita' europee: se cioe' tali presupposti richiedano, nel rispetto dell'indicato limite temporale, il necessario svolgimento di un'attivita' al di fuori dei confini del territorio nazionale, come ha sostenuto l'INPDAP, o se possano invece ritenersi sussistenti nei confronti di tutti i pensionati lavoratori alle dipendenze degli organismi comunitari quale che sia stata la loro sede di servizio come e' nell'assunto della ricorrente. A tale riguardo posto che comune ai contrapposti orientamenti interpretativi delle parte in causa - e conforme del resto al principio di applicabilita' nelle more del giudizio, dello ius superveniens (cfr., ex plurimis, Cass. 2 aprile 1984, n. 2155) - e' l'esigenza di desumere la disciplina della fattispecie dalla lettura coordinata delle norme, tra loro intimamente collegate sul piano logico, contenute nell'art. 7, comma secondo, legge n. 407/1990 e nell'art. 6, comma 8-bis, legge n. 236/1993, occorre rilevare che la tesi dell'esonero di tutti i dipendenti delle comunita' europee dal regime del divieto di cumulo si infrange, allo stato, contro il rigore del dato normativo. Non sembra invero fondatamente contestabile che con l'art. 6 citato il legislatore abbia inteso rimuovere retroattivamente l'efficacia abrogativa di una norma (art. 7, secondo comma, legge n. 407/1990) con la quale solo per una circoscritta categoria di soggetti (e cioe' soltanto per i dipendenti in servizio fuori dal territorio nazionale) aveva fatto a suo tempo venir meno l'eccezione alla regola del divieto di cumulo; si' che, nel prevedere la disapplicazione di tale norma abrogativa e la conseguente reviviscenza della disposizione caducata (art. 33-quinquies, legge n. 485/1972), pare essersi voluto unicamente riferire alla condizione dei dipendenti delle Comunita' europee con sede di servizio all'estero. Ma con cio' il legislatore ha operato un evidente distinguo, nell'ambito degli aventi diritto a trattamento pensionistico anticipato, tra coloro che, in quanto appartenenti ad organismi comunitari, prestavano attivita' lavorativa all'estero e coloro che, nella medesima qualita' e alla stessa data di riferimento, la prestavano in Italia. Tale discrimine significativo ai fini del riconoscimento o meno del diritto al cumulo di pensione e retribuzione, porta a dubitare della costituzionalita' del combinato disposto dei citati artt. 7, comma 2, legge n. 407/1990 e 6, comma 8-bis, legge n. 23/1993 e a sollevarne pertanto d'ufficio questione di legittimita' costituzionale, della quale ad avviso del collegio va fin d'ora predicata la rilevanza e la non manifesta infondatezza agli effetti di una giusta pronuncia di merito. Quanto alla non manifesta infondatezza, e' da osservare che le richiamate norme sembrano in primo luogo violare l'art. 3 della Costituzione. La diversa regolamentazione giuridica che esse infatti introducono nell'ambito delle posizioni soggettive dei pensionati italiani venuti a far parte di un corpo unitario, qual'e' quello del personale «dell'amministrazione unica» delle Comunita' europee (art. 24 Trattato di Bruxelles dell'8 aprile 1965), non appare sorretta da un valido fondamento giustificativo a fronte del basilare principio costituzionale di eguaglianza che nella specie porta ad escludere di poter riconoscere solo ad alcuni il diritto al cumulo e, a parita' di condizioni, di negarlo nel contempo ad altri, incentivando cosi' per i primi, e scoraggiando invece per i secondi, lo svolgimento di un altro lavoro dipendente. La sospetta illegittimita' delle richiamate disposizioni si profila anche evidente in relazione agli artt. 4 e 35 della Costituzione in quanto, sancendo esse un divieto che sia pur temporaneamente sacrifica un legittimo diritto patrimoniale, importano da un lato una evidente compressione delle condizioni necessarie a rendere sul territorio della Repubblica effettivo, per i cittadini italiani disposti a passare alle dipendenze delle comunita' europee, il diritto al lavoro (riconosciuto, invece, senza alcun limite ai loro concittadini all'estero), dall'altro vanificano immotivatamente quei fondamentali principi giuridici di eguaglianza tra lavoratori, che costituiscono irrinunciabile esplicazione della tutela del lavoro, assicurata dall'ordinamento allo stesso modo, in Italia e all'estero, soprattutto nel quadro processo di integrazione europea che impegna lo Stato italiano «rendersi partecipe con una politica uniforme delle organizzazioni della comunita' internazionale. Discende, da quanto fin qui considerato, che la regolamentazione normativa in esame viola, cosi' com'e', vitali principi della Costituzione in quanto non comprende, tra i destinatari del beneficio del cumulo, anche i dipendenti delle Comunita' europee con sede di servizio, alla data del 1° febbraio 1991, nel territorio della Nazione. La questione e' senza dubbio rilevante nel presente giudizio giacche' questo, in ipotesi di declaratoria di illegittimita' costituzionale delle disposizioni innanzi richiamate, avrebbe diverso esito rispetto a quello che conseguirebbe all'applicazione, sic et simpliciter, delle norme attualmente vigenti, preclusive del riconoscimento invocato dalla ricorrente. La questione va dunque rimessa alla cognizione della Corte costituzionale con conseguente sospensione del giudizio.