ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei   giudizi   di  legittimita'  costituzionale  degli  articoli 10,
comma 1,  lettere  a, b e c, 27, commi 8, 9, 10 e 11, e 25, commi 1 e
5,   della  legge  28 dicembre  2001,  n. 448  (Disposizioni  per  la
formazione  del  bilancio  annuale  e pluriennale dello Stato - legge
finanziaria  2002),  promossi con ricorsi delle Regioni Basilicata ed
Emilia-Romagna, notificati il 26 e il 27 febbraio 2002, depositati in
cancelleria il 6 e l'8 marzo successivi ed iscritti ai numeri 20 e 23
del registro ricorsi 2002.
    Visti  gli  atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito   nell'udienza  pubblica  del  17  giugno 2003  il  giudice
relatore Valerio Onida;
    Uditi  gli  avvocati  Massimo Luciani per la Regione Basilicata e
Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna, e l'avvocato dello
Stato Paolo Cosentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con  ricorso  (r.  ric.  n. 20  del  2002),  notificato il
26 febbraio  e  depositato  il 6 marzo 2002, la Regione Basilicata ha
impugnato,  tra  l'altro,  l'art. 10,  comma 1,  lettere  a, b, e c e
l'art. 27,  commi 8,  9, 10 e 11 della legge 28 dicembre 2001, n. 448
(Disposizioni  per  la  formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato - legge finanziaria 2002), lamentando la violazione degli
artt. 3, 5, 114, 117 e 119 della Costituzione.
    L'art. 10 (Modificazioni all'imposta sulle insegne di esercizio),
comma 1, lettere a, b e c, in deroga all'art. 3 della legge 27 luglio
2000,  n. 212  (Disposizioni  in  materia  di statuto dei diritti del
contribuente)   -   concernente  l'efficacia  temporale  delle  norme
tributarie,  soggetta  generalmente  a  divieto  di retroattivita' -,
stabilisce  che  le  tariffe  dell'imposta  sulla  pubblicita'  e del
diritto  sulle pubbliche affissioni sono deliberate entro il 31 marzo
di  ogni  anno e si applicano a decorrere dal 1° gennaio del medesimo
anno  (lettera a); estende ai comuni aventi fino a 30.000 abitanti la
facolta'  (originariamente  prevista per i soli comuni piu' popolosi)
di  suddividere il territorio in due «categorie», applicando a quella
«speciale»  una  maggiorazione  della  tariffa  normale  fino al 150%
(lett. b, che modifica l'art. 4, comma 1 del d.lgs. 15 novembre 1993,
n. 507,   concernente   «Revisione   ed  armonizzazione  dell'imposta
comunale  sulla pubblicita' e del diritto sulle pubbliche affissioni,
della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e
delle  province  nonche'  della  tassa per lo smaltimento dei rifiuti
solidi  urbani  a  norma  dell'art. 4  della  legge  23 ottobre 1992,
n. 421,   concernente   il  riordino  della  finanza  territoriale»);
introduce  una  ulteriore  esenzione  dall'imposta, rispetto a quelle
gia'  contemplate  dall'art. 17  del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507,
«per le insegne di esercizio di attivita' commerciali e di produzione
di  beni  o  servizi  che  contraddistinguono  la  sede ove si svolge
l'attivita'  cui  si  riferiscono, di superficie complessiva fino a 5
metri  quadrati»,  consentendo ai comuni di estendere con regolamento
tale  esenzione,  in  ordine  alle  insegne di superficie superiore a
questo   ultimo  limite  (lettera  c,  che  aggiunge  il  comma 1-bis
all'art. 17 del d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507).
    Ad  avviso  della  ricorrente, siffatte previsioni legislative si
connotano  tutte  per  una  «evidente analiticita», e costituiscono a
tutti gli effetti norme di dettaglio.
    Tale  profilo ne determinerebbe la illegittimita' costituzionale,
alla  luce degli articoli 3, 5 114 e 117 della Costituzione, poiche',
a  seguito  dell'entrata in vigore della revisione costituzionale del
Titolo  V, Parte II, della Carta, «la normazione statale di dettaglio
nelle materie di competenza regionale non e' piu' consentita».
    Premette  sul  punto  la ricorrente che la materia concernente il
«sistema  tributario  degli  enti  locali»,  cui  essa  riconduce  la
disposizione  impugnata, e' oggetto di potesta' legislativa residuale
ed esclusiva della Regione.
    Lo   Stato,   ai   sensi  del  terzo  comma  dell'art. 117  della
Costituzione, in materia di tributi locali dovrebbe percio' limitarsi
a   determinare   i   «principi   fondamentali»   per  assicurare  il
«coordinamento  della  finanza  pubblica  e  del sistema tributario»,
senza sconfinare nella produzione di norme dettagliate.
    Infatti,   «nel   rispetto  di  quella  paritaria  nozione  delle
componenti  della  Repubblica  che  e' stata introdotta dall'art. 114
della   Costituzione   (che   impone  anche  una  lettura  aggiornata
dell'art. 5)»,  non potrebbe piu' ammettersi, come invece ritenuto in
precedenza,  che  la  legge  statale  penetri nella sfera di potesta'
legislativa  regionale,  neppure  tramite  disposizioni espressamente
cedevoli a fronte della successiva legislazione della Regione.
    Il  rovesciamento  del  criterio di attribuzione delle competenze
legislative, tramite l'enumerazione delle materie oggetto di potesta'
legislativa  statale,  conduce a ritenere, secondo la ricorrente, che
oramai lo Stato possa legiferare, senza alcun margine di elasticita',
nei soli ambiti espressamente riservatigli.
    Tale  conclusione rifletterebbe la pari «dignita» acquisita dalla
legge  regionale nell'ordinamento giuridico: la Regione, si aggiunge,
non  si  limita  piu'  a  «emanare»  delle  «norme  legislative»  che
incontrano  l'«inevitabile limite» dei principi fondamentali traibili
dalla  normativa  statale,  ma  e'  divenuta  titolare della funzione
legislativa,  al  pari  dello  Stato, sicche' l'una e l'altro possono
legiferare nei soli spazi assegnati dalla Costituzione.
    Posto  che  l'art. 117,  terzo  comma, della Costituzione riserva
allo  Stato  la  sola  determinazione dei principi fondamentali nelle
materie  oggetto  di competenza concorrente, sia che si verta in tale
ambito,  sia  che  venga  in  conto  materia  riservata alla potesta'
legislativa  residuale  della  Regione,  si  dovrebbe  in  ogni  caso
concludere   per   l'illegittimita'  costituzionale  della  normativa
statale di dettaglio.
    Tanto  piu'  che  essa,  aggiunge  sul  punto  la ricorrente, non
troverebbe  piu'  alcuna  ragionevole  giustificazione,  a fronte del
potere   sostitutivo   attribuito   allo  Stato  dall'art. 120  della
Costituzione,  cosicche'  sarebbe  leso  lo  stesso  articolo 3 della
Costituzione  «nel  suo  rapporto  con  gli artt. 5, 114 e 117» della
Carta  (ne' si sarebbe, in ogni caso, in presenza dei presupposti che
giustificano,  secondo l'art. 120, secondo comma, della Costituzione,
l'attivazione del potere sostitutivo, in primis l'inerzia regionale).
    Inoltre,  la  disposizione  impugnata  e' priva della clausola di
cedevolezza  dinnanzi  a  sopravvenuta  legge regionale, cio' che, si
conclude,  ne  avrebbe  determinato  l'illegittimita'  costituzionale
anche nella vigenza dell'originario articolo 117 della Costituzione.
    Censura  identica  alla  precedente  viene  svolta  dalla Regione
Basilicata,  sempre in relazione all'art. 10, comma 1, lettere a, b e
c,  avuto  riguardo  alla  competenza concorrente della Regione nella
materia  concernente  il  «governo del territorio», cui la disciplina
delle   insegne  di  esercizio  sarebbe  «intimamente  connessa»:  il
carattere  dettagliato  della  disposizione  impugnata  costituirebbe
motivo  di  incostituzionalita'  della  stessa,  per violazione degli
articoli 3, 5, 114, 117 della Costituzione.
    L'art. 10, comma 1, lettere a, b e c, sarebbe, secondo la Regione
Basilicata, altresi' lesivo dell'art. 119 della Costituzione, poiche'
trascurerebbe,  nella  regolamentazione  di imposta il cui gettito e'
destinato all'ente locale, «l'autonomia comunale».
    Tale   censura   avrebbe   particolare   evidenza   con  riguardo
all'esenzione  dall'imposta recata dalla lettera c, che sarebbe stata
introdotta  «senza  alcuna  valutazione  in  termini  di  apporto  al
finanziamento   degli   enti   locali»,   per  di  piu'  «scavalcando
completamente la legge regionale».
    Infine,  appare  alla  Regione Basilicata «del tutto irrazionale»
che  la  lettera  c  dell'art. 10  introduca  un  rigido  criterio di
esenzione  dall'imposta,  legato  alle dimensioni dell'insegna, cosi'
precludendo   all'ente   locale   di  adottarne  di  ulteriori  o  di
diversamente  modularlo, nel quadro di una politica di incentivazione
o disincentivazione della pubblicita' degli esercizi commerciali.
    Il  comma 8  dell'art. 27  (Disposizioni finanziarie per gli enti
locali)  stabilisce  che il comma 16 dell'art. 53 (Regole di bilancio
per le regioni, le province e i comuni) della legge 23 dicembre 2000,
n. 388  (Disposizioni  per  la  formazione  del  bilancio  annuale  e
pluriennale   dello   Stato  -  legge  finanziaria  2001),  e'  cosi'
sostituito:  «Il  termine per deliberare le aliquote e le tariffe dei
tributi   locali,   compresa   l'aliquota  dell'addizionale  comunale
all'IRPEF   di  cui  all'art. 1,  comma 3,  del  decreto  legislativo
28 settembre  1998,  n. 360,  recante «istituzione di una addizionale
comunale  all'IRPEF  e  successive  modificazioni»,  e le tariffe dei
servizi pubblici locali, nonche' per approvare i regolamenti relativi
alle entrate degli enti locali, e' stabilito entro la data fissata da
norme  statali  per  la  deliberazione  del bilancio di previsione. I
regolamenti   sulle   entrate,  anche  se  approvati  successivamente
all'inizio  dell'esercizio  purche'  entro  il  termine di cui sopra,
hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di riferimento».
    Nel testo originario, il comma 16 dell'art. 53 della legge n. 388
del  2000  stabiliva  che  «Il  termine per deliberare le tariffe, le
aliquote  d'imposta  per  i  tributi  locali  e per i servizi locali,
compresa l'aliquota di compartecipazione dell'addizionale all'imposta
sul reddito delle persone fisiche, prevista dall'art. 1, comma 3, del
d.lgs.   28 settembre   1998,   n. 360,   e  per  l'approvazione  dei
regolamenti relativi ai tributi locali, e' stabilito entro la data di
approvazione  del  bilancio  di  previsione.  I regolamenti, anche se
adottati  successivamente,  hanno  comunque  effetto  dal  1° gennaio
dell'anno di riferimento del bilancio di previsione».
    Il comma 9 dell'art. 27, dispone che «In deroga alle disposizioni
dell'articolo 3,  comma 3,  della  legge  27 luglio  2000,  n. 212» -
recante   «Disposizioni   in  materia  di  statuto  dei  diritti  del
contribuente»  -  «i  termini  per  la  liquidazione e l'accertamento
dell'imposta  comunale  sugli immobili, scadenti al 31 dicembre 2001,
sono  prorogati  al  31 dicembre  2002, limitatamente alle annualita'
d'imposta   1998   e   successive.  Il  termine  per  l'attivita'  di
liquidazione  a  seguito  di  attribuzione  di rendita da parte degli
uffici  del  territorio  competenti  di cui all'articolo 11, comma 1,
ultimo  periodo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e'
prorogato  al  31 dicembre  2002  per  le annualita' d'imposta 1997 e
successive».
    Il   comma 10   dell'art. 27  stabilisce  che  «A  decorrere  dal
1° gennaio  2002  le  basi  di calcolo dei sovracanoni previsti dagli
articoli 1 e 2 della legge 22 dicembre 1980, n. 925» - recante «Nuove
norme  relative  ai sovracanoni in tema di concessioni di derivazioni
d'acqua   per   produzioni   di   forza   motrice»  -  «sono  fissate
rispettivamente in 13 euro e 3,50 euro, fermo restando per gli anni a
seguire   l'aggiornamento  biennale  previsto  dall'articolo 3  della
medesima legge n. 925 del 1980».
    Infine,  il  comma 11  dell'art. 27  dispone che «Nel caso in cui
l'imposta relativa a fabbricati del gruppo catastale D, in precedenza
versata ad un unico comune in base a valori di bilancio unitariamente
considerati,  sia  successivamente da versare a piu' comuni a seguito
dell'attribuzione   di   separate  rendite  catastali  per  le  parti
insistenti  su territori di comuni diversi, i comuni interessati sono
tenuti  a  regolare  mediante accordo i rapporti finanziari relativi,
delegando  il  Ministero  dell'interno  ad  effettuare  le necessarie
variazioni   dell'importo   a   ciascuno   spettante   a   titolo  di
trasferimenti erariali, senza oneri per lo Stato».
    Ad   avviso   della  Regione  ricorrente,  tali  previsioni  sono
illegittime per piu' ordini di ragioni.
    Anzitutto,  le  disposizioni  impugnate,  in  una materia come la
finanza  locale,  assegnata  alla competenza esclusiva delle Regioni,
fatti salvi i principi di coordinamento che la legge dello Stato puo'
stabilire,  conterrebbero  norme di dettaglio, la cui introduzione e'
ormai  preclusa  alla  legge  dello Stato dagli artt. 117 e 119 della
Costituzione.  Rispetto  ad altre disposizioni censurate della stessa
legge finanziaria, quelle ora in esame sarebbero anzi esasperatamente
di  dettaglio,  giungendo  a  regolare  i  termini  per l'adozione di
regolamenti  comunali  (il  comma 8),  i  termini  di  accertamento e
liquidazione  dell'ICI  (il  comma 9),  le  basi  di calcolo, sino al
centesimo  di euro, dei sovracanoni per le concessioni di derivazione
d'acqua   (il  comma 10),  i  rapporti  fra  comuni  in  ordine  alla
percezione congiunta dell'ICI (il comma 11).
    In particolare, la legge impugnata, con la disposizione di cui al
comma 8,  limita  e  condiziona la potesta' regolamentare dei comuni,
senza  considerare  che  l'art. 117,  sesto comma, della Costituzione
attribuisce   ai   comuni  «potesta'  regolamentare  in  ordine  alla
disciplina  dell'organizzazione  e  dello  svolgimento delle funzioni
loro  attribuite»,  potesta' che puo' essere indirizzata e delimitata
soltanto   dalla  legge  regionale  nell'esercizio  della  competenza
assegnata  dall'art. 117 in materia di organizzazione e funzionamento
degli enti locali.
    In   tale   ambito,  poi,  una  disciplina  uniforme,  sul  piano
nazionale,  per  tutti i comuni sarebbe del tutto irragionevole ed in
contrasto  con  gli  artt. 3 e 5 della Costituzione, oltre che con le
disposizioni  del  Titolo  V,  in  quanto  i principi fondamentali in
materia  sono  quelli  della sussidiarieta', della differenziazione e
dell'adeguatezza,   di   cui   all'art. 118,   primo   comma,   della
Costituzione.
    2.  -  Nel suo atto di costituzione in giudizio il Presidente del
Consiglio  dei  ministri,  che  ha  concluso  per  l'infondatezza del
ricorso,  osserva, in particolare, in ordine all'art. 10, che esso e'
espressione  della  potesta'  legislativa  concorrente  in materia di
coordinamento  della  finanza  pubblica  e  del  sistema  tributario,
disciplinata dal terzo comma dell'art. 117 della Costituzione.
    In  quest'ottica,  le norme impugnate determinerebbero i principi
della materia, come si desumerebbe dall'intero disposto dell'art. 10,
che   al   comma 5-bis  (recte:  alla  lettera  d,  introduttiva  del
comma 5-bis  dell'art. 24  del d.lgs. n. 507 del 1993) disciplina «la
repressione    dell'abusivismo    nell'installazione    di   impianti
pubblicitari»,  e prevede, al terzo comma, «il rimborso per le minori
entrate derivanti dalle esenzioni previste» dalla lettera c.
    Quanto  alle  disposizioni  dell'art. 27  che  vengono impugnate,
osserva  la  difesa  erariale  che  la  materia  da esse disciplinata
atterrebbe  alla  perequazione  delle risorse finanziarie, rientrante
nell'ambito   della  legislazione  esclusiva  dello  Stato,  come  si
evincerebbe dall'integrale lettura dell'art. 27 medesimo.
    3.  -  In prossimita' dell'udienza pubblica la Regione Basilicata
ha depositato memoria illustrativa, insistendo per l'accoglimento del
ricorso.
    In  via  generale,  la  ricorrente ribadisce che, a seguito della
revisione  del  Titolo  V  della  Costituzione,  il  ribaltamento del
tradizionale  criterio  di riparto della potesta' legislativa esclude
che  possa competere allo Stato la introduzione di norme di dettaglio
in materie affidate alla potesta' legislativa concorrente.
    In  tal  senso, dovrebbero trarsi argomenti dalla sentenza n. 282
del  2002  di questa Corte, ove e' affermata la necessita' di muovere
non  gia' dalla sussistenza di uno specifico titolo costituzionale di
legittimazione   dell'intervento  regionale,  quanto,  al  contrario,
dall'indagine sulla esistenza di riserve di competenza statale.
    Viene  altresi'  ricordata  la  sentenza  n. 96  del  2003,  ove,
rigettandosi  una censura della Regione in base al rilievo per cui la
norma  impugnata  non  era di dettaglio, sarebbe stato implicitamente
affermato quanto sostenuto dalla odierna ricorrente.
    Ne',  al  fine  di distinguere norme di principio e di dettaglio,
potrebbero  recuperarsi  i criteri qualificatori adottati dalla Corte
anteriormente  alla revisione costituzionale del Titolo V della Parte
II della Costituzione.
    Infatti,  come  emergerebbe  ad esempio dalla sentenza n. 171 del
1999,  il  carattere di principio delle disposizioni allora censurate
sarebbe  conseguente  al  collegamento ricorrente tra tali norme e le
esigenze  di  «interesse  nazionale», nozione, quest'ultima, non piu'
richiamata  dalla  Costituzione,  e destinata in ogni caso (ove la si
potesse  rinvenire  implicitamente)  ad  operare  diversamente che in
passato.
    Nello specifico, riguardo all'art. 10, la ricorrente sostiene che
le  disposizioni  oggi  impugnate  contengono  solo  prescrizioni  di
dettaglio,  tenuto  conto che i principi vanno colti ad un livello di
maggiore  astrattezza  rispetto  alla  regola positivamente stabilita
(sentenza n. 65 del 2001).
    A fronte di cio', la difesa erariale si limiterebbe ad asserzioni
apodittiche  ed indimostrabili, circa la pretesa natura di «principi»
delle norme censurate.
    Inoltre, lo Stato nulla avrebbe dedotto per contrastare il motivo
del   ricorso  concernente  la  lesione  della  sfera  di  competenza
regionale in materia di governo del territorio, nell'estesa accezione
che  essa  avrebbe assunto nella giurisprudenza costituzionale (viene
richiamata, a tale proposito, la sentenza n. 382 del 1999).
    In  ordine  all'art. 27,  poi,  osserva  in  particolare  che  il
concetto  di  «perequazione»,  scudo  dietro  il  quale  l'Avvocatura
erariale  vorrebbe  riparare le disposizioni censurate, puo' alludere
solo  al  compito,  gravante sullo Stato, di compensare le differenze
che, in ragione della maggiore o minore ampiezza della base fiscale e
del  reddito  prodotto,  gravano  sulle singole zone del Paese, e non
anche, come preteso, alla regolamentazione in dettaglio delle singole
entrate comunali. Ne' le norme impugnate sarebbero qualificabili come
principi  di  «coordinamento della finanza pubblica», non possedendo,
dei principi, la generalita', la struttura e la funzione, ed essendo,
al contrario, esasperatamente di dettaglio.
    Sarebbe  poi  irragionevole  ed  in contrasto con gli artt. 3 e 5
della  Costituzione,  oltre  che con le disposizioni del Titolo V, la
scelta  di  dettare una disciplina uniforme, sul piano nazionale, per
tutti  i comuni, in spregio dei principi fondamentali in materia, che
sono   quelli   della   sussidiarieta',   della   differenziazione  e
dell'adeguatezza,   di   cui   all'art. 118,   primo   comma,   della
Costituzione.
    4. - Con ricorso notificato il 27 febbraio e depositato l'8 marzo
2002 (r. ric. n. 23 del 2002) la Regione Emilia-Romagna ha impugnato,
tra l'altro, l'art. 25 (Finanza decentrata), commi 1 e 5, della legge
28 dicembre   2001,   n. 448,   in   riferimento  all'art. 119  della
Costituzione.
    La   prima   delle   due   disposizioni  sostituisce  il  comma 7
dell'art. 1  del d.lgs. 28 settembre 1998, n. 360 (Istituzione di una
addizionale  comunale  all'IRPEF, a norma dell'articolo 48, comma 10,
della    legge    27 dicembre    1997,    n. 449,   come   modificato
dall'articolo 1,  comma 10,  della legge 16 giugno 1998, n. 191), che
disciplina   il   meccanismo   di   acconto  e  di  conguaglio  nella
ripartizione  annuale  ai  comuni  e  alle  province,  da  parte  del
Ministero  dell'interno,  delle somme versate a titolo di addizionale
all'IRPEF.  Mentre tale calcolo era effettuato, secondo la disciplina
originaria,  «sulla base dei dati forniti dal Ministero delle finanze
concernenti  le  risultanze  delle  dichiarazioni  dei  redditi e dei
sostituti  d'imposta  presentate», per quel che riguarda gli acconti,
«per  l'anno  precedente  a  quello  cui  si  riferisce l'addizionale
comunale»,  e,  per  quel che riguarda i conguagli - effettuati entro
l'anno  successivo  a  quello  in  cui  e'  effettuato il versamento,
mediante compensazione con le somme spettanti a titolo di acconto per
l'anno  successivo  -,  «per  l'anno  cui  si riferisce l'addizionale
comunale»,  con le modifiche recate dalla norma impugnata, invece, il
calcolo  dell'acconto  e'  effettuato «sulla base dei dati statistici
piu'  recenti  forniti  dal  Ministero  dell'economia e delle finanze
entro il 30 giugno di ciascun anno relativi ai redditi imponibili dei
contribuenti  aventi  domicilio  fiscale  nei  singoli comuni». Entro
l'anno  successivo a quello in cui e' stato effettuato il versamento,
poi,  il Ministero dell'interno «provvede all'attribuzione definitiva
degli importi dovuti sulla base dei dati statistici relativi all'anno
precedente, forniti dal Ministero dell'economia e delle finanze entro
il  30  giugno, ed effettua gli eventuali conguagli anche sulle somme
dovute per l'esercizio in corso».
    Ad  avviso  della  ricorrente,  il  cambiamento  intaccherebbe le
certezze  degli enti locali per cio' che attiene al computo sia degli
acconti che dei conguagli. Nella versione originale della disciplina,
infatti,  gli  acconti  andavano calcolati annualmente sulla base dei
dati   IRPEF  dell'anno  precedente,  ed  i  conguagli  calcolati,  e
corrisposti  l'anno  successivo, insieme al nuovo acconto, sulla base
delle  risultanze  dei  dati  IRPEF - relative dunque all'anno cui si
riferisce  l'addizionale  comunale -; mentre con la nuova gli acconti
vanno  calcolati in base ai dati statistici piu' recenti, relativi ai
redditi  imponibili  dei  contribuenti  aventi  domicilio fiscale nei
singoli  comuni, forniti dal Ministero dell'economia, ed i conguagli,
ancora, sulla base dei dati statistici del Ministero dell'economia.
    I  nuovi  meccanismi sarebbero quindi illegittimi, per violazione
del   principio   di   certezza  delle  risorse  finanziarie  sotteso
all'art. 119,  secondo comma, della Costituzione, in quanto farebbero
perdere  la  certezza  della  relazione  fra trasferimenti e concrete
risultanze  fiscali,  anche  perche'  il  riferimento,  senza  alcuna
ulteriore   precisazione,   ai  dati  statistici  ministeriali  «piu'
recenti» consentirebbe margini di discrezionalita' nell'aggiornamento
e nella strutturazione dei dati, renderebbe impossibili le verifiche,
e  rovescerebbe  sugli  enti  locali  le  conseguenze  negative delle
eventuali  inefficienze  delle elaborazioni statistiche ministeriali.
Essendo  poi  tali dati statistici espressamente riferiti «ai redditi
imponibili  dei  contribuenti  aventi  domicilio  fiscale nei singoli
comuni»,  acconti  e  conguagli  perderebbero  ogni  relazione  con i
redditi di lavoro dipendente e quelli ad essi assimilati, i quali, ai
fini dell'imputazione dell'addizionale, vanno attribuiti, a norma del
comma 6  dello stesso art. 1 del d.lgs. n. 360 del 1998, al comune in
cui  il  sostituto  d'imposta  ha  il  domicilio fiscale alla data di
effettuazione   delle  operazioni  di  conguaglio  relative  a  detti
redditi.
    L'operativita'  di  tali  meccanismi,  peraltro,  e' rinviata dal
comma 5  dello  stesso  art. 27  della  legge  n. 448 del 2001, comma
anch'esso  impugnato  dalla  Regione  Emilia-Romagna,  al 30 novembre
2002,  prorogandosi  cosi'  il  termine,  gia'  prorogato dalla legge
finanziaria  2001 (art. 67 - Compartecipazione al reddito IRPEF per i
comuni  per  l'anno 2002,  comma 1, della legge n. 388 del 2000), per
l'emanazione   dei   decreti   ministeriali   cui   e'   rimessa   la
determinazione  dell'ammontare  dell'addizionale.  Pertanto,  secondo
quanto stabilito ancora dallo stesso comma 5 dell'art. 25 della legge
n. 448  del  2001, in forza della sostituzione, da esso disposta, dei
commi 3,  4  e 5 dell'art. 67 della detta legge finanziaria del 2001,
si  applica  ancora,  e  si  applichera'  anche  nel  2003, un regime
transitorio,  di  compartecipazione dei comuni al gettito dell'IRPEF,
da quest'ultima legge istituito.
    Alla   disciplina   dettata   in   proposito  dall'art. 67  della
finanziaria  del 2001, tuttavia, con la sostituzione dei commi 3, 4 e
5,  vengono introdotte due importanti varianti. In primo luogo, viene
stabilito, aggiungendosi una proposizione al comma 3, che per il 2002
il  riparto  si basera' sui «dati statistici piu' recenti forniti dal
Ministero  dell'economia e delle finanze»; in secondo luogo, fermo il
principio, gia' fissato dal comma 4, per cui i trasferimenti erariali
sono  ridotti  per ciascun comune in misura pari al gettito spettante
per  la  detta  compartecipazione  al  gettito  IRPEF, si stabilisce,
aggiungendosi  una proposizione a tale comma, che «nel caso in cui il
livello   dei   trasferimenti   spettanti  ai  singoli  enti  risulti
insufficiente    a    consentire    il   recupero   integrale   della
compartecipazione,  la  compartecipazione  stessa  e'  corrisposta al
singolo ente nei limiti dei trasferimenti spettanti per l'anno».
    Entrambe   le  innovazioni  introdotte,  secondo  la  ricorrente,
sarebbero   costituzionalmente   illegittime.   La  prima  in  quanto
rinnoverebbe,  per la disciplina transitoria, la stessa situazione di
incertezza  e di discrezionalita' ministeriale denunciata a proposito
dei   calcoli   basati  sui  «dati  statistici  piu'  recenti»  nella
disciplina  a  regime;  la  seconda,  in quanto, facendo prevalere la
logica dei trasferimenti su quella della compartecipazione al gettito
IRPEF,  violerebbe  lo  spirito  e  la lettera dell'art. 119, secondo
comma,  della  Costituzione,  che  basa l'autonomia finanziaria delle
Regioni  e degli enti locali su «tributi ed entrate proprie», nonche'
sulla «compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al
loro territorio».
    Anche  il  rinvio al 2004 della cessazione del regime transitorio
sarebbe  lesivo  del  disposto  costituzionale,  perche' l'entrata in
vigore della riforma del Titolo V non sembrerebbe aver inciso affatto
sui  comportamenti  del legislatore ordinario, il quale affronterebbe
il  tema  cruciale  dell'autonomia finanziaria come se l'art. 119 non
avesse   subito   alcun  mutamento,  ed  anzi  mostrerebbe  di  voler
retrocedere   rispetto   alle   timide   innovazioni  introdotte  dal
legislatore precedente alla riforma stessa.
    5. - Si e' costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, chiedendo che il ricorso sia rigettato in quanto infondato.
    In  particolare,  in  ordine  alle  questioni  aventi  ad oggetto
l'art. 25,  commi 1 e 5, la difesa erariale contesta che le modifiche
al  sistema  di  calcolo  nel  meccanismo  di acconto e di conguaglio
dell'addizionale  comunale IRPEF versata annualmente ai comuni e alle
province,  ed  il  rinvio  dell'operativita'  di  tale  meccanismo al
30 novembre  2002,  con la previsione dell'applicazione medio tempore
di  un  regime  transitorio  di compartecipazione al gettito IRPEF si
pongano  in  contrasto  con  l'art. 119  della Costituzione, che basa
l'autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali su «tributi
ed  entrate  proprie  nonche'  sulla  compartecipazione al gettito di
tributi  erariali  riferibili  al  loro  territorio».  Cio' in quanto
l'art. 25,   comma 1,   della  legge  n. 448  del  2001  fa  espresso
riferimento  ai  redditi imponibili dei contribuenti aventi domicilio
fiscale  nei  singoli  comuni  come  parametro  di  base. L'autonomia
finanziaria  delle regioni e degli enti locali, osserva poi la difesa
erariale,  deve  essere  «in  armonia  con  la  Costituzione» e con i
«principi  di  coordinamento  della  finanza  pubblica  e del sistema
tributario»,   cosi'  come  previsto  dagli  artt. 119  e  117  della
Costituzione.
    6.  -  Nella  memoria  depositata  in prossimita' dell'udienza la
Regione   Emilia-Romagna   ha   osservato   che   le   argomentazioni
dell'Avvocatura   erariale   svolte   a   difesa  delle  disposizioni
dell'art. 25 censurate non sarebbero pertinenti ai rilievi mossi, non
offrendo risposte che entrino nel merito.

                       Considerato in diritto

    1. - La Regione Basilicata (r. ric. n. 20 del 2002) ha impugnato,
insieme ad altre disposizioni della stessa legge, l'art. 10, comma 1,
lettere  a,  b  e  c, della legge finanziaria 2002 (legge 28 dicembre
2001,   n. 448)   in  tema  di  imposta  sulla  pubblicita',  nonche'
l'art. 27,  commi 8,  9,  10  e  11, della medesima legge, in tema di
diversi  tributi  locali.  A  sua volta la Regione Emilia-Romagna (r.
ric.  n. 23  del  2002)  ha  impugnato, tra gli altri, l'articolo 25,
commi 1  e  5,  della  medesima  legge,  che reca alcune modifiche al
d.lgs.  n. 360  del  1998  e  alla  legge  n. 388 del 2000 in tema di
addizionale  comunale  e provinciale all'IRPEF e di compartecipazione
dei comuni al gettito dell'IRPEF.
    2.  -  La  presente  pronunzia  riguarda  le  sole  questioni ora
indicate,  restando  riservata a separate pronunce la decisione delle
ulteriori  questioni  sollevate  nei  medesimi  ricorsi delle Regioni
Basilicata ed Emilia-Romagna.
    3. - Pur nella varieta' dei loro contenuti, tutte le disposizioni
censurate  attengono  al regime tributario e delle entrate degli enti
locali:  e'  dunque  opportuno  riunire  i giudizi, con riguardo alle
questioni ad essi relative, perche' siano decisi con unica pronunzia.
    4.  -  La Regione Basilicata solleva, in primo luogo, una censura
di ordine generale, che deve essere esaminata in via preliminare.
    Le  disposizioni  impugnate  dell'art. 10 della legge finanziaria
per  il  2002,  secondo  la ricorrente, conterrebbero norme incidenti
nella  materia  del  «sistema  tributario  degli  enti  locali»,  che
spetterebbe alla potesta' «residuale» delle Regioni (art. 117, quarto
comma  della  Costituzione),  salva  la sola competenza dello Stato a
determinare  i  principi  fondamentali  in  materia di «coordinamento
della  finanza  pubblica  e  del sistema tributario» (art. 117, terzo
comma).  Si  tratterebbe invece, nella specie, di norme di dettaglio,
che nulla avrebbero a che vedere con il coordinamento.
    Anche  a proposito dell'art. 27 la Regione ricorrente afferma che
la  materia  della  finanza  locale sarebbe assegnata alla competenza
esclusiva  delle  regioni,  salvi  i principi di coordinamento che la
legge dello Stato puo' stabilire: le disposizioni impugnate sarebbero
viceversa «esasperatamente di dettaglio».
    5.  -  Questa  impostazione  della  ricorrente  non  puo'  essere
condivisa.
    Il  sistema finanziario e tributario degli enti locali e' oggetto
delle  disposizioni  dell'art. 119 della Costituzione, come novellato
dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
    Esso considera, in linea di principio, sullo stesso piano comuni,
province,  citta'  metropolitane e regioni, stabilendo che tutti tali
enti  «hanno  autonomia  finanziaria  di  entrata  e di spesa» (primo
comma);  hanno  «risorse autonome»e «stabiliscono e applicano tributi
ed  entrate  propri»,  sia  pure  «in  armonia  con la Costituzione e
secondo  i  principi  di  coordinamento  della finanza pubblica e del
sistema  tributario»,  ed inoltre «dispongono di compartecipazioni al
gettito  di  tributi erariali riferibile al loro territorio» (secondo
comma).  Le  risorse derivanti da tali fonti, e dal fondo perequativo
istituito  dalla  legge  dello Stato, consentono - vale a dire devono
consentire  -  agli  enti  di  «finanziare  integralmente le funzioni
pubbliche  loro attribuite» (quarto comma), salva la possibilita' per
lo  Stato  di  destinare  risorse aggiuntive ed effettuare interventi
speciali   in   favore   di   determinati  comuni,  province,  citta'
metropolitane  e  regioni,  per  gli  scopi di sviluppo e di garanzia
enunciati  dalla  stessa  norma o «per provvedere a scopi diversi dal
normale esercizio» delle funzioni degli enti autonomi (quinto comma).
    L'attuazione di questo disegno costituzionale richiede pero' come
necessaria  premessa  l'intervento del legislatore statale, il quale,
al  fine  di  coordinare l'insieme della finanza pubblica, dovra' non
solo   fissare  i  principi  cui  i  legislatori  regionali  dovranno
attenersi,  ma  anche determinare le grandi linee dell'intero sistema
tributario,  e  definire  gli  spazi  e i limiti entro i quali potra'
esplicarsi la potesta' impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni
ed enti locali.
    E'  evidente  come  cio'  richieda altresi' la definizione di una
disciplina transitoria che consenta l'ordinato passaggio dall'attuale
sistema,  caratterizzato  dalla permanenza di una finanza regionale e
locale  ancora  in non piccola parte «derivata», cioe' dipendente dal
bilancio  statale,  e  da  una disciplina statale unitaria di tutti i
tributi,  con  limitate  possibilita'  riconosciute a regioni ed enti
locali  di effettuare autonome scelte, ad un nuovo sistema. Cosi' che
oggi  non  si  danno ancora, se non in limiti ristrettissimi, tributi
che  possano  definirsi a pieno titolo «propri» delle regioni o degli
enti  locali  (cfr.  sentenze  nn. 296  del 2003 e 297 del 2003), nel
senso che essi siano frutto di una loro autonoma potesta' impositiva,
e  quindi  possano  essere  disciplinati  dalle leggi regionali o dai
regolamenti  locali,  nel rispetto solo di principi di coordinamento,
oggi  assenti perche' «incorporati», per cosi' dire, in un sistema di
tributi sostanzialmente governati dallo Stato. Anche i tributi di cui
gia'  oggi  la  legge  dello  Stato destina il gettito, in tutto o in
parte,  agli  enti  autonomi, e per i quali la stessa legge riconosce
gia'   spazi  limitati  di  autonomia  agli  enti  quanto  alla  loro
disciplina  -  e  che  percio' la stessa legislazione definiva talora
come   «tributi  propri»  delle  Regioni,  nel  senso  invalso  nella
applicazione  del  previgente  art. 119  della  Costituzione  -  sono
istituiti  dalla  legge statale e in essa trovano la loro disciplina,
salvo  che  per  i  soli  aspetti espressamente rimessi all'autonomia
degli enti territoriali.
    Per quanto poi riguarda i tributi locali, si deve aggiungere che,
stante la riserva di legge che copre tutto l'ambito delle prestazioni
patrimoniali  imposte (art. 23 della Costituzione), e che comporta la
necessita'  di  disciplinare  a  livello  legislativo quanto meno gli
aspetti  fondamentali  dell'imposizione,  e  data l'assenza di poteri
legislativi  in  capo agli enti sub-regionali, dovra' altresi' essere
definito,  da un lato, l'ambito (sempre necessariamente delimitato in
forza  appunto  della  riserva  di legge) in cui potra' esplicarsi la
potesta'  regolamentare  degli  enti  medesimi;  dall'altro  lato, il
rapporto fra legislazione statale e legislazione regionale per quanto
attiene  alla  disciplina  di  grado  primario  dei  tributi  locali:
potendosi  in  astratto  concepire situazioni di disciplina normativa
sia  a  tre  livelli  (legislativa  statale, legislativa regionale, e
regolamentare  locale),  sia  a  due  soli livelli (statale e locale,
ovvero regionale e locale).
    Da  cio'  consegue  che,  come questa Corte ha gia' avuto modo di
affermare,  poiche'  non  e'  ammissibile, in materia tributaria, una
piena  esplicazione  di  potesta' regionali autonome in carenza della
fondamentale  legislazione  di  coordinamento  dettata dal Parlamento
nazionale, si deve tuttora ritenere preclusa alle regioni (se non nei
limiti  ad  esse gia' espressamente riconosciuti dalla legge statale)
la potesta' di legiferare sui tributi esistenti, istituiti e regolati
da  leggi  statali  (cfr.  ancora sentenze nn. 296 del 2003 e 297 del
2003);   e  per  converso  si  deve  ritenere  tuttora  spettante  al
legislatore  statale la potesta' di dettare norme modificative, anche
nel  dettaglio,  della  disciplina  dei  tributi locali esistenti. In
proposito  vale  ovviamente  il  limite  discendente  dal  divieto di
procedere  in  senso  inverso  a quanto oggi prescritto dall'art. 119
della  Costituzione,  e  cosi'  di  sopprimere  semplicemente,  senza
sostituirli,  gli  spazi  di  autonomia gia' riconosciuti dalle leggi
statali  in  vigore alle regioni e agli enti locali, o di procedere a
configurare  un  sistema  finanziario  complessivo  che contraddica i
principi del medesimo art. 119.
    6.    -    Dalle    premesse    enunciate   discende   pianamente
l'impossibilita'  sia di accedere alla tesi della Regione Basilicata,
secondo  cui  la  materia  del «sistema tributario degli enti locali»
spetterebbe  gia'  oggi  alla  potesta' legislativa «residuale» delle
regioni;  sia di accogliere le censure della stessa ricorrente basate
sul  carattere  dettagliato  e  non  di  principio delle disposizioni
impugnate  in  materia  di tributi locali o devoluti agli enti locali
(che   si   tratti   dell'imposta  sulla  pubblicita'  o  dell'ICI  o
dell'addizionale  all'IRPEF).  Le  norme  impugnate,  infatti, recano
modifiche  particolari  ad  aspetti  di  tali  tributi che gia' erano
oggetto  di specifica disciplina in preesistenti leggi statali, e sui
quali  quindi  il  legislatore  statale,  come  si e' detto, conserva
potere  di intervento, fino alla definizione delle premesse del nuovo
sistema impositivo delle regioni e degli enti locali.
    7. - Si possono ora esaminare le specifiche censure che investono
le impugnate disposizioni della legge finanziaria per il 2002.
    Non   sono  fondate,  in  primo  luogo,  le  questioni  sollevate
sull'art. 10,  comma 1, lettere a, b e c, che recano alcune modifiche
al   decreto  legislativo  15 novembre  1993,  n. 507  (Revisione  ed
armonizzazione  dell'imposta comunale sulla pubblicita' e del diritto
sulle pubbliche affissioni, della tassa per l'occupazione di spazi ed
aree pubbliche dei comuni e delle province nonche' della tassa per lo
smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell'art. 4 della legge
23 ottobre  1992,  n. 421,  concernente  il  riordino  della  finanza
territoriale - articoli 1-57).
    La  lettera  a sostituisce il comma 5 dell'art. 3 di tale decreto
legislativo,   concernente   i  termini  per  deliberare  le  tariffe
dell'imposta   sulla   pubblicita'  e  del  diritto  sulle  pubbliche
affissioni,  stabilendo  che  «in  deroga  all'articolo 3 della legge
27 luglio  2000,  n. 212 [recante «Disposizioni in materia di statuto
dei  diritti  del  contribuente»: l'art. 3 stabilisce il principio di
irretroattivita'  delle  disposizioni  tributarie,  salvo  il caso di
quelle  di  interpretazione autentica], le tariffe dell'imposta sulla
pubblicita'  e del diritto sulle pubbliche affissioni sono deliberate
entro  il  31 marzo  di  ogni  anno  e  si  applicano a decorrere dal
1° gennaio  del  medesimo  anno.  In  caso  di mancata adozione della
deliberazione, si intendono prorogate di anno in anno».
    La  novita'  legislativa  concerne  dunque  la  modifica  (non la
statuizione  ex  novo) del termine per deliberare le variazioni delle
tariffe.  A  parte  quanto  si  e'  detto sulla perdurante competenza
statale  in materia, si puo' osservare che lo spostamento del termine
al  31 marzo  di  ogni  anno,  con  la  previsione  di  una efficacia
retroattiva  delle  deliberazioni  a  decorrere  dal 1° gennaio dello
stesso  anno,  comporta  altresi'  la deroga - espressamente disposta
dalla  norma  impugnata  -  al principio generale sancito dalla legge
statale  sul  c.d.  statuto  del  contribuente, che esclude di regola
l'efficacia  retroattiva  delle modifiche introdotte nella disciplina
dei tributi.
    8. - La lettera b, sopprimendo le parole «delle prime tre classi»
nell'art. 4, comma 1 del decreto legislativo n. 507 del 1993, estende
a  tutti i comuni, anziche' a quelli delle sole prime tre classi (con
popolazione  di  oltre  30.000 abitanti), la facolta' di suddividere,
agli  effetti  dell'applicazione dell'imposta sulla pubblicita' e del
diritto   sulle   pubbliche  affissioni,  le  localita'  del  proprio
territorio  in  due  categorie  in  relazione  alla  loro importanza,
applicando   alla   categoria  speciale  una  maggiorazione  fino  al
centocinquanta per cento della tariffa normale.
    Si  tratta  di  una norma meramente facoltizzante, che allarga, e
non restringe, l'autonomia dei comuni.
    9.   -   La   lettera  c  aggiunge  un  comma 1-bis  all'art. 17,
concernente  le  esenzioni  dall'imposta sulla pubblicita', in cui si
stabilisce  che  «l'imposta non e' dovuta per le insegne di esercizio
di  attivita'  commerciali  e  di  produzione  di  beni o servizi che
contraddistinguono   la   sede  ove  si  svolge  l'attivita'  cui  si
riferiscono,  di  superficie  complessiva  fino a 5 metri quadrati. I
comuni,  con  regolamento  adottato  ai  sensi  dell'articolo 52  del
decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 [riguardante la potesta'
regolamentare  generale  delle  province  e  dei comuni in materia di
entrate,   anche   tributarie],  possono  prevedere  l'esenzione  dal
pagamento   dell'imposta   per  le  insegne  di  esercizio  anche  di
superficie   complessiva  superiore  al  limite  di  cui  al  periodo
precedente».
    In  proposito  la  Regione  Basilicata, alla censura di carattere
generale  gia'  esaminata, aggiunge che la disposizione riguarderebbe
anche la materia connessa del «governo del territorio», di competenza
concorrente   delle   Regioni,   sarebbe  irragionevole  e  lederebbe
l'autonomia  comunale,  disponendo  senz'altro  una  esenzione, cui i
comuni  possono  derogare  solo  nella  direzione  obbligata  di  una
esenzione piu' ampia.
    In  realta',  la  norma in questione non riguarda il «governo del
territorio»,  ma  la  disciplina dell'imposta sulla pubblicita'. Essa
non  rappresenta  una  novita'  assoluta  nell'ordinamento,  ma va ad
integrare  la disciplina di altre esenzioni affini, gia' previste per
la  pubblicita'  all'interno  o  all'ingresso  di locali adibiti alla
vendita di beni o alla prestazione di servizi (cfr. art. 17, comma 1,
lettere  a  e  b,  del  d.lgs.  n. 446  del  1997):  esenzioni la cui
disciplina,  per quanto si e' detto, fa ancora capo alla legislazione
statale.
    10.  -  L'art. 27  (Disposizioni finanziarie per gli enti locali)
della  legge  n. 448  del 2001 e' impugnato nei suoi commi 8, 9, 10 e
11,  che  dispongono  modifiche  o integrazioni particolari ad alcuni
aspetti  della  disciplina  di diversi tributi locali, gia' contenuta
nelle leggi statali.
    Il   comma 8  reca  una  disposizione  sostitutiva  dell'art. 53,
comma 16,  della legge 23 dicembre 2000, n. 388, in tema di regole di
bilancio  per  le  regioni,  le province e i comuni, statuendo che il
termine  per  deliberare le aliquote e le tariffe dei tributi locali,
compresa l'aliquota dell'addizionale comunale all'IRPEF, e le tariffe
dei  servizi  pubblici  locali,  nonche'  per approvare i regolamenti
relativi  alle  entrate degli enti locali, e' stabilito entro la data
fissata  da  norme  statali  per  la  deliberazione  del  bilancio di
previsione,  anziche'  entro  la  data  di effettiva approvazione del
bilancio;  e  che  i  regolamenti  sulle  entrate, anche se approvati
successivamente  all'inizio  dell'esercizio, purche' entro il termine
di cui sopra, hanno effetto dal 1° gennaio dell'anno di riferimento.
    Le  censure  della  ricorrente (a parte quella di ordine generale
gia'  esaminata)  si  sostanziano  nel  rilievo  secondo  cui sarebbe
limitata  e  condizionata  la  potesta'  regolamentare  dei comuni, e
sarebbe  del  tutto  irragionevole la disciplina uniforme dettata sul
piano  nazionale per tutti i comuni, in relazione, in particolare, ai
principi  di  sussidiarieta',  differenziazione  e adeguatezza di cui
all'art. 118, primo comma, della Costituzione.
    La  questione  non  e'  fondata,  per  ragioni  analoghe a quelle
esposte  a  proposito  dell'art. 10,  comma 1,  lettera  a, anch'esso
relativo  a  modifica di termini per deliberare le tariffe di tributi
locali.
    Quanto  all'ultimo  periodo  del  comma, relativo alla decorrenza
dell'efficacia dei regolamenti locali, esso ha lo scopo di consentire
la   deroga,  che  sarebbe  preclusa  alla  fonte  regolamentare,  al
principio di irretroattivita' sancito dall'art. 11 delle disposizioni
preliminari   al   codice  civile,  e  ribadito,  quanto  alle  norme
tributarie,  dall'art. 3,  comma 1,  della legge n. 212 sullo statuto
dei diritti del contribuente.
    11.  -  Per le stesse ragioni, e' infondata la questione relativa
al comma 9, che differisce - in espressa deroga, ancora una volta, al
principio,  espresso  nell'art. 3, comma 3, dello statuto dei diritti
del  contribuente, secondo cui non possono essere prorogati i termini
di  prescrizione  e  di decadenza per gli accertamenti di imposta - i
termini,  fissati  dalla  legge  statale  (cfr. art. 11, comma 1, del
d.lgs.   30 dicembre   1992,   n. 504),   per   la   liquidazione   e
l'accertamento   dell'ICI  limitatamente  alle  annualita'  d'imposta
successive  al  1998  (primo  periodo del comma 9) o al 1997 (secondo
periodo).
    12.  - Il comma 10 prevede che a decorrere dal 1° gennaio 2002 le
basi  di  calcolo  dei  sovracanoni  dovuti  ai comuni, o ai consorzi
obbligatori   tra  essi  costituiti,  compresi  nel  relativo  bacino
imbrifero  montano,  dai  concessionari delle derivazioni d'acqua per
produzioni  di  forza  motrice con potenza nominale media superiore a
220 chilowatt e dei sovracanoni dovuti dagli stessi concessionari, ai
sensi  dell'art. 53  del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, a favore dei
comuni   rivieraschi   e  delle  rispettive  province  «sono  fissate
rispettivamente in 13 euro e 3,50 euro, fermo restando per gli anni a
seguire  l'aggiornamento  biennale  previsto», attraverso decreti del
Ministro  dei  lavori pubblici o di quello delle finanze, dall'art. 3
della legge 22 dicembre 1980, n. 925.
    Neppure tale questione e' fondata.
    La  misura  dei sovracanoni in questione e' stabilita dalla legge
statale  (artt. 1  e  2  della  legge  n. 925  del 1980), che prevede
altresi'  un  procedimento  per  il loro aggiornamento biennale sulla
base  dei dati ISTAT sull'andamento del costo della vita (art. 3). La
norma  impugnata  fissa  ex  novo le basi di calcolo dei sovracanoni,
salva per gli anni a venire l'applicazione del predetto meccanismo di
aggiornamento.
    La  norma  interviene  dunque  su  una  materia  gia' interamente
regolata   dalla   legge   dello   Stato,  la  cui  competenza,  fino
all'attuazione del nuovo art. 119 della Costituzione, resta ferma per
i motivi gia' esposti.
    13. - Il comma 11 dispone che «nel caso in cui l'imposta relativa
a  fabbricati  del  gruppo  catastale  D, in precedenza versata ad un
unico  comune in base a valori di bilancio unitariamente considerati,
sia   successivamente   da   versare   a   piu'   comuni   a  seguito
dell'attribuzione   di   separate  rendite  catastali  per  le  parti
insistenti  su territori di comuni diversi, i comuni interessati sono
tenuti  a  regolare  mediante accordo i rapporti finanziari relativi,
delegando  il  Ministero  dell'interno  ad  effettuare  le necessarie
variazioni   dell'importo   a   ciascuno   spettante   a   titolo  di
trasferimenti erariali, senza oneri per lo Stato».
    La questione relativa a tale norma non e' fondata.
    Il  sistema  catastale,  compresi i criteri e le procedure per la
determinazione  delle  relative  rendite,  che costituiscono anche la
base  imponibile  a  cui  e' commisurata, per i fabbricati iscritti o
iscrivibili  in  catasto,  l'imposta  comunale  sugli  immobili (cfr.
art. 5,  commi 2  e 3, del d.lgs. n. 504 del 1992) e' e resta tuttora
di  competenza  del  legislatore  statale.  Nella  specie, l'art. 64,
commi 1  e  2,  della  legge  n. 388  del  2000  ha  previsto che, in
correlazione  con  il  procedimento di autodeterminazione provvisoria
delle  rendite  catastali  dei fabbricati di categoria D, cioe' degli
immobili  «a  destinazione  speciale»,  industriale  o commerciale, i
minori  introiti  relativi  all'ICI conseguiti dai comuni per effetto
dei  minori  imponibili  derivanti  da  tale autodeterminazione siano
compensati  da un corrispondente aumento dei trasferimenti statali se
di  importo  superiore  a  lire  3 milioni e allo 0,5 per cento della
spesa  corrente  prevista  per ciascun anno; e che tali trasferimenti
siano  invece  ridotti qualora ai comuni che ne beneficiano derivino,
per  effetto della determinazione definitiva delle rendite catastali,
introiti  superiori  del  30  per  cento  o  piu'  rispetto  a quelli
conseguiti prima dell'autodeterminazione provvisoria.
    La  disposizione  qui  impugnata  non  fa  che regolare l'ipotesi
particolare  in  cui l'ICI relativa a detti fabbricati, in precedenza
versata  ad  un  unico  comune, sia successivamente da versare a piu'
comuni, a seguito della attribuzione di separate rendite per le parti
insistenti  sui rispettivi territori. La previsione di un accordo fra
i  comuni  interessati  e  di  una  delega  da  parte degli stessi al
Ministero  dell'interno per effettuare le necessarie variazioni degli
importi spettanti a titolo di trasferimenti erariali non puo' che far
capo alla  legislazione  dello  Stato,  andando  ad  incidere  su una
disciplina che e' di stretta pertinenza statale.
    14.  -  L'addizionale  comunale  all'imposta  sul  reddito  delle
persone  fisiche, istituita dall'art. 1 del d.lgs. 28 settembre 1998,
n. 360,  e  poi  trasformata  in  addizionale  provinciale e comunale
(art. 12  della legge 13 maggio 1999, n. 133), costituisce un'entrata
tributaria  istituita  e  fondamentalmente  disciplinata  dalla legge
statale,  anche  se devoluta, quanto al gettito, agli enti locali con
riguardo  ai  redditi  prodotti  nei  rispettivi territori. L'art. 1,
comma 2,  del  decreto  legislativo istitutivo prevede che l'aliquota
dell'addizionale   (successivamente  definita  «di  compartecipazione
dell'addizionale»: art. 12 della legge n. 133 del 1999) sia stabilita
con decreti del Ministro delle finanze, conseguentemente determinando
la  equivalente  riduzione  delle  aliquote  del tributo erariale. Il
comma 7  dell'art. 1 del medesimo decreto legislativo disciplinava le
modalita'  di  attribuzione  delle somme agli enti locali, in acconto
sulla base dei dati relativi alle dichiarazioni dei redditi dell'anno
precedente,   e   in  sede  di  conguaglio  in  base  ai  dati  sulle
dichiarazioni dell'anno di riferimento.
    A  quest'ultima  disciplina  l'art. 25,  comma 1, impugnato dalla
Regione  Emilia-Romagna,  reca  modifiche  intese  a  stabilire che i
versamenti  agli  enti  locali  sono  effettuati «sulla base dei dati
statistici  piu'  recenti forniti dal Ministero dell'economia e delle
finanze»,  quanto  ai  versamenti  in acconto, e «sulla base dei dati
statistici   relativi  all'anno  precedente,  forniti  dal  Ministero
dell'economia  e delle finanze», quanto all'attribuzione definitiva e
a conguaglio.
    Di  queste  modifiche  si duole la Regione ricorrente, lamentando
che  il  riferimento, nel nuovo comma 7 dell'art. 1 del d.lgs. n. 360
del  1998,  anziche'  ai  dati  reali, ai dati statistici relativi ai
redditi  imponibili dei soggetti aventi domicilio fiscale nei singoli
comuni,  violi  il  «principio  di certezza delle risorse finanziarie
sotteso  all'art. 119,  secondo comma, della Costituzione», in quanto
farebbe perdere la certezza della relazione fra attribuzioni di somme
e    concrete    risultanze   fiscali,   consentirebbe   margini   di
discrezionalita'  nell'aggiornamento e nella strutturazione dei dati,
ed  inoltre,  avendo  riguardo ai redditi imponibili dei contribuenti
aventi  domicilio  fiscale  nei  singoli comuni, farebbe perdere ogni
relazione  con  i redditi di lavoro dipendente o assimilati, che sono
attribuiti  per  legge, ai fini dell'imputazione dell'addizionale, al
comune  in  cui  il  sostituto d'imposta ha il domicilio fiscale alla
data di effettuazione delle operazioni di conguaglio relative a detti
redditi.
    15. - La questione non e' fondata.
    Trattandosi  di  un'addizionale  istituita e regolata dalla legge
dello  Stato,  resta, in linea di principio, nella disponibilita' del
legislatore  statale disciplinare le modalita' della attribuzione del
gettito.
    E'  vero che la istituzione e la disciplina dell'addizionale sono
state  finalizzate  sia  a  fornire  agli  enti  locali  una  risorsa
aggiuntiva atta a finanziare nuovi compiti e funzioni trasferiti, sia
ad attribuire loro una forma di potesta' impositiva autonoma, con una
sia   pure   limitata  possibilita'  di  accrescere  l'aliquota,  per
finanziare  la  generalita'  delle  loro funzioni, in sostituzione di
trasferimenti  dal  bilancio  dello  Stato  (cfr.  art. 48, comma 10,
lettere  b  e  d,  e  comma 11, della legge 27 dicembre 1997, n. 449;
art. 1,  commi 2  e  3,  e art. 2, comma 3-bis, del d.lgs. n. 360 del
1998).  In  tal  modo  la  logica di una compartecipazione degli enti
locali   al  gettito  (sia  pure  «riferibile  al  loro  territorio»:
art. 119,  secondo  comma,  ultimo periodo, della Costituzione) di un
tributo  erariale  viene  a  sovrapporsi e in parte a confondersi con
quella  di  una  forma  di  potesta' impositiva autonoma, che per sua
natura  non  puo' che esercitarsi sulla base imponibile esistente nel
territorio di ciascun ente.
    Il  riferimento  della norma impugnata ai dati statistici finisce
per allontanare ulteriormente la disciplina concreta dell'addizionale
dal  modello  di  un  tributo  riscosso  da  ciascun ente nel proprio
territorio,  spostandolo  verso quello di un riparto fra gli enti del
gettito  del tributo. Tuttavia, cio' non e' sufficiente a determinare
una  sostanziale  alterazione  in pejus dell'autonomia finanziaria di
cui  gli  enti locali gia' fruivano. Ne' viene compromessa in maniera
significativa  la  certezza delle entrate, anche tenendo conto che la
stessa disposizione censurata aggiunge che «con decreto del Ministero
dell'interno,  di  concerto  con  il  Ministero dell'economia e delle
finanze,  sentita  la  Conferenza  Stato-citta'  ed autonomie locali,
possono   essere   stabilite  ulteriori  modalita'  per  eseguire  la
ripartizione».
    16.  -  L'art. 67, comma 1, della legge n. 388 del 2000 prevedeva
che  i  decreti  ministeriali  destinati  a  stabilire  l'aliquota di
compartecipazione  all'addizionale  IRPEF,  per la parte non connessa
all'effettivo trasferimento di nuovi compiti e funzioni, e compensata
da  una corrispondente riduzione dei trasferimenti ordinari ai comuni
(art. 2,   comma 3-bis,   del   d.lgs.   n. 360  del  1998,  aggiunto
dall'art. 12  della  legge n. 133 del 1999), fossero emanati entro il
30 novembre   2001.   Il  successivo  comma 3  del  medesimo  art. 67
istituiva  per  l'anno 2002,  per  i  comuni  delle regioni a statuto
ordinario,  una  compartecipazione al gettito dell'IRPEF nella misura
del  4,5  per  cento  del  riscosso  in conto competenza affluente al
bilancio  dello  Stato  per  il  2001,  ripartita  tra  i  comuni dal
Ministero  delle  finanze  in  proporzione  all'ammontare, risultante
sulla  base  dei  dati  disponibili,  dell'imposta  netta  dovuta dai
contribuenti,  distribuito territorialmente in funzione del domicilio
fiscale.  I  trasferimenti erariali a ciascun comune erano ridotti in
misura  pari  al gettito spettante della compartecipazione (comma 4).
Il    comma 5    regolava    le   modalita'   di   erogazione   della
compartecipazione, in quattro rate di cui le due prime sulla base dei
dati  previsionali  e  le altre sulla base dei dati di consuntivo del
2001, con i relativi conguagli.
    Le modifiche che la disposizione impugnata dell'art. 25, comma 5,
della  legge  n. 448  del  2001  apporta  a  tale  disciplina sono le
seguenti.
    Anzitutto  si differisce dal 30 novembre 2001 al 30 novembre 2002
il  termine,  stabilito dall'art. 67, comma 1, della legge n. 388 del
2000,   per   l'emanazione   dei  decreti  relativi  all'aliquota  di
compartecipazione all'addizionale (comma 5, lettera a).
    In  secondo  luogo  (comma  5,  lettera b), si estende al 2003 il
regime transitorio gia' previsto per il 2002 dall'art. 67 della legge
n. 388 del 2000. Inoltre, in particolare, le nuove norme stabiliscono
che  per il 2002 il gettito e' ripartito tra i comuni «sulla base dei
dati  statistici  piu'  recenti»  forniti dal Ministero dell'economia
(nuovo  comma 3,  ultimo periodo, dell'art. 67 della legge n. 388 del
2000);  e  che nel caso in cui il livello dei trasferimenti spettanti
ai  singoli  enti  risulti  insufficiente  a  consentire  il recupero
integrale  della compartecipazione, questa «e' corrisposta al singolo
ente  nei  limiti  dei  trasferimenti  spettanti  per  l'anno» (nuovo
comma 4,  secondo  periodo,  del  medesimo art. 67). Il nuovo comma 5
dell'art. 67,  a  sua  volta,  si  limita  a  spostare al 2002-2003 i
riferimenti   temporali  per  gli  adempimenti,  invariati,  relativi
all'erogazione del gettito della compartecipazione ai comuni.
    La Regione ricorrente sostiene che lo stesso rinvio al 2004 della
cessazione  del  regime  transitorio  sia  lesivo dell'art. 119 della
Costituzione.  Inoltre,  i  nuovi criteri di calcolo basati sui «dati
statistici piu' recenti» (nuovo comma 3, ultimo periodo, dell'art. 67
della  legge  n. 388  del 2000) produrrebbero la stessa situazione di
incertezza   denunciata   a   proposito  della  disciplina  a  regime
dell'addizionale;  e  la  riduzione  della  compartecipazione entro i
limiti  dei  trasferimenti  erariali spettanti ai singoli enti (nuovo
comma 4,  secondo  periodo, dell'art. 67 della legge n. 388 del 2000)
violerebbe  lo spirito e la lettera dell'art. 119 della Costituzione,
che  basa  l'autonomia  finanziaria  degli  enti locali su tributi ed
entrate  proprie  e  sulla  compartecipazione  al  gettito di tributi
erariali riferibili al loro territorio.
    17. - Le questioni non sono fondate.
    E'  ben  vero  che  il  prolungamento  del  regime transitorio si
accompagna  ad una proroga nel tempo dell'attuazione piena del regime
dell'addizionale. Ma non si puo' negare al legislatore statale, a cui
fa  tuttora  capo l'intera  disciplina  legislativa  del  tributo, la
potesta'  di  regolare, anche in termini temporali piu' ampi, la fase
di transizione al nuovo sistema.
    Quanto al riferimento ai dati statistici piu' recenti, anziche' a
quelli  reali,  valgono  le  stesse  considerazioni  appena  svolte a
proposito  dell'art. 25,  comma 1,  potendosi qui aggiungere che tale
criterio  puo'  apparire  piu'  facilmente giustificabile ai fini del
riparto   di   quella   che   e'  configurata  chiaramente  come  una
compartecipazione al gettito del tributo erariale.
    Infine,  in  ordine  alla  riduzione  della compartecipazione nei
limiti  dei  trasferimenti  erariali  spettanti  ai  comuni,  vale il
rilievo  che,  nella  fase  transitoria,  gia'  l'originario art. 67,
comma 4,  della  legge  n. 388  del  2000  prevedeva la riduzione dei
trasferimenti  a compensazione del gettito della compartecipazione di
cui  fruiscono  i  comuni,  mantenendo l'invarianza dell'onere per lo
Stato:  onde  la nuova norma non fa che assicurare in modo piu' pieno
tale    invarianza,    facendo    corrispondere   l'ammontare   della
compartecipazione  attribuita  a quello dei trasferimenti da ridurre,
anche  quando questi spettassero in misura inferiore al gettito della
compartecipazione teoricamente prevista a favore del singolo comune.