ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei   giudizi   di   legittimita'  costituzionale  dell'articolo 303,
comma 2,  del  codice di procedura penale, promossi con ordinanze del
19 febbraio, del 1° aprile e del 7 marzo 2003 dal Tribunale di Milano
--  sezione  per  il  riesame, rispettivamente iscritte al n. 451, al
n. 488  e  al  n. 576  del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella
Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  numeri  28, 32 e 34, 1ª serie
speciale, dell'anno 2003.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera di consiglio del 10 dicembre 2003 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
    Ritenuto che, con ordinanza in data 19 febbraio 2003 (r.o. n. 451
del 2003), il Tribunale di Milano -- sezione per il riesame, chiamato
a  pronunciarsi sul ricorso avverso l'Ordinanza emessa il giudice per
le  indagini  preliminari  del  medesimo  Tribunale, con la quale era
stata  respinta l'istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini
di  custodia  cautelare,  proposta  dalla  difesa di due indagati nei
confronti  dei  quali,  a seguito di dichiarazione di incompetenza da
parte  della  Corte d'appello di Firenze e di trasmissione degli atti
alla  Procura  della  Repubblica  presso  il Tribunale di Milano, era
stata  dal g.i.p. del Tribunale di Milano nuova ordinanza di custodia
cautelare  in carcere, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e
13  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 303,  comma 2,  del codice di procedura penale «nella parte
in  cui  impedisce  di computare, ai fini dei termini massimi di fase
determinati  dal  successivo  articolo 304,  comma 6,  i  periodi  di
detenzione  sofferti  in  una fase o in un grado diversi da quelli in
cui il procedimento e' regredito»;
        che  il  giudice a quo rileva che, nel rigettare l'istanza di
scarcerazione   per   decorrenza  dei  termini  massimi  di  custodia
cautelare, il giudice per le indagini preliminari non ha tenuto conto
del  fatto  che,  con  la  sentenza  n. 292 del 1998, questa Corte ha
dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 303,  comma 4, cod. proc.
pen.,  nella  parte  in cui non prevede che, oltre al superamento del
termine complessivo di durata massima della custodia cautelare, possa
essere  causa  di  scarcerazione  anche il superamento del doppio del
termine   di   fase,   allorche'  si  verifichi  la  regressione  del
procedimento a norma dell'art. 303, comma 2, cod. proc. pen.;
        che,  tuttavia,  osserva  il remittente, tale pronuncia aveva
dato  luogo  ad  un  contrasto  giurisprudenziale,  in quanto, mentre
alcune pronunce si erano adeguate alla linea interpretativa affermata
in  quella  sentenza,  ritenendo  che si dovesse considerare tutta la
detenzione  comunque  sofferta  dall'inizio di una determinata fase o
grado  fino  al provvedimento che dispone il regresso, sommandola con
quella   successiva,   altre  pronunce,  facendo  leva  sul  limitato
carattere   vincolante  delle  sentenze  interpretative  di  rigetto,
avevano invece affermato che si dovessero congiungere alla detenzione
in  atto nella fase o grado in cui il procedimento era regredito solo
i  periodi  di privazione della liberta' gia' subiti nella fase o nel
grado medesimi;
        che  era  quindi intervenuta la pronuncia delle sezioni unite
della  Corte  di  cassazione n. 4 del 2000 (Musitano), la quale aveva
accolto   la   seconda   soluzione  interpretativa  sul  rilievo  che
l'art. 303,  comma 2,  cod.  proc.  pen.  costituisce espressione del
principio  di autonomia dei singoli termini di fase, sicche', pur non
potendosi prescindere dai principi affermati da questa Corte, secondo
cui  il  divieto  del superamento del doppio dei termini di fase deve
applicarsi   anche   ai  casi  di  regresso  del  procedimento,  cio'
nondimeno,  ai  fini  del  calcolo  del  doppio  del  termine di fase
dovevano  computarsi i soli periodi relativi a fasi tra loro omogenee
e  non anche tutti gli intervalli di tempo relativi a fasi diverse da
quelle in cui il procedimento fosse regredito;
        che   tuttavia,  prosegue  il  remittente,  poiche'  dopo  la
sentenza  «Musitano»  questa  Corte era stata chiamata a pronunciarsi
nuovamente  sulla  questione  ribadendone l'infondatezza e confutando
nel  contempo la tesi seguita dalle sezioni unite, era sorto un nuovo
contrasto,  che  aveva indotto le medesime sezioni unite a sollevare,
con  ordinanza  25 luglio  2002,  n. 28,  questione  di  legittimita'
costituzionale,   in   riferimento   agli   artt. 3   e   13   Cost.,
dell'art. 303, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui impedisce
di  computare,  ai  fini  dei termini massimi di fase determinati dal
successivo articolo 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in
una  fase  o  in un grado diversi da quelli in cui il procedimento e'
regredito;
        che  in  tale ordinanza, osserva il giudice a quo, le sezioni
unite  hanno  rilevato  come  il  metodo  di  calcolo proposto con la
sentenza  «Musitano»  risulti  coerente con la lettera dell'art. 303,
comma 2,  cod.  proc. pen. - secondo il quale i termini decorrono «di
nuovo»  a  seguito  di  regresso, escludendo quindi che nel frattempo
abbiano  continuato  a decorrere - e con la concezione «monofasica» o
«endofasica»  dell'impianto  codicistico  in  materia  di  termini di
custodia cautelare;
        che,  prosegue il remittente, le sezioni unite hanno altresi'
affermato  che  il  suddetto metodo di calcolo si collega ai principi
affermati  dalla Corte costituzionale e in particolare a quello della
proporzionalita'  del  termine  della  custodia  cautelare, posto che
questo non puo' essere riferito alla sola gravita' del reato, ma deve
altresi'  essere  ancorato  alla  ragionevole  durata delle attivita'
previste nella singola fase, non potendosi addossare all'autorita' il
rischio  della invalidita' del passaggio di fase in quanto non dovuto
a comportamento colpevole dell'imputato;
        che,  ricorda  ancora il giudice a quo, le sezioni unite, pur
ribadendo  che  la  soluzione fatta propria dalla sentenza «Musitano»
soddisferebbe anche il principio della riduzione al minimo necessario
della custodia cautelare, in quanto l'esperienza ha dimostrato che il
calcolo  comprensivo  di  tutti i termini interfase e quello dei soli
termini  omogenei  non  sarebbero  di  per se' e in astratto uno piu'
favorevole  e  l'altro  meno  favorevole, hanno tuttavia ritenuto che
questa  interpretazione,  benche'  costituzionalmente plausibile, non
poteva  essere  riaffermata alla luce della ordinanza n. 529 del 2000
di  questa Corte, per avere tale pronuncia affermato che il cumulo di
tutti  i  periodi  e'  il solo coerente con l'art. 13 Cost., il quale
impone   di  privilegiare  la  soluzione  che  riduca  al  minimo  il
sacrificio della liberta' personale;
        che,  peraltro,  come  affermato  delle  sezioni  unite nella
citata  ordinanza,  l'art. 303,  comma 2, cod. proc. pen., cosi' come
redatto,  esprime  invece  una norma che impedisce di addizionare, al
fine  del  superamento del doppio del termine finale di fase, periodi
di  detenzione  sofferti  in fasi o gradi diversi da quelli in cui il
procedimento e' regredito;
        che  il  Tribunale  di  Milano,  quindi,  sulla  base di tali
argomentazioni  e  ritenuta  la rilevanza della questione nel caso di
specie,    solleva    la   suindicata   questione   di   legittimita'
costituzionale;
        che  e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale dello Stato, e ha
chiesto  che  la  questione  sia  dichiarata inammissibile e comunque
infondata;
        che  la  difesa erariale ricorda come questa Corte abbia gia'
dichiarato  manifestamente  inammissibile  la medesima questione, con
ordinanza  n. 243  del  2003, e soggiunge che il remittente, piu' che
sollevare  un  dubbio  di  legittimita' costituzionale, prospetta una
questione  meramente  interpretativa  che  avrebbe  potuto  e  dovuto
risolvere   autonomamente,   adottando,   anche   se  non  condivisa,
l'interpretazione conforme a Costituzione;
        che,  con  ordinanza  in data 1° aprile 2003 (r.o. n. 488 del
2003),  il  Tribunale  di Milano - sezione per il riesame, chiamato a
pronunciarsi  sugli  appelli  proposti  dai difensori di due imputati
avverso  le  ordinanze  con  le  quali  il  giudice  per  le indagini
preliminari  del  medesimo  Tribunale  aveva  respinto  la  richiesta
diretta  ad  ottenere  la  declaratoria  di  inefficacia della misura
cautelare  della  custodia  in  carcere  per  l'asserito  intervenuto
decorso  del  termine  di  durata  massima  della custodia stessa, ha
sollevato,  in  riferimento  agli  artt. 3  e  13 della Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 303, comma 2, cod.
proc.  pen.,  «nella parte in cui impedisce di computare, ai fini dei
termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6,
i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da
quelli in cui il procedimento e' regredito»;
        che,  quanto  alla  non manifesta infondatezza, il remittente
ricorda che identica questione e' stata sollevata dalle sezioni unite
con  ordinanza  n. 28  del  2002  e  ritiene  di  «doversi conformare
all'orientamento  tracciato  dalle  sezioni  unite,  fatto proprio da
questo  ufficio anche in relazione a precedenti ricorsi (cfr. ricorso
ex  art. 310 cod. proc. pen. n. 1628 del 2002, che si allega e le cui
motivazioni si condividono appieno e si richiamano integralmente)»;
        che anche in questo giudizio e' intervenuto il Presidente del
Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale  dello  Stato,  e ha chiesto che la questione sia dichiarata
manifestamente  inammissibile  essendo  gia'  stata  decisa  in  tali
termini con ordinanza n. 243 del 2003;
        che,  con  ordinanza  in  data  7 marzo 2003 (r.o. n. 576 del
2003),  il  Tribunale  di Milano - sezione per il riesame, chiamato a
pronunciarsi  sull'appello  proposto avverso l'ordinanza emessa dalla
Corte  d'appello  di  Milano,  con  la  quale  era  stata respinta la
richiesta  di  scarcerazione  per  decorrenza dei termini di custodia
cautelare   formulata   dalla   difesa  dell'imputato  a  seguito  di
annullamento,  da  parte della Corte di cassazione, della sentenza di
condanna  emessa  dalla  medesima  Corte  d'appello, ha sollevato, in
riferimento  agli  artt. 3  e  13  della  Costituzione,  questione di
legittimita'  costituzionale dell'art. 303, comma 2, cod. proc. pen.,
«nella  parte  in  cui  impedisce  di  computare, ai fini dei termini
massimi  di  fase  determinati  dal  successivo  art. 304, comma 6, i
periodi  di  detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da
quelli in cui il procedimento e' regredito»;
        che   le   argomentazioni   in   ordine  alla  non  manifesta
infondatezza  della  questione  sono  identiche a quelle svolte nella
ordinanza del medesimo Tribunale in data 19 febbraio 2003;
        che,  quanto  alla  rilevanza  della questione, il remittente
osserva  che  calcolando  i  soli termini omogenei, secondo il metodo
«Musitano»,   l'imputato   non  dovrebbe  essere  scarcerato,  mentre
dovrebbe   esserlo  se  si  calcolasse  anche  il  periodo  di  tempo
interfase;
        che  anche  in tale giudizio e' intervenuto il Presidente del
Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale  dello  Stato,  e ha chiesto che la questione sia dichiarata
manifestamente  inammissibile  essendo  gia'  stata  decisa  in  tali
termini con ordinanza n. 243 del 2003.
    Considerato  che le ordinanze di rimessione sollevano la medesima
questione  e che, pertanto, i relativi giudizi possono essere riuniti
e decisi con unica pronuncia;
        che  l'ordinanza iscritta al n. 488 del 2003, nel motivare la
non  manifesta  infondatezza della questione, si limita a fare rinvio
alle  argomentazioni  svolte  dalle  sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione   nella   ordinanza   n. 28  del  2002,  che  dichiara  di
condividere e di fare proprie;
        che,  secondo  la consolidata giurisprudenza di questa Corte,
la  motivazione  dell'ordinanza  di  rimessione  deve  essere  invece
autosufficiente, non potendosi il giudice a quo limitare a richiamare
per  relationem il contenuto di altri atti o provvedimenti, anche se,
in   ipotesi,   acquisiti   agli  atti  del  procedimento  principale
(ordinanze n. 335 e n. 60 del 2003 e n. 8 del 2002);
        che,  anche  a prescindere dal suddetto rilievo, la questione
sollevata  dalle  sezioni  unite  della  Corte di cassazione e' stata
dichiarata  manifestamente  inammissibile  con  ordinanza  n. 243 del
2003,  proprio in ragione delle argomentazioni in essa contenute, che
il giudice a quo dichiara di fare proprie;
        che  tale  soluzione,  come  gia'  affermato  da questa Corte
nell'ordinanza  n. 335  del  2003,  non  puo' non riguardare anche la
questione sollevata con le altre due ordinanze, di contenuto identico
a  quella  gia' scrutinata nel senso della manifesta inammissibilita'
con la citata pronuncia n. 243 del 2003.
    Visti  gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.