IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA Visti gli atti del procedimento nei confronti di Absamat Moustapha, nato il 2 gennaio 1981 in Marocco, detenuto presso la Casa di reclusione di Isili, condannato alla pena di anni due e mesi dieci di reclusione determinata con provvedimento di unificazione di pene concorrenti emesso dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Padova in data 12 giugno 2002 (ord. es. n. 300/02 R.E.S.), con fine pena al 21 marzo 2004, avente ad oggetto l'espulsione dal territorio,dello Stato ai sensi dell'art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 come modificato dall'art. 15, legge 30 luglio 2002, n. 189; O s s e r v a Con sentenza del Tribunale di Padova in data 20 luglio 2001, Absamat Moustapha fu condannato alla pena di anni uno e sei di reclusione e di 8.090.000 di lire di multa, siccome riconosciuto colpevole dei delitti di cui agli artt. 73, comma 1, t.u. 9 ottobre 1990, n. 309, 495 cod. pen. Con le diverse generalita' di Tekaia Ali', egli fu altresi' condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione e di 3.000.000 lire di multa inflitta per il delitto di cui all'art. 73, comma 1, t.u. 9 ottobre 1990, n. 309. In data 12 giugno 2002 fu quindi emesso il provvedimento di cumulo specificato in epigrafe, con inizio pena al 10 luglio 2001 e fine al 21 marzo 2004. La residua pena espianda e' pertanto inferiore a due anni di reclusione. L'istruttoria fin qui esperita conduce a rinvenire il complesso delle condizioni di cui all'art. 13, comma 2, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Per quanto concerne, in primo luogo la sussistenza delle condizioni soggettive, devesi rilevare come dal provvedimento di cumulo sopra menzionato sia dato evincere la presenza, a carico del ristretto, di numerosi alias accanto alle generalita' prima riportate: Tekaia Ali', nato il 5 aprile 1972 a Sousse o a Teboulba o a Khalifa (Tunisia), alias Ben Said, nato il 5 aprile 1976 in localita' non precisata, alias Aziz Abdessamed, nato il 4 luglio 1973 a Casablanca (Marocco), alias Hamed Ben Alir, nato il 5 aprile 1970 in localita' non precisata. Secondo quanto riferito dalla Questura di Padova egli e' stato comunque identificato, tramite il Consolato della Tunisia a Milano, con le esatte generalita' di Tekaia Ali', nato il 5 aprile 1972 a Teboulba - Monastir (Tunisia); dalle informazioni in possesso delle Forze di polizia, inoltre, il soggetto non risulta avere mai regolarizzato la propria posizione di soggiorno (v. nota informativa in data 3 giugno 2003, in atti, da cui emerge altresi' che egli non risulta aver ottemperato a due intimazioni a lasciare il territorio nazionale emesse dalle Questure di Agrigento e di Modena). A cio' deve aggiungersi che non sono stati acquisiti elementi significativi che inducano ad affermare la sussistenza di alcuna delle condizioni ostative all'espulsione previste dall'art. 19 del t.u. delle leggi sull'immigrazione. Pertanto essendo egli stato condannato per un delitto diverso da quelli contemplati dall'art. 407, comma 2, lettera a) cod. proc. pen., ovvero dai delitti previsti dal testo unico delle leggi sull'immigrazione deve ritenersi, conclusivamente, che rimanga perfettamente integrata la fattispecie prevista dall'art. 16, comma 5 e seguenti, del t.u. citato, cosi' come modificato dalla legge 189/2002. Ritiene tuttavia questo giudice, analogamente a quanto gia' rilevato nella propria ordinanza in data 23 gennaio 2003 (proc. n. 1/02 S.11B), che rispetto alla suddetta fattispecie possa fondatamente ipotizzarsi una censura di legittimita' costituzionale per violazione degli artt. 3, 27, comma terzo, e 111 Cost., in relazione ai profili di seguito individuati. 1. - Per quanto attiene al ritenuto contrasto con l'art. 27, comma terzo, Cost., ovvero con il principio del c.d. finalismo rieducativo della pena, si osserva preliminarmente che l'espulsione prevista dalla disposizione censurata appare sicuramente ascrivibile al novero delle sanzioni penali. Non ignora, al riguardo, il remittente che la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimita' costituzionale delle fattispecie disciplinate dall'art. 7, commi 12-bis e ter, d.l. 30 dicembre 1989, n. 416 (che prevedevano un meccanismo sostanzialmente analogo a quello descritto dal comma 1 dell'art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 come modificato dall'art. 15, legge 30 luglio 2002, n. 189), abbia ritenuta, con le sentenze n. 62 e 283 del 1994 che la fattispecie in esame configurasse un'ipotesi di sospensione dell'esecuzione della pena, condizionata al mancato rientro del condannato nel territorio dello Stato entro i termini previsti dalla legge. Nondimeno, l'opzione ricostruttiva ora esposta - la quale porterebbe, all'evidenza, ad escludere la necessita' di una proiezione funzionale della fattispecie verso la rieducazione del sottoposto - non appare pienamente persuasiva. Quantomeno nell'ipotesi disciplinata dal comma 5 dell'art. 16, l'espulsione rappresenta, infatti, un quid pluris rispetto alla mera sospensione dell'esecuzione della pena: essa si configura come una sanzione penale che si giustappone al meccanismo sospensivo. Sul punto, l'analisi della struttura e della funzione dell'istituto, conducono ad affermarne non soltanto la natura sanzionatoria, ma altresi' il carattere chiaramente afflittivo. Circa la natura di sanzione in senso tecnico, cioe' di meccanismo attraverso cui la norma giuridica pone le condizioni per la propria osservanza, essa e' del tutto ovvio e non sembra abbisognare di particolari argomentazioni. La sua stretta correlazione con una norma penale incriminatrice, alla quale e' logicamente e giuridicamente «conseguente» (sul punto v. infra), induce a ritenere che essa risponda ad una funzione di «prevenzione speciale»: attraverso l'allontanamento coatto del soggetto dal territorio dello Stato, essa neutralizza - o comunque circoscrive entro margini tollerabili - il rischio di condotte recidivanti e, quindi, assicura indirettamente una tutela degli interessi protetti dalle norme incriminatici che costituiscono il tessuto del nostro sistema giuridico-penale. Quanto al carattere affittivo dell'espulsione non pare condivisibile il rilievo secondo cui, accompagnandosi essa ad una sorta di rinuncia all'esecuzione della pena principale, finirebbe per tradursi, concretamente, in una misura di favore, in una sorta di beneficio. Come noto, tale impostazione, e' alla base della censura di incostituzionalita' per violazione dell'art. 3 Cost. sollevata con le ordinanze di rimessione pronunciate dai Tribunali di Bergamo e di Roma in data 15 luglio e 15 ottobre 1993, con riferimento alla disciplina, ora abrogata, dettata dai commi 12-bis e ter dell'art. 7, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. La tesi ora esposta, senz'altro condivisibile in relazione alle ipotesi di mera sospensione dell'esecuzione della pena (come, ad esempio, nel caso della sospensione condizionale disciplinata dagli artt. 163 ss. cod. pen.), non sembra tuttavia persuasiva in riferimento alla fattispecie che ci occupa. Al riguardo, deve preliminarmente rilevarsi che l'analisi della natura del meccanismo sanzionatorio da essa delineato deve essere compiuto in astratto, cioe' in relazione al dato ontologico della sua modalita' di esecuzione e degli interessi su cui l'espulsione incide. Diversamente opinando, si giungerebbe all'assurdo di considerare come un beneficio finanche la pena detentiva, quantomeno in tutti quei casi in cui l'immissione del condannato nel circuito penitenziario lo sottragga ad una condizione di marcata emarginazione socio ambientale (si pensi al caso, tutt'altro che infrequente e ben conosciuto dagli operatori del settore, in cui l'ingresso in carcere finisca per assicurare al detenuto un alloggio, un'alimentazione e un'assistenza sanitaria altrimenti inadeguati). Proprio l'astratta disamina del meccanismo sanzionatorio conduce ad affermarne l'intrinseca afflittivita', atteso che il coattivo accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica (v. l'attuale comma 7 dell'art. 15, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) concretizza, per citare quanto la Corte costituzionale ha affermato nella sentenza n. 105/2001 in relazione alla diversa ipotesi del trattenimento dello straniero nei centri di permanenza, «quella mortificazione della dignita' dell'uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all'altrui potere e che e' indice sicuro dell'attinenza della misura alla sfera della liberta' personale». In altri termini l'afflittivita' deriva specificamente dalla immediata incidenza dell'espulsione sulla liberta' personale, attuata attraverso l'allontanamento coatto dal territorio dello Stato: con la conseguente traumatica rottura del complesso di relazioni socio-ambientali, non necessariamente illecite, poste in essere e magari consolidate da parte dello straniero nel territorio italiano. Non sembra pertanto condivisibile l'opinione, espressa in occasione delle menzionate ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, secondo cui l'espulsione possa essere qualificata come un beneficio: tesi fondata sul fatto che l'allontanamento dal territorio dello Stato consente al condannato, ovvero - nel caso che qui interessa - al detenuto, di sottrarsi definitivamente all'espiazione della pena (posto che dopo il decorso del termine previsto dal comma 8, senza che il soggetto sia rientrato nel territorio italiano, essa verrebbe ad estinguersi). Anche a voler prescindere dall'evidente assurdita' di voler qualificare come, misura favorevole un intervento restrittivo della liberta' personale, dovrebbe in tal caso consentirsi al «beneficiario» di rinunciarvi: cio' che non avviene nel caso di specie, dovendo il giudice procedere ex officio (come del resto e' avvenuto nel presente procedimento). Tale circostanza, costruisce la conferma conclusiva del carattere afflittivo della fattispecie in esame. Riconosciuta l'aflittivita' della sanzione dell'espulsione appare necessario procedere alla sua qualificazione dogmatica, non per ragioni di mera esercitazione speculativa, ma perche' dal suo esatto inquadramento puo' conseguire, appunto, la soggezione o meno all'art. 27, comma terzo, Cost. ed al principio del finalismo rieducativo. Sul punto non pare esservi dubbio che ci si trovi in presenza di una sanzione penale. Cio' e' evidente nell'ipotesi prevista dal comma 1 dell'art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. In tal caso, anche a voler prescindere dal dato formale del nomen juris adoperato nella rubrica (ovvero quello di «sanzione sostitutiva» della detenzione), si e' in presenza di una conseguenza affittiva che il giudice applica, in esito ad un processo penale, una volta riconosciuta la responsabilita' dell'imputato, in sostituzione di una pena detentiva (reclusione o arresto) non superiore ai due anni. E dal momento che l'ipotesi prevista dal successivo comma 5 differisce da quella appena descritta solamente per la fase in cui e' emessa (e cioe' successivamente al passaggio in giudicato della sentenza) e per l'organo giudiziario competente (nonche', di riflesso, per il tipo di procedimento e di provvedimento che dispone la sanzione), ma non per contenuto e funzione (tipicamente specialpreventiva: v. supra), non vi e' ragione di dubitare che essa presenti la medesima natura giuridica di quella. Orbene, nel nostro sistema giuridico-penale - fondato sul regime del c.d. doppio binario - le sanzioni penali possono essere ricondotte esclusivamente a due tipologie fondamentali diverse per funzione e per presupposti applicativi: la pena e la misura di sicurezza. Nel primo caso lo strumento sanzionatorio deve necessariamente orientarsi, come noto, verso una prospettiva di rieducazione del condannato (e quindi di acquisizione da parte dello stesso, del senso del disvalore della condotta di reato e, al contempo del senso del valore attribuito dall'ordinamento all'interesse tutelato dalla norma incriminatrice). Nel secondo caso, l'afflizione (realizzata attraverso una limitazione della liberta' o del patrimonio del sottoposto) e' invece esclusivamente finalizzata a circoscrivere il rischio di nuovi episodi di reita' da parte di un soggetto socialmente pericoloso. Ogni sanzione penale deve necessariamente essere ricondotta a questi due paradigmi. In caso contrario si consentirebbe al legislatore di eludere i vincoli posti dalla Costituzione in materia di pene e di misure di sicurezza (posti, ad esempio, dall'art. 25 Cost.) attraverso una sorta di «truffa delle etichette» realizzata con la previsione di un tertium genus di sanzioni penali atipiche e comunque incidenti sulla liberta' personale. Tanto premesso, non sembra realisticamente ipotizzabile un inquadramento della fattispecie in esame nel novero delle misure di sicurezza (nel cui catalogo sono peraltro previste, come noto, alcune ipotesi di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato); soluzione che pure rappresenterebbe - a parere di questo giudice - l'unica opzione ricostruttiva idonea a renderla compatibile con il vigente assetto costituzionale. L'esclusione di una siffatta ipotesi esegetica si impone, infatti, in considerazione dell'assenza di un qualsiasi riferimento all'accertamento della concreta pericolosita' sociale del soggetto, ora assolutamente necessaria - a mente dell'art. 31, legge 10 ottobre 1986, n. 663 - ai fini dell'applicazione di ogni misura di sicurezza. Sarebbe inoltre del tutto irragionevole, in rapporto alla funzione tipica di questa categoria di sanzioni penali, che l'espulsione sia obbligatoria per i reati piu' lievi e non sia, invece, consentita per i reati piu' gravi, tendenzialmente rivelatori di una maggiore pericolosita' del colpevole. Consegue all'analisi che precede che l'espulsione prevista dall'art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 sia qualificabile necessariamente come pena: cio' che ulteriormente conduce a ritenere indispensabile la sua conformita' al principio posto dall'art. 27, comma 3, Cost.; conformita' che - per le ragioni piu' sopra esposte - deve, al contrario, ragionevolmente escludersi. Non sarebbe conferente opinare, al riguardo, che la tesi ora accolta, escludendo ontologicamente la compatibilita' tra la pena dell'espulsione ed il principio rieducativo, porterebbe ad escludere tout court la possibilita' di conservare la fattispecie in esame nel nostro sistema penale. Al contrario, deve rilevarsi che il legislatore ben potrebbe congegnare l'espulsione come misura di sicurezza, ancorando - beninteso - l'applicazione della sanzione al presupposto-cardine dell'attuale pericolosita' sociale del condannato. 2. - Nell'applicazione dell'art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 sorge, inoltre, un dubbio di legittimita' costituzionale in relazione agli artt. 3 e 3 Cost., rispettivamente sotto il profilo della ragionevolezza delle scelte del legislatore nella previsione del meccanismo di espulsione e dei relativi presupposti, nonche' sotto il profilo della lesione dei diritti inviolabili della persona umana riconosciuti e garantiti dalla Repubblica italiana. Quanto al primo aspetto, la censura e' suggerita proprio dalle considerazioni compiute dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 62 e 283 del 1994, in relazione alle fattispecie, ora abrogata, previste dai commi 12-bis e ter dell'art. 7 t.u. 286/98. Si e' gia' osservato che, con tali sentenze, il giudice delle leggi aveva ricostruito la espulsione come ipotesi di sospensione dell'esecuzione della pena, escludendone cosi' la necessaria funzione rieducativa. Nella stessa occasione la Consulta aveva comunque affermato la legittimita' di un sindacato sulla (eventuale) manifesta irragionevolezza della scelta del legislatore di rinunciare alla attuale applicazione della pena. A tale proposito la Corte aveva precisato che, affinche' una siffatta rinuncia possa ritenersi non irragionevole e' necessario che possa (ragionevolmente) presumersi che la parte di pena espiata abbia gia' raggiunto la finalita' rieducativa richiesta dalla Costituzione, ovvero nel caso in cui l'esecuzione della pena non sia ancora iniziata) che non vi sia necessita' di rieducazione. Una siffatta valutazione, ha continuato la Corte costituzionale, non puo' ovviamente prescindere dall'acquisizione di adeguate informazioni degli organi di polizia, ma anche - si puo' ragionevolmente pensare, pur in assenza di un'espressa indicazione in tal senso da parte della Consulta - di ogni elemento utile ai fini del giudizio sulla personalita' (a sua volta strumentale all'accertamento della reale necessita' di un'effettiva rieducazione del reo). Tanto premesso, occorre muovere dalla considerazione che il meccanismo dell'espulsione ora in esame si fonda, al contrario, su un mero automatismo: una volta accertata la sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma, il giudice deve espellere il detenuto senza avere alcuna alternativa. Ne consegue che al fine di ritenere compatibile la disciplina descritta con il principio di rieducazione sara' necessario ipotizzare che il legislatore abbia formulato una presunzione assoluta di gia' avvenuta rieducazione del detenuto. Orbene, anche a voler prescindere dalla circostanza che la stessa previsione di una presunzione assoluta appare evidentemente confliggere con l'esigenza di consentire al giudice la concreta valutazione dell'avvenuta rieducazione del condannato, la cui necessita' sembra affermata proprio dalla giurisprudenza costituzionale, giova altresi' rilevare che una siffatta presunzione, in ogni caso, non appare fondata su alcuna massima di esperienza verificabile non ravvisandosi alcuna plausibile giustificazione al fatto che il detenuto non sia «bisognevole» di trattamento rieducativo per il solo fatto che la pena espianda sia inferiore ai due anni di detenzione. Tale rilievo conduce ad affermare l'irragionevolezza della scelta legislativa, anche tenuto conto del fatto che ove si consentisse al Parlamento di costruire delle presunzioni insuperabili non fondate su una attendibile regola di esperienza, la scelta legislativa diverrebbe logicamente inattaccabile e, come tale, sottratta a qualunque tipo di controllo. Del resto questa esigenza e' stata debitamente rappresentata dalla stessa Corte costituzionale allorche', sia pure nella diversa materia tributaria ha precisato che «se e' pur lecito formulare previsioni logicamente valide e attendibili, non e' peraltro consentito trasformare tali previsioni in certezze assolute, imperativamente statuite senza la possibilita' che si ammetta la prova del contrario» (Corte cost. 28 luglio 1976, n. 200). Ne' appare in alcun modo giustificabile che una siffatta presunzione possa essere legittimamente circoscritta nei confronti dei soli extracomunitari non aventi titolo di soggiornare nel territorio italiano, a meno di ipotizzare un'irragionevole presunzione secondo cui nei confronti di tali soggetti il percorso rieducativo sia, per qualche oscura ragione, piu' celere. Inoltre, equiparandosi, in virtu' della descritta presunzione, situazioni potenzialmente diverse - quali ad esempio, quella del detenuto la cui condotta penitenziaria sia stata pessima, e quella, opposta, di chi abbia fruttuosamente seguito il percorso rieducativo - viene all'evidenza violato, sotto altro profilo (con specifico riferimento al principio di uguaglianza), l'art. 3 Cost. L'irragionevolezza della fattispecie in esame si apprezza in relazione ad un ulteriore aspetto. La fattispecie censurata infatti, statuisce per un verso il divieto di procedere all'espulsione con riferimento ai gravi reati previsti dall'art. 407, comma 2, lett. a) cod. proc. pen.; e per altro verso l'obbligo di disporla per tutti gli altri reati (salvo il rispetto dei gia' ricordati limiti di pena). Per questa via, mentre nell'ipotesi di condanna per detenzione a fini di spaccio di modeste quantita' di sostanza stupefacente l'espulsione e' necessitata, viceversa qualora il quantitativo detenuto fosse addirittura ingente (nell'ipotesi delineata dall'art. 80, comma 2, t.u. 9 ottobre 1990, n. 309) l'espulsione in fase esecutiva sarebbe invece preclusa. E qualora, peraltro, il magistrato di sorveglianza dovesse ritenere, a pena espiata, che il condannato non sia persona socialmente pericolosa (ad esempio, per avere egli acquisito una valida opportunita' lavorativa o potendo essere inserito in valido tessuto socio-ambientale idoneo al suo reinserimento) non potrebbe neanche farsi luogo all'espulsione ex art. 86 t.u. stupefacenti. Rimane cosi' dimostrata l'irragionevolezza di una disciplina che da un lato prevede il divieto di applicazione di una sanzione afflittiva per alcuni gravi reati e che dall'altro lato obbliga invece e il giudice ad applicarla nelle ipotesi piu' lievi in aggiunta alla residua pena detentiva (che verra' integralmente espiata in caso di rientro nel termine di dieci anni: con la conseguenza che l'ipotesi meno grave viene sanzionata piu' duramente). Per quanto attiene, infine, al profilo del ritenuto contrasto con l'art. 2 Cost., occorre evidenziare che e' ancora una volta la stessa Corte costituzionale ad evidenziare - nella sentenza n. 62 del 1994 - che a garanzia «di un diritto inviolabile dovrebbe prescriversi che l'espulsione sia ancorata all'iniziativa del condannato». Circa la incidenza dell'espulsione su un diritto espressamente qualificato come inviolabile dall'art. 13, comma 1, Cost., si e' gia' detto (v. supra pag. 3). Cosi' come e' gia' stata rilevata la natura officiosa del relativo procedimento di applicazione. 3. - Le censure di incostituzionalita' si estendono inoltre, a giudizio del remittente, sul procedimento di applicazione della «sanzione alternativa alla detenzione» in relazione all'art. 111, commi 1 e 2, Cost. A questo riguardo giova preliminarmente rilevare che il procedimento delineato dai commi 5 e ss. dell'art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ha natura sicuramente giurisdizionale - avendo ad oggetto l'applicazione, da parte di un giudice ed in sostituzione di una pena detentiva principale, di una sanzione penale - e come tale deve ritenersi riconducibile all'alveo del comma 1 dell'art. 111 Cost., a mente del quale «la giurisdizione di attua mediante il giusto processo regolato dalla legge». Anche il procedimento di espulsione in fase esecutiva, pertanto, deve conformarsi - analogamente ad ogni altro procedimento giurisdizionale - ai principi del c.d. giusto processo, i cui caratteri essenziali (ed imprescindibili affinche' detto procedimento possa considerarsi conforme al dettato costituzionale), sono indicati dal comma 2 dell'art. 111 Cost., laddove si statuisce che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti a un giudice terzo e imparziale». Nessun argomento contrario potrebbe trarsi dal mero dato letterale, rinvenibile nel predetto enunciato normativo, laddove viene fatto riferimento alla nozione di «processo»; nozione che se intesa in una stretta accezione processualpenalistica dovrebbe essere circoscritta a quella fase del processo di cognizione (cioe' diretto all'accertamento della responsabilita' penale dell'imputato) che si incardina successivamente all'esercizio dell'azione penale e che si conclude con la sentenza di condanna o di proscioglimento. Questa ipotesi ermeneutica, che comporterebbe - ad esempio - l'esclusione dall'ambito della norma del procedimento di sorveglianza e di quello di esecuzione, contrasta tuttavia con un insuperabile dato sistematico: il secondo comma dell'art. 111 Cost. riprende il termine di «processo», gia' adoperato dal primo comma nella locuzione di «giusto processo» che, come detto, compendia in termini sintetici i caratteri indefettibili della giurisdizione, cioe' di ogni procedimento giurisdizionale. Consegue alla prospettazione ora accolta che un carattere essenziale di ogni procedimento penale, ivi compreso quello in esame, va necessariamente rinvenuto nel principio del contraddittorio. Detto principio presenta una duplice connotazione funzionale, oggettiva e soggettiva. Esso di configura, in primo luogo, come fondamentale strumento di conoscenza del giudice (profilo oggettivo) in quanto prezioso collettore di elementi e circostanze giuridico-fattuali potenzialmente significativi ai fini della decisione. La funzione del contraddittorio, peraltro, non si esaurisce in un'esigenza, per cosi' dire, meramente «efficientistica» (nel senso di favorire una decisione qualitativamente migliore, ossia «piu' giusta») ma e' strumentale al soddisfacimento dell'interesse delle parti del procedimento a rappresentare compiutamente il proprio punto di vista ai fini del perseguimento delle diverse istanze di cui esse sono portatori (c.d. profilo soggettivo). Per questa via, ad esempio la facolta' dell'imputato di contraddire i testi dell'accusa non sara' finalizzata, esclusivamente, a fornire degli elementi utili per l'acquisizione di una verita' processuale quanto piu' vicina possibile alla verita' storica, migliorando in tal modo la qualita' della decisione del giudice, ma rispondera' - ovviamente - soprattutto all'esigenza della parte privata di tutelare adeguatamente il proprio interesse a difendersi dall'accusa di aver commesso un reato. In quest'ultima prospettiva, il contraddittorio e' quindi funzionale a garantire il diritto a confrontarsi con l'altra parte. A tale riguardo, deve peraltro sottolinearsi che sebbene la genesi storica della modifica dell'art. 111 Cost. vada sicuramente ricondotta alla necessita' di rafforzare i poteri processuali dell'imputato, non puo' tuttavia dubitarsi che il principio del contraddittorio sia funzionale anche alla tutela delle prerogative processuali del pubblico ministero cui deve necessariamente consentirsi di esplicare, in condizioni di parita' con la difesa, ogni attivita' procedimentale finalizzata a soddisfare gli interessi istituzionali tipici della propria funzione giudiziaria: il rappresentare l'accusa nel processo di cognizione, ma anche, in ogni altro procedimento penale, l'esercizio del controllo di legalita' sull'attivita' del giudice ex art. 73, regio decreto n. 12/1941 (a mente del quale «il pubblico ministero veglia alla osservanza delle leggi»). Peraltro, e ad ulteriore conferma dell'indefettibilita' del contraddittorio, giova rilevare che anche nei casi in cui il vigente sistema processuale sia civile che penale prevede che la decisione possa essere assunta senza contraddittorio (e' il caso, ad esempio, dei procedimenti monitori per decreto ingiuntivo e per decreto penale di condanna) essa decisione viene comunque adottata solo provvisoriamente, fino all'esito dell'eventuale procedimento di opposizione nel corso del quale il contraddittorio verra' pienamente reintegrato. A questo riguardo, l'analisi anche sommaria del procedimento delineato dall'art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 evidenzia come il contraddittorio patisca un vulnus del tutto incompatibile con il dettato costituzionale. E', infatti, evidente che per un verso risulta violata l'esigenza immanente al profilo oggettivo del contraddittorio, atteso che pur in presenza di un potere ex officio del magistrato di sorveglianza, non rimane comunque soddisfatta l'esigenza di implementare - attraverso la prospettazione delle parti - l'acquisizione degli elementi necessari ai fini di una decisione piu' consapevole; per altro verso e' di tutta evidenza come anche il profilo soggettivo non venga adeguatamente garantito. A quest'ultimo proposito, va infatti evidenziato che il comma 6 dell'art. 16, limitandosi a prevedere la facolta' di adire il tribunale di sorveglianza in capo al solo detenuto, non consente al pubblico ministero di porre in essere pienamente quelle attivita' procedimentali necessarie ai fini del perseguimento delle sue attribuzioni istituzionali, in particolare del controllo di legalita'. Se per un verso, infatti, il pubblico ministero puo' interloquire in ordine alla legittimita' dell'espulsione davanti al tribunale di sorveglianza adito dal detenuto, per altro verso, qualora il condannato non abbia nessun interesse all'impugnazione (ad esempio perche' il procedimento ha tratto l'abbrivio da una sua istanza), il pubblico ministero si vedrebbe precluso ogni spazio di intervento, non fosse altro in quanto non e' previsto alcun obbligo di comunicazione alla procura e perche' l'eventuale ricorso per cassazione - da ritenersi verosimilmente ammissibile ex art. 113 Cost. vertendosi in materia de libertate - non sospenderebbe l'esecutivita' del decreto, una volta decorsi i termini di cui al comma 6. Consegue alla ricostruzione accolta che qualora, per assurdo, il magistrato di sorveglianza espellesse un detenuto condannato all'ergastolo non vi sarebbero strumenti processuali idonei a consentire al pubblico ministero di esercitare tempestivamente il controllo di legalita'. Con il che la violazione dell'art. 111, comma 1 e 2, Cost. deve ritenersi quantomeno non manifestamente infondata. Per quanto poi attiene alla rilevanza della questione non sembra potersi sostenere che, non concernendo immediatamente il contenuto della decisione del giudice (siccome inerente al profilo dell'eventuale reclamo del pubblico ministero), essa sarebbe del tutto irrilevante. Anche a prescindere dal fatto che il concetto di rilevanza accolto in alcune pronunce della Corte costituzionale (cfr. ex plurimis la sentenza n. 148/1983) afferisce alla pertinenza dei dati normativi coinvolti nella decisione de qua e che l'eventuale accoglimento della questione da parte della Consulta produrrebbe sicuramente i suoi effetti sulla disciplina applicabile al presente procedimento (cio' che induce a ritenere sussistente la rilevanza della questione anche in riferimento ai profili indicati ai nn. 1 e 2 della presente ordinanza, e' appena il caso di sottolineare che il momento immediatamente antecedente rispetto alla decisione del magistrato di sorveglianza appare come il limite estremo oltre il quale la questione potrebbe non essere piu' sollevabile, atteso che sia l'impugnazione da parte del detenuto e sia, di riflesso, il procedimento di secondo grado rappresentano ovviamente una mera eventualita', in assenza della quale la lesione del contraddittorio non potrebbe essere eccepita o comunque rilevata. 4) Per le ragioni piu' sopra esposte gli atti devono essere inviati alla Corte costituzionale e il procedimento deve essere sospeso in attesa delle determinazioni del giudice delle leggi.