IL CONSIGLIO

    Ricorso  straordinario  di  Domina  Gandolfo  contro  Ispettorato
provinciale agricoltura di Palermo avverso provvedimento 29 settembre
2000,  n. 26548  di diniego aiuti comunitari previsti dai regolamenti
CEE n. 2328/1991 e n. 3887 nonche' dalle relative circolari.

    Vista  la  relazione  n. 6646/85.01.8  del 17 aprile 2001, con la
quale  la  Presidenza della Regione siciliana - Ufficio legislativo e
legale  -  ha  chiesto  il  parere  di  questo  Consiglio sul ricorso
straordinario indicato in oggetto;
    Esaminati  gli  atti  e  udito  il  relatore, Presidente Riccardo
Virgilio;

                           P r e m e s s o

    Con  atto  spedito alla Presidenza riferente a mezzo del servizio
postale  con  raccomandata a.r. del 1° febbraio 2001, Domina Gandolfo
ha    proposto   ricorso   straordinario   per   l'annullamento   del
provvedimento   dell'Ispettorato   provinciale   dell'agricoltura  di
Palermo  29  settembre  2000,  n. 26548,  di diniego aiuti comunitari
previsti  dai  Regolamenti  CEE n. 2328/91 e n. 3887/92 nonche' dalle
relative circolari.
    L'amministrazione riferente assume che il ricorso dovrebbe essere
dichiarato   irricevibile  o,  in  subordine,  inammissibile  essendo
rivolto avverso atto non definitivo.

                        C o n s i d e r a t o

    Prima  di  affrontare  il rito e il merito del ricorso l'Adunanza
ritiene  di  dover  verificare  la  costituzionalita' delle norme che
istituiscono   e   regolano  in  Sicilia  la  decisione  dei  ricorsi
straordinari al Presidente della Regione.
    La  Adunanza  ha  preso  atto  che  la Sezione giurisdizionale di
questo  Consiglio  ha  sollevato,  in  proposito  numerosi  dubbi  di
costituzionalita' con ordinanza n. 185 del 2003.
    La  Adunanza e' altresi' consapevole che gli stessi dubbi possono
inficiare  anche  la  propria  attivita'  e ritiene quindi di doverli
anche essa sottoporre al vaglio della Corte costituzionale.
    Peraltro,  queste  Sezioni  riunite  debbono  farsi carico in via
preventiva  di  valutare  se il Consiglio di giustizia amministrativa
per    la    Regione   siciliana   possa   sollevare   questioni   di
costituzionalita   in   sede  di  espressione  del  parere  ai  sensi
dell'art. 4,  ultimo  comma del d.lgs. 6 maggio 1948 n. 654, e quindi
non in sede (formalmente) giurisdizionale.
    La  problematica  e'  stata  gia'  affrontata  dalla  II  Sezione
consultiva  del  Consiglio  di  Stato la quale con ordinanza 27 marzo
2002   ha   rimesso   alla   Corte  costituzionale  la  questione  di
costituzionalita'  concernente una norma relativa alla riliquidazione
della indennita' di buonuscita.
    In   proposito  la  II  Sezione  del  Consiglio  di  Stato  cosi'
argomentava:
        «E'  noto che per lungo tempo, proprio sul presupposto che in
sede   consultiva   il  Consiglio  di  Stato  non  esplica  attivita'
giurisdizionale,   si   e'   ritenuta   preclusa   la  proponibilita'
dell'incidente di costituzionalita».
        «Di  recente  peraltro  la Sezione I di questo Consiglio, con
parere   19  maggio  1999,  n. 650/1996,  si  e'  espressa  in  senso
favorevole  alla  proponibilita'  (sia  pur  dichiarando la questione
posta manifestamente infondata), prendendo a fondamento della propria
pronuncia  la sentenza della V Sezione della Corte di giustizia delle
comunita'  europee  16  ottobre  1997,  emessa nelle cause riunite da
C-69/1996  a  C-79/1996.  In  tale  sentenza  la  Corte di giustizia,
chiamata  a  pronunciarsi  sull'interpretazione  di  una disposizione
della  direttiva 86/457, ha affermato che il Consiglio di Stato anche
in   sede   consultiva   costituisce   una   giurisdizione  ai  sensi
dell'art. 177 del Trattato».
        «La  Corte  di giustizia e' pervenuta a tale conclusione dopo
aver  riscontrato  nel  Consiglio  di Stato la rispondenza ai criteri
stabiliti  dalla  medesima Corte di giustizia per definire la nozione
di  «giurisdizione»  e  cioe'  l'origine  legale  dell'organo, il suo
carattere  permanente,  l'obbligatorieta' della sua giurisdizione, la
natura  contraddittoria  del  procedimento,  il  fatto  che  l'organo
applichi norme giuridiche e che sia indipendente».
        «Inoltre, rileva la Corte il fatto che l'ordinamento italiano
prevede  la  scelta,  per il soggetto che chiede l'annullamento di un
provvedimento    amministrativo,   tra   due   rimedi,   il   ricorso
straordinario    e    il   ricorso   giurisdizionale   al   Tribunale
amministrativo    regionale,    «entrambi    dotati    delle   comuni
caratteristiche   giurisdizionali  e  ciascuno  alternativo  rispetto
all'altro»».
        «Pur    dovendosi    considerare   convincenti,   oltre   che
particolarmente  autorevoli  (se  non  addirittura vincolanti, avendo
piu'  volte  affermato  la  Corte di giustizia che le decisioni dalla
stessa  emesse  costituiscono  fonte primaria di diritto comunitario,
come  tali  abilitate  ad  introdurre norme giuridiche prevalenti nel
diritto interno), le argomentazioni addotte dalla Corte di giustizia,
la Sezione ritiene altresi' di poter richiamare il fatto che anche la
Corte  costituzionale,  nel  pronunciarsi  su  di una fattispecie per
molti  versi analoga, ebbe a suo tempo modo di affermare che la Corte
dei conti, in sede di controllo, e' legittimata a sollevare questioni
di   costituzionalita'   delle  leggi  che  devono  essere  applicate
nell'esercizio della suddetta funzione di controllo».
        «Nella sentenza 18 novembre 1976, n. 226, infatti, il giudice
delle  leggi  perveniva  alla  suddetta  conclusione sulla base della
considerazione  secondo  la  quale la funzione svolta dalla Corte dei
conti  in  sede  di  controllo  e',  per  molteplici aspetti, ai fini
dell'art. 1,   della   legge   costituzionale   n. 1   del   1948,  e
dell'art. 23,  della  legge  n. 87  del  1953,  analoga alla funzione
giurisdizionale piuttosto che assimilabile a quella amministrativa; e
cio' in quanto:
        a)  la funzione di controllo si risolve nel valutare, in modo
neutrale  e  disinteressato,  la conformita' degli atti alle norme di
diritto oggettivo, con esclusione di qualsiasi, apprezzamento che non
sia di ordine strettamente giuridico;
        b) pur non potendosi parlare di giudicato, le pronunce emesse
in  sede  di  controllo,  sia positive che negative, hanno certamente
contenuto  decisorio,  non  sono  modificabili  da parte della stessa
Corte ne' sindacabili in altra estranea sede;
        c) non mancano nel procedimento di controllo elementi formali
e   sostanziali  che  riconducono  alla  figura  del  contraddittorio
(l'art. 24,  del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, prevede che in caso di
deferimento   alla  sezione  di  controllo;  qualora  il  consigliere
delegato   non  abbia  ritenuto  di  apporre  il  visto,  viene  data
comunicazione  scritta  alle  amministrazioni interessate almeno otto
giorni  prima  della  seduta fissata per la discussione, con facolta'
delle   amministrazioni  stesse  di  farsi  rappresentare  da  propri
funzionari);
        d)  infine, la Corte dei conti e' composta di magistrati, che
sono  dotati  delle  piu' ampie garanzie di indipendenza ex art. 100,
Cost.,  e  che,  al  pari  dei magistrati dell'ordine giudiziario, si
distinguono fra loro solo per diversita' di funzioni».
        «Ritiene  la Sezione che le considerazioni svolte dalla Corte
costituzionale  nella  citata  sentenza  possano  agevolmente trovare
riscontro anche con riguardo alle Sezioni consultive del Consiglio di
Stato».
        «Nei   suoi   connotati   sostanziali,  infatti,  l'esercizio
dell'attivita' consultiva svolta ai sensi dell'art. 11, del d.P.R. 24
novembre  1971;  n. 1199  (e'  inutile  ricordare che la richiesta di
parere  e'  obbligatoria)  si caratterizza per la sua imparzialita' e
neutralita'  e  si risolve, al pari dell'attivita' giurisdizionale (e
dell'attivita' di controllo della Corte dei conti) in una valutazione
della conformita degli atti alle norme di diritto oggettivo. Inoltre,
i  pareri resi, hanno senza dubbio contenuto decisorio, nel senso che
non  sono  modificabili  ne'  dalla  Sezione  che  li  ha  emessi  ne
sindacabili   in  altra  sede,  salva  l'impugnazione  da  parte  del
controinteressato  pretermesso,  rimedio che d'altra parte si connota
in  sostanza  come  un'opposizione  di  terzo,  esperibile  anche nei
confronti delle sentenze del Tribunale amministrativo regionale e del
Consiglio   di   Stato   dopo   la   sent.  n. 177/1995  della  Corte
costituzionale  (cfr.,  tra  le  tante,  C.d.S., VI Sez., 10 febbraio
1999,  n. 146).  Ancora, il contraddittorio e' garantito dall'obbligo
di notificazioni ai controinteressati e dall'obbligo di comunicazione
o  notificazione  all'organo  che  ha  emanato  l'atto e al Ministero
competente.  Si sottolinea poi che il principio di alternativita' con
il  ricorso  giurisdizionale pone i due rimedi sul medesimo piano, in
quanto  dotati entrambi come afferma la Corte di giustizia, di comuni
caratteristiche  giurisdizionali,  tanto  e'  vero,  ad  esempio, che
l'art. 15,  del  d.P.R. n. 1199/1971 cit., prevede l'impugnazione per
revocazione  dei decreti del Presidente della Repubblica che decidono
i  ricorsi  straordinari,  ai  sensi dell'art. 395 del c.p.c. (e cio'
vale  anche per il caso di conflitto con un giudicato precedente, con
la  conseguenza che, in caso di mancata impugnazione per revocazione,
sul giudicato precedente prevale la decisione del Capo dello Stato)».
        «Senza  dire  che,  da  ultimo,  si e' ammesso il ricorso per
ottenere l'ottemperanza a decisioni emesse sul ricorso straordinario,
sul ritenuto presupposto della natura giurisdizionale del parere reso
(cfr.  C.d.S.,  IV  Sez.,  15 dicembre 2000, n. 6695). Infine, non si
puo'  certo dubitare che anche le Sezioni consultive del Consiglio di
Stato  siano  composte  da  magistrati, i quali come tali, offrono le
garanzie  di  indipendenza  e  imparzialita'  che  sono proprie degli
organi giurisdizionali».
        «In  conclusione  si  ritiene che i pareri emessi in sede del
ricorso     straordinario    nella    sostanza    rivestono    natura
giurisdizionale, con la conseguenza che i provvedimenti finali emessi
dal  Capo  dello  Stato  si  pongono  come esternazione di un momento
decisionale  verificatosi  aliunde (cfr. IV Sez., n. 6695/2000 cit.);
non  diversamente  si  esprime  la  ricordata sentenza della Corte di
giustizia, ove si afferma che il parere e' un «progetto» di decisione
«formalmente» emanata dal Presidente della Repubblica».
    La  Adunanza  condivide  e fa proprie le suesposte argomentazioni
alle quali ritiene di dovere aggiungere anche la seguente.
    Ai  sensi  del  combinato  disposto  dell'art. 23  dello  statuto
siciliano  e  dell'art. 4  del  d.lgs. 654/1948 il parere sui ricorsi
straordinari al presidente della regione non viene reso dalla sezione
consultiva di questo Consiglio bensi' dalle sezioni riunite.
    Invero,   la  sezione  consultiva  come  disciplinata  nella  sua
composizione  dall'art. 2,  secondo  comma,  del  d.lgs. n. 654/1948,
viene  chiamata  a  rendere,  ai sensi del successivo art. 4, secondo
comma,  pareri  sugli  atti per i quali le leggi richiedono il parere
del  Consiglio  di  Stato.  Il  parere  sui  ricorsi  straordinari al
presidente  della  regione viene invece reso dalle sezioni riunite di
cui   fanno   parte   sia   la  sezione  consultiva  che  la  sezione
giurisdizionale.
    Tale disposizione rafforza ulteriormente le argomentazioni dianzi
rammentate  in  quanto  la  norma  statutaria  allorche' richiede che
vengano «sentite le sezioni regionali del Consiglio di Stato» prevede
espressamente  che nel procedimento di formazione della decisione sul
ricorso    straordinario   intervenga   necessariamente   un   organo
giurisdizionale.
    In  altri termini lo statuto ha voluto inscindibilmente legare in
questa  sede la funzione consultiva con quella giurisdizionale e cio'
a  differenza - ripetesi - dei casi in cui il parere viene reso dalla
sola sezione consultiva.
    Il legislatore costituzionale del 1948 in pratica ha riconosciuto
ante  litteram  il  carattere  sostanzialmente  giurisdizionale della
decisione  sui ricorsi straordinari ed ha voluto coinvolgere non solo
l'organo  consultivo,  ma  anche  quello  giurisdizionale  allo scopo
evidente di assicurare per quanto possibile, delle linee di indirizzo
univoche  e  di  evitare  pronunce contrastanti tra sede consultiva e
sede giurisdizionale.
    A tali considerazioni se ne puo' aggiungere anche un'altra di non
minore rilevanza.
    Dal  momento  che  statutariamente  debbono essere sentite le due
sezioni  e dal momento che il quorum strutturale deve comprendere sia
i   membri   della   sezione  consultiva  che  quelli  della  sezione
giurisdizionale   e'   evidente  che  la  eventuale  declaratoria  di
incostituzionalita'  della composizione della sezione giurisdizionale
in  quanto  tale  non potrebbe che riverberarsi per consequenzialita'
anche sulle sezioni riunite.
    Cio' premesso l'Adunanza fa proprie e riproduce le argomentazioni
gia'   esposte  dalla  sezione  giurisdizionale  nella  ordinanza  di
rimessione 13 maggio 2003, n. 135 come segue:
    1.  -  Lo  statuto  speciale della regione siciliana, per ragioni
storiche, in parte legate al secondo conflitto mondiale, e' anteriore
alla proclamazione della Repubblica ed alla Costituzione repubblicana
in  quanto  e'  stato approvato nel 1946 con r.d.lgs. 15 maggio 1946,
n. 455  e  con  la  espressa  riserva,  contenuta  nel  secondo comma
dell'articolo  unico, di essere sottoposto alla Assemblea costituente
per essere coordinato con la nuova costituzione dello Stato.
    Come e' noto, tale coordinamento non vi e' stato.
    Invero,  la  Costituzione  repubblicana e' stata pubblicata il 27
dicembre  1947  ed  e  entrata  in vigore il 1° gennaio 1948 ai sensi
della  XVIII  disposizione  transitoria  e lo statuto siciliano venne
convertito  in  legge  costituzionale con l'art. 1, primo comma della
legge  costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2 ed e' entrato in vigore,
ai sensi dell'art. 2 della legge anzidetta, il 10 marzo 1948.
    Il  coordinamento  con la Costituzione non avvenne ne' in sede di
Assemblea costituente e neppure in epoca successiva. Il secondo comma
dell'art. 1  della  legge  cost. n. 2/1948 prevedeva bensi' modifiche
allo  statuto, modifiche che avrebbero dovuto essere effettuate entro
un  biennio con legge ordinaria, d'intesa con la regione, ma, come e'
noto,    l'alta    Corte   per   la   Regione   siciliana   dichiaro'
incostituzionale  tale  disposizione con decisione 10 settembre 1948,
n. 4.  Pertanto, lo statuto siciliano e' rimasto nel testo originario
-  ed  il  mancato  coordinamento e' stato sovente sottolineato dalla
dottrina  e dalla giurisprudenza anche costituzionale (v. Corte cost.
nn. 38/1957; 6/1970, 115/1972 e, da ultimo n. 113/1993).
    Per  quello  che  concerne  la questione in oggetto l'articolo 23
dello   statuto  siciliano  prevede  semplicemente  che  «gli  organi
giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni del
Consiglio di Stato e della Corte dei conti per gli affari concernenti
la  regione»  e  che  «Le  sezioni svolgeranno, altresi' le funzioni,
rispettivamente,   consultive,   e   di  controllo  amministrativo  e
contabile.».
    Il  decentramento non ha mai avuto attuazione per quanto concerne
le  sezioni  civili  e  penali  della  Cassazione, la quale ha sempre
respinto  le  questioni di costituzionalita' in relazione all'art. 25
Cost.  argomentando con la natura meramente programmatica della norma
statutaria  (v.  Cass.  12  settembre  1991,  n. 9534; 8 aprile 1992,
n. 4270).
    Il  decentramento  e'  stato  invece  attuato per il Consiglio di
Stato  e  la  Corte  dei  conti con i coevi decreti legislativi del 6
maggio 1948 rispettivamente n. 654 e 655.
    2.  -  L'articolo  43  dello  statuto siciliano (che sotto questo
profilo  ha  rappresentato  l'archetipo  per  altri statuti speciali)
stabiliva  che  le  norme  di  attuazione  sarebbero state tout court
«determinate»   da   una   commissione   paritetica.  Questa  dizione
statutaria  ha  dato  luogo  ad  un  conflitto  di  attribuzione ante
litteram.
    Infatti,  con  D.C.P.S.  9  ottobre 1946 venne nominata, ai sensi
dell'art. 43  dello Statuto, la prima commissione paritetica (Guarino
Amelia,   Uccellatore,  Li  Voti,  Marcolini)  la  quale  interpreto'
l'art. 43  nel senso che la commissione fosse investita di una vera e
propria  delega legislativa circa la forma e il contenuto delle norme
di  attuazione  dello statuto siciliano e che quindi non spettasse al
Consiglio dei ministri alcun «potere deliberativo intorno ad esse».
    Di  conseguenza  le  norme  in  questione  in data 24 maggio 1947
vennero  inviate  all'assemblea  regionale siciliana, accompagnate da
una  lettera  di  trasmissione  in  cui  si  esponevano  le anzidette
conclusioni.
    In   realta'  il  Governo  era  a  conoscenza  della  tesi  della
commissione  anche  prima.  In  effetti,  gia' nel verbale n. 1 del 4
febbraio  1947,  la commissione aveva maturato questo convincimento e
l'aveva  manifestato  al  Presidente  del  Consigiio dei ministri con
apposita  relazione del 12 febbraio 1947 con la quale accompagnava la
trasmissione  delle  norme di attuazione deliberate dalla commissione
stessa.  Il  Governo, peraltro, pur a conoscenza della tesi suddetta,
non  vi diede inizialmente troppo peso dal momento che le norme erano
state  comunque  trasmesse al Consiglio dei ministri il quale infatti
ne  approvo'  la  parte  concernente gli organi regionali. Tali norme
vennero  cosi'  emanate  secondo  l'ordinaria  procedura  e cioe' con
decreto   legislativo   del  Capo  provvisorio  dello  Stato,  previa
deliberazione del Consiglio dei ministri medesimo.
    Il  contrasto  sorse  successivamente  allorche'  la commissione,
visto  che  il Governo non aveva tenuto conto della sua tesi ed aveva
considerato  il  suo  operato  alla  stregua di un alto preparatorio,
decise  -  come  gia'  accennato  -  di  trasmettere le norme da essa
«determinate»  all'assemblea  regionale  siciliana accompagnate dalla
nota  24  maggio  1947 in cui ribadiva la tesi secondo cui il Governo
non  avrebbe  avuto il potere di modificare, neppure in minima parte,
le norme deliberate dalla commissione, con il che invitava in pratica
l'assemblea a prendere posizione in suo favore contro il Governo.
    Il  Governo,  da parte sua reagi' allo stesso modo. Cosi' come la
commissione   paritetica   pretendeva   di   determinare   le   norme
prescindendo  dal  governo,  allo  stesso  modo il Governo pretese di
determinare  autonomamente  le  norme  di  attuazione  dello  statuto
siciliano  e non si diede piu' atto dell'intervento della commissione
paritetica nel procedimento di formazione delle stesse.
    La  riprova  si  ricava  dai  preamboli delle norme di attuazione
anteriori e posteriori ai primi di maggio del 1947.
    Invero,  le  norme di attuazione concernenti gli organi regionali
siciliani,   norme   emanate   dopo  la  approvazione  dello  statuto
siciliano, ed anche prima della sua costituzionalizzazione sono state
«sanzionate e promulgate» come dianzi accennato, dal Capo provvisorio
dello  Stato  con  d.lgs.  C.P.S.  25  marzo  1947, n. 204 in base al
d.l.lgt. n. 151/1944 al d.lgs.lgt. n. 98/1946, vista la deliberazione
del  Consiglio dei ministri e «viste le conclusioni della commissione
paritetica di cui all'art. 43 dello statuto della regione siciliana».
    Appena  un  mese  e  mezzo dopo, il d.lgs. C.P.S. 10 maggio 1947,
n. 307   viene   promulgato  soltanto  con  riferimento  ai  d.l.lgt.
n. 151/1944,   al   d.lgs.lgt.  n. 98/1946,  alla  deliberazione  del
Consiglio   dei   ministri.   E'   scomparso  ogni  riferimento  alle
conclusioni,  alle  determinazioni,  a  qualsiasi  atto o a qualsiasi
audizione della commissione paritetica.
    Anche  le  norme  di attuazione successive vengono emanate con la
stessa  formula senza l'intervento della commissione paritetica (v. i
preamboli  del  d.lgs. C.P.S. n. 567/1947; d.lgs. C.P.S. n. 942/1947;
d.lgs.  n. 141/1948;  d.lgs.  n. 142/1948; d.lgs. n. 507/1948; d.lgs.
n. 654/1948; d.lgs. n. 655/1948; d.lgs. n. 789/1948).
    Peraltro,  anche  dopo  l'entrata  in  vigore  della Costituzione
repubblicana  e  l'entrata  in  funzione  del  nuovo  parlamento,  si
continuo'  per lungo tempo ad emanare norme di attuazione senza alcun
riferimento   all'intervento  della  commissione  paritetica  di  cui
all'art. 43 dello statuto.
    Invero  le  norme  di  attuazione  successive vennero emanate con
decreti  del  Presidente  della  Repubblica,  visto  lo statuto della
Regione  siciliana, visto l'articolo 87 della Costituzione sentito il
Consiglio  dei  ministri  e  su  proposta del ministro competente (v.
preamboli  ai  d.P.R.  nn. 1182/1949; 878/1950; 1138/1952; 1133/1952;
1113/1953;   510/1956;   977/1956;  1111/1956;  784/1961;  1825/1961;
1074/1965).  Occorre  attendere  sino al 1975 per vedere comparire di
nuovo  l'intervento  della commissione paritetica nel procedimento di
formazione delle norme di attuazione dello statuto siciliano. Di tale
intervento  infatti  si da' atto nel preambolo dei dd.PP.RR. nn. 635,
636,  637  del  30 agosto 1975 e da allora in poi compare in tutte le
successive norme di attuazione sino al d.lgs. 29 gennaio 1997, n. 26.
    3. - Fatta questa premessa indispensabile per inquadrare il clima
politico  e  giuridico  dell'epoca,  per  quanto concerne le norme di
attuazione,  occorre  altresi' tenere presente le vicende, anche esse
singolari, che, in quel periodo storico, caratterizzarono l'esercizio
della funzione legislativa.
    Il  decreto  legislativo  6  maggio  1948,  n. 654  relativo alla
istituzione e disciplina del C.G.A. e' stato promulgato, come risulta
dal  preambolo,  «visto l'art. 4 del d.l.lgt. 25 giugno 1944, n. 151,
con  le  modificazioni  ad  esso apportate dall'art 3 primo comma del
d.lgs.lgt. 16 marzo 1946, n. 98» e «viste le disposizioni transitorie
I e XV della Costituzione.».
    A  questo  proposito  va  rammentato  che  il d.lgt. n. 151/1944,
traduceva  in  formula  normativa  ii  cosiddetto  «patto  di  tregua
istituzionale»  stipulato  a  Salerno  tra  la  Monarchia e i partiti
militanti nei Comitati di liberazione nazionale con il quale tutti si
impegnavano  a  non  porre  in  essere,  fino alla convocazione della
Costituente,   atti   che   potessero   pregiudicare   la   questione
istituzionale.
    Peraltro, atteso lo stato di guerra e la parziale occupazione del
Paese, il decreto n. 151/1944 conferiva al Governo i cosiddetti pieni
poteri  stabilendo  (art. 4,  primo  comma)  che  finche' non sarebbe
entrato  in funzione il nuovo parlamento i provvedimenti aventi forza
di  legge  sarebbero stati deliberati dal Consiglio dei ministri. Nel
contempo  veniva  rimandata  a  dopo  la  liberazione  del territorio
nazionale la scelta della nuova costituzione dello Stato (art. 1). Si
e'  percio'  sempre ritenuto che dal conferimento di poteri contenuto
nel   decreto  n. 151/1944  rimanesse  esclusa  soltanto  la  materia
costituzionale (Corte cost. n. 103/1957).
    Terminato lo stato di guerra e dopo la liberazione del territorio
nazionale  e la sua riunificazione sotto un unico Governo, al fine di
dare   attuazione   al   d.l.lgt.  n. 151/1944  venne  promulgato  il
d.lgs.lgt.  n. 98/1946  il  quale  affido'  (art. 1) ad un referendum
popolare  la  scelta sulla forma istituzionale di Stato (Repubblica o
Monarchia),    referendum    che    avrebbe    dovuto    aver   luogo
contemporaneamente  alle elezioni per l'Assernblea costituente (Corte
cost. n. 103/1957 cit.).
    Per quanto concerne il problema in esame, l'art. 3 del d.lgs.lgt.
n. 98/1946   disciplinava   l'esercizio  della  funzione  legislativa
ordinaria  e  regolava  i  rapporti  in  materia  tra  il  Governo  e
l'Assemblea costituente. In particolare veniva stabilito che, durante
il periodo della Costituente, e sino alla convocazione del Parlamento
secondo  la nuova costituzione, il potere legislativo sarebbe rimasto
delegato  al  Governo  tranne  la  materia  costituzionale,  le leggi
elettorali e l'approvazione dei trattati internazionali che sarebbero
rimasti  di  competenza  dell'Assemblea  costituente  (art. 3,  primo
comma).  Veniva poi stabilito che i provvedimenti legislativi emanati
dal Governo ex art. 3, primo comma avrebbero dovuto essere sottoposti
a  ratifica  del  nuovo Parlamento entro un anno dalla sua entrata in
funzione (art. 6).
    La Costituzione repubblicana entro' in vigore, come accennato, il
1°  gennaio  1948  e, nella XV disposizione transitoria, converti' in
legge   (non   pero'   in   legge  costituzionale)  il  decreto-legge
luogotenenziale   n. 151/1944   peraltro  qualificandolo  (non  senza
contrasti  in  seno  alla  Costituente)  come  «decreto  legislativo»
anziche'  come  «decreto-legge», forma nella quale era stato adottato
(Gazzetta  Ufficiale  - serie speciale - 8 luglio 1944, n. 29) e come
risultava  dalla clausola (art. 6) che ne prevedeva la conversione in
legge. Ne risulto' la formula singolare «si ha per convertito».
    La  XVII disposizione transitoria della Costituzione si e' invece
data  carico  di  regolare, nel periodo della Costituente, i rapporti
intertemporali  tra  Governo  e  Costituente,  e  cio'  non  solo  in
relazione  alle  materie di competenza di quest'ultima, come elencate
negli  artt. 1  e  2  del  d.lgs.lgt. n. 98/1946 (secondo comma della
citata disposizione transitoria) ma, come e' stato sottolineato dalla
dottrina  costituzionalistica  dell'epoca,  in  realta'  in  tutte le
materie,  anche in quelle delegate al Governo, come sarebbe risultato
implicitamente  dal  successivo terzo comma della stessa disposizione
transitoria.
    Il  Parlamento  venne  poi  convocato con d.P.R. 8 febbraio 1948,
n. 33  per  il  giomo  8 maggio 1948 e quindi a quella data (ai sensi
dell'art. 3,  primo  comma  del d.lgs.lgt. n. 98/1946) veniva meno la
delega conferita al Governo.
    4.  -  Il preambolo del d.lgs. 654/1948, come accennato, richiama
peraltro  solo  la  XV  disposizione  transitoria,  e  non  la  XVII,
ritenendo   evidentemente   che   la   delega  base  fosse  contenuta
nell'art. 4 del d.l.lgt. n. 151/1944 e che il primo comma dell'art. 3
del d.lgs.lgt. n. 98/1946 ne costituisse una mera modificazione.
    In  realta', se si esaminano le due disposizioni dianzi citate ci
si avvede della profonda diversita' tra le due formule.
    Il  d.l.lgt.  n. 151/1944  e'  emanato  «ritenuta la necessita' e
l'urgenza  per  causa  di  guerra»,  concede i pieni poteri al Govemo
senza  alcuna  eccezione  di  materia  se non quella costituzionale e
rinvia  la  scadenza  di  tali poteri ad un momento futuro ed incerto
nell'an,  nel quando e nel quomodo perche' (art. 1) si deve attendere
la  liberazione del territorio nazionale, si dovranno scegliere nuove
forme  istituzionali,  deliberare  -  una  nuova  Costituzione  (cio'
esclude ex se la materia costituzionale) e, finche' cio' non avverra'
e  non  sara'  entrato  in  funzione  un  nuovo Parlamento, il Govemo
restera'  depositario  anche della funzione legislativa senza precisi
limiti di tempo e di materie.
    Era  anche  previsto (art. 6) che il d.l.lgt. n. 151/1944 avrebbe
dovuto   essere   presentato   alle   assemblee  legislative  per  la
conversione  in  legge  il  che  non si verifico' e la conversione in
legge,  come  accennato,  avvenne  in  forza  della  XV  disposizione
transitoria  della  Costituzione.  Sono  note le discussioni sorte in
merito  alla natura del decreto n. 151/1944 di cui e' stata negata la
natura  di  delega  di  poteri  soprattutto  perche'  era venuto meno
l'organo  delegante,  e cioe' il Parlamento, poiche' il r.d. 2 agosto
1943, n. 705 aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni e
perche'  mancava  la  clausola della conversione in legge dei decreti
legislativi  che  sarebbero  stati  emanati dal Govemo, principio che
verra' introdotto solo con l'art. 6 del d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    Diversa e' l'impostazione del d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    Innanzitutto  e'  scomparso  ogni  richiamo  allo stato di guerra
ormai terminato.
    La fonte da cui il decreto n. 98/1946 deriva il potere per la sua
emanazione  e' sempre il d.l.lgt. n. 151/1944, ma la delega di poteri
al  Governo  ha caratteristiche del tutto diverse anche se la dizione
dell'art. 3, primo comma «il potere legislativo resta delegato ... al
Governo» vorrebbe far ritenere il contrario.
    Innanzitutto il potere legislativo del Governo veniva limitato ad
un  tempo  ben  definito.  Infatti, insieme al d.lgs.lgt. n. 98/1946,
nella stessa Gazzetta Ufficiale del 23 marzo 1946 venne pubblicato il
coevo decreto luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 99 il quale convocava
i comizi elettorali per il 2 giugno 1946.
    Poteva  quindi  gia'  farsi  una previsione per la scadenza della
delega  legislativa  al  Governo  e  cio' in base alla anzidetta data
delle  elezioni  ed alla durata prevista dei lavori della Costituente
(art. 4 d.lgs.lgt. n. 98/1946).
    Inoltre,   nella  delega  contenuta  nell'art. 3  del  d.lgs.lgt.
n. 98/1946 i poteri, oltre ad essere piu' limitati nel tempo, lo sono
anche per le materie.
    Nell'art. 4  del  d.l.lgt.  n. 151/1944  non  si  escludeva altra
materia,  oltre  quella costituzionale mentre l'art. 3 del d.lgs.lgt.
n. 98/1946 esclude esplicitamente la materia costituzionale, le leggi
elettorali e le leggi di approvazione dei trattati internazionali che
restano  di  competenza dell'Assemblea costituente la quale funziono'
come  Parlamento  specie  per la complessa materia elettorale, per la
legge  sulla  stampa, per l'approvazione del trattato di pace e degli
statuti  speciali  della  Sicilia,  Sardegna, Valle d'Aosta, Trentino
Alto Adige.
    Nell'esercizio  delle  sue funzioni, anche in quelle legislative,
il  Governo  e'  ora  responsabile  verso  la  assemblea  costituente
(art. 3,  terzo  comma,  d.lgs.lgt.  n. 98/1946);  il  Governo e' poi
obbligato  a dimettersi se sfiduciato dalla Assemblea (art. 3, quarto
comma).
    Il  Governo  puo'  inoltre  sottoporre  all'Assemblea  ex  art. 3
secondo  comma  qualunque  altro  «argomento»,  anche  rientrante nel
potere  legislativo  ad  esso  delegato ai sensi del precedente primo
comma. In punto di fatto il Governo sottopose alla Costituente tra il
26 settembre 1946 e il 31 marzo 1948 ben 1026 schemi di provvedimenti
che  il Govemo avrebbe potuto adottare autonomamente. In proposito va
anche ricordato che la Costituente in data 13 settembre 1946, tramite
una  modifica al proprio regolamento interno, aveva istituito quattro
commissioni permanenti con il compito di esaminare tutti i disegni di
legge  governativi  e di stabilire quali dovessero essere rinviati al
Governo  per  l'emanazione come decreti legislativi e quali dovessero
invece  essere  rimessi  alla Costituente per la emanazione con legge
ordinaria.  Pertanto,  la Costituente, oltre alle leggi nelle materie
ad  essa  attribuite emano' quindi anche cinque leggi in materie che,
ai  sensi  dell'art. 3  del  d.lgs.lgt. n. 98/1946 sarebbero state di
competenza   del   Governo   (legge   n. 478/1946  sulle  formule  di
giuramento,   legge   n. 379/1947   sull'industria   cinematografica,
L. 530/1947  sul  t.u. comunale e provinciale, legge n. 1577/1947 sul
Ministero  della  pubblica  istruzione, legge n. 1629/1947 sull'Opera
Sila). Il terzo comma della XVII disposizione transitoria costituisce
esplicito riconoscimento di tale assetto.
    Tutto  cio'  dimostra  la  profonda  differenza  tra la delega ex
art. 4   d.l.lgt.  n. 151/1944  e  la  delega  ex  art. 3  d.lgs.lgt.
n. 98/1946, diversita' che ha portato la dottrina costituzionalistica
dell'epoca  a ritenere che con il d.lgs.lgt. n. 98/1946 si fossero in
qualche  modo  ristabiliti  i  rapporti  tra  l'organo  a  competenza
legislativa  ordinaria  (Costituente  e  futuro  Parlamento) e quello
(Governo) che esercitava la funzione legislativa in via eccezionale e
temporanea.
    Innanzitutto,  la formula adoperata «i provvedimenti aventi forza
di  legge  sono  deliberati  dal Consiglio dei Ministri» del d.l.lgt.
n. 151/1944   viene   sostituita  da  «il  potere  legislativo  resta
delegato» del primo comma dell'art. 3 d.lgs.lgt. n. 98/1946 in cui la
rilevanza  maggiore  va  posta  sul  concerto  di  delega.  A  questo
proposito  va  ricordato che il testo presentato alla Consulta per il
parere  recitava  «resta affidato» e la sostituzione non sembra priva
di  significato.  Comunque  la diversita' tra i due decreti e' ancora
piu'  accentuata  se  si  considera  che,  a  differenza del d.l.lgt.
n. 151/1944,  che  non  prevedeva  nulla  al  riguardo,  l'art. 6 del
d.lgs.lgt.  n. 98/1946  stabiliva  che  i decreti emanati dal Governo
durante  il  periodo  della  Costituente  (e  non di competenza della
Costituente   medesima)   avrebbero  dovuto  essere  sottoposti  alla
ratifica  del  nuovo  Parlamento  entro  un anno dalla sua entrata in
funzione.
    Quale  che  sia  il  valore da attribuire a tale ratifica, questa
costituisce  la  riprova  dei  nuovi  rapporti  tra  potere  delegato
(Governo)  e  potere  originario  (Costituente)  dal  momento  che  i
provvedimenti di competenza della Costituente, a differenza di quelli
del  Governo,  non avrebbero dovuto essere ratificati dal Parlamento.
Significativo in questo senso e' anche il riferimento temporale della
delega  e  della  ratifica,  limitato al «periodo della costituente e
fino  alla  convocazione  del  Parlamento» ex art. 3, primo comma del
decreto  in  esame.  Tale periodo, ex art. 4, primo comma, iniziava a
decorrere  dal 22° giomo successivo alle elezioni del 2 giugno 1946 e
sarebbe  terminato  l'8  maggio  1948  data in cui venne convocato il
nuovo Parlamento ai sensi del citato d.P.R. 8 febbraio 1948, n. 33.
    E'   anche   significativo  che  tutte  le  successive  leggi  di
conversione   (legge   5   maggio   1949   n. 178,  che  converti'  i
decreti-legge  anteriori  al  decreto  n. 151/1944)  o di ratifica ex
art. 6 d.lgs.lgt. n. 98/1946 (a partire dalla legge 28 dicembre 1952,
n. 3136,  per  finire  con  la  legge 17 aprile 1956, n. 561) abbiano
sempre  escluso  dalla  conversione in legge o dalla ratifica tutti i
decreti  legislativi  luogotenenziali  emessi nel primo periodo della
Luogotenenza  e  cioe'  nel  periodo  di  vigenza  del  solo d.l.lgt.
n. 151/1944,  dall'8 luglio 1944 al 23 marzo 1946, data in cui entro'
in vigore il d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    5.   -   Tutto  cio'  premesso,  va  esaminata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 3 primo comma del d.lgs.lgt. 16
marzo  1946, n. 98 e, derivatamente, degli articoli 1, 2, 3, 4, 5, 6,
7,  8,  9  del d.lgs. 6 maggio 1948, n. 654 e cio' con riferimento ai
principi   costituzionali  fondamentali  in  materia  di  delegazione
legislativa.
    La  questione,  per  asserito  contrasto  tra l'articolo 76 della
Costituzione  e  il  d.lgs.  n. 654/1948,  fu  posta a suo tempo alle
sezioni  unite  della  cassazione  le  quali con la nota decisione 11
ottobre 1955, n. 2994, stesa da un consigliere di eccezionale valore,
la  respinsero argomentando con il fatto che il d.lgs. n. 654/1948 fu
emanato  in  data  6 maggio  1948  e quindi in epoca anteriore di due
giorni alla prima convocazione del Parlamento fissata per il giorno 8
maggio 1948 con d.P.R. 8 febbraio 1948, n. 33.
    La  Cassazione  ritenne quindi che fino a tale data, e cioe' fino
alla   prima   convocazione   del   Parlamento,  il  Governo  avrebbe
legittimamente  agito  in  base  «ad  una  delegazione  di  carattere
generale  per  quanto  concerne  l'esercizio  del potere legislativo»
delega  contenuta  nell'art. 3  del d.lgs.lgt. 18 marzo 1946, n. 98 e
«resa   necessaria   perche'  la  costituente  era  occupata  con  la
preparazione  della  costituzione».  Tale  orientamento  e' stato poi
ribadito  anche successivamente (Cass. SS.UU. 5 giugno 1956, n. 1907;
9 settembre 1972, n. 2717; 19 aprile 1984, n. 2566).
    Pertanto,  se  cio' e' esatto (e cioe' se si tratta di una delega
di  potere  legislativo)  e  se si conviene (v. in questo senso Corte
cost.  n. 25/1976)  con  la  citata  decisione  delle  Sezioni  unite
2992/1955,  va  osservato  che  la  anzidetta disposizione non poteva
costituire valida base per una delega legislativa.
    Al riguardo e' noto l'insegnamento della Corte costituzionale con
riferimento   alle   leggi  di  delega  anteriori  alla  Costituzione
repubblicana.
    La Corte da un lato ha affermato la propria competenza in materia
e,  dall'altro,  ha  ritenuto  che  per  le  deleghe  anteriori  alla
Costituzione,   pur   non  potendosi  ricorrere  all'art. 76  (v.  in
proposito Corte cost. 46/1960), ben si poteva esercitare il sindacato
di   costituzionalita'   sulla   base   di   principi  costituzionali
fondamentali,  quali la esistenza della delega e la limitazione posta
al  governo  di  mantenersi  nei  limiti  della  delega  (Corte cost.
n. 37/1957).
    A chiarimento di quest'ultimo principio la Corte ha affermato che
la  delega  deve  avere ad oggetto «una materia chiaramente definita»
(Corte cost. n. 53/1961).
    Tale  orientamento e' stato mantenuto fermo anche successivamente
(Corte cost. n. 2/1966).
    E'   del   tutto   evidente,  quindi,  che  la  delega  contenuta
nell'art. 3  del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946  non  poteva  in nessun caso
costituire una valida delega e cio' per la assorbente considerazione,
ripetutamente  sottolineata  anche dalla dottrina costituzionalistica
dell'epoca, che tale delega lasciava arbitro il Governo di legiferare
in  qualsiasi materia con le sole eccezioni di quella costituzionale,
elettorale ed internazionale.
    Tuttavia,    tali    eccezioni    non    valgono   ad   escludere
l'indeterminatezza  delle materie di delega e, quindi, deve ritenersi
sussistente  la  violazione,  se non dell'art. 76 della Costituzione,
quanto  meno di quei principi costituzionali fondamentali in materia,
principi che la Corte costituzionale, nelle decisioni dinanzi citate,
ha  assunto  quale parametro per giudicare la costituzionalita' delle
leggi delega e delegate anteriori alla costituzione repubblicana.
    Ne  potrebbe sostenersi che la XV e XVII disposizione transitoria
della  Costituzione  abbiano sanato ogni vizio, la prima del d.l.lgt.
n. 151/1944  (e,  derivatamente  del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946),  e  la
seconda   comunque   di   quest'ultimo.   Innanzitutto,   come   gia'
sottolineato,  le  due  deleghe  sono  diverse  per cui, sotto questo
profilo,  non  puo'  ritenersi  che  la  delega  ex art. 3 d.lgs.lgt.
n. 98/1946  costituisca  una  modifica o una integrazione dell'art. 4
del   d.l.lgt.   n. 151/1944   ma,   al   contrario,  la  sostituisce
integralmente.  Pertanto  anche  la  conversione  in  legge  della XV
disposizione  transitoria  non conferiva affatto efficacia ultrattiva
al  decreto  n. 151/1944,  ma  si  limitava a riconoscere gli effetti
prodotti  nel  periodo  di  vigenza  e  cioe' - come gia' osservato -
dall'8 luglio 1944 al 23 marzo 1946 data in cui venne sostituito come
fonte  di  produzione  dal  decreto  n. 98/1946. Quanto poi alla XVII
disposizione  transitoria, essa costitui' bensi' la riprova sul piano
ermeneutico   del   fatto   che  il  decreto  n. 151/1944  era  stato
integralmente  sostituito  dal  decreto  n. 98/1946,  ma non potrebbe
sostenersi che il decreto n. 98/1946 sia stato a sua volta sostituito
(e  quindi  costituzionalizzato) dal secondo e terzo comma della XVII
disposizione  transitoria.  Quest'ultima,  com'e' noto, e' frutto del
timore  delle  sinistre  di  possibili  colpi di mano del Governo nel
periodo  tra  la  scadenza dei poteri ordinari della Costituente (che
venivano  prorogati  al  31  gennaio  1948)  e la data delle elezioni
politiche.  Pertanto,  la  XVII disposizione transitoria al secondo e
terzo  comma limita espressamente la sua efficacia temporale a questo
periodo  e  cioe'  dal 10 febbraio 1948 al 18 aprile 1948 (data delle
elezioni  politiche).  Dopo  il  18 aprile 1948 il decreto n. 98/1946
riprende  in  toto  la  sua  efficacia come fonte di produzione. Deve
quindi  ritenersi  che  il d.lgs. n. 654/1948, adottato nella vigenza
del  d.lgs.lgt. n. 98/1946, sia stato emanato esclusivamente in forza
di tale disposizione.
    Neppure   potrebbe   sostenersi   che   la  ratifica  del  d.lgs.
n. 654/1948  effettuata  con legge 17 aprile 1956 n. 561 (v. allegato
n. 1   a  tale  legge)  possa  aver  sanato  gli  eventuali  vizi  di
costituzionalita' insiti nella norma delegante.
    6. - Se poi si dovesse ritenere che la delega e' stata esercitata
soltanto  sulla  base del d.l.lgt. n. 151/1944 la incostituzionalita'
emergerebbe anche in modo piu' evidente.
    Invero,  la indeterminatezza della delega risulta ancora maggiore
dalla dizione dell'art. 4, primo comma del d.l.lgt. n. 151/1944 e, in
secondo   luogo,   deve   ritenersi  che  dopo  l'entrata  in  vigore
dell'art. 3   del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946  non  avrebbe  potuto  piu'
esercitarsi la delega nei modi e nel contenuto del citato articolo 4,
ma soltanto con le modalita' e nell'ambito delineato dal sopravvenuto
art. 3 del d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    7. - Le anzidette conclusioni rimarrebbero inalterate anche se si
ritenesse   necessario,   dopo   l'entrata   in  vigore  del  decreto
n. 98/1946,  il  concorso di ambedue le citate disposizioni; la prima
come  fonte del potere e la seconda come modalita' di esercizio dello
stesso,  poiche'  rimarrebbero  cumulati,  per l'una e per l'altra, i
vizi  derivanti  dall'incostituzionale  carattere di indeterminatezza
che comunque caratterizza ambedue le deleghe.
    Il  Collegio e' consapevole dell'orientamento assunto dalla Corte
costituzionale  in  merito  alle  deleghe  di  cui  al  decreto-legge
n. 151/1944  e  al  decreto  legislativo  98/1946  e, in particolare,
all'impossibilita'  per tali deleghe di richiamarsi ai principi degli
articoli  76  e 77 della Costituzione (Corte cost. 103/1957, 46/1960,
65/1962,   27/1964),   ma  ritiene  che  i  principi  costituzionali,
evidenziati  dalla  stessa  Corte in relazione alle deleghe anteriori
alla costituzione (Corte cost. 53/1961 e 2/1966 cit.), debbano valere
anche  nei  confronti  delle norme in esame, pur se nei loro riguardi
«non  puo'  parlarsi  di  una  delegazione  di poteri legislativi, ma
bensi'   di   una  eccezionale  attribuzione  temporanea  del  potere
legislativo al Governo, salva la materia costituzionale» (Corte cost.
103/1957 cit.).
    Il  collegio e' consapevole altresi' delle affermazioni contenute
in   modo   particolare  nella  ordinanza  n. 14/1961  in  cui  venne
dichiarata manifestamente infondata la questione di costituzionalita'
circa l'inesistenza di limiti o direttive nel d.l.lgt. n. 151/1944.
    E' nota anche la piu' radicale affermazione, peraltro apodittica,
contenuta  nella  decisione  n. 85/1962  secondo  cui «escluso che si
tratti di un caso di delegazione legislativa non sorge alcun problema
circa  il contrasto tra la denunziata disposizione e gli artt. 70, 76
e  77  cost. ne' circa un eventuale contrasto con i principi valevoli
per  la  legittimita' delle deleghe legislative anteriori all'entrata
in vigore della Costituzione».
    Da   tale   affermazione   peraltro  dovrebbe  discendere,  quale
corollario,  la conseguenza che il d.l.lgt. n. 151/1944 e il seguente
d.lgs.lgt.    n. 98/1946   sono   norme   costituzionali,   ancorche'
provvisorie, poiche' possono, senza limite alcuno di tempo definito e
di  materia  (il  primo)  ed  in  modo  piu'  circoscritto  ma sempre
amplissimo   (il   secondo),   demandare   all'esecutivo   il  potere
legislativo.  In  pratica  la  luogotenenza  costituirebbe un tertium
genus  di assetto costituzionale a cavallo tra lo Statuto Albertino e
la   Costituzione   repubblicana.   Tale   riconoscimento   di  rango
costituzionale   peraltro   non  emerge  ne'  dalla  XV  disposizione
transitoria  (che  converte - ripetesi - il predetto decreto-legge in
legge  ordinaria  e  non gia' in legge costituzionale) ne' dalla XVII
disposizione  transitoria, e neppure, per quanto risulta, da espresso
riconoscimento   in   tal   senso   da   parte  della  giurisprudenza
costituzionale  che  non  ha  mai  attribuito  al decreto n. 151/1944
valore  di legge costituzionale in virtu' della predetta conversione,
ma ha sempre accennato una semplice conversione in legge (Corte cost.
nn.  65/1962,  104/1969).  Pertanto,  sotto questo profilo e con tale
prospettazione,  la  questione puo' essere riproposta al vaglio della
Corte  costituzionale  poiche'  non  sembrerebbe  dubbio  che,  se ai
decreti  nn.  151/1944  e  98/1946  non si dovesse riconoscere valore
costituzionale,  ad  essi  dovrebbero  comunque applicarsi i principi
elaborati  dalla  giurisprudenza  costituzionale  al  riguardo (Corte
cost. nn. 53/1961, 2/1966 cit.).
    8.   -  Qualora  invece  dovesse  riconoscersi  natura  e  valore
costituzionale  all'assetto del d.l.lgt. n. 151/1944 e del d.lgs.lgt.
n. 98/1946,  quasi  si trattasse di un tertium genus a cavallo tra lo
Statuto  Albertino  e  la  Costituzione repubblicana, ne consegue che
quanto  meno  dovrebbero avere natura e valore costituzionale anche i
limiti   di   forma   e   di  contenuto  che  tali  decreti  ponevano
all'esercizio  del  potere legislativo conferito al Governo. E cosi',
si   dovrebbe   riconoscere   valore  costituzionale  all'obbligo  di
ratifica,  ex art. 6, d.lgs.lgt. n. 98/1946 come pure al limite posto
ad Governo di non legiferare nelle materie costituzionali, elettorali
e   dei  trattati  internazionali.  In  altri  termini,  occorrerebbe
assumere  al  rango  di  canone  di costituzionalita' la affermazione
secondo  cui  la Costituzione, «avendo nella disposizione transitoria
XV  disposto  la  conversione  in  legge  del  d.lgs.lgt. n. 151/1944
sull'ordinamento   provvisorio   dello   Stato,   ha  reso  con  cio'
impossibile  ogni  rferimento a disposizioni diverse da quelle di cui
al citato decreto per quanto attiene al riscontro della validita' dei
provvedimenti in base allo stesso emanati» (Corte cost. n. 104/1969).
    In   quest'ottica   ed   ancorche'   prescindendo  dall'affermare
apertamente   il   carattere   costituzionale   o  meno  delle  norme
sopraindicate,   la   Corte   costituzionale  in  effetti  ha  sempre
verificato,  ai  fini  del sindacato di costituzionalita', se fosse o
meno  intervenuta  la  tempestiva  presentazione al Parlamento per la
ratifica  di  cui  all'art. 6  del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946,  restando
soltanto  ininfluente  l'epoca  in  cui la ratifica fosse intervenuta
(Corte cost. nn. 104/1969, 95/1964, 46/1960, 103/1957).
    In  altri  termini alla suddetta presentazione ed alla successiva
ratifica  e'  stato  attribuito,  mutatis mutandis, lo stesso effetto
della   presentazione   alle   Camere  e  della  conversione  di  cui
all'art. 77  della Costituzione, nel senso che anche ai provvedimenti
normativi   emanati   durante   la  Costituente  doveva  riconoscersi
efficacia provvisoria e che la mancata presentazione per la ratifica,
cosi'  come  la  mancata  ratifica,  privava  l'atto  ab  origine  di
efficacia.
    Se  cio'  e' esatto, identiche conclusioni e identiche censure di
costituzionalita'  potrebbero  essere  avanzate ove il Governo avesse
legiferato   in   materia   riservata   alla   Assemblea  costituente
dall'art. 3,  primo  comma,  d.lgs.lgt.  n. 98/1946.  In proposito va
rilevato   che,   come   gia'   l'art. 1,  primo  comma  del  decreto
n. 151/1944, anche l'art. 3 del d.lgs.lgt. n. 98/1946 escludeva dalla
delega  la  materia  costituzionale,  laddove  l'oggetto  del  d.lgs.
n. 654/1948   era   inteso  proprio  alla  attuazione  di  una  legge
costituzionale  gia'  vigente,  quale  lo statuto siciliano, cui tale
carattere era stato attribuito dalla costituzione repubblicana.
    Al  riguardo  va  rammentato  che  la  Costituzione e' entrata in
vigore   il  10  gennaio  1948  ai  sensi  della  XVIII  disposizione
transitoria  e  che lo statuto siciliano, che era stato approvato con
r.d.lgs.  15  maggio  1946,  n. 455,  e'  stato  convertito  in legge
costituzionale  dalla  legge cost. 26 febbraio 1948, n. 2, pubblicata
il  9  marzo  1948,  ed  e'  entrato in vigore il giorno successivo e
quindi in epoca anteriore al d.lgs. n. 654/1948, che venne deliberato
dal  Consiglio  dei  ministri  in data 8 aprile 1948, promulgato il 6
maggio 1948 e pubblicato il 2 giugno 1948.
    Pertanto,  sia  la  Costituzione,  sia lo statuto siciliano erano
gia'  leggi  costituzionali  e  la  attuazione  di  quest'ultimo gia'
costituiva  materia costituzionale alla data di emanazione del d.lgs.
n. 654/1948  per  cui in nessun caso il Governo poteva giovarsi della
delega   di   cui  all'art. 3  d.lgs.lgt.  n. 98/1946  che  escludeva
espressamente la materia costituzionale.
    A tale ultimo proposito non sembra condivisibile quanto affermato
al riguardo nella decisione n. 2994/55 delle SS.UU. dianzi citata. In
quella  sede  era  stato  eccepito  che il d.lgs. n. 654/1948 esulava
ratione  materiae  dalla  delega  ex  art. 3, primo comma, d.lgs.lgt.
n. 98/1946.  La  Cassazione  respinse l'eccezione argomentando con il
fatto    che    la    materia    dell'ordinamento    giudiziario    e
dell'organizzazione  giurisdizionale contenuta nel d.lgs. n. 654/1948
non  «rientra  nell'orbita  dei  principi  costituzionali»  in quanto
attribuita alla legge ordinaria ex art. 108 della Costituzione.
    Peraltro  la  questione  puo' essere ora esaminata sotto un altro
profilo,  ponendo  l'interrogativo  se  le  norme di attuazione degli
statuti  differenziati,  pur  non  avendo  esse stesse rango di norme
costituzionali,  possano  essere  ricomprese nel concetto di «materia
costituzionale»  e  cio', sia di per se', sia in relazione alla ratio
della delega di cui all'art. 3 del d.lgs.lgt. n. 98/1946.
    Se  si  pone  mente  sia  alla  specifica funzione delle norme di
attuazione,  e cioe' di rendere possibile il concreto esercizio della
autonomia  regionale  per  cui  a  volte  possono  anche assumere una
funzione  integrativa degli stessi statuti (Corte cost. nn. 212/1984,
30/1959, 20/1956), sia alla speciale competenza in materia che assume
carattere  riservato  e separato (Corte cost. nn. 237/1983, 180/1980,
137/1998),   sia   allo   speciale   procedimento  da  cui  non  puo'
prescindersi   per  la  loro  adozione  (Corte  cost.  nn.  137/1998,
213/1998,  95/1994),  si  puo' agevolmente pervenire alla conclusione
che le stesse, in quanto espressione di una competenza permanente per
adeguare  nel  tempo la autonomia speciale (Corte cost. nn. 212/1984,
353/2001),  possono qualificarsi come «materia costituzionale» di per
se'  e  nella lettera e nello spirito del d.lgs.lgt. n. 98/1946, che,
all'art. 3,    primo    comma,    la    riservava   correttamente   e
conseguenzialmente alle deliberazioni della Costituente.
    Pertanto,  per  decidere  in  subiecta  materia  avrebbe potuto e
dovuto  essere  convocata,  se mai, la Assemblea costituente che, tra
l'altro,  ex  art. 1, r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455, avrebbe dovuto
coordinare lo statuto siciliano con la nuova Costituzione.
    9.  -  Peraltro  occorre anche rilevare che il d.lgs. n. 654/1948
appare  affetto  anche  da  un  altro  vizio di costituzionalita', in
rapporto all' art. 43 dello statuto siciliano.
    Infatti,  quando  anche  si  volesse e si potesse superare i vizi
dianzi  denunciati  ai  precedenti  punti  5,  6,  7  e  8 si volesse
giustificare  la  delega  del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946 con la pendenza
della  approvazione  della  Costituzione  (Cass.  SS.UU. n. 2994/1955
cit.), ovvero con la natura costituzionale del d.lgs.lgt. n. 98/1946,
ebbene,  anche  in  questo  caso,  il d.lgs. n. 654/1948 risulterebbe
costituzionalmente illegittimo.
    Invero  la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che il
potere  di  emanare norme di attuazione degli statuti delle regioni a
statuto  speciale non risiede nell'articolo 76 della Costituzione, ma
si  tratta  di  una  competenza  a  «carattere  riservato e separato»
rispetto  a quelle esercitabili nei confronti delle regioni a statuto
ordinario   ai   sensi  della  VIII  disposizione  transitoria  della
Costituzione stessa.
    Tale  competenza separata e riservata ha carattere permanente, ma
deve   essere  esercitata  «nel  contesto  di  particolari  procedure
caratterizzate  dall'intervento  consultivo di organi cui partecipano
mediatamente  le  comunita'  interessate»  (Corte cost. nn. 160/1985,
353/2001).
    L'articolo  43  dello  statuto  siciliano,  entrato in vigore ben
prima dell'emanazione del d.lgs. n. 654/1948, prevede che le norme di
attuazione  dello  statuto  vengano  determinate  da  una commissione
paritetica.
    Nella  specie  tale  procedimento  non  e'  stato osservato, come
risulta testualmente dal preambolo del d.lgs. n. 654/1948.
    Di qui un ulteriore vizio di costituzionalita'.
    Costituisce,   infatti,   pacifico   insegnamento   della   Corte
costituzionale  che  i  decreti  legislativi di attuazione statutaria
sono  espressione - ripetesi - di una competenza separata e riservata
rispetto  alla leggi statali ordinarie (Corte cost. n. 237/1983); che
tale competenza si esercita non solo in occasione del primo passaggio
di  funzioni  (come  nella  specie),  ma anche successivamente (Corte
cost.  nn.  180/1980,  212/1984);  che in sede di attuazione non puo'
prescindersi  dallo speciale procedimento posto, con norma di rilievo
costituzionale,  a garanzia del ruolo e delle funzioni spettanti alla
commissione paritetica (Corte cost. nn. 206/1975, 95/1984, 137/1998).
    Conseguentemente,  gli articoli 1, 3 primo comma 4, 5, 6, 7, 8, 9
del  d.lgs.  n. 654/1948  sono  incostituzionali  per  violazione del
combinato disposto degli articoli 23 e 43 dello statuto siciliano. Va
precisato  al  riguardo  che  nella  presente  questione non viene in
discussione  l'articolo  2  e  neppure  i  commi 2 e 3 dell'art. 3 in
quanto,  com'e'  noto  sono stati sostituiti dagli articoli 1 e 2 del
d.P.R.  n. 204/1978  rispettoso,  sul punto del disposto dell'art. 43
dello  statuto  anche  se,  come  verra'  in  appresso precisato tali
disposizioni    sono    denunciate   sotto   ulteriori   profili   di
incostituzionalita'.
    Tornando   all'argomento   va   ricordato   che  nella  decisione
n. 2994/1955  le  sezioni  unite  della  Cassazione  si sono poste il
problema  dell'applicazione dell'art. 43 dello statuto siciliano, ma,
anche questa volta, in un'ottica diversa.
    Ci  si  chiese, infatti, in quella sede a chi spettasse il potere
di  emanare  le  norme di attuazione se al Governo o alla commissione
paritetica  ex  art. 43  dello  statuto,  e  tale interrogativo venne
innescato,  come  in  precedenza osservato, dalla pretesa della prima
commissione  paritetica  di  «deliberare»  autonomamente  le norme di
attuazione.
    La  Cassazione  risolse correttamente il quesito nel senso che il
potere di legiferare in proposito spettava e spetta al Governo. Nello
stesso  senso  si  era  peraltro  gia'  espresso  questo Consiglio di
giustizia  amministrativa  con  parere  19  dicembre 1948, n. 47 e la
Corte dei conti con risoluzione 29 aprile 1950, n. 256. Cio' e' stato
successivamente   confermato   dalla   giurisprudenza   della   Corte
costituzionale  secondo  cui  si  tratta  di  un potere normativo che
spetta  al  Governo  in  via  permanente  ancorche'  con uno speciale
procedimento  partecipativo delle autonomie speciali (Corte cost. nn.
212/1984, 160/1985).
    La  questione qui prospettata e' pero' diversa, perche' si tratta
di  stabilire  se  il Governo poteva legittimamente esercitare questo
potere   prescindendo   dallo   speciale   procedimento  disciplinato
dall'art. 43 dello statuto.
    A  tale  interrogativo  la  giurisprudenza della Corte, come gia'
osservato, ha sempre risposto negativamente (v. da ultimo Corte cost.
n. 213/1998).
    D'altra  parte,  quando  anche si potessero superare i rilievi di
costituzionalita' relativi all'esistenza e all'esercizio della delega
di  cui  all'art. 3  del d.lgs.lgt. n. 98/1946, non si vede come tale
potere avrebbe potuto essere legittimamente esercitato dopo l'entrata
in   vigore   della   Costituzione,  dopo  la  conversione  in  legge
costituzionale dello statuto siciliano e la sua entrata in vigore (10
marzo 1948, ex art. 2, legge cost. n. 2/1948).
    Nel   momento  in  cui  veniva  costituzionalizzato  lo  speciale
procedimento  per  la  adozione  delle norme di attuazione ex art. 43
dello  statuto,  non  sembra  dubbio  che  la  delega  ex  art. 3 del
d.lgs.lgt.  n. 98/1946  non  avrebbe  piu'  potuto  essere esercitata
prescindendo  dall'intervento della commissione paritetica e cio' per
varie considerazioni.
    Innanzitutto,  trattandosi  di  norma successiva, la disposizione
dello  statuto  costituzionalizzato  non  poteva  che prevalere sulla
precedente.
    In  secondo  luogo  come norma speciale sull'esercizio del potere
legislativo, avrebbe comunque prevalso sulla norma (appunto la delega
ex art. 3 primo comma d.lgs.lgt. n. 98/1946) di generale (e generica)
attribuzione  precedente.  In  terzo  luogo,  trattandosi  (sempre lo
statuto)  di  norma  costituzionale  avrebbe  comunque  inficiato per
illegittimita' costituzionale sopravvenuta (Corte cost. n. 1/1956) la
delega  precedente  e cio' quando anche si volesse riconoscere valore
costituzionale  al  d.l.lgt.  n. 151/1944 e al d.lgs.lgt. n. 98/1946,
poiche'  la  incostituzionalita'  sopravvenuta inficia anche le norme
costituzionali  precedenti (Corte cost. nn. 38/1951, 6/1970, 30/1971,
12/1972, 175/1973).
    10.  -  Peraltro,  qualora  si  volesse riconoscere al Governo la
possibilita'   di   agire   esclusivamente  in  base  all'art. 3  del
d.lgs.lgt.  n. 98/1946  o  in  base anche al disposto dell'art. 4 del
d.l.lgt.  n. 151/1944  sul  presupposto che ambedue i decreti abbiano
natura  costituzionale,  si solleva la questione di costituzionalita'
dei  predetti  articoli  in  rapporto  alla sopravvenuta disposizione
costituzionale  di  cui  all'art. 43  dello statuto siciliano da cui,
derivatamente,  discende  anche la incostituzionalita' degli articoli
1, 3, primo comma e da 4 a 9 del d.lgs. n. 654/1948 in quanto emanati
in  base  ad  una  disposizione  attributiva  di  potere  viziata  da
incostituzionalita' sopravvenuta.
    In  proposito  il Collegio non ignora che analoga questione venne
gia'   esaminata   dalla   Corte   costituzionale   nella   decisione
n. 455/1989.  In  quell'occasione,  effettivamente, venne prospettata
dal  Tribunale  amministrativo  regionale Sicilia sezione staccata di
Catania  la  questione  di costituzionalita' dell'art. 1 del d.lgs. 2
marzo   1948,   n. 142   che   estendeva   in   Sicilia  le  funzioni
dell'Avvocatura  dello  Stato in rapporto all'art. 43 dello Statuto e
la  Corte  al  punto  2  cosi'  si  espresse:  «Sul  piano formale va
innanzitutto  richiamata  la  particolare  natura dell'atto normativo
impugnato   in  relazione  al  profilo,  denunciato  come  eventuale,
concernente  la violazione del procedimento regolato dall'art. 43 del
r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455 (Statuto speciale siciliano).
    In  proposito  va ricordato che il decreto legislativo n. 142 del
1948  fu  adottato  dal  Governo  in virtu' dei poteri conferiti allo
stesso  dal  d.lgs.lgt.  16  marzo  1944, n. 151 (concernente la c.d.
«Costituzione  provvisoria»),  modificato  con il d.lgs.lgt. 16 marzo
1946,  n. 98  e  convertito,  con  l'entrata  in  vigore  della Carta
repubblicana,   dalla   XV   disposizione   transitoria.  Il  decreto
legislativo  in esame successivamente ratificato mediante la legge 17
aprile  1956,  n. 561  recepiva,  peraltro  con  lievi  varianti,  il
contenuto  di  una  disposizione in materia giurisdizionale che aveva
formato oggetto di specifico accordo tra Stato e regione, nell'ambito
dei  lavori  svolti  dalla  prima Commissione paritetica nominata, ai
sensi   dell'art. 43   r.d.lgs.  15  maggio  1946,  n. 455,  (Statuto
siciliano),  mediante  D.C.P.S.  9  ottobre  1946.  Con una relazione
inviata  all'Assemblea  regionale  il 24 maggio 1947 il presidente di
tale  commissione  trasmetteva,  infatti,  le  norme transitorie e di
attuazione   dello   Statuto   speciale   deliberate   dalla   stessa
commissione,  norme  raccolte  sotto  otto paragrafi, di cui uno (sub
lett.  f)  dedicato  agli «organi giurisdizionali». Nell'ambito della
disciplina concernente tale materia veniva, tra l'altro, prevista una
disposizione   (art. 30)   relativa   all'estensione  delle  funzioni
dell'Avvocatura  dello  Stato  all'Amministrazione  regionale, con la
conseguente  applicazione alla stessa della disciplina posta nel r.d.
n. 1611 del 1933 e nel r.d. n. 1612 del 1933.
    Non si puo' quindi dubitare del fatto che la norma impugnata, per
essere  stata adottata sulla base di un consenso maturato nell'ambito
della  commissione  paritetica di cui all'art. 43 del r.d.lgs. n. 455
del 1946, sia venuta ad assumere, almeno nella sostanza, la natura di
norma  attuazione  dello statuto speciale. Le diversita' solo formali
che  e'  dato riscontrare tra il testo del decreto legislativo n. 142
del  1948  e  quello  redatto  dalla commissione paritetica non sono,
d'altro  canto,  tali da intaccare la sostanziale identita' delle due
discipline,  mentre  possono trovare una spiegazione d'ordine storico
sia  nella  particolare  fase  di transizione istituzionale in cui la
prima  commissione  paritetica,  venne a concludere il proprio lavoro
sia  nel  fatto  che,  successivamente a tale conclusione, il decreto
legislativo n. 142 del 1948 venne emanato quando non risultava ancora
operante  la legge cost. 26 febbraio 1948, n. 2 (entrata in vigore il
10    marzo    successivo),    mediante    cui    fu    disposta   la
«costituzionalizzazione»  dello Statuto speciale siciliano. Pur nella
riconosciuta   natura   di   norma   di  attuazione  riferibile  alla
disposizione impugnata, non sussistono, dunque, elementi per ritenere
fondata  -  data l'esistenza di un accordo maturato nell'ambito della
commissione   paritetica   e  successivamente  recepito  in  un  atto
normativo del Governo - la censura di ordine procedurale formulata in
via ipotetica dall'ordinanza con riferimento all'art. 43 del r.d.lgs.
n. 455 del 1946 (Statuto speciale)».
    La  questione  tuttavia merita di essere formalmente riproposta e
stavolta non in via ipotetica ed eventuale, poiche', come risulta dai
precedenti  storici gia' ricordati, il mancato richiamo nel preambolo
del  d.lgs.  n. 654/1948  all'intervento della commissione paritetica
non  fu  dovuto  ad  una  mera  svista  o  ad una omissione puramente
formale,  ma  rappresento'  una  intenzionale  sconfessione del ruolo
della commissione paritetica stessa.
    Infatti,  va ancora una volta sottolineato, che nelle prime norme
di  attuazione  che  vennero  emanate  anche  in epoca anteriore alla
costituzionalizzazione  dello  statuto (10 marzo 1948) e cioe' quelle
del  25  marzo  1947,  n. 204  il  Governo  ha  legiferato  «viste le
conclusioni  della  Commissione  paritetica  di cui all'art. 43 dello
Statuto  della  Regione siciliana», laddove, a partire dalle norme di
attuazione  contenute  nel d.lgs.C.P.S. 10 maggio 1947, n. 307 e sino
al  d.P.R.  30  agosto  1975,  n. 635, l'intervento della commissione
paritetica  scompare  dal  procedimento  di formazione delle norme di
attuazione.  Di  conseguenza  non potrebbe ritenersi, in questo caso,
che  il  d.lgs.  n. 654/1948 sia anche esso una norma che «per essere
stata  adottata  sulla base di un consenso maturato nell'ambito della
Commissione  paritetica  di  cui  all'art. 43 del r.d.lgs. n. 455 del
1946  sia  venuta  ad  assumere,  almeno nella sostanza, la natura di
norma  di attuazione dello Statuto speciale» (Corte cost. n. 455/1989
cit.).  Invero, ad avviso del Collegio, cio' che e' emerso nel maggio
1947,  e  come  e'  storicamente  dimostrato,  e'  proprio il rifiuto
governativo  di tener conto dell'operato della commissione paritetica
e  sia in risposta ad analogo comportamento della commissione stessa.
Non  si  tratta  quindi  di  un elemento soltanto formale poiche', in
questo  caso, la forma assume contenuto sostanziale della volonta' di
prescindere, nel procedimento di formazione delle norme di attuazione
dello statuto siciliano, dall'intervento della commissione paritetica
pur    ritenuto    necessario    anche   in   epoca   precedente   la
costituzionalizzazione dello statuto.
    Cio'  peraltro,  si  spiega  se  si pone mente al testuale tenore
della  gia'  citata  nota  di  trasmissione datata 24 maggio 1947 dal
presidente  della commissione paritetica avv. Giovanni Guarino Amella
al  presidente  dell'assemblea  regionale  siciliana: «La commissione
all'inizio   dei  suoi  lavori  prese  in  esame  il  problema  della
determinazione dei propri poteri; e cioe' se suo compito in base alto
Statuto  fosse  quello  di  predisporre  un  semplice schema di norme
transitorie  e  di attuazione come una qualsiasi commissione di studi
legislativi,  o  non  fosse  piuttosto  l'altro di stabilire le norme
stesse in virtu' di una vera delega di potesta' normativa.
    Secondo   la   prima  soluzione  la  commissione  avrebbe  dovuto
limitarsi  a  proporre le norme che il Consiglio dei Ministri avrebbe
poscia  rielaborate e deliberate colla potesta' che ad esso Consiglio
spetta  nel normale processo formativo delle norme giuridiche emanate
dal potere esecutivo.
    Ma  la  commissione,  dietro  accurato studio della questione, ha
opinato per la seconda soluzione.
    Poiche'  l'art 43 dello statuto ha attribuito alla commissione la
potesta' di determinare le norme, cioe' di fissare in modo definitivo
con  la  propria  volonta'  la forma e il contenuto di tali norme, il
Consiglio  dei ministri non ha legalmente potere deliberativo intorno
ad esse, non potendosi ammettere che si voglia ridurre tale potere ad
una semplice approvazione obbligatoria di norme fissate da altri.
    Anche  la  composizione  della  Commissione  depone  nello stesso
senso,  poiche'  nessun valore avrebbe la pariteticita' di essa se le
sue  norme,  approvate  dai rappresentanti del Governo centrale e dai
rappresentanti  del  Governo  regionale,  potessero essere modificate
dagli organi del Governo centrale.
    Questo  concetto della delega normativa emerge, peraltro, in modo
concorde  da  tutti  i  lavori  preparatori  dello Statuto, e fu pure
accolto  esplicitamente dalla Giunta della Consulta nazionale, di cui
io facevo parte». (v. All. A pag. 87-88).
    Sotto  altro  profilo  va  rammentato  che nella citata decisione
n. 455/1989   la   Corte  costituzionale  respinse  la  eccezione  di
incostituzionalita'  in  rapporto all'art. 43 dello statuto siciliano
anche con la considerazione che il decreto legislativo in quella sede
impugnato  (d.lgs. 2 marzo 1948, n. 142) era stato emanato il 2 marzo
1948  e  quindi  otto  giorni prima della entrata in vigore (10 marzo
1948)  della  legge  costituzionale n. 2/1948 che convertiva in legge
costituzionale lo statuto siciliano.
    L'argomento,   all'evidenza,   non  puo'  essere  utilizzato  per
spiegare  la  vicenda in esame, dal momento che il d.lgs. n. 654/1948
e'  successivo  alla  costituzionalizzazione dello statuto siciliano.
Invero,  come  gia'  accennato,  non  solo  l'emanazione del d.lgs. 6
maggio  1948,  n. 654  e'  posteriore,  ma  lo  e'  anche la relativa
delibera  del  Consiglio  dei  ministri  che  venne assunta in data 8
aprite 1948.
    Neppure puo' essere utilizzato, in questa occasione, l'argomento,
pure contenuto nella decisione n. 455/1989, secondo cui sussisteva un
consenso  maturato  nell'ambito della commissione paritetica, di modo
che   tra  il  testo  del  decreto  legislativo  n. 142/1948  (allora
considerato) e quello redatto dalla commissione paritetica esistevano
«diversita'  solo formali». Nella specie, se si esaminano le prime ed
uniche  norme  deliberate dalla anzidetta prima commissione, dedicate
agli  organi giurisdizionali e rubricate alla sezione f) ci si avvede
che  la sezione stessa e' articolata in due titoli: il primo dedicato
agli  organi  centrali  giurisdizionali  e di controllo ed il secondo
dedicato alla giurisdizione amministrativa di primo grado.
    Nel  primo  titolo,  dedicato  agli organi centrali, mentre viene
previsto il decentramento della Corte di cassazione, del Consiglio di
Stato,  della  Corte  dei  conti, del Tribunale superiore delle acque
pubbliche,   della   Commissione   centrale  delle  imposte  e  della
Commissione  censuaria  centrale,  non  esiste, per nessuno di questi
organi  centrali, alcun accenno ad una composizione diversa da quella
ordinaria poiche' le norme cosi' disponevano:
    «Sezioni regionali di organi centrali.
    Art.  1.  -  Sono  istituiti  in Sicilia agli effetti dell'art 23
dello statuto della regione:
        1)   Una   sezione  civile  ed  una  penale  della  Corte  di
cassazione;
        2)   Una   sezione  consultiva  ed  una  giurisdizionale  del
Consiglio di Stato;
        3) Una sezione del tribunale superiore delle acque pubbliche;
        4)  Una  sezione  della Corte dei Conti che esercita anche le
funzioni di controllo;
        5) Una sezione per le imposte dirette ed una per le indirette
della commissione centrale delle imposte;
        6) Una sezione della commissione censuaria centrale.
    Art.  2.  -  Le  attribuzioni  della  Corte di appello di Roma in
materia  di  usi civici sono devolute, per la Sicilia, ad una sezione
della sezione della Corte d'appello di Palermo.
    Art.  3. - Alla costituzione delle sezioni previste dai numeri 1,
2,  3,  4  dell'art. 2  ed  alla  destinazione del relativo personale
provvederanno  i  competenti organi dello Stato entro sessanta giorni
dalla pubblicazione del presente decreto.
    Gli  oneri  relativi  alle  sezioni  predette sono a carico dello
Stato».
    Veniva invece istituita una giurisdizione amministrativa di primo
grado definita Consiglio regionale di giustizia amministrativa e solo
per questa era prevista una speciale composizione come segue:
        «Del Consiglio regionale di giustizia amministrativa.
    Art.  13.  - Fino a quando la Regione non istituira' nuovi organi
di  giustizia  amministrativa, di 1° grado, funzionera' in Sicilia un
Consiglio regionale di giustizia amministrativa con sede in Palermo e
sezioni distaccate a Caltanissetta, Catania ed a Messina.
    Altre sezioni del Consiglio predetto possono essere istituite con
legge della regione.
    Art. 14. - Il Consiglio e' composto:
        1) del Presidente del Tribunale di Palermo che lo presiede;
        2)  di  un  rappresentante  del  pubblico Ministero presso lo
stesso Tribunale;
        3)   di  un  funzionario  di  grado  non  inferiore  all'VIII
dell'amministrazione civile dell'interno;
        4)  di  un  funzionario di grado non inferiore all'VIII della
locale intendenza di finanza;
        5)  un  membro  scelto  fra  docenti  universitari di materie
giuridiche,  avvocati  del  libero  foro  particolarmente versati nel
diritto pubblico.
    Alla  nomina  dei  membri del Consiglio predetto e dei rispettivi
membri  supplenti  si  provvede  con  decreto  del  Presidente  della
Regione, sentita la Giunta e su designazione:
        a)  del primo presidente della Corte d'appello di Palermo per
il presidente di sezione del tribunale di cui al n. 1;
        b)  del  procuratore generale presso la Corte d'appello per i
membri di cui al n. 2;
        c)  dell'assessore  preposto  ai  servizi  dell'interno per i
membri di cui al n. 3;
        d) dell'assessore alle finanze per i membri di cui al n. 4;
        e) del presidente della sezione giurisdizionale regionale del
Consiglio di stato per i membri di cui al n. 5;
    I  membri  predetti  durano  in  carica fino a che la regione non
disciplinera'    altrimenti    l'ordinamento    della   giurisdizione
amministrativa  di  primo  grado  e  in ogni caso non oltre i quattro
anni». (v. All. A pag. 88-108).
    E'  pertanto  evidente come tra il Governo e la prima commissione
paritetica  non  fosse  maturato nessun tipo di accordo al riguardo e
come   il   testo   del  d.lgs.  n. 654/1948  non  rispecchi  nemmeno
lontanamente le conclusioni cui era pervenuta la commissione stessa.
    11.  -  Ne  puo' ritenersi che i vizi di costituzionalita' dianzi
evidenziati siano stati successivamente sanati per effetto del d.P.R.
5  aprile  1978,  n. 204  il  quale  ha  apportato  modificazioni  ed
integrazioni al d.lgs. n. 654/1948.
    Tale  d.P.R.,  infatti, e' stato bensi emanato in base alle norme
predisposte da una successiva commissione paritetica ex art. 43 dello
statuto  siciliano,  ma  non  ha  affatto  novato come fonte l'intero
d.lgs. n. 654/1948.
    Infatti,   il   d.P.R.   n. 204/1978   espressamente   intitolato
«modifiche  e  integrazioni  al d.P.R. n. 654/1948» e' stato adottato
per   eliminare  il  vizio  di  costituzionalita'  evidenziato  dalla
decisione della Corte costituzionale n. 25/1976 circa la possibilita'
di  riconferma  dei membri laici del C.G.A. possibilita' insita nella
originaria stesura dell'art. 3 del d.lgs. n. 654/1948.
    Invero,  l'art. 2  del  d.lgs.  n. 654/1948 e il testo sostituito
dall'art. 1  del  d.P.R.  n. 204/1978  differiscono  soltanto  per le
composizioni  del  C.G.A  in  sede consultiva e giurisdizionale, rese
necessarie  per superare difficolta' nella formazione dei collegi. La
modifica  adeguatrice  alla  pronuncia  della  Corte  e' stata invece
apportata al secondo comma dell'art. 3 e cio' con l'art. 2 del d.P.R.
n. 204/1978.  Gli  ultimi  2 articoli del predetto d.P.R. n. 204/1978
contengono  poi soltanto una norma transitoria (art. 3) e la clausola
della entrata in vigore (art. 4).
    Sono  rimasti  quindi  inalterati,  sia  nel testuale tenore, sia
nella  derivazione  dalla fonte originaria, sicuramente l'articolo 1,
l'art. 3  primo  comma,  nonche'  gli  articoli seguenti da 4 a 9 del
d.lgs. n. 654/1948.
    Peraltro,  atteso che l'articolo 1 del d.lgs. 654/1948 dispone la
istituzione dell'organo, mentre i successivi articoli ne disciplinano
la  composizione  e  il funzionamento, una eventuale dichiarazione di
incostituzionalita'  dell'art. 1  non  potrebbe  lasciare  in vita le
restanti  norme,  che dovrebbero conseguenzialmente essere dichiarate
illegittime ai sensi dell'art. 27 della legge 11 maggio 1953, n. 87.
    Concludendo   sui  precedenti  punti  da  5  a  10  vanno  poste,
nell'ordine ed in rispettivo subordine (su tale possibilita' v. Corte
cost.  188/1995  e,  da  ultimo Corte cost. ord. 14/2003) le seguenti
questioni di costituzionalita':
        A) questione di costituzionalita' dell'art. 3 primo comma del
d.lgs.lgt.  n. 98/1946  con  riferimento  ai  principi costituzionali
concernenti  le deleghe di poteri anteriori alla Costituzione, e cio'
per  indeterminatezza  delle  materie  di  delega,  da  cui discende,
derivatamente,  la  incostituzionalita'  degli artt. 1 e seguenti del
d.lgs. n. 654/1948;
        A1)  in  subordine, ove si ritenga che il d.lgs. n. 654/1948,
come  risulta  nel  preambolo  dal solo richiamo alla XV disposizione
transitoria,  sia  stato  emanato  soltanto  in  base  all'art. 4 del
d.l.lgt.  n. 151/1944,  va posta la questione di costituzionalita' di
tale  norma,  e,  derivatamente  degli  artt. 1 e seguenti del d.lgs.
n. 654/1948 negli stessi termini esposti sub A;
        A2)  in  subordine,  ove si ritenga che il d.lgs. n. 654/1948
sia  stato  emanato  in  base  al  combinato disposto dell'art. 4 del
d.l.lgt.  n. 151/1944  e  dell'art. 3  primo  comma del d.lgs.lgt.n.
98/1946,  va  posta  la  questione di costituzionalita' di ambedue le
disposizioni anzidette e, derivatamente, degli artt. 1 e seguenti del
d.lgs. n. 654/1948 negli stessi termini esposti sub A;
        A3)  in  ulteriore  subordine,  qualora si volesse attribuire
natura   costituzionale  al  d.l.lgt.  n. 151/1944  e  al  d.lgs.lgt.
n. 98/1946,  va  posta  la  questione di costituzionalita' del d.lgs.
n. 654/1948,  per  eccesso  di  potere  in  rapporto  all'art. 4  del
d.l.lgt.  n. 151/1944, e per eccesso di delega in rapporto all'art. 3
primo  comma  del  d.lgs.lgt.  n. 98/1946 e cio' in quanto emanato in
materia  costituzionale  di  competenza dell'Assemblea costituente e,
derivatamente degli articoli 1 e seguenti del d.lgs. n. 654/1948;
        B)  va  posta  poi  la  questione  di costituzionalita' degli
artt. 1,  3  primo comma, 4, 5, 6, 7, 8, 9, del d.lgs. n. 654/1948 in
rapporto all'art. 43 dello statuto della Regione siciliana convertito
in  legge  costituzionale n. 2/1948 in quanto per la sua adozione non
e'  stato  osservato  il  procedimento previsto dal suddetto art. 43.
Resta  inteso, anche ai fini della rilevanza, che la stessa questione
non  puo' porsi nei confronti dell'art. 2 e dei commi secondo e terzo
dell'art. 3  in  quanto  sostituiti dal d.P.R. n. 204/1978 rispettoso
del   procedimento   di   cui  all'art. 43  dello  statuto.  Peraltro
l'eventuale  accoglimento  della  questione  farebbe  venir  meno  la
istituzione  dell'organo  (art. 1); la nomina dei componenti (art. 3,
primo   comma),   le   competenze,   le  procedure  e  le  norme  sul
funzionamento  dell'organo  (artt. da 4 a 9). Ne' dovrebbe discendere
ex  art. 27  legge  n. 87/1953  la incostituzionalita' derivata anche
delle norme (art. 2) sulla composizione.
        B1)  in  subordine,  ove si ritenga che il d.lgs. n. 654/1948
sia  stato  emanato  in  base  all'art. 4 del d.l.lgt. n. 151/1944 ed
all'art. 3, primo comma del d.lgs.lgt. n. 98/1946, ed a tali norme si
attribuisca   natura  costituzionale,  si  solleva  la  questione  di
costituzionalita'  delle  disposizioni  anzidette  in  rapporto  alla
sopravvenuta  norma  costituzionale  di  cui all'art 43 dello statuto
siciliano  e, derivatamente degli artt. 1, 3 primo comma, 4, 5, 6, 7,
8, 9, del d.lgs. 654/1948 con la precisazione di cui al punto B.
    Si  ribadisce  che  la rilevanza delle anzidette questioni emerge
dal  fatto  che  il  dubbio  di  costituzionalita' concerne la stessa
esistenza dell'organo chiamato a giudicare (Corte cost. n. 25/1976).
    Peraltro  l'eventuale  dichiarazione di incostituzionalita' delle
norme  denunciate  non  determinerebbe  il  venir meno in Sicilia del
grado  di  appello  nella  giustizia  amministrativa,  ma soltanto la
sostituzione  al  C.G.A.  di  una  sezione  del  Consiglio  di  Stato
localizzata in Sicilia conformemente alla previsione statutaria.
    12.   -   Passando   ad   altro  ordine  di  considerazioni  piu'
specificatamente  attinenti  al  contenuto del d.lgs. n. 654/1948, si
premette  in  via generale che anche le leggi costituzionali (come ad
esempio   gli  statuti  regionali)  sono  soggette  al  sindacato  di
legittimita'  costituzionale  (v.  Corte  cost.  n. 38/1957 sull'alta
Corte  siciliana  e  n. 6/1970  sulla  responsabilita'  penale avanti
all'alta Corte del presidente della regione).
    A  fortiori sono denunciabili per incostituzionalita' le norme di
attuazione  degli  statuti delle regioni a statuto speciale le quali,
sotto  questo  profilo,  sono state ritenute sullo stesso piano delle
leggi  statali  (Corte cost. 14 luglio 1956 nn. 14, 15, 16; 16 luglio
1956, n. 20; 19 luglio 1956, n. 22; 26 gennaio 1957, n. 15; 18 maggio
1959,  n. 30,  etc.)  e  cio'  ancorche' le norme di attuazione degli
statuti speciali operino ad un livello superiore a quello della legge
statale (Corte cost. 18 maggio 1959, n. 30).
    Per  quanto  poi concerne il contenuto delle norme di attuazione,
va  rilevato  che  la giurisprudenza della Corte costituzionale (dec.
20/1956  cit.)  da un lato ha precisato come non siano da qualificare
alla  stregua  di  norme  di mera esecuzione dello statuto regionale,
come se si trattasse di semplici regolamenti esecutivi. Al contrario,
esse possono contenere norme primarie ancorche' di «attuazione» degli
statuti e quindi rivestono carattere legislativo.
    Da  tale  carattere  discende  la  necessita'  che  non  siano in
contrasto ne' con la Costituzione, e neppure con lo statuto speciale,
ma debbono, semmai, essere «in aderenza» al medesimo.
    Il concetto di «aderenza» puo' essere poi sottoposto al controllo
della  Corte  costituzionale con riferimento al contenuto delle norme
di attuazione e cioe' verificando se le stesse siano contrarie o meno
allo statuto.
    Al  di la' delle ipotesi di norme di attuazione «contra statutum»
la Corte costituzionale (sempre nella citata decisione n. 20/1956) si
e' posta il problema delle norme di attuazione praeter legem, o anche
apparentemente secundum legem, risolvendolo testualmente come segue.
    «Se poi le norme di attuazione siano praeter legem, nel senso che
abbiano  integrato  le disposizioni statutarie od abbiano aggiunto ad
esse  qualche cosa che le medesime non contenevano, bisogna vedere se
queste  integrazioni  od  aggiunte  concordino  innanzi  tutto con le
disposizioni  statutarie  e col fondamentale principio dell'autonomia
della Regione, e se inoltre sia giustificata la loro emanazione dalla
finalita'  dell'attuazione  dello Statuto. Laddove, infine, si tratti
di  norme  secundum  legem,  e' ovvio che se esse, nel loro effettivo
contenuto e nella loro portata, mantengano questo carattere, non e' a
parlarsi  di  illegittimita' costituzionale, ma sarebbe pur sempre da
dichiararsene  la illegittimita' nel caso che esse, sotto l'apparenza
di  norme secundum legem, sostanzialmente non avessero tal carattere,
ponendosi  in  contrasto con le disposizioni statutarie e non essendo
dettate dalla necessita' di dare attuazione a queste disposizioni».
    Questo insegnamento e' stato mantenuto fermo fino ad ora e, sullo
specifico  punto,  la  decisione  n. 20/1956  e'  stata costantemente
richiamata  dalla  successiva  giurisprudenza  costituzionale  (v. da
ultimo Corte cost. n. 53/2001).
    13.  -  Orbene,  se  si  esaminano  le disposizioni dello statuto
siciliano  e  le  norme  di  attuazione  in  materia di giurisdizione
amministrativa  si evince come queste ultime siano di segno contrario
rispetto alle previsioni statutarie e comunque non in aderenza con la
lettera e con lo spirito delle previsioni statutarie stesse.
    L'art. 23   primo   comma   dello   statuto,  infatti  stabilisce
semplicemente  che gli organi giurisdizionali centrali dovranno avere
in  Sicilia  le  rispettive  sezioni  per  gli  affari concernenti la
Regione.
    Nello  statuto  non  e'  contenuto  alcun  accenno, come tutta la
dottrina   costituzionalistica   dell'epoca   non   ha   mancato   di
sottolineare,  alla composizione dei collegi giudicanti e neppure per
i  collegi  chiamati  a  decidere  in  sede consultiva e di controllo
(art. 23 secondo comma).
    L'art. 2  del  d.lgs.  654/1948  non  si  limita  a dettare norme
attuative   o   che  comunque  costituiscano  la  logica  e  naturale
espansione  del  principio  statutario (organizzazione degli uffici e
trasferimento  di  personale  per  consentire  la presenza in loco di
sezioni  delle  giurisdizioni superiori per gli affari regionali), ma
modifica   la   struttura   ordinaria   dell'organo   giurisdizionale
introducendo   un   principio  del  tutto  estraneo  allo  statuto  e
contrario,  come  verra'  in  seguito  chiarito,  a  precise  norme e
principi di rango costituzionale.
    D'altra   parte   e'  del  tutto  evidente  che  la  composizione
dell'organo  giurisdizionale  in modo diverso dall'ordinario non puo'
essere  considerata, nel silenzio dello statuto al riguardo, come una
necessaria integrazione e specificazione della norma statutaria.
    La  citata  decisione  della  Corte  n. 20  del  1956, e' precisa
nell'affermare  che  la  legittimita'  costituzionale  delle norme di
attuazione e subordinata alla duplice sussistenza di due requisiti.
    Innanzitutto  occorre  la  concordanza  tra norme di attuazione e
statuti  (e  nella specie ictu oculi tale concordanza non esiste); in
secondo  luogo  le  norme  di  attuazione debbono essere giustificate
dalla finalita' di dare attuazione allo statuto.
    Neppure tale ultimo requisito sussiste nella specie.
    A proposito di quest'ultimo la Corte ha affermato che «l'esigenza
delle  norme  di  attuazione  si  manifesta  nel bisogno di dar vita,
nell'ambito   delle   ben   definite   autonomie  regionali,  ad  una
organizzazione  dei pubblici uffici e delle pubbliche funzioni che si
armonizzi    con    l'organizzazione    dello    Stato    nell'unita'
dell'ordinamento  giuridico»  (dec. 14/1962, 30/1968, 136/1969) ed ha
ribadito  tale  convincimento  anche  nella  decisione 12 luglio 1984
n. 212  nella  quale  ha  anche  precisato  che  «le  finalita' della
attuazione  vanno  accertate nel contesto delle autonomie regionali e
nei principi costituzionali».
    Nella  citata  decisione  n. 212/1984 la Corte, nel dichiarare la
illegittimita'   costituzionale  della  istituzione  di  una  sezione
giurisdizionale  e  delle  Sezioni  unite  della  Corte  dei conti in
Sardegna,  ha  argomentato  con  il fatto che ne' dalla lettera dello
statuto  regionale,  ne' dal suo spirito, ne' dalle sue finalita' era
in  alcun  modo ricavabile che si fosse inteso prevedere, neppure per
implicito, Sezioni di organi centrali neppure nei limiti degli affari
concernenti  la  Regione  e cio' a differenza di quanto stabilito per
altre  regioni, richiamando appunto l'art. 23 dello statuto siciliano
e l'art. 90 dello statuto del Trentino-Alto Adige.
    Al  riguardo  tuttavia  non  puo' non sottolinearsi la differenza
fondamentale  tra  lo  statuto  siciliano  e quello del Trentino-Alto
Adige  i  quali,  ai  fini  in  esame, non possono porsi sullo stesso
piano.
    Infatti,  mentre  lo  statuto  siciliano  si  limita  alla pura e
semplice  localizzazione in Sicilia delle sezioni delle giurisdizioni
superiori,  lo  statuto  del  Trentino-Alto  Adige  e' di ben diverso
contenuto.
    Innanzitutto,   l'articolo   90   del  Testo  Unico  delle  leggi
costituzionali  di  cui  ad  d.P.R.  31 agosto 1972 n. 670 istituisce
espressamente  il  T.R.G.A.  e  rinvia  espressamente  alle  norme di
attuazione per il suo ordinamento. Inoltre, il successivo articolo 91
disciplina    espressamente    la    composizione    della    sezione
giurisdizionale  per  la provincia di Bolzano del T.R.G.A. cosi' come
prevede  espressamente  che  la  meta'  dei  componenti la Sezione e'
nominata  dal  Consiglio  provinciale  di  Bolzano  (art. 91  secondo
comma).
    Le  norme  di  attuazione  dello  statuto  del Trentino (d.P.R. 6
aprile  1984  n. 426)  di  conseguenza,  essendo a cio' espressamente
delegate  dallo  statuto,  disciplinano  le  modalita'  di scelta dei
magistrati  cosiddetti laici individuando le categorie tra cui questi
debbono  essere  scelti, il ruolo in cui debbono essere collocati, le
garanzie  che  li  assistono,  lo  stato  giuridico  e il trattamento
economico (artt. 2, 4, 5, d.P.R. 6 apriie 1984 n. 426). In proposito,
nella  decisione  137/1998  la  Corte costituzionale ha espressamente
rilevato  come  la  specialita'  del  T.R.G.A.  risieda  nella delega
contenuta  nell'art. 90  dello statuto speciale da cui legittimamente
discendono   le   norme   di  attuazione  adottate  con  lo  speciale
procedimento della commissione paritetica.
    Anche  il  d.P.R.  654/l948 di attuazione dello statuto siciliano
contiene,  all'art. 2,  norme  di  contenuto  analogo  alle  norme di
attuazione  dello  statuto  del  Trentino,  ma  con  la  fondamentale
differenza che lo statuto siciliano ne' istituisce un organo speciale
e  neppure delega il suo ordinamento alle norme di attuazione. Nessun
accenno  - ripetesi  -  ne' esplicito ne' implicito e contenuto nello
statuto siciliano circa la istituzione di un organo giurisdizionale a
speciale  composizione  per  la  Regione siciliana e neppure circa la
necessita'  che  parte  del  collegio  giudicante  sia  costituito da
magistrati laici di designazione regionale.
    Ne' potrebbe sostenersi che la presenza in Collegio di magistrati
laici  di  designazione  regionale  costituisca  la logica e naturale
conseguenza,  se  non  della  lettera,  almeno  dello spirito e delle
finalita' autonomistiche dello statuto siciliano.
    Un  conto  infatti e' la localizzazione di una funzione, un altro
e'  la  organizzazione  della  funzione.  Sono  due aspetti del tutto
diversi   che   il   legislatore   costituzionale  puo'  disciplinare
diversamente  a  seconda  dei casi cosi' come dimostra lo statuto del
Trentino-Alto   Adige  (istituzione  espressa  dell'organo  speciale,
delega espressa alle norme di attuazione, localizzazione e previsione
di   giudici   laici),   quello   della   Regione  Sardegna  (nessuna
disposizione    sulla    giurisdizione)   e   della   Sicilia   (solo
localizzazione degli organi ordinari).
    14.   -   D'altra   parte,   la   riprova  che  le  deroghe  alla
organizzazione   giurisdizionale  nazionale  sono  e  debbono  essere
contenute negli statuti si rinviene nello stesso statuto siciliano.
    Innanzitutto   va   osservato   che   quando  si  e'  voluta  una
composizione mista, lo statuto siciliano lo ha espressamente sancito,
come  risulta  dal  confronto  dell'art. 23 con l'art. 24 primo comma
secondo  cui  i  membri  dell'Alta Corte dovevano essere nominati «in
pari numero dalle Assemblee legislative dello Stato della regione».
    Peraltro  un  ulteriore  argomento  si ricava dal testuale tenore
dello  stesso  articolo  23.  Invero, l'articolo 23 terzo comma dello
statuto  siciliano  si da' carico di precisare che i magistrati della
Corte  dei  conti  sono  nominati d'accordo dal Governo dello Stato e
dalla regione.
    Il  legislatore  costituzionale  ha  talmente avvertito l'effetto
derogatorio  alla  normale  organizzazione  del  giudice contabile da
ritenerne necessaria la specificazione nello statuto.
    Orbene,  di  fronte  a tale espressa specificazione dello statuto
per  una  delle  magistrature  superiori  non  si  vede come si possa
sostenere  che  invece  l'assoluto  silenzio dello stesso legislatore
circa  le altre possa essere interpretato come una implicita delega a
disciplinare,  in  sede di attuazione, la nomina, la composizione, la
stessa  struttura  del  giudice  amministrativo in una organizzazione
giurisdizionale del tutto difforme da quella ordinaria.
    La  Corte  costituzionale  ha  affermato  chiaramente  che, anche
laddove  gli statuti prevedano in via generica la emanazione di norme
di  attuazione,  sarebbe  illogico ritenere che queste ultime debbano
essere emanate per tutte le materie statutarie perche' in tal modo si
perverrebbe  «all'assurdo  di  giudicare che esse sono state previste
anche  in  caso  in cui il testo statutario avesse avuto in se' piena
completezza  e non avesse reclamato integrazioni o specificazioni. In
tali  ipotesi  le norme di attuazione non potrebbero mai emanarsi per
mancanza di oggetto» (Corte cost. 10 luglio 1969 n. 136).
    15. - Neppure potrebbe sostenersi, sotto altro profilo, che nella
previsione  statutaria  siciliana  limitata  alla  localizzazione sia
implicita la disciplina della organizzazione giurisdizionale.
    Al  riguardo  la  Corte costituzionale ha sempre affermato che in
materia  di  ordinamento  giudiziario  esiste, ex art. 108 Cost., una
riserva   di   legge  statale  (Corte  cost.  n. 4/1956,  n. 76/1995,
n. 134/1998, n. 86/1999).
    E'  stato anche affermato che il disegno del costituente e' stato
«di  procedere  bensi'  per  determinate  materie ad un decentramento
istituzionale  nel  campo  legislativo  ed  amministrativo  a  favore
dell'Ente Regione, ma di escludere dal decentramento tutto il settore
giudiziario  e  di  sottrarlo,  quindi,  a qualsiasi competenza delle
regioni,  anche  di  quelle  a statuto speciale dettando cosi' uno di
quei    principi   dell'ordinamento   giuridico   dello   Stato   che
costituiscano  limite  insuperabile  all'attivita'  legislativa delle
regioni»    (Corte   costituzionale   n. 4/1956,   v.   anche   Corte
costituzionale n. 43/1982).
    In  questa  ottica  appare  oltremodo  significativa la decisione
n. 150/1993   in   cui  si  trattava  di  stabilire  la  legittimita'
costituzionale della legge statale 374/1991 istitutiva del giudice di
pace  asseritamente lesiva delle norme statutarie della Regione Valle
d'Aosta  disciplinanti  la  istituzione degli uffici di conciliazione
(art. 41 legge cost. 4/1948).
    In  quella  occasione  la Corte ha affermato «Il Titolo VII dello
Statuto di autonomia della Valle d'Aosta, rubricato come "Ordinamento
degli  uffici  di  conciliazione",  prevede  nella  sua  unica  norma
(l'art. 41)  determinate  attribuzioni,  di natura amministrativa, in
favore  del  presidente  della  giunta,  nonche' della giunta stessa,
attribuzioni   concernenti   sia   l'istituzione   degli   uffici  di
conciliazione  (che  e'  disposta  con  decreto  del presidente della
giunta  deliberazione  di  questa);  sia  la nomina, la decadenza, la
revoca   e  la  dispensa  dall'ufficio  dei  giudici  conciliatori  e
viceconciliatori  (che  e'  disposta  dal  presidente della giunta in
virtu'  di delegazione del Presidente della Repubblica); sia, infine,
l'esercizo  delle  funzioni  di  cancelliere  e  di  usciere  (che e'
autorizzato anch'essa dal presidente della giunta).
    Orbene,  il  significato  limitativo espresso dal tenore testuale
della  previsione  statutaria  riferentesi esclusivamente - sia nella
rubrica del titolo, sia nella formulazione della sua unica norma - al
giudice  conciliatore  ed al suo ufficio, e non al «giudice onorario»
in generale, trova conforto non solo nella considerazione che la piu'
ampia figura, appunto, del «giudice onorario» - ricomprendente in se'
quella   del   «giudice   conciliatore»   gia'   all'epoca  esistente
nell'ordinamento  giudiziario  -  non  poteva  non essere presente al
legislatore  costituente,  essendo  la Carta costituzionale (che tale
figura «generale» conosce ed ammette: art. 106, secondo comma, Cost.)
antecedente,  sia  pure  di poco, alto Statuto di autonomia, ma trova
conferma anche in altre vane e concorrenti ragioni.
    La  norma  statutaria,  per  il  suo contenuto precettivo, incide
sull'ordinamento   giudiziario   e   sullo  «status»  di  un  giudice
dell'ordine giudiziario.
    Sotto  il primo profilo (incidenza sull'ordinamento giudiziario),
va  innanzi  tutto ribadito che in tale materia c'e' riserva di legge
(art.  108  Cost.)  e  questa  Corte ha gia' piu' volte puntualizzato
trattarsi  di riserva di legge statale, con conseguente esclusione di
qualsivoglia interferenza della normativa regionale (sent. n. 767 del
1988,  sent.  n. 43  del  1982,  sent. n. 81 del 1976, sent. n. 4 del
1956).  Deve  quindi ripetersi che alla legge statale «compete in via
esclusiva  disciplinare  in  modo  uniforme  per  l'intero territorio
nazionale  e nei confronti di tutti (art. 3 Cost.) i mezzi e le forme
di  tutela  giurisdizionale  dei  diritti e degli interessi legittimi
(artt. 24, primo comma, e 113 Cost.)» (sent. n. 81 del 1976, citata).
Tale    riserva    abbraccia   sia   la   disciplina   degli   organi
giurisdizionali,  sia  la  normativa processuale, anch'essa riservata
esclusivamente alla legge statale (sent n. 505 del 1991, sent. n. 489
del 1991).
    Come  la legge processuale (secondo il disegno costituzionale del
nostro   ordinamento),   cosi   anche   la   normativa  degli  organi
giurisdizionali  non  puo' che essere uniforme su tutto il territorio
nazionale,  dovendo  a  tutti  essere  garantiti  pari  condizioni  e
strumenti  nel  momento  di  accesso  alla  fruizione  della funzione
giurisdizionale,  il  cui  esercizio  e  imprescindibilmente  neutro,
perche'  insensibile  alla localizzazione in questa o quella regione,
oltre che neutrale, perche' svolto in posizione di terzieta' rispetto
ai poteri dello Stato, non escluso il potere esecutivo delle Regioni.
    Pertanto   le   attribuzioni  regionali  in  materia  di  giudice
conciliatore,  in  quanto  incidenti in materia soggetta a riserva di
legge  statale, hanno carattere di specialita' sicche' l'art 41 della
legge  cost.  n. 4  del  1948  (Statuto)  si  pone come deroga a tali
principi,  consentita  soltanto  dal rango costituzionale della norma
stessa;    deroga    doppiamente    eccezionale   perche'   contempla
un'interferenza  regionale in materia di esclusiva competenza statale
e  perche' tale interferenza nell'ordinamento giudiziario si realizza
a  livello non gia' di legge regionale, bensi' esclusivamente di atti
dell'esecutivo.  Tale  connotazione  di  eccezionalita'  non puo' che
confinare  la  norma  statutaria  nel ristretto ambito del suo tenore
letterale sicche' in Valle d'Aosta e' solo il «giudice conciliatore»,
e  non  anche il «giudice onorario» ex art 106, secondo comma, Cost.,
ad  essere  in  qualche  misura  diverso dal giudice conciliatore sul
restante territorio del Paese.
    Il  rilevato  carattere  derogatorio  si appalesa poi ancora piu'
marcato  se  si  considera il contenuto della norma statutaria, che -
seppur  su  delegazione del Presidente della Repubblica - prevede una
serie di provvedimenti di competenza dell'esecutivo della regione che
incidono   in   radice   sullo   «status»  di  giudice  conciliatore,
condizionandone  la  nomina,  la  decadenza, la revoca e la dispensa.
Anche sotto questo secondo profilo giova richiamare la giurisprudenza
di  questa  Corte  che  ha  evidenziato  come  la riserva di legge in
materia   di   ordinamento   giudiziario   e'   posta   «a   garanzia
dell'indipendenza   della   magistratura»   (sent  n. 72  del  1991);
indipendenza  che  costituisce  valore  centrale  per  uno  Stato  di
diritto,  sicche'  l'eventuale  difetto  di presidi a sua difesa puo'
ridondare  in  vizio  di  incostituzionalita'  (sent  n. 6 del 1970);
indipendenza  che  e'  assicurata in generale, ma anche con specifico
riferimento  al  giudice  onorario,  dalle  competenze  del Consiglio
superiore della magistratura, sicche' anche per la nomina dei giudici
di  pace e' in generale prevista la previa deliberazione dello stesso
(art. 4 della legge n. 374 del 1991).
    Quindi,  anche  sotto  questo  profilo  dell'esigenza di garanzia
dell'indipendenza  del  giudice, la previsione, contenuta nell'art 41
della legge cost. 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto Valle d'Aosta), del
potere (seppur delegato) del presidente della giunta di dichiarare la
decadenza  e  la  dispensa del giudice conciliatore, e soprattutto il
potere  di revocarne la nomina, denuncia il suo carattere singolare e
del   tutto   eccezionale,   nella   specie   consentito   dal  rango
costituzionale della norma stessa».
    Il  principio  ricavabile  dalla anzidetta decisione sembra molto
chiaro  nel  senso che la deroga alla riserva costituzionale di legge
statale   in   materia   di   giurisdizione  e'  consentita  solo  se
espressamente prevista da una norma speciale di rango costituzionale,
che   le   disposizioni   degli   statuti   speciali  in  materia  di
giurisdizione  hanno  carattere  eccezionale  e  che  quindi, come si
esprime  la  Corte  «tale connotazione di eccezionalita' non puo' che
confinare  la  norma  statutaria  nel suo ristretto ambito del tenore
letterale».
    16.  -  Se  cio' e' esatto, se ne deve concludere che la norma di
attuazione   dello   statuto   siciliano   ha  previsto  un  istituto
eccezionale,  quale  la possibilita' di nomina di magistrati laici al
di   fuori   di  qualsiasi  previsione  statutaria,  in  una  materia
costituzionalmente  riservata  alla  disciplina  statale  e  pertanto
derogabile solo per espressa previsione di norma equiordinata e cioe'
di rango costituzionale.
    Tale  natura  non  e'  riconosciuta  -  ripetesi  - alle norme di
attuazione degli statuti delle regioni a statuto speciale.
    Con  riferimento  al  d.lgs.  654/1948 la Corte costituzionale ha
affermato  «che  il  predetto  decreto legislativo ha valore di legge
ordinaria» (Corte cost. n. 61/1975).
    Inoltre,  piu'  in  generale,  la  Corte  ha affermato che «hanno
dunque  valore di legge, e per alcuni statuti, come per quello sardo,
e'  prevista  la  loro  compilazione  da  parte  di  una  commissione
paritetica  e  occorre  sentire il parere di alcuni organi regionali.
Sia  per ragioni formali che per ragioni sostanziali, esse si pongono
dunque su un piano diverso e superiore rispetto alle leggi da emanare
nelle  materie  da  esse  regolate; ma non per questo si puo' ad esse
attribuire  il  carattere  di  leggi  costituzionali» (v. Corte cost.
n. 30/1959 cit.).
    E'  stato  infatti  osservato  «esse sono, per definizione, norme
dettate per «l'attuazione» di norme costituzionali. Se esse risultano
conformi   alla   norma   costituzionale  (secundum  legem),  nessuna
questione  puo'  essere sollevata; ma se, al contrario, si dimostrano
in  contrasto  con  la  norma  costituzionale, della quale dovrebbero
rendere  possibile l'attuazione (contra legem), non si comprende come
e  perche'  potrebbero  sottrarsi  ad una pronuncia di illegittimita'
costituzionale.  Piu'  delicati possono essere i casi, nei quali, pur
non prospettando un manifesto contrasto, la norma di attuazione ponga
un  precetto  nuovo, non contenuto neppure implicitamente nella norma
costituzionale  (praeter  legem): casi, che mal si prestano ad essere
classificati preventivamente in via generale e che possono richiedere
piuttosto  decisioni  di  specie. E' chiaro, comunque, che ai fini di
tali  decisioni,  non si potra' prescindere dal criterio fondamentale
stabilito dallo stesso costituente (art. 2 della legge costituzionale
9  febbraio  1948, n. 1) che ha affidato alla Corte costituzionale il
compito  di  garantire  che  non  avvengano  invasioni nella sfera di
competenza  assegnata  alla  regione  dalla  Costituzione.  A meno di
attribuire  alle  norme  di  attuazione natura ed efficacia di vere e
proprie  norme  costituzionali  (il  che,  in  verita',  non e' stato
sostenuto   neppure   dall'Avvocatura   generale   dello  Stato),  la
competenza   della   Corte   ad  esaminarle  e  a  pronunciare  sulla
legittimita'  costituzionale di esse non puo' essere posta in dubbio»
(v. Corte cost. n. 14/1956).
    Va anche ricordato, su questo punto, che la riserva dell'art. 108
della  Costituzione  concerne «la disciplina di tutto quanto concerne
l'amministrazione  della giustizia, sia riguardo alla istituzione dei
giudici,  che  alle  loro  funzioni ed alle modalita' del correlativo
esercizio» (v. Corte cost. n. 4/1956).
    Tale  principio e' stato sempre tenuto fermo dalla giurisprudenza
della  Corte  che  ne  ha  fatto applicazione numerose volte anche in
Sicilia   (v.  Corte  cost.  154/1995,  115/1972).  In  proposito  va
ricordato   -   come   gia'   osservato   -   che   alle  censure  di
costituzionalita'  riguardo  alla  giurisdizione  non si e' sottratto
neppure  lo  stesso  statuto  siciliano  di cui sono stati dichiarati
incostituzionali   gli  artt. 26  e  27  sulla  giurisdizione  penale
dell'Alta Corte (Corte cost. n. 6/1970).
    Premesso  poi  che  la  funzione  delle  norme  di attuazione, in
Sicilia  come  nelle  altre  regioni a statuto speciale, consiste nel
rendere  possibile  il  trasferimento  alle  regioni delle funzioni e
degli  uffici  nelle  materie  di competenza (v. Corte cost. 17/1961,
14/1962,   180/1980),   va   sottolineato   che   la   giurisprudenza
costituzionale ha riconosciuto che, nella specie, l'articolo 23 dello
statuto siciliano, a differenza dello statuto del Trentino-Alto Adige
non  contiene  ne'  una  delega  alle  norme di attuazione, ne' alcun
accenno  alla  nomina,  di  giudici  laici  regionali  «poiche'  esso
stabilisce  soltanto  che gli organi giurisdizionali centrali debbano
avere  in  Sicilia  le sezioni per gli affari concernenti la regione»
(Corte cost. 189/1992) ed inoltre «l'art 23 del R.D.L. 15 maggio 1946
n. 455 attiene soltanto al decentramento degli organi giurisdizionali
centrali   per  gli  affari  concernenti  la  regione»  (Corte  cost.
n. 61/1975).
    Se  tutto  cio'  e'  esatto, l'art. 2 quarto comma lettera b), il
sesto comma e il successivo ottavo comma del d.lgs. 654/1948, laddove
prevedono  la  presenza  e  la  designazione di laici regionali, solo
apparentemente  rivestono il carattere di norme di attuazione, ma, in
realta',  rientrano  in  quella  categoria  individuata  dalla  Corte
costituzionale  nelle  decisioni  14/1956  e 20/1956 e censurabile in
sede di giudizio di costituzionalita'.
    Si  tratta  di  norme  che,  sotto  l'apparenza di norme secundum
legem,  in  realta',  in  primo luogo contrastano con le disposizioni
statutarie  e,  comunque  non  sono  dettate dalla necessita' di dare
attuazione a queste disposizioni.
    Cio'   si   evince   con   chiarezza   poiche'   il   legislatore
costituzionale  aveva  limitato  la  autonomia  regionale  alla  sola
localizzazione in Sicilia degli organi delle giurisdizioni superiori,
come  riconosciuto  nelle citate decisioni della Corte costituzionale
189/1992 e 61/1975.
    17.  -  Il  decreto  legislativo  654/1948  appare quindi «contra
statutum»  poiche', nell'istituire in Sicilia «un organo di giustizia
amministrativa caratterizzato dei una propria fisionomia e struttura»
(Corte  cost.  25/1976),  diverso da quello ordinario, composto anche
con  giudici  laici  di  nomina regionale, ha ampliato enormemente la
sfera di autonomia regionale, ma cio' ha fatto vulnerando non solo la
lettera,   quanto   e   soprattutto  lo  spirito  della  disposizione
costituzionale  statutaria,  che  limitava la autonomia regionale nel
solo  ambito  della presenza in Sicilia di sezioni delle magistrature
superiori,  senza  alcuna  intenzione  di alterarne la struttura e le
funzioni  (v.  in  questo  senso  l'ordinanza  6  marzo  1975 con cui
l'Adunanza  Plenaria rimise alla Corte costituzionale la questione su
cui poi intervenne la dec. 25/1976).
    L'incostituzionale  ampliamento  dell'autonomia regionale operato
con le norme di attuazione di cui al d.lgs. 654/1948 le ha portate di
conseguenza   a  collidere  con  i  principi  costituzionali  sanciti
dall'art. 108  per  quanto concerne la riserva di legge statale sulla
amministrazione  della  giustizia  e, in particolare, sulla nomina di
magistrati laici.
    A  dimostrazione  poi che la materia disciplinata dall'art. 2 del
d.lgs.  654/1948,  come sostituito dal d.P.R. 204/1978, rientra nella
riserva  di  legge  statale  e' sufficiente rammentare l'insegnamento
della Corte costituzionale nelle decisioni 585/1989 e 224/1999.
    Nella prima, che si riferiva alla Regione Trentino-Alto Adige, si
e'  affermato che, salvo il principio della proporzionale etnica, che
non  veniva  peraltro  messo  in  discussione,  spettava  allo  Stato
stabilire  le  variazioni  qualitative  e  quantitative  della pianta
organica   dei   magistrati  addetti  agli  uffici  giudiziari  della
Provincia di Bolzano.
    Nella  seconda,  con  riferimento  alla  Regione  Sicilia,  si e'
affermato  che anche la disciplina degli incarichi extraistituzionali
a  magistrati del Consiglio di Stato e della Corte dei conti operanti
in Sicilia rientra nella competenza esclusiva statale.
    Se  cio'  e' esatto, sembra evidente che con l'art. 2 delle norme
di  attuazione  dianzi  citate  si sia invasa una sfera di competenza
riservata  al legislatore statale e di qui la necessita' di acclarare
se tale invasione era o meno giustificata a livello costituzionale.
    18.  -  Peraltro,  quando  anche  le disposizioni dell'art. 2 del
d.lgs.  654/1948  volessero  qualificarsi  non  gia' contra legem, ma
semplicemente praeter legem, le conclusioni non muterebbero.
    La  legittimita'  costituzionale  delle norme di attuazione degli
statuti  speciali  praeter  legem  e infatti subordinata - ripetesi -
alla  duplice  condizione  del  dovere concordare con le disposizioni
statutarie  e con il principio dell'autonomia regionale e dell'essere
giustificate dalla finalita' di dare attuazione allo statuto.
    Nessuna   di   queste  condizioni  e'  ravvisabile  nella  nomina
regionale di giudici laici presso il C.G.A.
    Tale  previsione non concorda affatto con lo statuto (Corte cost.
189/1992  e  61/1975  cit.)  e  neppure  concorda  con  il  principio
dell'autonomia  regionale in quanto, in difetto di apposita deroga di
rango  costituzionale,  la  norma di attuazione non puo' impingere su
altri   principi   costituzionali   non  conferenti  con  l'autonomia
regionale   (Corte   cost.  150/1993).  La  Corte  costituzionale  in
proposito  ha  sempre affermato che «la capacita' additiva si esprime
pur  sempre  nell'ambito  dello  spirito  dello  statuto  e delle sue
finalita'  e  -  come  s'e' pure rilevato - nel rispetto dei principi
costituzionali» (Corte cost. 212/1984).
    La  nomina dei giudici laici di designazione regionale neppure e'
giustificata dalla necessita' di dare attuazione allo statuto.
    Tale   necessita',   com'e'  costante  insegnamento  della  Corte
costituzionale,  si  concreta  nel trasferimento di funzioni e uffici
(Corte cost. 17/1961, 14/1962, 30/1968, 180/1980) al fine di dar vita
«nell'ambito   delle   ben   definite   autonomie  regionali  ad  una
organizzazione  degli  uffici  e  delle  pubbliche  funzioni  che  si
armonizzi    con    l'organizzazione    dello    Stato    nell'unita'
dell'ordinamento amministrativo generale» (Corte cost. 14/1962).
    Orbene,  ai  fini  del  mero  trasferimento  di  una  sezione del
Consiglio   di   Stato   in  Sicilia  -  poiche'  tale  e'  l'oggetto
dell'art. 23 dello statuto siciliano (Corte cost. 189/1992 e 61/1975)
-  non  si  vede  perche'  era  necessario  cambiare  la composizione
ordinaria della sezione con l'introduzione nel collegio giudicante di
giudici  laici  di designazione regionale. E' stato infatti affermato
che  la  norma  di  attuazione,  intanto  puo'  porsi  in funzione di
integrazione   dello  statuto  «sempreche'  sia  giustificata  da  un
rapporto   di   strumentalita'   logica  rispetto  all'attuazione  di
disposizioni  del medesimo» (Corte cost. 260/1990). Diversamente, ove
il  testo  statutario  sia completo, le norme di attuazione sarebbero
prive di oggetto (Corte cost. 136/1969 cit.).
    Sotto altro profilo neppure potrebbe sostenersi che lo Stato e la
regione   in   sede   di  commissione  paritetica  possano  d'accordo
attribuire  alla  norma  statutaria  una  portata  maggiore di quella
risultante dal tenore letterale della stessa.
    In  altri  termini  non  e'  possibile che in sede di commissione
paritetica  lo  Stato  autorizzi  una  limitazione dei suoi poteri in
assenza  di  qualsiasi  previsione  statutaria  ed  al  di  la' delle
finalita'  tipiche  (decentramento)  delle  norme  di  attuazione (v.
precedenti punti 13 - 21 e giurisprudenza ivi richiamata).
    Va infatti considerato che a tale abdicazione corrisponderebbe un
parallelo ampliamento dei poteri regionali e quindi, in sostanza, una
surrettizia modifica dello statuto speciale.
    Gli  statuti  speciali  poi,  sono  norme costituzionali art. 116
primo  comma  Cost.  approvati e modificabili secondo il procedimento
speciale di cui all'articolo 138 Cost.
    Non sarebbe quindi ammissibile che una fonte di rango subordinato
quale  le  norme  di  attuazione  potesse modificare una normativa di
rango costituzionale.
    A  cio'  deve  aggiungersi  anche  l'ulteriore considerazione (v.
precedenti  punti  15  - 16 - 17) secondo cui le deroghe al principio
del  regime uniforme della organizzazione giurisdizionale su tutto il
territorio  nazionale  debbono  comunque essere contenute in norme di
rango  costituzionale  e  che il carattere eccezionale di tale deroga
non  consente  di superare il tenore letterale della norma statutaria
(Corte cost. 150/1993 cit.).
    D'altra  parte neppure potrebbe ritenersi che la riserva di legge
statale  possa  essere  intesa in senso solamente formale e non anche
sostanziale. In altri termini non e' possibile sostenere che, ai fini
in  esame,  sia  sufficiente  la adozione di una legge da parte dello
Stato  il  quale,  assolto  cosi'  l'onere  della  riserva  di legge,
potrebbe ad libitum dettare composizioni degli organi giurisdizionali
differenti da regione a regione.
    Una  simile  esegesi  sarebbe  insostenibile  poiche' contraria a
specifici  principi  costituzionali  ed alla costante interpretazione
fornitane dalla Corte costituzionale.
    Invero,  se  si  affermasse  il  principio, dianzi criticato, che
nella  materia  de  qua sia ammissibile una riserva di legge in senso
soltanto   formale,   quale   ulteriore   corollario  dovrebbe  anche
ammettersi  che  il  legislatore  statale  potrebbe incidere non solo
sulla  struttura dei collegi, disciplinandoli diversamente da regione
a  regione,  ma  potrebbe  differenziare a livello regionale anche la
struttura  dei  processi (civile, penale, amministrativo) e cio', non
solo  in  relazione  alle  regioni  a  statuto  speciale ma anche con
riferimento alle regioni a statuto ordinario.
    Verrebbero  pregiudicati cosi i canoni costituzionali di cui agli
articoli  3,  24,  102  primo  e secondo comma, 108 primo comma della
costituzione  e,  piu'  in  generale, verrebbe vulnerato il principio
dell'unita'   dell'ordinamento   giuridico   ii   cui   valore,  gia'
riconosciuto   in   passato,   e'  attualmente  ribadito,  a  livello
costituzionale,  dall'art. 120  secondo  comma  nel  testo introdotto
dalla  legge  costituzionale  n. 3/2001.  La  Corte costituzionale ha
infatti   sempre   ribadito   che  «le  modalita'  di  esercizio  del
fondamentale  principio  della  tutela  giurisdizionale  non  possono
essere  diverse  in  una  regione  rispetto  al  restante  territorio
nazionale»  (Corte  cost.  113/1993)  e  che  esiste una «esigenza di
uniformita'  di  tutela in ordine a situazioni soggettive di identica
natura» (Corte cost. 42/1991).
    In altri termini va riconosciuto che la unitarieta' della materia
giurisdizionale  non puo' non ricomprendere tutti i suoi aspetti, ivi
compresi  quelli  concernenti  il  reclutamento  la nomina e lo stato
giuridico  dei  giudici,  che, ovviamente, devono restare identici su
tutto  il  territorio  nazionale.  Sotto questo profilo, pertanto, la
normativa  statale non potrebbe introdurre differenziazioni a livello
regionale  senza  incorrere  in  censure e vizi di costituzionalita'.
L'unica deroga, come piu' volte sottolineato, e' ammessa solo in base
ad  una  disposizione  di  pari rango costituzionale, da interpretare
inoltre, in quanto deroga, in senso strettamente letterale.
    Pertanto,  e  in conclusione su questo punto, l'articolo 23 dello
statuto  siciliano  nella  sua  chiara  previsione limitata alla sola
localizzazione  della  funzione  giurisdizionale rappresenta un punto
fermo e insuperabile di modo che ne' la commissione paritetica ne' lo
Stato  (autonomamente o in sede di commissione paritetica) potrebbero
adottare   una  disciplina  che  incida  su  aspetti  della  funzione
giurisdizionale diversi dalla pura e semplice localizzazione.
    19.  -  Il  Collegio  e'  consapevole  della  circostanza  che la
questione  della  composizione  del  C.G.A.  e'  stata  ripetutamente
affrontata anche dalla Corte costituzionale, ma sempre solo angoli di
valutazione diversi.
    Nella decisione n. 25/1976 la Corte costituzionale si e' occupata
del  problema,  con  riferimento  tuttavia  soltanto all'art. 5 terzo
comma   del   d.lgs.   654/1948  e  cioe'  all'istituto  dell'appello
all'Adunanza  Plenaria  delle  decisioni  emesse  in  unico grado del
C.G.A.  allora,  prima della istituzione dei Tribunale amministrativo
regionale
    In  quell'occasione  la  Corte ha fatto altresi' riferimento alla
nota  decisione  delle Sezioni unite della Cassazione 11 ottobre 1955
n. 2994  dichiarando  di  condividerla.  Nella anzidetta decisione la
Cassazione,  non  essendo ancora in funzione la Corte costituzionale,
si  pose  il  problema  della  costituzionalita'  in  generale  della
istituzione  del  C.G.A.  sotto  un  duplice  aspetto:  estrinseco ed
intrinseco.
    Sotto il profilo estrinseco si trattava di accertare l'osservanza
o  meno  del principio di cui all'art. 76 della Costituzione e quindi
l'esistenza di una norma di delega, nonche' la attribuzione o meno di
una   competenza  legislativa  alla  commissione  paritetica  di  cui
all'art. 43  dello  statuto  siciliano anziche' al Governo, e di tale
profilo si e trattato in precedenza nei punti 2 e da 4 a 11.
    Solo  il profilo intrinseco, invece, la costituzionalita' si pose
con   preciso   riferimento  alla  questione  se  il  C.G.A.  dovesse
considerasi  o  meno  un  giudice  speciale  (la  cui istituzione era
vietata   ex   art. 102  secondo  comma  della  Costituzione)  che  i
ricorrenti  ritenevano  offrisse  minori  garanzie  rispetto  ad  una
ordinaria sezione del Consiglio di Stato.
    A  riprova  della  specialita' venivano addotte la diversita' del
numero  dei  votanti  (5  anziche'  7)  e  la  differenza  di  talune
prerogative:  inamovibilita'  dei componenti le sezioni del Consiglio
di  Stato;  temporaneita'  dei  due  membri  designati  dalla  giunta
regionale;   partecipazione   al  collegio  esclusa  per  gli  allora
referendari del Consiglio di Stato.
    La  Cassazione,  com'e'  noto,  affermo' che il C.G.A. non poteva
considerarsi   quale   giudice  speciale,  ma  soltanto  una  sezione
specializzata  del  Consiglio  di  Stato  superando in questo modo la
eccezione di incostituzionalita'.
    Ne'  in  quella  occasione  ne' successivamente e' stato posto ex
professo  alla  Corte  costituzionale  il profilo del rapporto tra la
lettera  e  lo  spirito  dell'art. 23  dello  statuto  e  le norme di
attuazione  che  prevedono  la  designazione  regionale di magistrati
laici.
    Inoltre,  se  si  esaminano i precedenti, emerge chiaramente, nel
pensiero e nelle parole della Corte costituzionale, la consapevolezza
che  il d.lgs. 654/1948 sia andato ben al di la della lettera e dello
spirito dell'articolo 23 dello statuto.
    Invero,  nella decisione n. 61/1975 la Corte - come gia' rilevato
-  afferma  che «l'art. 23 del r.d.lgs. 15 maggio 1946 n. 455 attiene
soltanto  al  decentramento degli organi giurisdizionali centrali per
gli affari concernenti la regione».
    Nella decisione 25/1976 occupandosi della indipendenza dei membri
laici  del  C.G.A.,  per  quanto qui interessa, la Corte ha affermato
testualmente  che  «certamente  l'art. 23 dello Statuto della Regione
siciliana  prevedeva  semplicemente  l'istituzione  in Sicilia di una
sezione  giurisdizionale  del Consiglio di Stato ed e' innegabile che
con  il  d.lgs.  n. 654/1948  e'  stato invece istituito un organo di
giustizia  amministrativa  caratterizzato  da una propria particolare
fisionomia e struttura».
    Nella   decisione   dianzi   citata   la   Corte   ha  confermato
l'orientamento  della  Cassazione circa la natura del C.G.A. (sezione
specializzata del Consiglio di Stato e non giudice speciale, anche se
la  anzidetta  definizione fa pensare piu' ad un giudice speciale che
ad  una  sezione  specializzata)  ma,  com'e'  noto,  cio' non gli ha
impedito  di  dichiarare  incostituzionale  il  d.lgs. 654/1948 nella
parte  in  cui  (art. 3  terzo  comma)  prevedeva  la possibilita' di
rinnovo dei giudici laici.
    20.  -  Possono  pertanto  proporsi  le  questioni di legittimita
costituzionale  dell'art. 2  quarto comma lettera b) e dei successivi
commi  sesto e ottavo del d.lgs. 654/1948, come sostituito dal d.P.R.
204/1978,  in  rapporto agli articoli 23 e 43 dello statuto siciliano
nonche' agli articoli 108 primo comma, 102 primo e secondo comma e al
primo comma della VI disposizione transitoria della Costituzione.
    I  profili  relativi  al  rapporto  tra  gli  anzidetti commi del
decreto  legislativo 654/1948 e gli articoli 23 e 43 dello statuto ed
all'art. 108  primo comma della Costituzione sono stati in precedenza
esposti.
    21. - Circa il rapporto tra il decreto legislativo 654/1948 e gli
articoli  102 primo e secondo comma e 108 primo e secondo comma della
Costituzione  occorre  sottolineare  che anche qualificando il C.G.A.
come  sezione specializzata, la costituzione di sezioni specializzate
innanzitutto deve essere prevista da una legge statale come si evince
dall'art. 102  primo  comma  per il giudice ordinario e dall'art. 108
primo comma per i giudici speciali.
    Esiste,  quindi,  a  livello costituzionale, una riserva di legge
statale circa la istituzione di sezioni specializzate derogabile solo
in presenza di norma espressa di pari rilevanza costituzionale (Corte
cost. l50/1980 cit.).
    Nella  specie  -  ripetesi  -  in nessun comma dell'art. 23 dello
statuto  siciliano  e' contenuto il minimo accenno, ne' implicito ne'
esplicito  alla possibilita' che in Sicilia vengano istituite sezioni
specializzate ne' del Consiglio di Stato ne' delle altre magistrature
superiori.
    Il  decentramento puro e semplice (Corte cost. 61/1975 e 25/1976)
non  implica  affatto  di  per  se'  la  creazione ex novo di sezioni
specializzate tanto piu' che l'unico accenno di specialita' contenuto
nell'art. 23  riguarda,  come gia' osservato, il concerto tra Stato e
regione, sulla nomina soltanto dei magistrati della Corte dei conti.
    Va   poi  rammentato  che  la  Carta  costituzionale  prevede  la
istituzione  di  sezioni  specializzate  soltanto  nell'ambito  della
magistratura  ordinaria  (art. 102  secondo comma) per cui la sezione
specializzata  viene  considerata  «non  gia' un tertium genus fra la
giurisdizione  speciale  e  quella  ordinaria,  bensi' una species di
quest'ultima»   (Corte   cost.   n. 76/1961,   394/1998  e  ordinanza
424/1989).
    E'  stato infatti rilevato che, a fronte del divieto di istituire
giudici  speciali,  la  deroga  costituzionale  a  favore  delle sole
sezioni  specializzate,  dipende  proprio  dalla loro compenetrazione
istituzionale  con  il  giudice  ordinario  (Corte  cost.  n. 4/1984,
424/1989).
    Pertanto,   se   la   istituzione  di  sezioni  specializzate  e'
consentita  dalla  costituzione  (ex  art. 102  secondo  comma)  solo
nell'ambito  della magistratura ordinaria e cio' in ragione del nesso
organico  con  quest'ultima,  se ne dovrebbe anche inferire che, cosi
come  non  e' possibile istituire nuovi giudici speciali, alla stessa
stregua   non   sarebbe  possibile  istituire  sezioni  specializzate
all'interno dei giudici speciali attualmente esistenti.
    La questione non e' stata affrontata e risolta nell'unico caso in
cui  il problema si e posto nei confronti di un giudice speciale gia'
esistente o, meglio, gia' previsto dalla Costituzione.
    Invero,  nella  decisione  n. 49/1968  esaminando la legittimita'
costituzionale  delle  sezioni dei Tribunale amministrativo regionale
del  contenzioso elettorale ex art. 2 legge 23 dicembre 1966 n. 1147,
la  Corte  costituzionale  da un lato ha escluso il loro carattere di
nuovi  giudici  speciali  in quanto «parte degli istituendi Tribunale
amministrativo regionale» ex art. 125 Cost. e non essendo vietata «la
gradualita'   nell'introduzione   di   nuovi   organi   di  giustizia
amministrativa».  Peraltro,  la  Corte  neppure  ha riconosciuto alla
anzidetta sezione elettorale la natura di sezione specializzata degli
istituendi Tribunale amministrativo regionale pervenendo ad affermare
che  si  trattava di «un'articolazione di tribunale amministrativo» e
che, in quanto tale «non richiede la presenza di giudici togati cosi'
come non sembra che la richieda questo stesso tribunale».
    In altri termini, nel pensiero della Corte sembrerebbe che mentre
si  ammette  che  il  giudice  speciale  da istituire ex novo, come i
Tribunale  amministrativo  regionale,  possa anche essere interamente
composto  da  laici  (salvo  le  garanzie di indipendenza ex art. 108
secondo   comma  Cost.),  lasciava  impregiudicato  il  problema  se,
nell'ambito  dell'istituendo  giudice  speciale, fosse costituzionale
istituire   sezioni  specializzate  in  analogia  a  quanto  previsto
dall'art. 102 secondo comma per il giudice ordinario.
    22.  -  In ogni caso, quando anche si pervenisse alla conclusione
che  l'art. 102  secondo  comma  e  l'art. 108  primo comma Cost. non
implicano  di  per  se' il divieto di istituire sezioni specializzate
nell'ambito  del  giudice  speciale  gia' esistente, non sembra possa
dubitarsi  che  tale  possibilita'  sia  coperta  da riserva di legge
statale ex art. 102 primo comma e 108 primo comma Cost.
    In tal caso il vizio di costituzionalita' dei citati commi quarto
lettera  b),  sesto  e  ottavo  dell'art. 2  del d.lgs. 654/1948 come
sostituito  dal  d.P.R.  204/1978  si  porrebbe  negli stessi termini
dianzi enunciati.
    Quanto   poi   al  rapporto  tra  il  d.lgs.  654/1948  e  la  VI
disposizione  transitoria  della  Costituzione,  va rammentato che la
stessa  prevedeva  di  procedere,  entro 5 anni, alla revisione delle
giurisdizioni  speciali  eccettuando  espressamente  il  Consiglio di
Stato,  la Corte dei conti e i Tribunali militari. In questa espressa
eccezione   trova  concordanza  la  formulazione  dell'art. 23  dello
statuto  siciliano  che  si limitava al mero decentramento. Il d.lgs.
654/1948  istituendo  una  sezione  specializzata ha invece apportato
sicuramente  una  modificazione all'organo giurisdizionale, ponendosi
in  contrasto  oltre  che con lo statuto siciliano anche con il primo
comma della VI disposizione transitoria.
    23.  -  In  conclusione  sui  precedenti punti da 11 a 21 possono
essere  avanzate  nell'ordine e in subordine le seguenti questioni di
costituzionalita':
        C) dell'art. 2 quarto comma lettera b) nonche', in parte qua,
dei  successivi  sesto  e  ottavo  comma  del  d.lgs.  654/1948  come
sostituito  dal  d.P.R.  204/1978 in rapporto all'art. 23 primo comma
dello  statuto  siciliano  ed  in  rapporto  al  primo comma della VI
disposizione   transitoria   della  Costituzione  che  esclude  dalla
revisione la giurisdizione del Consiglio di Stato.
        C1)  in subordine all'art. 2 quarto comma lettera b) nonche',
in  parte  qua,  dei  successivi  commi  sesto  ed  ottavo del d.lgs.
654/1948  come sostituiti dal d.P.R. 204/1978 in rapporto allo stesso
art. 23  primo  comma  dello  statuto  siciliano, nonche' in rapporto
all'art. 102  secondo  comma  e  108  primo  e  secondo  comma  della
Costituzione,  non essendo consentito istituire sezioni specializzate
nell'ambito dei giudici speciali.
        C2) in subordine dell'art. 2 quarto comma lettera b) nonche',
in  parte  qua,  dei  successivi  commi  sesto  ed  ottavo del d.lgs.
654/1948  come sostituiti dal d.P.R. 204/1978 in rapporto all'art. 23
dello statuto siciliano ed all'art. 102 primo comma e 108 primo comma
Cost.  in  quanto  l'art. 23  dello statuto non prevede alcuna deroga
alla  composizione  ordinaria delle Sezioni del Consiglio di Stato da
localizzare in Sicilia, e in rapporto agli articoli 102 primo comma e
108  secondo comma Cost. in quanto disciplina materia riservata dalla
Costituzione  alla  legge statale, per cui eventuali deroghe a favore
dell'autonomia  regionale  debbono  essere supportate da una espressa
previsione  di  pari  rango  costituzionale  che  -  come  piu' volte
rappresentato   -  non  e'  rinvenibile  nell'art. 23  dello  statuto
siciliano.
        C3) in subordine dell'art. 2 quarto comma lettera b) nonche',
in  parte  qua,  dei  successivi  sesto  ed  ottavo  comma del d.lgs.
654/1948  come sostituiti dal d.P.R. 204/1978 in rapporto all'art. 23
primo  comma  dello statuto siciliano che non prevede ne' una sezione
specializzata  del  giudice  speciale ne' una composizione collegiale
diversa  da  quella ordinaria e cio' anche in relazione, quale tertia
comparationis,   all'art. 24  primo  comma  dello  statuto  siciliano
concernente  la  composizione  dell'Alta  Corte,  nonche' all'art. 23
terzo  comma  del  medesimo  statuto,  al  coevo d.lgs. 6 maggio 1948
n. 655  concernente  la  istituzione di sezioni della Corte dei conti
per  la Regione siciliana, ed all'art. 90 e 91 secondo comma del T.U.
delle leggi costituzionali di cui al d.P.R. 31 agosto 1972 n. 670.
    24.  -  Quest'ultima  questione consente di porre solo un diverso
angolo  di  visuale  l'affermazione,  contenuta nella decisione delle
Sezioni  unite  della  Cassazione n. 2994/1955, circa la aderenza del
d.lgs. 654/1948 allo spirito dell'art. 23 dello statuto siciliano.
    In  quella  occasione la Cassazione si e' preoccupata di chiarire
che  il  C.G.A.,  per  la  sua composizione, non e' un giudice capite
deminutus quanto a quantita, qualita' e garanzia dei suoi membri.
    La  Cassazione  non  si  e' invece data carico della questione di
costituzionalita'  a  monte  e  cioe' se lo statuto e la Costituzione
legittimavano   la   istituzione  (gia'  fortemente  criticata  dalla
dottrina   costituzionalistica  dell'epoca)  di  una  sezione,  sotto
molteplici  profili,  diversa  rispetto  a  una sezione ordinaria del
Consiglio  di  Stato,  ma si e' limitata ad affermare apoditticamente
che «le variazioni morfologiche del C.G.A. sono in funzione di quella
stessa  esigenza  di  decentramento che ha giustificato l'istituzione
dell'Ente Regione».
    A  questo  proposito  e' opportuno segnalare, anche a chiarimento
del   precedente   richiamo   che  e'  stato  operato  quale  tertium
comparationis,  al  d.lgs.  655/1948,  che,  nella  stessa data del 6
maggio  1948,  venne  adottato anche il d.lgs. 655/1948 relativo alla
istituzione  in Sicilia di una sezione giurisdizionale e di controllo
della  Corte  dei conti. Com'e' noto, il predetto d.lgs. 655/1948 non
dispone  una  composizione delle sezioni diversa da quella ordinaria,
ma  si  e'  limitato  a  ribadire (art. 10 primo comma) la previsione
statutaria  (art. 23  terzo  comma)  della intesa tra Stato e regione
sulla  nomina  dei magistrati. Va ulteriormente rimarcato che in sede
di  modifica  delle norme di attuazione del predetto d.lgs. 655/1948,
il   d.lgs.   18   giugno  1999  n. 200,  adottato  questa  volta  su
determinazione  della commissione paritetica ex art. 43 dello statuto
siciliano,  ha  introdotto all'art. 1. del d.lgs. 655/1948 un secondo
comma  che  testualmente dispone che «la composizione e la competenza
delle   sezioni  sono  determinate  dalle  disposizioni  della  legge
statale».
    Orbene,  nell'unico caso in cui l'art. 23 dello statuto siciliano
prevedeva,  al  terzo  comma, un accenno di specialita', ne' le prime
norme  di  attuazione (adottate senza la procedura dell'art. 43 dello
statuto),  ne'  le  successive (adottate stavolta con il procedimento
speciale)   hanno   ritenuto   possibile   e  legittimo  alterare  la
composizione ordinaria delle sezioni della Corte dei conti.
    Sulla  base delle agomentazioni addotte dalle Sezioni unite della
Cassazione  nella  decisione  2994/1955  in merito alle «esigenze del
decentramento»  non  e'  agevole  giustificare  come  mai, in sede di
attuazione   della  stessa  norma  statutaria,  nei  confronti  della
clausola  di  una  qualche  maggiore  specialita' si sia mantenuta la
composizione  ordinaria  della  Corte dei conti mentre di fronte alla
clausola  dell'art. 23  primo  comma,  del tutto anodina sotto questo
profilo, si sia ritenuto di poter istituire una sezione spccializzata
del Consiglio di Stato.
    Comunque,  le  vicende  del  coevo d.lgs. 655/1948 e come pure le
successive  determinazioni  della  commissione  paritetica  del  1999
allorche'  e'  stato  introdotto  il  secondo  comma  all'art. 1  del
predetto   d.lgs.   655/1948   concernente   la   Corte   dei  conti,
costituiscono  ulteriore riprova del fatto che le norme di attuazione
di  cui  al d.lgs. 654/1948 sono in palese contrasto con la lettera e
lo spirito dello statuto siciliano.
    Ne'  potrebbe  addursi, a giustificare il differente regime tra i
due  decreti  legislativi  del 6 maggio 1948, l'argomento secondo cui
non  sarebbe  ammissibile  che  nell'organo  controllante  (Corte dei
conti)  siano  presenti magistrati designati dal soggetto controllato
(Regione).  Va  infatti  sottolineato  che  l'art.  23  dello statuto
siciliano  e  il d.lgs. 655/1948 prevedono anche la localizzazione in
Sicilia  della  Sezione  giurisdizionale  per  i  giudizi  di  conto,
responsabilita' e pensionistici e che neppure la composizione di tale
sezione e' stata modificata.
    La  stessa  prima  commissione  paritetica  del  1946,  come gia'
ricordato, nelle prime ed uniche norme da essa «deliberate» non aveva
modificato  la  composizione delle magistrature superiori esistenti e
certamente  non  per  superficialita'  o  per  ignoranza  delle norme
statutarie.  Invero, il presidente della commissione, come e' noto, e
come  aveva  lui  stesso dichiarato nella citata nota 24 maggio 1947,
era  stato  uno  dei redattori dello statuto siciliano. Tuttavia, ne'
lui,  ne'  nessun  altro  dei padri fondatori dello statuto (Giovanni
Salemi,  Mario  Minco,  lo  stesso  Movimento  per  l'Autonomia della
Sicilia)   pensarono   mai  ad  organi  giurisdizionali  superiori  a
composizione mista paritetica.
    Com'e'  noto  lo  statuto  siciliano e' frutto di una commissione
nominata  con  decreto 1° settembre 1945 dall'Alto Commissario per la
Sicilia on.le Salvatore Aldisio.
    La   commissione   prese  a  base  dei  lavori  quattro  progetti
predisposti  rispettivamcnte  dal  prof.  Giovanni Salemi, dall'on.le
Giovanni  Guarino  Amelia,  dal dott. Mario Mineo e dal Movimento per
1'Autonomia della Sicilia.
    Per  quanto  concerne  gli organi giurisdizionali il progetto del
prof.    Salemi    all'art. 21    primo    comma    cosi'   recitava:
«l'organizzazione  giudiziaria  e' stabilita con legge dello Stato ed
e' a carico dello Stato».
    Il  progetto  dell'avv.  Guarino Amelia all'art. 30 si limitava a
stabilire   che:   «Tutti   gli   organi  per  la  definizione  delle
controversie  nel  campo civile, penale, commerciale, amministrativo,
tributario  e  sindacale e in tutti i gradi di giurisdizione, debbono
risiedere nella Regione, in modo che tutte le controversie abbiano in
Sicilia il loro intero e totale svolgimento».
    Il  progetto  del dott. Mineo all'art. 37 prevedeva semplicemente
che: «lo Stato istituira' in Sicilia sezioni autonome di ciascuno dei
suoi supremi organi giurisdizionali».
    Il  progetto  del  Movimento  per  l'Autonomia della Sicilia agli
artt. 26 e 27 era cosi' formulato:
        art. 26  «L'ordinamento  giudiziario  e'  stabilito con legge
dello Stato.
    La  creazione  di  nuovi  uffici  giudiziari  e le modifiche alle
circoscrizioni giudiziarie sono pero' stabilite con provvedimento del
Consiglio regionale»;
        art. 27 «L'Amministrazione della giustizia nella regione e' a
carico del bilancio dello Stato.
    Tutti  gli Organi per la definizione delle controversie nel campo
civile, penale, commerciale, amministrativo, tributario e del lavoro,
ed  in  tutti  i  gradi  di  giurisdizione,  debbono  risiedere nella
regione, in modo che tutte le controversie abbiano in Sicilia il loro
intero e totale svolgimento».
    Se  poi  si  esaminano i resoconti stenografici della commissione
(riportati in un volume, dedicato ai lavori preparatori dello statuto
dal  presidente  della  commissione  prof.  Giovanni  Salemi)  e,  in
particolare  quelli  delle  sedute  del  21  dicembre  1945  e del 22
dicembre   1945   si  trova  documentato  che  la  formula  (inserita
nell'art. 20)  «l'organizzazione  giudiziaria  e' stabilita con legge
dello  Stato» venne eliminata su proposta del consigliere Taormina il
quale  «basandosi  sul  principio  che la funzione giurisdizionale e'
riservata  allo  Stato propone la soppressione dell'art. 20 ...» ....
«La  Consulta  respinge l'articolo. Ne' dissente solo il cons. Romano
Battaglia».
    In  relazione  poi  alla  stesura  dell'art. 21  (poi divenuto il
definitivo  art.  23) i lavori cosi' riportano: «Scartata la proposta
del  prof. Di Carlo, di votare al riguardo l'art. 27 del progetto del
"Movimento per l'autonomia", si approva nei seguenti termini il primo
comma  dell'art. 21:  "Gli organi giurisdizionali aventi oggi la sede
soltanto  in  Roma  saranno istituiti anche in Sicilia per gli affari
concernenti la regione".
    Sul  secondo  comma  dello stesso articolo, intervengono il prof.
Majorana  e  il  cons.  Cartia;  l'uno proponendo di non assegnare al
Consiglio  di  Stato  in  Sicilia  la finzione consultiva, al fine di
soddisfare meglio alle esigenze dell'autonomia; l'altro per dare alla
Corte  dei  conti  una  composizione  mista, con rappresentanti cioe'
dello  Stato  e della Regione, essendo comune ai due enti l'interesse
al controllo contabile.
    Si  invita  il  relatore a presentare la redazione definitiva del
detto comma».
    «Il   relatore   presenta   un'altra  formula,  piu'  semplice  e
comprensiva:  "Gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia
le  rispettive  sezioni  per gli affari concernenti la regione". Essa
viene approvata e diventa il primo comma dell'art 21.
    Ritornando  al  secondo  comma  dello stesso art. 21, il Relatore
propone  di  metterlo  in  armonia  col  primo, dicendo: "Sezioni del
Consiglio di Stato e della Corte dei conti" anziche' "Il Consiglio di
Stato  e  la  Corte  dei conti". Al fine di attuare la rappresentanza
mista  dello  Stato  e  della  regione  in seno alla Corte dei conti,
suggerisce  il  seguente  nuovo  comma: "I magistrati della Corte dei
conti  sono  nominati  di  accordo  dai  Governi  dello Stato e della
regione"». (v. all. B pag. 69-70).
    Il   progetto  definitivo  venne  poi  approvato  dalla  Consulta
siciliana, poi dalla Consulta nazionale. Per quanto qui interessa non
vennero  appartati emendamenti, e venne infine approvato con r.d.lgs.
15 maggio 1946 n. 455.
    Emerge  quindi con chiarezza che mai nessuno in sede di redazione
dello   statuto  penso'  ad  una  organizzazione  delle  magistrature
superiori  diversa  da quella disciplinata dalla legge statale e che,
se  vi  fu  un accenno di specialita', essa riguardo' sala il giudice
contabile.
    Pertanto,  la  affermazione  delle Sezioni unite 2994/1955 dianzi
citata  secondo  cui  «le  variazioni morfologiche del C.G.A. sono in
funzione   di   quella   stessa  esigenza  di  decentramento  che  ha
giustificato  l'istituzione  dell'Ente  Regione»  non  solo non trova
alcun riscontro, ma anzi e' smentita proprio dalle vicende occorse in
sede di istituzione dell'Ente Regione.
    Anche  i  lavori  preparatori  dello  statuto  confermano  quindi
testualmente  e  sul  piano  storico  quanto piu' volte in precedenza
osservato circa il carattere «contra statutum» del d.lgs. 654/1948.
    Se  poi  ci  si  chiede  come  mai,  nel 1948 in sede di norme di
attuazione  sia  stata  cosi'  radicalmente stravolta la lettera e lo
spirito tanto dello statuto siciliano, quanto della conforme proposta
della  prima  commissione paritetica, puo' farsi riferimento a coloro
che,  in  dottrina,  attribuiscono storicamente il tenore del decreto
legislativo   654/1948   ad   un  accordo  personale  intercorso  tra
Ferdinando  Rocco e l'on.le Luigi Sturzo, del quale, peraltro, sembra
non sia rimasta traccia.
    Le   questioni   di  costituzionalita'  dianzi  esposte  appaiono
rilevanti  ai  fini  del  presente giudizio in quanto la legittimita'
costituzionale   della   composizione  del  Collegio  rappresenta  un
presupposto    imprescindibile   per   l'esercizio   della   funzione
giurisdizionale (v. da ultimo Corte cost. 353/2002).
    Quanto  alla  non  manifesta infondatezza il Collegio ritiene che
tale    requisito    sussista   sia   con   riferimento   all'assetto
costituzionale  precedente,  sia  anche  con  riferimento all'assetto
costituzionale  quale  risulta  dopo  la  modifica del Titolo V della
Costituzione per effetto della legge cost. n. 3/2001.
    25.  -  Al  riguardo  va  innanzitutto premesso, alla stregua del
pacifico  insegnamento  della Corte costituzionale, inaugurato con la
sua  stessa  prima  decisione  (n. 1/1956),  che  le  norme ordinarie
ancorche' nate costituzionalmente legittime possono essere affette da
illegittimita'  costituzionale  sopravvenuta  per contrasto con nuove
norme costituzionali.
    Cio'  vale anche per lo statuto siciliano, approvato con r.d.lgs.
15  maggio  1946  n. 455 prima della Costituzione repubblicana, i cui
articoli  26  e  27  -  come  gia'  ricordato - sono stati dichiarati
incostituzionali  malgrado  la  costituzionalizzazione  dello statuto
fosse intervenuta successivamente.
    Cio'  premesso,  il  nuovo Titolo V della Costituzione, ad avviso
del   Collegio,   non   solo  non  fa  venir  meno  le  questioni  di
costituzionalita'  dianzi  prospettate, sub A - B - C ma rafforza, se
mai,  il  peso  delle  argomentazioni  di  cui  sopra  quantomeno  in
relazione a taluni profili elencati sub C.
    Le  questioni di costituzionalita' rubricate sub A circa il vizio
delle  norme  deleganti  i  pieni  poteri non paiono ne' scalfite ne'
influenzate  dal  nuovo  Titolo  V  della  Costituzione, come pure le
questioni  sub  B che denunciano la mancata osservanza dello speciale
procedimento previsto dall'art. 43 dello statuto siciliano.
    Similmente,   mantiene   identica   rilevanza   e  non  manifesta
infondatezza  la  questione rubricata sub C concernente la violazione
del primo comma della VI disposizione transitoria della Costituzione.
    Quanto  invece agli altri profili sub C, puo' ritenersi anche per
essi  la  perdurante  rilevanza  ed  anzi  la maggiore fondatezza per
effetto delle disposizioni del nuovo Titolo V.
    Com'e'  noto,  l'articolo  10 della legge cost. n. 3/2001 dispone
che  sino all'adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni del
nuovo Titolo V si applicano anche alle regioni a statuto speciale per
le  parti  in  cui prevedono forme di autonomia piu' ampie rispetto a
quelle gia' attribuite.
    Peraltro,  in  precedenza si e' denunciata la incostituzionalita'
di  talune  disposizioni  del  d.lgs.  654/1948  in  quanto  norme di
attuazione  statutaria  contra  legem,  o  comunque, praeter legem in
quanto  in  contrasto  con  la  lettera  e  lo  spirito dello statuto
siciliano    oltreche'    con   principi   e   precise   disposizioni
costituzionali.
    Tuttavia  tali  principi  e  tali disposizioni sono contenuti nel
Titolo  IV  della  Costituzione  e  non  gia'  nel  Titolo  V  le cui
modifiche,  pertanto,  dovrebbero risultare ininfluenti ai fmi qui in
esame.  Tuttavia,  per  scrupolo  di  completezza, puo' esaminarsi un
profilo  che comunque non incide sulle conclusioni dianzi esposte ma,
se mai, le rafforza.
    Nella  ripartizione  di  competenze  stabilita dal nuovo art. 117
della Costituzione le regioni (anche quelle a statuto speciale) hanno
goduto di un significativo ampliamento della loro sfera di competenza
legislativa  che, ai sensi del quarto comma dell'attuale art. 117, e'
divenuta   generale   in   via  residuale  invertendosi  l'originario
criterio.
    Resta   da   chiedersi   se,  a  fronte,  dell'ampliamento  delle
competenze legislative non debba contrapporsi, anche per le regioni a
statuto speciale, la riserva di legislazione esclusiva a favore dello
Stato  cosi' come elencata all'art. 117 secondo comma (v. ricorso del
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri  avverso  la  legge  della
Provincia  autonoma  di  Bolzano  15  novembre 2002 n. 14 in Gazzetta
Ufficiale - I serie speciale - 26 marzo 2003 n. 12).
    Al  riguardo,  la Corte ha pronunciato alcune decisioni in cui si
afferma  che  il nuovo Titolo V non si applica alle regioni a statuto
speciale  se  non  nelle  parti che prevedono forme di autonomie piu'
ampie rispetto a quelle gia' attribuite (v. Corte cost. ord. 377/2002
decisioni   408/2002,  533/2002,  48/2003,  103/2003).  Tuttavia,  in
un'altra  decisione, concernente la Regione Sardegna, e in materia di
caccia  in  cui  tale regione gode di potesta' normativa primaria, le
argomentazioni  della  Corte appaiono molto piu' articolate in quanto
si  e' affermato (con riferimento espresso al nuovo Titolo V) che «la
disciplina    statale    rivolta    alla   tutela   dell'ambiente   e
dell'ecosistema   puo'   incidere  anche  sulla  materia  caccia  pur
riservata  alla  potesta'  legislativa  regionale,  ove  l'intervento
statale  sia  rivolto a garantire standard minimi e un/ormi di tutela
della  fauna  trattandosi  di  limiti  unificanti  che  rispondono ad
esigenze  riconducibili ad ambiti riservati alla competenza esclusiva
dello Stato» (Corte cost. 536/2002).
    Sembrerebbe quindi che la Corte costituzionale abbia riconosciuto
che  nel  nuovo  assetto  delle competenze legislative, delineato dal
nuovo  Titolo  V, le materie riservate in via esclusiva allo Stato si
impongono  anche alle competenze legislative primarie delle regioni a
statuto speciale, nel senso cioe' di poter fissare a quelle autonomie
regionali nuovi limiti prima inesistenti.
    Se   tale   orientamento  dovesse  consolidarsi  sarebbe  agevole
argomentare  dalla  riserva  di  legge  statale  di  cui all'art. 117
secondo comma lettera l) nel senso che i vizi di costituzionalita' in
precedenza  denunciati  sub  C1,  C2,  C3  non  solo  non  sono stati
superati,  ma  si  dovrebbero  ritenere  ulteriormente confermati. Al
limite, qualora i dubbi di costituzionalita' dianzi esposti potessero
essere superati con riferimento al precedente assetto costituzionale,
gli   stessi   dovrebbero  essere  inevitabilmente  riconosciuti  con
riferimento al nuovo.
    Invero,   la   lettera   l)  dell'art. 117  secondo  comma  della
Costituzione pone sullo stesso piano e nella stessa riserva esclusiva
di   legge   statale,   la  giurisdizione  e  le  norme  processuali,
l'ordinamento   civile   e  penale,  ed  infine  anche  la  giustizia
amministrativa.
    Pertanto,  il  combinato disposto degli articoli 102 primo comma,
108  primo  comma  e  117  secondo  comma lettera l) dovrebbero ormai
dimostrare in modo inconfutabile che le norme di attuazione di cui al
d.lgs.  654/1948  restano  incostituzionali  anche  alla  luce  della
riforma  del  Titolo  V  e,  quando anche si volesse ritenere che non
fossero   affette   ab  origine  da  vizi  di  costituzionalita'  con
riferimento  al  precedente assetto costituzionale, sarebbero affette
da   incostituzionalita'   sopravvenuta   alla   luce   della  chiara
disposizione  dell'art. 117 secondo comma lettera l). Invero, essendo
la  materia  della  giurisdizione riservata costituzionalmente in via
esclusiva  allo  Stato,  richiederebbe anche essa, a maggior ragione,
una  deroga di pari livello costituzionale per essere disciplinata in
sede di attuazione delle autonomie regionali.
    26.  -  Pertanto in relazione alle questioni elencate sub C1, C2,
C3, puo' essere posta anche la seguente:
        C4)   in   subordine   qualora   si   potesse   ritenere   la
costituzionalita'  dell'art. 2  quarto  comma  del d.lgs. 654/1948 in
relazione  alle  questioni  sollevate ai precedenti punti sub C1, C2,
C3, si ripropongono le stesse questioni in rapporto anche al disposto
dell'art. 117 secondo comma lettera l) della Costituzione.
    Potrebbe  invece  consolidarsi  una  diversa esegesi dell'art. 10
della legge cost. 3/2001, nel senso cioe' che le materie riservate in
via  esclusiva  allo  Stato  dal  nuovo  art.  117 secondo comma, non
possono  costituire  un  limite ai piu' ampi poteri che, nelle stesse
materie,  sono  previsti  negli statuti speciali, ma, anche in questo
caso,  permarrebbe la rilevanza dei dubbi di costituzionalita' dianzi
enunciati e la loro non manifesta infondatezza.
    Invero, come si e' in precedenza dimostrato, anche nel precedente
assetto   costituzionale,  la  materia  della  giurisdizione  era  di
esclusiva  competenza  statale,  e  tale  permane anche nel viore del
nuovo  Titolo  V che non ha modificato gli articoli 102 primo comma e
108  primo  comma.  In proposito la Corte costituzionale ha affermato
che  il  potere di disciplinare l'esercizio della giurisdizione «alla
Regione  Sardegna  come  alle  altre  regioni  a  statuto speciale od
ordinario  non  spetta, restando invece riservato alla competenza del
legislatore   statale   (cfr.   sentenza 115  del  1972;  e  v.  oggi
l'art. 117,   secondo   comma  lettera  l)  della  Costituzione  come
sostituito  dalla  legge  costituzionale n. 3 del 2001)» (Corte cost.
29/2003).
    In  conclusione,  quindi, anche le questioni di cui ai precedenti
punti  sub  C  appaiono  rilevanti  al  pari  di quelle sollevate nei
precedenti  punti  sub  A  e  B, in quanto, cosi' come la istituzione
dell'organo,  anche la legittimita' costituzionale della composizione
del  collegio  costituisce, di per se', un presupposto per l'adozione
di qualsivoglia decisione (v. da ultimo Corte cost. n. 353/2002).
    Peraltro,  di  fronte  alla tassativita' della normativa in esame
neppure  e'  possibile  adottare,  in  subiecta  materia, una esegesi
costituzionale  corretta  ne'  sussiste  un diritto giurisprudenziale
vivente  che  la  supporti  (v. da ultimo Corte cost. ord. 30 gennaio
2003 n. 19).
    27.  -  Qualora  le  precedenti  eccezioni sub A, B e C venissero
ritenute  infondate, ovvero, qualora si ritenesse fondata solo taluna
delle  questioni  sub  C,  ma che cio' non comporti, ex art. 27 legge
n. 87/1953,  anche  la  incostituzionalita'  derivata dall'art. 2 del
d.lgs.  654/1948  come sostituito dal d.P.R. 204/1978, in tal caso si
prospetta,    in   subordine,   un   altro   profilo   di   possibile
incostituzionalita'  della  normativa di attuazione di cui all'art. 2
quarto  comma lettera b), sesto comma, ottavo comma in parte qua come
sostituiti  dal  d.P.R.  204/1978  nonche'  dell'art.  7  del  d.lgs.
654/1948   in   rapporto  all'art.  23  dello  statuto  siciliano  ed
all'art. 3, 24, 100 terzo comma, 101 secondo comma, 108 secondo comma
e  111  secondo  comma  della  Costituzione e cio' in quanto non sono
assicurate  per  i membri laici del C.G.A., le necessarie garanzie di
indipendenza e imparzialita'.
    Non   puo'   opporsi   a   questo   proposito   la  temporaneita'
dell'incarico,  fissato  in  sei  anni  dall'art. 3 secondo comma del
d.lgs 654/48 come modificato dal d.P.R. 204/1978.
    Se   effettivamente  esistono  esigenze  di  imparzialita'  e  di
indipendenza  della  funzione,  il  carattere definitivo o temporaneo
dell'incarico non puo' incidere sul corretto esercizio della funzione
stessa  (v.  ades.  art. 7  primo  comma legge 11 marzo 1953 n. 87 ed
art. 135 sesto comma della Costituzione).
    D'altra  parte,  l'imparzialita'  e l'indipendenza sono requisiti
necessari  di  ogni  processo  e  di  ogni  giurisdizione,  sia  essa
ordinaria  che  speciale  (Corte  cost.  326/1997, 51/1998, 121/1970,
103/1964).  Pertanto, essendo attributi connaturali della funzione in
quanto tale, appare ininfluente la temporaneita' o meno dell'incarico
conferito  al  soggetto  che  esercita  la funzione stessa. In questo
senso la Corte costituzionale ha affermato che i requisiti essenziali
dell'indipendenza  debbono  essere  assicurati  ai  giudici  speciali
«almeno  per  tutto  il  periodo nel quale tali giudici esercitano le
loro funzioni» (Corte cost. 103/1964, 60/1969).
    Cio'  premesso,  occorre  preliminarmente  esaminare  i caratteri
essenziali  della  indipendenza  e  della  imparzialita'  al  fine di
accertare  se le disposizioni in esame (art. 2 commi quarto, sesto ed
ottavo ed art. 7 d.lgs 654/48) ne assicurino o meno la sussistenza.
    In proposito, e' noto che diversi sono i concetti di indipendenza
e   di   imparzialita'   come  pure  i  parametri  costituzionali  di
riferimento   (art. 101   secondo  comma  e  108  secondo  comma  per
l'indipendenza  ed  ora,  ex  professo,  art.  111  secondo comma per
l'imparzialita).
    28.  - Circa la indipendenza, intesa come indipendenza esterna, e
cioe'  rispetto  agli  altri  poteri  dello  Stato, la giurisprudenza
costituzionale non ha ritenuto che nei confronti del giudice speciale
potessero  applicarsi gli stessi parametri costituzionali di cui agli
artt. 102, 104, 105, 106, 107 fissati per il giudice ordinario.
    L'art. 108    secondo    comma    rimetterebbe    infatti    alla
discrezionalita'  del  legislatore  la  individuazione  dei  modi per
assicurare   l'indipendenza   dei   giudici   speciali.   Secondo  la
giurisprudenza  della  Corte  tale  requisito  sarebbe  difficilmente
configurabile  in  termini precisi, potrebbe diversificarsi a seconda
dei  periodi  storici e delle strutture statali, e dovrebbe adeguarsi
alla varieta' dei tipi di giurisdizione (Corte cost. 108/1962).
    E'  cosi', in questa ottica, e' stata giustificata la deroga alla
regola del concorso, ritenendo costituzionalmente legittima la nomina
basata  sulla  scelta  discrezionale da parte di quello stesso potere
che il soggetto scelto dovra' poi giudicare (Corte cost. n. 1/1967) e
sono  state cosi' giustificate anche le cosiddette «infornate» (Corte
cost. n. 177/1973).
    Comunque,  e'  stato ritenuto che anche il sistema della nomina -
scelta non si pone in contrasto con la Costituzione, a condizione che
dopo  la  nomina  sia  rescisso ogni legame con l'autorita' nominante
(Corte cost. 107/1994, 18/1989, 49/1989, 281/1989, 196/1982).
    La  Corte  infatti  ha  affermato  che l'indipendenza dei giudici
speciali  va ravvisata piuttosto che nelle modalita' di nomina, nelle
modalita'  con  cui  si  svolge  la funzione (Corte cost. nn. 1/1967,
196/1982 e 266/1988).
    Essi,   pertanto,   debbono   godere   di  adeguate  garanzie  di
inamovibilita'   e   non   possono  quindi  essere  discrezionalmente
revocati, e al potere discrezionale di revoca e' equiparato, a questi
fini,  il  potere  di  conferma nell'incarico, potere ritenuto quindi
anch'esso  costituzionalmente  illegittimo  (Corte cost. nn. 49/1968,
25/1976, 281/1989).
    Pertanto, dopo avere affermato che la garanzia di indipendenza e'
costituita  dalla  inamovibilita'  (Corte cost. nn. 1/1967 e 177/1973
cit.  nn.  103/1964,  55/1966),  si  e'  rilevato  che  tale garanzia
sussiste allorche' siano tassativamente indicati i casi di revoca, di
decadenza  o  cessazione dalla carica, in modo da escludere qualsiasi
valutazione  discrezionale  sul  punto  (Corte  cost.  nn.  103/1964,
196/1982, 121/1970, 107/1994).
    Nella    decisione    n. 196/1982   l'incostituzionalita'   delle
commissioni  tributarie,  e'  stata negata, sotto questo profilo, nel
presupposto   della   esistenza  di  cause  di  «decadenza  nei  casi
espressamente   previsti   dalla   legge»,  mentre,  nella  decisione
n. 121/1970,  la  incostituzionalita'  della giurisdizione penale del
comandante  del  porto  e' stata accertata anche perche' «nelle norme
che   lo   riguardano   non   esiste   alcuna  disposizione  relativa
all'istituto della inamovibilita».
    Al  riguardo,  va  osservato  che  nel d.lgs. n. 654/1948 nori e'
contenuto  alcun  accenno ad eventuali poteri di revoca dell'incarico
ovvero  a  cause  di  decadenza o cessazione dall'incarico del membro
laico  di questo Consiglio e cio' a differenza di quanto previsto non
solo  per  i magistrati ordinari, soggetti al potere disciplinare del
Consiglio  superiore della Magistratura (v. artt. 18 e 19 R.d.lgs. 31
maggio  1946,  n. 511),  ma  anche per i magistrati onorari presso il
giudice  ordinario  (v. art. 9 legge 21 novembre 1991, n. 374, art. 7
legge  22 luglio 1997, n. 276). Ai giudici tributari si applica, poi,
il  regime  di  cui agli articoli 8 e 12 del d.lgs. 31 dicembre 1992,
n. 545.  Ai magistrati laici del Consiglio di Stato e della Corte dei
conti  (e  cioe'  di  nomina  governativa) si applica il regime delle
incompatibilita',  disciplina  e  decadenze stabilito in generale per
tutti  i  magistrati  della Corte o del Consiglio (v. Corte cost. nn.
177/1973,  1/1967  cit. ed alt. 5 T.U. 1034/1924 ed ora articoli 28 e
32  della legge 27 aprile 1982, n. 186 ed alt. 8 T.U. nn. 1214/1934 e
articoli 53 segg. e 76 segg. r.d. n. 1364/1933).
    Similmente,  anche  ai  laici  nominati in Cassazione ed ai laici
designati  nel  T.R.G.A.  dai  Consiglieri  provinciali  di  Trento e
Bolzano  si applicano in tema di decadenza, le stesse norme stabilite
per  i  togati (art. 3 secondo comma legge n. 303/1988, artt. 1 terzo
comma  e  5  terzo  comma  d.P.R. n. 426/1984). Perfino per i giudici
costituzionali  sono  previste  cause  di  decadenza  di procedimento
secondo  cui  applicarle (v. art. 3, legge cost. 1/1948, art. 8 legge
cost.  n. 1/53  articoli 14,  15,  16 Regolamento generale 20 gennaio
1966).
    Nei confronti dei giudici laici del C.G.A. non e' invece prevista
-   ripetesi  -  alcuna  causa  di  decadenza,  revoca  o  cessazione
dall'incarico  e  la  riprova e' data dalla mancata previsione, oltre
che    delle   ipotesi   anzidette,   anche   del   procedimento   in
contraddittorio  che,  come insegna la giurisprudenza costituzionale,
dovrebbe essere sempre previsto per la loro applicazione (Corte cost.
nn. 297/1993 e 107/1994).
    D'altra  parte, il carattere eccezionale stesso delle norme sulla
decadenza,  cessazione  e revoca non consente di colmare la lacuna in
via  interpretativa  con  l'applicazione estensiva od analogica delle
disposizioni  (articoli 32,  33,  34,  legge n. 186/1982) dettate per
tutti  i  magistrati  del Consiglio di Stato (di nomina governativa e
non).
    Non   va   infatti   dimenticato  che,  una  volta  nominato,  il
consigliere  di  Stato  di  nomina  governativa  entra  nei  ruoli di
magistratura  pleno  jure  alla  pari  del  magistrato proveniente da
concorso  o  dai  Tribunale  amministrativo  regionale  ed  e' quindi
naturale  che  sia  identico  tanto  lo  stato  giuridico  quanto  il
trattamento economico (v. nello stesso senso anche gli articoli 1 e 5
del  d.P.R.  6  aprile  1984,  n. 426, che rinviano; per i magistrati
laici del T.R.G.A. allo status di quelli ordinari).
    Per  i  giudici  laici  del  C.G.A.  questa  equiparazione non e'
prevista  ne'  sotto  il  profilo dello status (possono continuare ad
esercitare    la   professione   di   avvocato   e/o   l'insegnamento
universitario,  non  entrano  nel  ruolo ordinario, ne' in un ruolo a
parte)  ne'  sotto  il  profilo economico (il loro compenso ex art. 1
d.lgs.P.R.S. 31 marzo 1952, n. 8 e' dimidiato).
    Talune  di  queste differenze sono ascrivibili alla temporaneita'
dell'incarico  (es.  mancato  ingresso  in  ruolo)  e giustificabili,
almeno  prima  facie,  con  tale  circostanza.  Non lo sono invece la
mancata  previsione  delle  ipotesi  di revoca, decadenza, cessazione
dall'incarico, regime disciplinare e relativi procedimenti.
    Neppure potrebbe sostenersi che ai magistrati laici del C.G.A. si
applichino  tout  court  le  stesse  norme  in  materia di decadenza,
cessazione  dal  servizio  e  poteri  di  disciplina  stabilite per i
magistrati  delle  sezioni  giurisdizionali  del Consiglio di Stato e
cio' in forza del rinvio contenuto nell'art. 7 del d.lgs. n. 654/1948
secondo  cui, per il funzionamento del C.G.A. in sede consultiva e in
sede   giurisdizionale   si  osservano,  in  quanto  applicabili,  le
disposizioni vigenti per il Consiglio di Stato.
    Il  predetto  art.  7 non appare idoneo, di per se', a supportare
tale conclusione, in quanto sembrerebbe piuttosto inteso a richiamare
le  norme organizzative delle segreterie delle sezioni e, al piu', le
norme di procedura avanti il Consiglio di Stato.
    Inoltre,  il  carattere  eccezionale  delle  ipotesi  di  revoca,
decadenza  e  cessazione dal servizio inducono a concludere nel senso
della   inapplicabilita',   a   questi  fini,  dell'art. 5  del  T.U.
1054/1924, dell'art. 28 della legge n. 186/1982 e del procedimento di
cui agli articoli 32 e seguenti della stessa legge n. 186/1982.
    D'altra  parte  l'art.  7 opera un rinvio condizionato alle norme
dettate  per il Consiglio di Stato «in quanto applicabili». Pertanto,
quanto  anche  si  ritenesse  che  il  rinvio  dell'art. 7 del d.lgs.
n. 654/1948   si   potesse   estendere   fino   all'art. 5  del  T.U.
n. 1054/1924,  ed  agli  articoli  28,  32  e  seguenti  della  legge
n. 186/1982,   sarebbe   dubbio  che  ai  laici  del  C.G.A.  possano
automaticamente applicarsi le sanzioni e i procedimenti ivi previsti.
    Per  quanto  concerne le sanzioni, alcune (censura, perdita della
anzianita)  sembrano  ininfluenti  nei  confronti di soggetti che non
entrano nella carriera della magistratura.
    Per  quanto  invece  concerne  i procedimenti, si osserva che nel
procedimento  di  cui  all'ultimo  comma  del  citato art. 5 del T.U.
n. 1054/1924  non  si  prevede  (ne'  si poteva all'epoca prevederlo)
alcun  intervento  dell'autorita' (Giunta regionale siciliana) che ha
designato il membro laico, ma cio' neppure e' previsto negli articoli
32  e  seguenti della legge n. 186/1982, legge peraltro posteriore al
d.lgs. n. 654/1948.
    A  questi  fini  si  potrebbe  invece  ritenere  che la autonomia
regionale, cosi' come si esplica nel procedimento di designazione dei
laici  del C.G.A, dovrebbe ugualmente in qualche modo intervenire nel
procedimento  di  revoca  e  decadenza  degli stessi o nell'eventuale
procedimento di irrogazione di sanzioni disciplinari estreme quali la
rimozione o la destituzione.
    In  questo  senso,  dispone ad esempio, l'art. 5, terzo comma del
d.P.R.  6  aprile  1984,  n. 426 il quale prevede «i provvedimenti di
rimozione,  sospensione  o  collocamento  a  riposo  anticipato  sono
adottati,   limitatamente  ai  magistrati  di  nomina  del  Consiglio
provinciale  di  Bolzano,  previa intesa con il Consiglio provinciale
stesso».
    Ebbene,  le  forme, le modalita', i tempi di un eventuale analogo
intervento  regionale  non  potrebbero  neppure essere ipotizzati nel
silenzio  piu'  assoluto  sia  del  T.U.  n. 1054/1924  e  del d.lgs.
n. 654/1948,   sia   delle   norme   di  cui  alla  successiva  legge
n. 186/1982.
    Se  quanto finora esposto e' esatto, se ne deve concludere che il
membro  laico del C.G.A., attualmente, e per la durata dell'incarico,
gode  di  uno status di inamovibilita' assoluta per cui puo' svolgere
(o   non   svolgere)  come  crede  il  suo  incarico  senza  tema  di
procedimento  disciplinare,  di  revoca o decadenza, ovvero di essere
giudicato inidoneo (per qualsiasi motivo) a continuare nell'esercizio
della sua funzione.
    Tale  conclusione, peraltro, si pone in contrasto con i parametri
costituzionali  dell'art. 3, perche' differenzia irragionevolmente il
regime  dei  laici  rispetto  al  regime dei togati, malgrado ambedue
esercitino  in  collegio la stessa funzione. Inoltre, l'esercizio del
potere  giudicante puo' risultarne non piu' equilibrato, risolvendosi
in  una  sostanziale  disuguaglianza  di  tutela delle parti rispetto
all'esercizio  della  funzione,  con violazione, sotto altro profilo,
dello stesso art. 3 nonche' dell'art. 24 della Costituzione.
    L'anzidetta  conclusione  e'  inoltre in contrasto con la riserva
assoluta  di  legge  che  deve fornire la necessaria disciplina dello
status  di  indipendenza di tutti i magistrati del Consiglio di Stato
ex  art.  100  terzo  comma  Cost.,  e  con  le  garanzie che debbono
assistere (e di converso anche regolare) lo stato giuridico anche dei
giudici  speciali (art. 108 secondo comma Cost.) e, piu' in generale,
di  tutti i giudici, (art. 101 secondo comma Cost.) sottraendoli «nel
loro  giudizio  ad ogni volonta' esterna che non sia quella obiettiva
della  legge»  (v.  Corte  cost. nn. 55/1966, 60/1969, 18/1989). Alle
stesse conclusioni si dovrebbe pervenire ove si ritenesse l'esistenza
in  capo  al  Governo  o  alla  Regione di un potere discrezionale di
revoca  o di decadenza, perche' in tal caso difetterebbe in radice il
requisito dell'indipendenza.
    Puo'    pertanto    sollevarsi    la    seguente   questione   di
costituzionalita':
        D)  dell'art.  2,  quarto  comma lettera b), e, derivatamente
anche  del successivo quinto comma, dell'art. 3 secondo e terzo comma
del  d.lgs.  n. 654/1948  come  sostituiti  dal  d.P.R.  n. 204/1978,
nonche'  dell'art. 7 del d.lgs. n. 654/1948 in rapporto agli articoli
3, 24, 100 terzo comma, 101 secondo comma, 108 secondo comma Cost. in
quanto,  non  prevedendo  ne' cause di revoca, decadenza e cessazione
dall'incarico,  ne'  sanzioni  disciplinari nei confronti dei giudici
laici  del  C.G.A.,  ne'  il  procedimento contenzioso attraverso cui
applicarle,   differenzia   irragionevolmente  il  regime  dei  laici
rispetto   ai   togati  (art. 3),  pone  le  parti  in  posizione  di
disuguaglianza  rispetto  all'esercizio  della funzione (articoli 3 e
24),  viola  il  principio della riserva di legge che deve assicurare
l'indipendenza  di  tutti i giudici (art. 100, 101, 108) e cio' anche
in  relazione  quale  tertia  comparationis  all'art. 9  della  legge
n. 374/1991,  all'art. 7  della  legge  n. 276/1997,  all'art. 12 del
d.P.R.   n. 645/1992.   agli  articoli 53,  54,  62  e  76  del  R.D.
n. 1364/1933,   agli   articoli 28  e  32  della  legge  n. 186/1982,
all'art. 3  secondo  comma  della  legge n. 303/1998, agli articoli 1
terzo  comma  e 5 terzo comma del d.P.R. n. 426/1984, agli articoli 3
legge  cost.  n. 1/1948,  8  legge  cost.  n. 1/1953,  7  legge cost.
n. 1/1953, 14, 15, 16 reg. 20 gennaio 1966.
    29.  -  Cio'  premesso  per quanto concerne l'indipendenza va ora
affrontato il tema relativo alla imparzialita'.
    Va a questo punto precisato che la questione di costituzionalita'
di  cui  appresso  concerne,  sotto  altro  profilo, il citato art. 2
quarto  comma  ed  il  successivo quinto comma del d.lgs. n. 654/1948
come sostituito dal d.P.R. n. 204/1978.
    Tale  questione  si  pone in subordino rispetto alla precedente e
cioe'  qualora  la  precedente sub D) dovesse essere respinta, ovvero
qualora   si   ritenesse  che  il  suo  accogllinento  non  comporti,
derivatamente,  anche  la  incostituzionalita'  del successivo quinto
comma.
    E'  noto  che  il  requisito  della  imparzialita' si differenzia
rispetto  alla  indipendenza perche' quest'ultimo attiene ai rapporti
con  gli  altri poteri dello Stato (ovvero con gli altri organi dello
stesso  potere)  mentre  il  primo vuole sottolineare la posizione di
«indipendenza  del  giudice dagli interessi presenti in giudizio» «di
assoluta   estraneita'  ed  indifferenza  e  percio'  di  neutralita'
rispetto  agli  interessi in causa» (v. Corte cost. n. 93/65) «il cui
primo fondamento risiede nell'art. 3 della Costituzione» (Corte cost.
n. 17/1965).
    A  questo  proposito  occorre  chiarire  il tipo di imparzialita'
della cui sussistenza si dubita.
    Premesso  in  generale  che  l'indipendenza  tocca l'attribuzione
della funzione, mentre l'imparzialita' attiene all'esercizio concreto
della   funzione   stessa,   e'   frequente   la   affermazione   che
l'imparzialita'  del  giudice  viene  assicurata  con  i rimedi della
astensione   e   ricusazione   (Corte  cost.  nn. 53/1970,  108/1962,
103/1964).
    Peraltro,  la stessa giurisprudenza costituzionale ha distinto la
astensione  e la ricusazione come rimedio alla imparzialita' nel caso
singolo,  dalla  imparzialita'  per  cosi'  dire istituzionale che e'
stata  ricondotta  anche  essa  al  concetto  di  indipendenza di cui
all'art.  108  secondo  comma  Cost.  per  quanto  concerne i giudici
speciali.
    Emblematica  e'  la  vicenda  della  giurisdizione  dei  consigli
comunali  in  cui, da una posizione originaria della Corte che negava
la   dedotta   censura   di   imparzialita',  nel  presupposto  della
sufficienza  del  rimedio della astensione e ricusazione (Corte cost.
n. 92/1962),  si  e'  passati  a  considerare che, al di la' del caso
singolo, possono darsi vicende in cui il giudice sia interessato alla
materia  su cui e' chiamato a decidere (Corte cost. n. 93/1965 cit.).
In  questo  caso,  gli  istituti  della  astensione e ricusazione non
giovano e l'imparzialita' rifluisce nella indipendenza.
    Nella successiva giurisprudenza costituzionale si e' ribadito che
il principio della «imparzialita' - terzieta' della giurisdizione ...
ha  pieno  valore costituzionale» e che «non assume la stessa valenza
attribuitagli  con  riguardo  agli  istituti della astensione e della
ricusazione  regolati  da  norme  aventi una diversa ratio» (v. Corte
cost. nn. 51/1998, 284/1986).
    Ormai  e'  anche  chiaro  che  l'imparzialita'  trova attualmente
espresso  riferimento  costituzionale  negli  articoli 24 e 111 della
Costituzione  e  che  «la  ricusazione e' di per se' istituto volto a
porre  rimedio  a  situazioni  eccezionali  e non fisiologiche ne' di
quotidiana   verificazione  che  riguardano  di  volta  in  volta  in
concreto,  singoli  procedimenti  e le rispettive parti» (Corte cost.
n. 78/2002).
    Cio'  premesso,  deve  concludersi  nel  senso  che  allorche' il
profilo  della  imparzialita' trascende il caso singolo e diventa una
questione    necessaria   e   costante   per   tutta   la   attivita'
giurisdizionale che il giudice e' chiamato a svolgere, in questo caso
l'istituto  della astensione e della ricusazione non e' sufficiente e
l'ordinamento ricorre all'istituto della incompatibilita'.
    Con  questo, com'e' noto, vengono individuate le cause che, al di
la'  dei  casi  singoli,  impediscono la legittimazione ad esercitare
determinate funzioni.
    Per  quanto  concerne la funzione giurisdizionale in via generale
si  e'  ritenuto  incompatibile  con  l'esercizio  delle  funzioni di
giudice  il contemporaneo esercizio della professione di avvocato. E'
infatti  troppo  immanente  il rischio o, anche soltanto il sospetto,
che,  al  di  la'  del  caso  singolo,  il giudice sia tentato di far
prevalere  nel  collegio  giudicante determinate tesi giuridiche alle
quali  e'  interessato  come  professionista  legale.  D'altra parte,
nell'attuale  momento  storico,  il  rapporto di trasparenza che deve
esistere tra la Amministrazione della giustizia ed i cittadini impone
che  venga  assicurata la fiducia delle parti nella imparzialita' del
giudice  e che venga tutelata la sua stessa credibilita' come giudice
imparziale.
    Per   i  magistrati  ordinari  l'incompatibilita'  con  qualsiasi
professione  e' sancita dall'art. 16 primo comma del r.d. n. 12/1941.
Per  i  giudici  contabili  dall'art. 76  del  r.d.  12 ottobre 1933,
n. 1364.  Per  i  giudici  amministrativi dall'art. 28 della legge 27
aprile  1982  n. 186 che rinvia alle stesse incompatibilita' previste
per i magistrati ordinari.
    Va  anche  sottolineato che il sospetto di possibile inquinamento
tra  funzione di giudice e professione di avvocato e' cosi' avvertito
dal  legislatore  da  stabilire anche una incompatibilita' di sede in
relazione alla professione di avvocato esercitata da parenti o affini
del   magistrato   (v.   art.  18  r.d.  n. 12/1941  come  modificato
dall'art. 7 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51).
    Anche   nei  casi  eccezionali  dei  giudici  onorari  presso  la
magistratura  ordinaria  si  e'  avvertita  la  necessita' di fissare
almeno   qualche   incompatibilita'   per  materia  e  per  sede  con
riferimento  alle  professioni  legali  (v.  art. 3  comma 1, lettera
c-bis)  e  comma  1-bis  e 1-ter della legge 21 novembre 1991, n. 374
come  aggiunti  dalla  legge  24 novembre  1999  n. 468; v. anche gli
articoli 42-ter  e  71  del R.D. n. 12/1941, nonche' l'art. 42-quater
del  medesimo r.d. n. 12/1941, l'art. 5 primo e secondo comma, l'art.
6  primo  e secondo comma, nonche' il seguente comma 2-bis e 2-ter ed
all'art.  9  primo comma della legge 22 luglio 1997, n. 276 nel testo
originario  e  nelle  successive  modifiche ed integrazioni di cui al
decreto-legge  21  settembre  1998,  n. 328  e alla relativa legge di
conversione 19 novembre 1998, n. 399).
    Pertanto,  anche in una legislazione chiaramente di emergenza (v.
l'epigrafe    del    decreto-legge    n. 328/1998    che   giustifica
l'abbassamento,  sotto  questo profilo, dei requisiti per la nomina a
G.O.A.  con  la  scarsita' delle domande presentate) non si e' potuto
prescindere dall'assicurare, nei limiti del possibile, la separazione
tra  attivita' di giudice e quella di avvocato. Nello stesso senso e'
emblematica  la  vicenda  dei giudidi tributari laici la cui assoluta
incompatibilita'  originaria  con la professione di avvocato e' stata
progressivamente attenuata (v. art. 8 primo comma lett. i) del d.lgs.
31  dicembre 1992, n. 545, poi sostituita dall'art. 31 della legge 27
dicembre 1997, n. 449 e, successivamente, dall'art. 84 della legge 21
novembre 2000, n. 342).
    Peraltro  non  possono  qui  venire in considerazione le medesime
esigenze  straordinarie dianzi ricordate in relazione alla nomina dei
G.O.A.  e  dei  giudici  tributari. Tali esigenze, come da piu' parti
sottolineato  in  Parlamento e fuori, erano e sono riconducibili alla
impossibilita'  per lo Stato di reclutare rapidamente, ma soprattutto
di sostenere l'onere finanziario connesso ad un regime di tempo pieno
per un numero cosi' rilevante di giudici.
    Cio'  premesso  va  evidenziato  che,  alla  stregua dell'art. 2,
quinto  comma  del  d.lgs. n. 654/1948, ai magistrati laici di questo
Consiglio  «e'  interdetto,  per  la durata della carica, l'esercizio
della professione innanzi alle giurisdizioni amministrative».
    Tale  norma va posta in relazione al precedente quarto comma che,
alla  lettera b), prevede che in sede giurisdizionale siano membri di
questo  C.G.A.  «quattro  giuristi  scelti  tra professori di diritto
delle universita' o tra avvocati abilitati al patrocinio innanzi alle
giurisdizioni  superiori.». Il Collegio giudicante, poi, ai sensi del
successivo  quarto  comma e' composto dal Presidente, da due togati e
da due laici.
    La  questione  e'  percio'  rilevante  sia  ai  fini del presente
giudizio  e  comunque  lo e' in via generale in relazione a qualsiasi
possibile composizione del Collegio attuale e futura.
    In  proposito  va  evidenziato  in punto di fatto che attualmente
tutti  i quattro membri laici di nomina regionale di questo Consiglio
risultano    iscritti   all'ordine   degli   avvocati   di   Messina,
Caltanissetta e Palermo ed esercitano la professione. (v. All. C 1, C
2, C 3, C 4).
    Sempre  in punto di fatto, va inoltre sottolineato che per due di
essi il mandato e' contemporaneamente scaduto il 16 maggio 2002 ed e'
in  corso  la procedura di sostituzione, mentre per i restanti due la
scadenza  si  verifichera' rispettivamente il 27 ottobre 2004 e il 20
marzo 2008, (v. All. D, D1, D2, D3, D4, D5, D6).
    Pertanto, quando anche i due laici scaduti fossero sostituiti con
altri  due  non esercenti la professione di avvocato al momento della
nomina la questione rimarrebbe comunque rilevante.
    Al   riguardo   va   innanzitutto   osservato   che,  l'eventuale
declaratoria   di   illegittimita'  costituzionale  della  norma  che
consente   l'esercizio   della  professione,  quando  anche  colpisse
soltanto  due  dei  quattro  membri  laici  del  Collegio, renderebbe
comunque illegittima la composizione del Collegio stesso per mancanza
di  supplenti,  poiche' in tal caso non potrebbero trovare attuazione
le  norme  in  materia  di  astensione e ricusazione e cio' in quanto
l'eventuale designazione di supplenti volta per volta, per le singole
controversie,  contrasterebbe con i principi di cui agli articoli 108
e  25 Cost. in tema di imparzialita' e di precostituzione del giudice
(Corte  cost.  nn.  108/1962, 103/1964, 272/1998, 419/1998, 305/2002,
393/2002).
    In  secondo luogo il Collegio osserva che la questione resterebbe
comunque  rilevante,  a  regime  e  sul piano generale, poiche' nulla
potrebbe   impedire  al  laico  regionale,  ancorche'  non  esercente
all'atto  della  nomina,  di iniziare successivamente la professione,
ovvero di riprenderla.
    In particolare, poi, per quanto concerne il presente giudizio, in
Collegio sono presenti un membro laico gia' scaduto il 16 maggio 2002
ed  un  altro che verra' a scadere il 20 marzo 2008 entrambi iscritti
all'Albo  rispettivamente  di Palermo e Messina ed entrambi esercenti
la professione. (v. All. C1, C3).
    Il  problema  che  si  pone a livello costituzionale consiste nel
valutare  se il giudice - professionista legale sia compatibile con i
principi  costituzionali  dell'art. 108  secondo  comma e 111 secondo
comma.
    La  questione  assume  anche maggiore delicatezza se si considera
che  la  disposizione  del  citato  quinto comma inibisce, in materia
amministrativa,   soltanto  l'esercizio  della  professione  in  sede
contenziosa,  ma  lascia impregiudicato l'esercizio della professione
(sempre in materia amministrativa) svolto in sede consultiva.
    In  tali ipotesi, a parte gli ovvi doveri di astensione allorche'
si trattino, in udienza o in camera di consiglio, questioni su cui il
membro  laico abbia espresso il proprio parere, resta l'interrogativo
se   possa  essere  fornita  consulenza  amministrativa  al  soggetto
(pubblico  o  privato)  sul  cui  comportamento,  sempre  in  materia
amministrativa,  ancorche' su altre fattispecie, si e' poi chiamati a
decidere.
    Nella stessa ottica, peraltro, si pone la consentita attivita' di
patrocinio  delle  parti (pubbliche o private), in materie e avanti a
giurisdizioni  diverse  da  quella  amministrativa,  dal  momento che
permane  la  possibilita'  di  giudicare  il  comportamento di quelle
stesse  parti nel giudizio amministrativo e cioe' le stesse parti che
il  membro  laico  - professionista legale puo' aver difeso avanti ad
altre giurisdizioni.
    Occorre  poi  sottolineare  che  la  vicenda  in esame e' diversa
rispetto  ad  altre  fattispecie  piu'  volte  esaminate  dalla Corte
costituzionale   con   riferimento   agli  estranei  che  partecipano
all'amministrazione   della   giustizia   perche'   in   possesso  di
particolari  competenze  tecniche  ex  art.  102  secondo comma e l08
secondo   comma   della   Costituzione  (v.  da  ultimo  Corte  cost.
n. 83/1998),  ovvero  alle  ipotesi  dei  componenti  delle  speciali
giurisdizioni domestiche (v. da ultimo Corte cost. n. 284/1986).
    La  possibilita'  per  i  primi  di  continuare  ad esercitare la
professione  o  il  lavoro  dipende,  a  seconda  dei  casi,  o dalla
saltuarieta'   dell'esercizio   della  funzione  giurisdizionale  (v.
art. 36 legge 10 aprile 1951, n. 281 sui giudici popolari in Corte di
assise),   ovvero   dalla   ratio   stessa   dell'inserimento   nella
organizzazione  giudiziaria (v. art. 2 R.D.L. 20 luglio 1934, n. 1404
e  successive  modifiche  circa  gli  esperti  nel  tribunale  per  i
minorenni).
    Se  infatti la ratio dell'inserimento e' offerta dalla esperienza
in  una certa professione, e' del tutto naturale che tale professione
possa   essere  esercitata  anche  contemporaneamente  alla  funzione
giurisdizionale  (v. Corte cost. dec. nn. 76/1961, 108/1962, 49/1989,
ord. n. 424/1995).
    Nello  stesso  ordine  di  idee puo' ammettersi l'esercizio della
professione per il giudice laico presente nei collegi giurisdizionali
degli ordini professionali.
    Anche  in  questo  caso,  sia  che  si  tratti  di  giurisdizione
domestica  (come i collegi composti da soli appartenenti all'ordine),
sia   che   si  tratti  di  giurisdizione  speciale  (con  collegi  a
composizione  mista  di  laici  e  togati) o di sezioni specializzate
(Corte  cost.  ord.  n. 424/1989),  e'  evidente  che  per  il  laico
l'esercizio  della  professione  costituisce il presupposto della sua
presenza in collegio (v. Corte cost. nn. 284/1986, 49/1989).
    Nella  specie  invece  non  ricorre  nessuna  delle  ragioni  che
giustificano  il  mantenimento della professione per il giudice laico
di questo Consiglio.
    L'esercizio  della professione di avvocato abilitato innanzi alle
magistrature  superiori  puo'  valere ai fini della valutazione della
idoneita'  a  ricoprire  la  funzione (v. art. 106 terzo comma Cost.,
Corte   cost.  nn.  177/1973,  83/1998,  353/2002),  ma  non  vale  a
giustificare  il  contemporaneo  esercizio  di una professione, nella
quale  il  giudice laico deriva i suoi mezzi di sussistenza, o il suo
piu' o meno elevato tenore di vita, dagli stessi soggetti (pubblici e
privati) che poi deve giudicare.
    Nella  specie  la disposizione di cui al quinto comma dell'art. 2
del  d.lgs.  n. 654/1948 non e' riconducibile a nessuna situazione di
emergenza  del  tipo di quelle indicate in precedenza e concernenti i
G.O.A.  e  i  giudici tributari e, quindi, il contemporaneo esercizio
della  professione  di  avvocato  da  parte  del magistrato laico del
C.G.A.  non  risulta giustificabile ne' sotto questo, ne' sotto altri
profili. In particolare, non potrebbe giustificarsi, come talvolta si
e' adombrato, ne' con la temporaneita' dell'incarico e neppure con la
dimidiazione   del   trattamento  economico  ex  art. 1  del  decreto
legislativo  del  Presidente  della  Regione siciliana 31 marzo 1952,
n. 8,  poi  ratificato dall'art. 1 della legge regionale siciliana 13
marzo 1953 n. 9.
    Invero,  di  fronte  alle  esigenze  di imparzialita' che debbono
essere  assicurate  per  tutti giudizi (Corte cost. n. 78/2002) e per
tutti  i  giudici  anche  temporanei  (Corte  cost.  n. 25/1976),  la
temporaneita'   dell'incarico   potrebbe   giustificare   semmai,  la
temporanea  inibizione  dell'esercizio  della  professione (v. art. 7
legge  n. 87/1953  ed  art. 135  secondo,  terzo  e sesto comma della
Costituzione  nonche'  art. 1 terzo comma d.P.R. 6 aprile 1984 n. 326
come modificato dal d.P.R. 17 dicembre 1987, n. 554 per il T.R.G.A.).
    Similmente,  l'indipendenza  economica puo' essere assicurata con
la  corresponsione dello stesso trattamento economico stabilito per i
giudici  togati,  come prevede, per i laici del T.R.G.A., la norma di
attuazione  da  ultimo citata (per i giudici costituzionali v. art. 6
legge  cost.  n. 1/1957). In questa ottica, l'art. 1 del d.lgs.P.R.S.
n. 8/1952,  ratificato con legge regionale n. 9 del 1953, puo' essere
denunciato  di  incostituzionalita'  in  concorso con il quinto comma
dell'art. 2  del d.lgs. n. 654/1948 in relazione agli articoli 3, 24,
101  primo  comma  e  108 secondo comma della Costituzione, perche' a
parita'  di  funzioni  fissa un compenso inferiore rispetto ai togati
(art. 3)  perche'  non  assicura  l'indipendenza del giudice laico al
pari  di  quello  togato  (101  secondo comma e 108 secondo comma) ed
infine perche' incide negativamente in tal modo sul diritto di difesa
discriminando la posizione delle parti (articoli 3 e 24).
    In  questo  senso  -  e  cioe'  per  la totale incompatibilita' -
dispongono  infatti  le norme che possono essere assunte quale tertia
comparationis  in  relazione  alle  fattispecie attualmente esistenti
della assunzione da parte di estranei alla magistratura dell'incarico
di giudice presso le giurisdizioni superiori e' speciali.
    Infatti,  la  gia' citata legge 5 agosto 1998, n. 303, emanata in
attuazione   dell'art. 106   terzo   comma  della  Costituzione,  nel
disciplinare  la  nomina  di  professori  ed  avvocati all'ufficio di
Consigliere  di  cassazione  dispone, all'art. 2 primo comma lett. e)
che  gli  avvocati  debbono avere cessato, ovvero essersi impegnati a
cessare  l'esercizio  dell'attivita' forense. Una volta poi nominato,
il  giudice  laico  acquisisce  lo status ed e' tenuto all'osservanza
degli stessi doveri dei magistrati ordinari (art. 3 secondo comma), e
gode dello stesso trattamento economico (art. 5). Identica previsione
esiste, come gia' ricordato, per i Consiglieri di Stato e della Corte
dei conti di nomina governativa.
    Disposizione  analoga  si  rinviene  poi  anche  nelle  norme  di
attuazione   dello   statuto  speciale  del  Trentino-Alto  Adige  in
relazione  al  tribunale  regionale  di  giustizia  amministrativa di
quella regione.
    Invero,  per  la  sezione autonoma per la provincia di Bolzano e'
prevista  la  nomina  di avvocati iscritti nell'albo con almeno sette
anni  di effettivo esercizio (art. 2 terzo comma lett. e) del d.P.R 6
aprile  1984,  n. 326).  Tuttavia,  anche  in  questo caso, una volta
nominati,  ad essi «si applicano le norme sullo stato giuridico e sul
trattamento  economico dei magistrati amministrativi regionali» (art.
5  secondo  comma  d.P.R.  n. 326/1984)  e,  di conseguenza, anche il
regime  delle  incompatibilita'  dei  magistrati ordinari, cosi' come
sono  state richiamate, per i magistrati amministrativi, dall'art. 28
della legge n. 186/1982.
    Ne'  il  richiamo delle norme predette quale tertia comparationis
potrebbe  essere  contestato  con  la  circostanza  della  definitiva
assunzione  dello  status  di  magistrato  per  i  laici  nominati in
Cassazione,  nel  Consiglio  di Stato, nella Corte dei conti, e nella
sezione   di   Bolzano   del   tribunale   regionale   di   giustizia
amministrativa  e cio' a differenza dei membri laici del C.G.A il cui
incarico   e'  temporaneo.  Invero,  come  in  precedenza  osservato,
esistono  disposizioni  di  rango  costituzionale  e di attuazione di
leggi  costituzionali  secondo cui anche l'esercizio temporaneo delle
funzioni  giudicanti  comporta  il  divieto,  per  lo stesso periodo,
dell'esercizio  della  professione  di  avvocato.  Oltre all'art. 135
sesto comma della Costituzione, va ricordato che le gia' citate norme
di  attuazione  dello  statuto  del Trentino-Alto Adige disciplinano,
oltre  alla  sezione autonoma di Bolzano, anche quella di Trento. Due
componenti  di  quest'ultima sono designati dal Consiglio provinciale
di  Trento,  possono  essere  scelti anche tra gli avvocati con sette
anni  di  esercizio  effettivo  e  l'incarico  ad  essi  conferito e'
temporaneo  e  dura nove anni. Tuttavia, «per il periodo di durata in
carica  ai  predetti due magistrati si applicano le norme sullo stato
giuridico  e  sul trattamento economico dei magistrati amministrativi
regionali» (art. 1, terzo comma d.P.R. n. 426/1984 cit.).
    Il    Collegio    e'    consapevole    dell'orientamento,   della
giurisprudenza costituzionale secondo cui il principio di uguaglianza
non  comporta il divieto di regolamentazioni diverse dei diversi tipi
di  processo  (Corte  cost.  n. 78/2002  cit.) e che le soluzioni per
garantire  un  giusto  processo  non  debbono seguire linee direttive
necessariamente identiche per i diversi tipi di processo (Corte cost.
n. 38/1999).   Tuttavia,   non  puo'  non  rilevare  come  la  stessa
giurisprudenza  sopraindicata abbia affermato che «a diversi processi
possono corrispondere, in base a scelte discrezionali del legislatore
discipline  differenziate  anche  degli  stessi  istituti purche' non
siano  lesi  principi costituzionali come quello di imparzialita' che
debbono reggere tutti i giudizi» (Corte cost. n. 78/2002 cit.).
    A  questo  proposito  e'  opportuno sottolineare che la questione
dianzi   esaminata,  ad  avviso  del  Collegio  involge  appunto  una
questione di imparzialita' istituzionale del giudice laico del C.G.A.
che  emerge per il tramite della insufficiente disciplina delle cause
di incompatibilita', e che influisce percio' sulla indipendenza.
    Il  rapporto  tra  la imparzialita' a regime (che prescinde cioe'
dal  caso  singolo)  e  l'indipendenza,  e'  stato  evidenziato dalla
giurisprudenza  costituzionale,  anche  sulla  base  del nuovo tenore
dell'art. 111 della Costituzione. La Corte costituzionale, in un caso
sottoposto  al  suo  esame  ha  cosi' deciso «La questione e' fondata
sotto  il profilo della violazione dell'art. 108 della Costituzione e
del principio di indipendenza e terzieta' del giudice, quale elemento
essenziale  alla stessa intrinseca natura della giurisdizione, che si
identifica  nella  indipendenza istituzionale del giudice e nella sua
posizione  di terzo imparziale, qualunque siano le parti in giudizio,
compresa  la pubblica amministrazione. Detto principio riguarda anche
i giudici delle giurisdizioni speciali ed i componenti c.d. laici che
partecipano  alla  amministrazione  della  giustizia»  ed inoltre «In
relazione   alle  funzioni  affidate  ai  componenti  c.d.  laici  il
legislatore   e'  tenuto,  inoltre,  ad  assicurare  le  garanzie  di
indipendenza  (sia  giuridica  che economica) dei predetti "estranei"
(art. 108,  secondo  comma,  della  Costituzione), rafforzate ora dal
nuovo  testo  dell'art. 1 della Costituzione (legge costituzionale 23
novembre  1999,  n. 2)  applicabile  ad  ogni  giudice  in  qualsiasi
processo»  (Corte cost. 353/2002). E' bensi' vero che in quel caso si
trattava  della  fattispecie del giudice - dipendente pubblico di cui
la  pubblica  amministrazione  poteva  gestire  lo stato giuridico ed
economico,  laddove,  nel  caso  in  esame,  si tratta di valutare la
ammissibilita' del giudice - professionista legale, ma, ad avviso del
Collegio,   le  differenze  tra  le  due  fattispecie  non  rivestono
carattere sostanziale.
    Invero,  quantomeno  sotto  il  profilo economico, il rischio che
tale  fattore  possa  influire  sul corretto esercizio della funzione
giudicante  emerge non solo se dipenda da condizionamenti esterni, ma
anche,  a  fortiori,  se  dipenda  da  autocondizionamenti  dovuti al
contemporaneo  esercizio di una professione da cui il giudice trae in
tutto  o  in parte i mezzi di sostentamento o comunque da cui dipende
il suo tenore di vita piu' o meno elevato.
    Ne'  potrebbe  sostenersi  che nella specie il condizionamento e'
escluso  dalla  differenza  di  materia  trattata e cio' in quanto ai
membri  laici  del  C.G.A.  e'  inibito ex art. 2 quinto comma d.lgs.
n. 654/1948 «l'esercizio della professione innanzi alle giurisdizioni
amministrative».  Innanzitutto va rilevato che la norma, mentre vieta
il  patrocinio,  non  vieta,  come  gia' accennato - la consulenza in
materia  amministrativa,  la  quale  non  rientra  quindi  nel tenore
letterale del quinto comma sopra citato.
    Pertanto,  e  cio'  di fatto si e' verificato, da parte di taluni
membri  laici  di  questo  Consiglio sono state assunte consulenze di
pubbliche  amministrazioni  per  lo  piu'  aventi sede in Sicilia (v.
parere  Adunanza  generale  27 febbraio 2003, n. 273/2003). Al di la'
dell'obbligo  di  astensione,  o  delle ipotesi di ricusazione ove la
consulenza  resa  dal  membro  laico  del  C.G.A. aveva ad oggetto la
fattispecie  dedotta  in giudizio, la stessa possibilita' di assumere
la  consulenza  di  pubbliche  amministrazioni,  fa  emergere  quella
incompatibilita'  istituzionale tra funzioni di giudice e professione
di  avvocato  che  anche  le  norme  piu' permissive in materia hanno
voluto   evitare.   L'art. 8   primo  comma  lettera  i)  del  d.lgs.
n. 545/1992   nel   testo  attuale  prevede  che  l'esercizio,  anche
saltuario,  della  consulenza tributaria e' causa di incompatibilita'
ai fini della nomina a componente delle commissioni tributarie.
    Sotto altro profilo va poi rilevato che ormai, con sempre maggior
frequenza,  gli  interessi  della  pubblica  amministrazione  trovano
attuazione  non soltanto attraverso atti amministrativi e nell'ambito
del  processo  innanzi  al  giudice  amministrativo.  E'  sufficiente
esemplificare  richiamando  la  materia  del  pubblico  impiego ormai
demandata   al   giudice   ordinario,  laddove  i  relativi  atti  di
organizzazione   a   monte   rimangono   di  competenza  del  giudice
amministrativo.  In  campo penale non poche volte la esistenza stessa
del  reato  dipende  dalla  esistenza e legittimita' di provvedimenti
amministrativi  come  dimostra  ad  esempio la materia dell'edilizia.
Altri  esempi potrebbero essere ricondotti alla materia dei contratti
con le pubbliche amministrazioni. E' noto che non sempre l'esecuzione
del  contratto rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo
(v.  art. 23-bis  primo  comma lett. b) legge n. 1034/1971) e che, in
determinati   casi,   la  sorte  del  contratto  puo'  dipendere  sia
dall'accertamento della legittimita' o meno degli atti amministrativi
a  monte,  sia dall'accertamento della legittimita' dell'esercizio di
poteri   autoritativi   che   permangono   in   capo   alla  Pubblica
amministrazione.
    Da  tutte le ipotesi dianzi elencate emerge come il giudice laico
potrebbe  avere  interesse  ad  assumere  in  collegio un determinato
orientamento  su  questioni  giuridiche  che  influiscono  su vicende
connesse o derivate e che egli tratta, ancorche' con parti diverse (o
anche  con  le  stesse), nelle sue vesti di avvocato innanzi ad altre
giurisdizioni.
    Peraltro il Collegio ritiene che il solo divieto della consulenza
amministrativa  non  sia  sufficiente  ad assicurare l'osservanza dei
canoni  di  cui  agli  articoli 108 secondo comma e 111 secondo comma
della Costituzione poiche', la possibilita' di continuare l'esercizio
della  professione  forense eventualmente in associazione, o comunque
con  studio  in  comune  con colleghi che possono patrocinare in sede
amministrativa, puo' non assicurare la sostanza e comunque non tutela
la credibilita' del giudice come terzo imparziale.
    Il  Collegio  e'  consapevole della giurisprudenza costituzionale
secondo cui la eventuale patologia non incide sulla costituzionalita'
della  norma (v. Corte cost. ord. n. 377/1993, dec. 101/1995), ma, in
tema  di  imparzialita'  anche  la  sola  apparenza  diviene sostanza
poiche',  mancando  l'apparenza,  anche  in assenza di patologia puo'
risultare  ugualmente compromessa, sia la fiducia del cittadino nella
esistenza di un giudice imparziale, sia l'immagine di quest'ultimo.
    Al riguardo va ribadito che le incompatibilita' (che nella specie
si  ritiene  debba  essere totale) sono poste non solo a garanzia del
cittadino che adisce il giudice, ma anche a tutela del giudice stesso
e della magistratura cui appartiene. Da un lato infatti sono volte ad
assicurare  l'esatto  adempimento  dei  doveri d'ufficio e ad evitare
ogni  possibile  confusione  tra  il ruolo del magistrato e quello di
esercente altre attivita' estranee alla funzione giurisdizionale, ma,
dall'altro,  tendono anche a salvaguardare la dignita' e il prestigio
del  singolo  magistrato e dell'ordine giudiziario (Cass. Sez. Un. 22
aprile 1992, n. 4786).
    Il  Collegio  osserva  infine,  senza volere minimamente sminuire
l'importanza  del  canone di imparzialita' in ogni grado di giudizio,
che  nell'ultimo  grado,  quale  quello  attuale,  tale  esigenza  si
evidenzia in modo ancora piu' incisivo.
    Puo'   pertanto   porsi   l'ulteriore   seguente   questione   di
costituzionalita':
        E)  dell'art. 2  quarto  comma  lettera  b)  e del successivo