IL TRIBUNALE Premesse in fatto le seguenti circostanze: 1. - Con atto notificato il 4 - 6 mario 2000 il prof. Prodi ha convenuto in giudizio l'on. P. Armani, la societa' Europa di Edizioni S.p.a. e il dott. Mario Cervi, direttore responsabile, avanti questo tribunale, per ivi sentirli condannare in solido, previo accertamento del reato di diffamazione, al risarcimento dei danni derivati dalla pubblicazione sul quotidiano «Il Giornale» del 30 novembre 1999 di un articolo - intervista, avente ad oggetto presunti retroscena sul cosiddetto «affare SME» (proc. 18685/2000). 2. - Con ricorso in data 27 dicembre 2000, il Tribunale di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera - adottata nella seduta del 23 maggio 2000, su conforme proposta della giunta per le autorizzazioni a procedere - con la quale la Camera ha affermato che le dichiarazioni oggetto del giudizio civile instaurato dal prof. Romano Prodi dovevano essere ritenute insindacabili, in applicazione dell'art. 68, comma 1, Cost. 3. - La Corte costituzionale, con sentenza n. 521/2002, ha stabilito che le dichiarazioni del prof. Armani non rientravano nelle sue funzioni di parlamentare e come tali potevano essere sottoposte al vaglio dell'autorita' giudiziaria. 4. - L'attore quindi riassumeva il giudizio ed alla prima udienza il difensore del convenuto Armani chiedeva che fosse applicata la nuova normativa introdotta con l'art. 3, comma 1, della legge n. 140/2003 che recita: «L'articolo 68, primo comma, della Costituzione si applica in ogni caso per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni per le interpellanze e le interrogazioni per gli interventi nelle assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata per ogni altro atto parlamentare per ogni altra attivita' di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento.». Il tribunale ritiene di dover rimettere alla Corte costituzionale il giudizio sulla legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, legge n. 140 del 2003 per violazione dell'art. 68 Cost., comma 1, 24 e 3 Cost. Va preliminarmente evidenziato che non si puo' condividere l'assunto di parte attrice secondo cui la normativa introdotta non e' applicabile al presente giudizio. La norma invero, considerata la natura interpretativa della legge significativamente intitolata «Disposizioni per l'attuazione dell'articolo 68 della Costituzione ...», deve trovare applicazione anche al procedimento pendente. Tale norma, nel tipizzare nella prima parte le attivita' parlamentari, prevede poi nel finale una sovrapposizione dei due istituti giuridici distinti della funzione parlamentare e della funzione di parlamentare, inserendo un criterio soggettivo - elettorale, come quello di funzione di parlamentare, di natura maggiormente indefinita. In sostanza l'intervento legislativo si traduce in un ampliamento del concetto di insindacabilita' espresso al Costituente, superando l'ormai consolidato orientamento della Corte costituzionale secondo cui la prerogativa in esame non copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento della sua attivita' politica, ma solo quelle legate da nesso funzionale con le attivita' svolte nella sua qualita' di membro della Camera: nesso da intendere «non come semplice collegamento di argomento o di contesto fra attivita' parlamentare e dichiarazione, ma come identificabilita' della dichiarazione stessa quale espressione di attivita' parlamentare»; il problema specifico della riproduzione, all'esterno degli organi parlamentari, di dichiarazioni gia' rese nell'esercizio di funzioni parlamentari si puo' risolvere nel senso dell'insindacabilita' «solo ove sia riscontrabile una corrispondenza sostanziale di contenuti con l'atto parlamentare, non essendo sufficiente a questo riguardo una mera comunanza di tematiche». E tale principio e' stato sostanzialmente espresso nella sentenza della Corte, che, in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ha sottoposto al vaglio dell'autorita' giudiziaria le dichiarazioni rese dal deputato Armani. Ora si chiede a questo giudice di valutare nuovamente la sindacabilita' delle dichiarazioni rese, alluce della normativa introdotta. L'art. 3, comma 3, legge citata impone al giudice civile, quando e' rilevata o eccepita l'applicabilita' dell'art. 68, comma 1, Cost., ove non ritenga applicabile la guarentigia costituzionale, di trasmettere con ordinanza non impugnabile copia degli atti direttamente alla Camera a cui il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento del fatto. E' evidente quindi la rilevanza della questione relativa all'art. 3, comma 1, legge n. 140/2003, di cui si chiede l'applicazione, e nel contempo la non manifesta infondatezza. In conclusione, con legge ordinaria e' stata interpretata una norma costituzionale, con la previsione di una prerogativa per i parlamentari, di fatto senza alcun limite, cosi' snaturando la ratio dell'art. 68 Cost. nell'interpretazione datane dalla Corte costituzionale. L'interpretazione della Corte tendeva a definire il contenuto della norma costituzionale di carattere eccezionale, in un contemperamento di interessi contrapposti di pari rango quali quelli dell'autonomia delle istituzioni parlamentari e quelli privati di ciascun individuo di veder tutelati i diritti fondamentali della persona (onore, reputazione ....). La disciplina adottata si pone quindi al di fuori anche dell'art. 24 della Cost., comprimendo i diritti della persona offesa, cui si preclude tutela in sede giudiziaria. Ed ancora viola il principio sancito dall'art. 3 Cost., prevedendo un'illimitata prerogativa dei parlamentari e quindi di una specifica categoria in violazione del principio di uguaglianza, con una compressione dei diritti fondamentali dell'individuo. Non sfugge al giudice remittente l'orientamento di questa Corte che ha ritenuto irrilevanti le questioni di costituzionalita' quante volte l'intervento richiesto si sarebbe potuto tradurre nella introduzione ovvero nella reintroduzione di una norma incriminatrice. A tale conclusione e' pervenuto il Giudice delle leggi in quanto nel giudizio, nel cui ambito e' sorta la questione, non avrebbe potuto trovare applicazione una pronuncia di illegittimita'; e cio' ex art. 2 c.p. Nel giudizio civile pero' l'accertamento del reato di diffamazione puo' al piu' tendere ad una pronuncia sul risarcimento dei danni ed in nessun caso implica l'irrogazione delle sanzioni penali. Nel caso concreto quindi non trova applicazione l'art. 2 cit rilevando soltanto il profilo del danno. Significativamente non si rinviene nella disciplina civilistica una norma corrispondente al citato art. 2, tanto che non e' ipotizzabile che, nel caso di successione di leggi civili, debba applicarsi necessariamente quella piu' favorevole a chi il danno ebbe a produrre. Tutto cio', naturalmente, lascia impregiudicata ogni determinazione in punto di sussistenza del danno ovvero se, rilevi nel caso, il solo danno patrimoniale o anche quello non patrimoniale (o morale) ex art. 2059 c.c.