Ricorso della regione Emilia-Romagna, in persona del presidente della giunta regionale pro tempore sig. Vasco Errani, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 289 del 16 febbraio 2004, rappresentata e difesa, come da procura del 19 febbraio 2004, n. 25772 di rep., rogata dal notaio Viapiana del collegio di Bologna, dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova, dall'avv. prof. Franco Mastragostino di Bologna e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'avv. Manzi, Via Confalonieri, n. 5; Contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della legge 24 dicembre 2003, n. 350, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 299 del 27 dicembre 2003, Suppl. ordinario n. 196/L, con riferimento alle seguenti disposizioni: art. 2, commi 21, 38, 53 e 70; art. 3, commi 17, 18, 20, 32, 43, 49, 53, 58, 60, 75, 76, 77, 82, 92, 101, da 108 a 115, 116, 117; art. 4, commi da 1 a 6, 9 e 10, 18 e 19, 29 e 30, 61 e 63, 82 e 83, da 100 a 102, da 106 a 111, da 112 a 115, 157, 159, 204, da 209 a 211, da 215 a 217, 236; per violazione degli artt. 3, 97, 117, 118, 119 Cost., e dei principi costituzionali di legalita' sostanziale, uguaglianza, ragionevolezza e leale collaborazione, nei modi e per i profili di seguito illustrati. F a t t o La legge 24 dicembre 2003, n. 350 (finanziaria 2004) contiene diverse disposizioni concernenti molte e differeriziate materie, accomunate dal fatto di avere direttamente o indirettamente rilievo finanziario. Molte di queste disposizioni che riguardano materie di competenza regionale, ed alcune di esse, qui impugnate, sono ad avviso della ricorrente regione costituzionalmente illegittime. Da qui la necessita' della proposizione del presente ricorso attraverso cui si contesta l'illegittimita' costituzionale di tali disposizioni, in relazione alle quali l'intervento del giudice costituzionale puo' valere ad impedire che si consolidino situazioni non corrispondenti al nuovo assetto conseguente alla riforma del Titolo V e che si pregiudichino prerogative e competenze di sicura spettanza regionale. Le disposizioni impugnate risultano in particolare illegittime ed invasive per le seguenti ragioni di D i r i t t o 1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 21. Il comma 21 dell'art. 2 dispone che «fino al 31 dicembre 2004 restano sospesi gli effetti degli aumenti delle addizionali e delle maggiorazioni di cui alla lettera a) del comma 1 dell'articolo 3 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, eventualmente deliberati; gli effetti decorrono, in ogni caso, a decorrere dal periodo d'imposta successivo alla predetta data». La norma dunque proroga per l'esercizio 2004 la sospensione degli aumenti delle addizionali all'IRPEF per i comuni e le regioni e della maggiorazione dell'aliquota IRAP. Al contrario della precedente legge finanziaria, la sospensione, pero', non e' disposta in via transitoria, in attesa di un imminente accordo in sede di conferenza unificata tra Stato, regioni ed enti locali sui meccanismi strutturali del federalismo fiscale, ma vale comunque sino al 31 dicembre 2004. Codesta ecc.ma. Corte costituzionale ha gia' avuto occasione di affermare con la sentenza n. 37/2004 (facendo seguito alle sentt. nn. 296 e 297 del 2003), che «oggi non si danno ancora, se non in limiti ristrettissimi, tributi che possano definirsi a pieno titolo "propri" delle regioni o degli enti locali», autonomamente disciplinabili dalle leggi regionali, nel rispetto solo di principi di coordinamento. «Anche i tributi di cui gia' oggi la legge dello Stato destina il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi, e per i quali la stessa legge riconosce gia' spazi limitati di autonomia agli enti quanto alla loro disciplina - e che percio' la stessa legislazione definiva talora come "tributi propri" delle regioni, nel senso invalso nella applicazione del previgente art. 119 della Costituzione - sono istituiti dalla legge statale e in essa trovano la loro disciplina, salvo che per i soli aspetti espressamente rimessi all'autonomia degli enti territoriali». In base a queste premesse, la regione non puo' contestare il potere dello Stato di dettare norme modificativee della disciplina dei tributi locali esistenti, in attesa che sia il legislatore statale a definire il rapporto tra legislazione statale e legislazione regionale per quanto attiene alla disciplina di grado primario dei tributi locali. Tuttavia, come codesta Corte ha pure sottolineato nella stessa sent. 37/2004, la situazione di transizione non consente affatto al legislatore statale di sopprimere gli spazi di decisione autonoma che la legislazione previgente consentiva alle regioni ed agli enti locali. Se essi non possono per il momento decidere essi stessi modifiche, il legislatore statale e' pero' vincolato, nel senso che esso non puo' evidentemente legiferare in una direzione diversa da quella imposta dall'art. 119 Cost. In termini davvero minimi, questo vincolo si traduce in una clausola stand still, ossia nel divieto di modificare in pejus il livello di autonomia, gia' garantito dalla legislazione dello Stato. Sottolinea infatti la gia' ricordata sentenza di codesta ecc.ma Corte, che «in proposito vale ovviamente il limite discendente dal divieto di procedere in senso inverso a quanto oggi prescritto dall'art. 119 della Costituzione, e cosi' di sopprimere semplicemente, senza sostituirli, gli spazi di autonomia gia' riconosciuti dalle leggi statali in vigore alle regioni e agli enti locali, o di procedere a configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica i principi del medesimo art. 119». Il comma 21 invece sospende la potesta', riconosciuta alle regioni ed agli enti locali dalla stessa disciplina statale, di aumentare l'addizionale IRPEF loro spettante e quella riconosciuta alle regioni di maggiorare l'aliquota lRAP rispetto a quella stabilita dalla legge istitutiva. La norma risulta dunque, per entrambi i profili, in contrasto con la piu' ampia autonomia impositiva riconosciuta dalla nuova formulazione dell'art. 119 della Costituzione. Inoltre, poiche' come e' noto, il bilancio regionale deve necessariamente chiudere in pareggio, la carenza di risorse finanziarie che la disposta sospensione produce, dato il blocco di un fondamentale canale di finanziamento delle competenze regionali, e' destinata a determinare una contrazione delle politiche regionali che si realizzano tramite l'allocazione delle risorse libere. Percio', la disposizione viola anche il principio di «autosufficienza finanziaria» sancito dall'art. 119, terzo comma, Cost., e non consente l'ordinario esercizio delle competenze proprie della regione di cui agli artt. 117 e 118 Cost. 2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 38. Il comma 38 prevede che, «allo scopo di promuovere la diffusione della cultura italiana e di sostenere lo sviluppo delle attivita' di ricerca e studio e' autorizzata la spesa di 100.000 euro per l'anno 2004», specificando poi che «le disponibilita' di cui al presente comma sono destinate prioritariamente all'erogazione di contributi, anche in forma di crediti di imposta, a favore degli istituti di cultura di cui alla legge 17 ottobre 1996, n. 534, per la costruzione della propria sede principale», ed aggiungendo che «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono adottate le disposizioni attuative del presente comma». Il comma 38, in pratica, prevede un contributo per la costruzione della sede di determinati istituti di cultura di cultura di cui alla egge n. 534/1996: i quali, giova ricordarlo, sono istituti che, essendo in possesso di determinati requisiti (elencati nell'art. 2 della legge n. 534/1996), sono ammessi a godere di un contributo statale mediante l'inserimento in una apposita tabella. Tale sistema si giustificava nella vigenza dell'originario Titolo V della Costituzione, quando la competenza legislativa in materia spettava allo Stato. Dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001, invece, erogazioni di contributi quali quella prevista dalla norma impugnata ad avviso della ricorrente regione non hanno piu' fondamento costituzionale e non sono piu' legittime. L'intervento puo' essere ricondotto alle materie della «valorizzazione dei beni culturali» e della «ricerca scientifica». In tali materie, entrambe di competenza concorrente, a termini dell'art. 117 Cost. la potesta' legislativa spetta alle regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, che spetta allo Stato. Lo stanziamento di somme per interventi statali diretti non costituisce certo un principio fondamentale della materia, da attuare mediante legislazione regionale. Ne' si puo' dire (e neppure viene affermato) che vi siano esigenze che richiedano la diretta gestione statale di tali interventi. Ne', ancora, si puo' dire che si tratti di interventi volti a sostenere la competitivita' del sistema economico (meno ancora, poi, di «rilievo macroeconomico»), giustificabili nell'ambito della funzione statale di tutela della concorrenza in base alla sentenza di codesta ecc.ma Corte n. 14 del 2004. Invero, lo strumento di intervento utilizzato dalla legge non e' compatibile con il nuovo quadro costituzionale, nel quale allo Stato non spetta di erogare speciali risorse per contributi a favore degli istituti di cultura, spettando ad esso, invece, di finanziare «integralmente» (art. 119, comma 4) le funzioni regionali, nell'esercizio delle quali, poi le regioni dovranno disciplinare la materia - ed in questa gli eventuali contributi agli istituti stessi - nel quadro dei principi fondamentali eventualmente stabiliti dalla legislazione dello Stato. Il comma 38, dunque, viola sia l'art. 117, comma 3, che l'art. 119 Cost. E' inoltre illegittima la previsione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sostanzialmente regolamentare, in materie di competenza concorrente, per violazione dell'art. 117, comma 6, Cost. (sulla necessita' di utilizzare il criterio «sostanziale» per determinare la natura dell'atto v. la sent. n. 88 del 2003). 3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 53. Il comma sopra citato concerne l'aumento dei canoni per le concessioni d'uso del demanio marittimo per finalita' turistico-ricreative, e modifica le disposizioni del comma 22 dell'art. 32 del d.l. n. 269/2003, come convertito dalla legge n. 326/2003, disposizioni che la regione Emilia-Romagna ha gia' fatto oggetto di apposita impugnazione. La disposizione della Legge Finanziaria ora impugnata ha modificato il comma 22 stabilendo che l'aumento dei canoni di concessione e' fissato con un decreto interministeriale, da emanarsi entro il 30 giugno 2004, al quale e' indicato, come unico parametro o indirizzo, l'obiettivo finanziario di assicurare «maggiori entrate non inferiori a 140 milioni di euro a decorrere dal 1° gennaio 2004»: decorso il termine per l'emanazione di tale decreto, scatta automaticamente e retroattivamente la quadruplicazione del canone. Come e' noto, tutte le funzioni amministrative inerenti allo sfruttamento per finalita' turistico-ricreative del demanio marittimo sono state conferite alle regioni a far tempo dal d.lgs. n. 112/1998. In precedenza erano state delegate alle regioni gia' dall'art. 59 del d.P.R. 616/1977, in considerazione della stretta attinenza dell'esercizio delle funzioni concessorie con la materia turismo e attivita' ricreative. In effetti, in molte regioni, e segnatamente nell'Emilia-Romagna, il demanio marittimo rappresenta un fattore di enorme importanza per la politica e l'economia del turismo. Con la presente impugnazione la regione non contesta il diritto dominicale dello Stato di fissare un canone per l'utilizzo dei suoi beni demaniali. Essa contesta invece la legittimita' costituzionale della misura, del metodo e della forma con cui l'aumento e' stato deciso, in quanto tale illegittimita' costituzione comporta una lesione delle competenze regionali nella materia del turismo. Quanto alla misura, non puo' non essere rilevato che la quadruplicazione del canone e' contemporaneamente: un intervento dagli effetti assai gravi per la totalita' delle imprese balneari; una misura discriminatoria rispetto agli altri canoni; non fondata su specifiche considerazioni di fatto e sul livello dei precedenti canoni. Va rilevato che i canoni erano stati fissati con il d.m. 342 del 1998, per cui, dato l'andamento contenuto dell'inflazione, non rappresentavano certo evidenti anacronismi rispetto alla attuale realta' economico-finanziaria: tanto piu' che l'art. 4 del decreto-legge n. 400/1993 prevede che «i canoni annui relativi alle concessioni demaniali marittime sono aggiornati annualmente, con decreto del Ministro della marina mercantile, sulla base della media degli indici determinati dall'ISTAT». E' singolare che proprio su questa unica categoria di canoni si sia percio' concentrata la rapace attenzione del Tesoro, trascurando ben altri e piu' lucrosi settori in cui i beni pubblici sono sfruttati per produrre reddito a favore degli operatori privati; per lo stesso sfruttamento del demanio marittimo il provvedimento crea un'ingiustificata discriminazione tra gli imprenditori turistici e le altre categorie di imprenditori che usano il demanio per finalita' non turistiche, Come detto, non si contesta il potere del Governo di valutare per quali categorie di beni pubblici sia conveniente e in che misura elevare i canoni dell'utilizzazione privata; ma e' evidente che queste valutazioni non possono prescindere dal rispetto dei consueti criteri di ragionevolezza, congruita' e giustizia, nonche' dalla corretta considerazione degli interessi della regione e delle loro attribuzioni in materia turistica. la forte incidenza del fattore fiscale sulla operativita' delle imprese turistiche, infatti, compromette l'azione promozionale, di programmazione e di sviluppo che la Regione Emilia-Romagna ha esercitato in un settore fondamentale per il suo sviluppo economico. Inoltre, un aumento cosi' esorbitante del canone di concessione comprime le risorse degli imprenditori turistici impedendo loro di intraprendere gli investimenti necessari per restare competitivi in un settore che e' ormai diventato altamente concorrenziale, e gravemente riduce la possibilita' per essi di proseguire in quelle opere e iniziative che tradizionalmente sono state dirette ad interessi pubblici quali la sicurezza degli utenti, la tutela ambientale ecc. Inoltre, per la stessa regione, di conseguenza, diventa impossibile qualsiasi aggioniamento dei propri diritti di imposta, attualmente prevista e disciplinata dalla legge regionale 31 maggio 2002, n. 9, attraverso i quali e' stato possibile finanziare l'esercizio delle funzioni amministrative (di rilascio, rinnovo, modifica delle concessioni demaniali marittime a finalita' turistico-ricreative, di quelle inerenti ai porti di interesse regionale e sub-regionale ed inerenti ad esercizio del commercio su aree demaniali) in larga parte delegate agli enti locali. Risulta evidente la sproporzione tra i diritti derivanti dalla mera e passiva proprieta' dei beni demaniali e i diritti derivanti dall'attivo esercizio di importanti funzioni amministrative, legate allo sviluppo economico, alla sicurezza, alla tutela ambientale. Quanto al metodo, va rilevato che il d.l. n. 400/1993, cosi' come convertito dalla legge n. 494/1993, aveva correttamente considerato lo stretto legame che deve sussistere tra la determinazione dei diritti spettanti al proprietario e gli interessi dei soggetti chiamati ad amministrare tali beni a fini turistici e a disciplinare la materia: infatti, veniva previsto dall'art 3 del decreto-legge che «i canoni annui per concessioni con finalita' turistico-ricreative di aree, pertinenze demaniali marittime e specchi acquei per i quali si applicano le disposizioni relative alle utilizzazioni del demanio marittimo sono determinati, a decorrere dal 1° gennaio 1994, con decreto del Ministro della marina mercantile, emanato sentita la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano». Di questo indispensabile passaggio procedurale si e' invece persa la traccia sia nei commi 21 e 22 del testo originale del decreto-legge, sia nella disposizione fatta oggetto di impugnazione con il presente ricorso, nonostante fosse stato esplicito l'invito formulato alla Camera dei deputati nel corso dell'approvazione della legge di conversione (si veda l'o.d.g. presentato dall'on. La Malfa il 19 novembre 2003). La deliberata esclusione del parere della Conferenza Stato-regione nel procedimento di adozione del decreto ministeriale cui e' rinviata la fissazione del canone, si riverbera percio' nella violazione del principio di leale collaborazione che, come la costante giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato, rappresenta l'ineliminabile onere procedurale che deve essere assolto da tutti i provvedimenti che incidono su «materie» in cui gli interessi dello Stato convergono e devono armonizzarsi con quelli delle regioni. Quanto alla forma, infine, la gia' scarsa coerenza tra i commi 21 e 22 del testo originale e' stata ulteriormente aggravata dalla riforma introdotta dalla successiva legge finanziaria. Persino nei lavori parlamentari (si veda ancora l'o.d.g. La Malfa) non risultava affatto chiara la portata dei due commi, sembrando addirittura possibile un'interpretazione per cui essi prevedessero due provvedimenti diversi, il comma 21, ma non il 22, riguardando le concessioni a finalita' turistico-ricreative. Ogni invito delle Camere a riconsiderare la questione e a chiarire il testo legislativo (si veda l'o.d.g 9/4447/1996 proposto dall'on. Cazzaro, approvato dalla Camera dei deputati e accettato dal Governo) e' stato disatteso, dato che la modifica introdotta dalla legge finanziaria non chiarisce affatto i rapporti i due commi, ne' introduce il doveroso obbligo dello autorita' ministeriali di sottoporre il provvedimento al previo parere della Conferenza Stato-regioni. Per tutti gli enunciati profili la disposizione impugnata risulta lesiva delle attribuzioni regionali garantite dall'art. 117 Cost., del principio di leale collaborazione, del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., del principio di certezza del diritto e del generale canone di ragionevolezza delle leggi. 4. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 70. I commi 6, 9, 11 e 24 dell'art 32 del d.l. n. 269/2003, come convertito dalla legge n. 326/2003, prevedevano il reperimento e la destinazione vincolata di risorse preordinate alla effettuazione di interventi di riqualificazione di nuclei edilizi ed urbani caratterizzati da abusivismo edilizio: si trattava di un timido tentativo di giustificare in termini di «governo del territorio» l'introduzione di un nuovo condono edilizio, motivato esclusivamente dall'esigenza di reperire ulteriori risorse finanziarie, condono che la Regione Emilia-Romagna ha gia' impugnato, con ricorso avverso l'art. 32 del decreto-legge n. 269/2003, che risulta pendente avanti a codesta Corte con il n. 83/2003, cui e' seguita l'impugnazione della legge n. 326/2003, che ha convertito il d.l. lasciando nella sostanza inalterate quasi tutte le disposizioni censurate. Il comma 6, in particolare, destinava 10 milioni di euro per l'anno 2004 e 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006 al fine di concorrere alla partecipazione ad interventi e politiche di riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di abusivismo, attivati dalla regioni attraverso l'incremento della oblazione, secondo quanto disposto dal comma 33. Parimenti, al comma 9 del decreto-legge come convertito, erano previste risorse finanziarie per attivare un programma nazionale di interventi di riqualificazione delle aree per degrado economico-sociale (i cui ambiti di rilevanza ed interesse nazionale erano da individuarsi con decreti del Ministero per le infrastrutture, di concerto con i Ministri dell'ambiente e d'intesa con la conferenza unificata) e, ai successivi commi 11 e 24, rispettivamente per interventi di recupero e riqualificazione paesaggistica, nonche' per la valorizzazione e il miglioramento delle aree demaniali. Sennonche' tali risorse finanziarie - gia' ritenute palesemente insufficienti dalle regioni - sono state completamente espunte dal testo legislativo ad opera della disposizione della legge finanziaria 2004, oggetto della presente impugnazione. Il comma 70 dell'art. 2 ha abrogato seccamente i commi 6, 9, 11 e 24, del sopra citato art. 32 della legge n. 326/ 2003, con cio' cancellando dal sistema di reimpiego di parte dei fondi provenienti dal condono e dalla stessa ratio dell'art. 32, qualsivoglia concreta possibilita' di attuazione degli interventi di riqualificazione previsti, su un piano non certamente marginale, dalle misure di condono edilizio. Mentre tale misura rafforza la irragionevolezza e la scarsa attendibilita' del meccanismo congegnato attraverso le varie disposizioni di cui all'art. 32, per realizzare finalita' di reale e credibile intento di riqualificazione del territorio - il che e' stato rilevato nei ricorsi richiamati - essa appare a sua volta lesiva delle attribuzioni regionali. Infatti, l'istituzione di un finanziamento a destinazione vincolata, volto a coprire interventi di competenza regionale, rientranti nelle funzioni proprie che le regioni esercitano in materia di «governo del territorio», sarebbe illegittimo, come codesta Corte ha piu' volte rilevato (cfr. sentt. 370/2003, 16/2004 e 49/2004) perche' lederebbe l'autonomia finanziaria delle regioni stesse. L'abolizione del finanziamento non puo' sottrarsi alle stesse censure: la decisione unnilaterale dello Stato di estinguere una linea di finanziamento diretta a sostenere compiti rientranti nelle funzioni delle regioni e degli enti locali, se da un lato costituisce un vulnus all'obiettivo che la costituzione assegna al legislatore statale, attribuendogli la potesta' legislativa esclusiva per la «tutela dell'ambiente o dell'ecosistema» - configurabile non come «materia in senso tecnico», ma teleologicamente come «valore» costituzionalmente protetto (sent. 407/2002) - dall'altro lascia regioni e enti locali privi delle risorse necessarie per un corretto recupero delle opere abusive condonate. Essendo fuori di dubbio che il condono deciso dallo Stato produrra' la stabilizzazione e il consolidamento di situazioni di grave degrado edilizio, urbanistico, paesistico ed ambientale, viene meno una fonte di finanziamento che la regione aveva giudicato insufficiente nella misura e illegittima nelle modalita', ma la cui eliminazione non puo' che tradursi in una lesione ancora piu' grave della loro autonomia finanziaria. 5. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 17, 18 e 20. La legge n. 350 del 2003 dedica alcune disposizioni alla precisazione della regola posta dall'art. 119, sesto comma, secondo il quale le regioni possono ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento. Ribadita al comma 16 tale regola, il comma 17 stabilisce quali operazioni costituiscano indebitamento, e rientrino cosi' nel divieto. Precisamente, esso dispone (primo periodo) che «per gli enti di cui al comma 16 costituiscono indebitamento, agli effetti dell'articolo 119, sesto comma, della Costituzione, l'assunzione di mutui, l'emissione di prestiti obbligazionari, le cartolarizzazioni di flussi futuri di entrata non collegati a un'attivita' patrimoniale preesistente e le cartolarizzazioni con corrispettivo iniziale inferiore all'85 per cento del prezzo di mercato dell'attivita' oggetto di cartolarizzazione valutato da un'unita' indipendente e specializzata». Aggiunge poi (secondo periodo) che «costituiscono, inoltre, indebitamento le operazioni di cartolarizzazione accompagnate da garanzie fornite da amministrazioni pubbliche e le cartolarizzazioni e le cessioni di crediti vantati verso altre amministrazioni pubbliche», mentre non costituiscono indebitamento (terzo periodo) «le operazioni che non comportano risorse aggiuntive, ma consentono di superare, entro il limite massimo stabilito dalla normativa statale vigente, una momentanea carenza di liquidita' e di effettuare spese per le quali e' gia' prevista idonea copertura di bilancio». L'ultimo periodo del comma 17 statuisce che «modifiche alle predette tipologie di indebitamento sono disposte con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, sentito l'ISTAT, sulla base dei criteri definiti in sede europea». A sua volta, il comma 18 stabilisce quali operazioni possano rientrare nel concetto di «investimento» ai fini di cui all'articolo 119, sesto comma, della Costituzione. Precisamente, secondo tale disposizione costituiscono investimenti: «a) l'acquisto, la costruzione, la ristrutturazione e la manutenzione straordinaria di beni immobili, costituiti da fabbricati sia residenziali che non residenziali; b) la costruzione, la demolizione, la ristrutturazione, il recupero e la manutenzione straordinaria di opere e impianti; c) l'acquisto di impianti. macchinari, attrezzature tecnico-scientifiche, mezzi di trasporto e altri beni mobili ad utilizzo pluriennale; d) gli oneri per beni immateriali ad utilizzo pluriennale; e) l'acquisizione di aree, espropri e servitu' onerose; f) le partecipazioni azionarie e i conferimenti di capitale, nei limiti della facolta' di partecipazione concessa ai singoli enti mutuatari dai rispettivi ordinamenti; g) i trasferimenti in conto capitale destinati specificamente alla realizzazione degli investimenti a cura di un altro ente od organismo appartenente al settore delle pubbliche amministrazioni; h) i trasferimenti in conto capitale in favore di soggetti concessionari di lavori pubblici o di proprietari o gestori di impianti, di reti o di dotazioni funzionali all'erogazione di servizi pubblici o di soggetti che erogano servizi pubblici, le cui concessioni o contratti di servizio prevedono la retrocesione degli investimenti agli enti committenti alla loro scadenza, anche anticipata. In tale fattispecie rientra l'intervento finanziario a favore del concessionario di cui al comma 2 dell'articolo 19 della legge 11 febbraio 1994, n. 109; i) gli interventi contenuti in programmi generali relativi a piani urbanistici attuativi, esecutivi, dichiarati di preminente interesse regionale aventi finalita' pubblica volti al recupero e alla valorizzazione del territorio». Il comma 20, poi, dispone che «le modifiche alle tipologie di cui ai commi 17 e 18 sono disposte con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, sentito l'ISTAT». Il riferimento al comma 17, si notera', e' meramente ripetitivo dell'ultimo periodo dello stesso comma, il quale, inoltre era piu' ampio, riferendosi per le modifiche al parametro dei criteri definiti in sede europea. Tali disposizioni restringono le possibilita' di azione delle regioni rispetto alla regola costituzionale, e presentano diversi elementi e profili di illegittimita'. Nel contenuto, va premesso che la regola costituzionale del divieto di indebitamento se non per investimenti e' direttamente operativa, e non demanda alcun compito attuativo alla legge statale. Anche se si ammettesse che questa possa dettare disposizioni specificative ed attuative, e' pero' evidente che tali disposizioni dovrebbero attenersi al concetto economico di investimenti, e non potrebbero arbitrariamente restringerlo, estendendo il divieto costituzionale ad ambiti che esso non era destinato a coprire. In particolare, e' da sottolineare che il comma 18, lettera g) e h), considera «investimenti» solo i trasferimenti in conto capitale effettuati a favore di determinati soggetti, cosi' precludendo alle regioni la possibilita' di ricorrere all'indebitamento per effettuare trasferimenti in conto capitale di altro tipo, cioe', essenzialmente, per concedere contributi ai privati per i loro investimenti. In questo modo la norma statale restringe irragionevolmente un consolidato concetto di investimento, escludendo dal suo ambito alcuni trasferimenti in conto capitale in quanto effettuati a favore di privati anziche' a favore di soggetti pubblici. E' invece chiaro che la tipologia del soggetto destinatario non modifica la natura economica della spesa e che i trasferimenti in conto capitale ai privati non possono ragionevolmente essere esclusi dal concetto di investimento (e, dunque, dalla possibilita' dell'indebitamento). Il comma 18, dunque, incide sull'autonomia finanziaria regionale restringendo irragionevolniente il concetto di investimenti, violando l'art. 119 Cost. nonche', quanto al carattere discriminatorio della restrizione, l'art. 3 Cost. L'irragionevolezza della norma, gia' chiara in assoluto, emerge anche all'interno della stessa legge n. 350 del 2003, se si pone mente al fatto che l'art. 4, intitolato Finanziamento agli investimenti, contempla sin dal primo comma contributi a privati (e poi ne sono pervisti molti altri). Ora - anche tralasciando il fatto che finanziare gli investimenti e' ovviamente esso stesso, dai punto di vista dell'ente finanziatore, un investimento - in ogni caso l'art. 119, sesto comma, espressamente consente l'indebitamento «per finanziare spese di investimento». Del tutto illegittima pertando l'esclusione da tale categoria, per le regioni, di una tipologia di spesa che lo stesso legislatore statale qualifica come «finanziamento agli investimenti». Inoltre, la definizione contenuta nel comm 8, lettere g) e h), non corrisponde alla disciplina dei «trasferimenti in conto capitale» contenuta nel regolamento CE n. 2223/96 del 25 giugno 1996 (punto D.9), relativo al Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella Comunita'. Tale regolamento, fra l'altro, comprende, nell'ambito dei trasferimenti in conto capitale, i «contributi agli investimenti» (D.92) e fra questi sono espressamente menzionati quelli alle imprese private o a soggetti privati diversi dalle imprese. Dunque, le norme impugnate violano anche l'art. 117, comma 1, Cost., ed anche tale illegittimita' si traduce in lesione dell'autonomia finanziaria regionale. Infine, le norme in questione differenziano irragionevolmente le possibilita' di indebitamento delle regioni da quelle dello Stato, per il quale continua a valere la disciplina comunitaria: e anche questa illegittimita' si traduce in lesione dell'autonomia finanziaria regionale. Illegittime risultano anche le norme che prevedono che gli elenchi di cui agli artt. 17 e 18 possano essere modificati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, sentito l'ISTAT. In primo luogo e' da segnalare che, come gia' accennato, mentre l'ultimo periodo del comma 17 autorizza il Ministro dell'economia e delle finanze a modificare le tipologie di indebitamento, sentito l'ISTAT, «sulla base dei criteri definiti in sede europea», il comma 20 prevede, per la modifica sia delle tipologie di indebitamento che di quelle di investimento, un decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, sentito l'ISTAT, ma senza piu' richiamare i «criteri definiti in sede europea». La differenza non e' irrilevante perche' il comma 17 potrebbe essere inteso nel senso che il Ministro e' autorizzato a apportare quelle modifiche rese necessarie da nuovi criteri elaborati a livello comunitario, mentre il comma 20 sembra prevedere un regolamento ministeriale «in deroga», discrezionalmente adottabile dal Ministro. Entrambe le norme, comunque, risultano illegittime. La materia in questione e' il «coordinamento della finanza pubblica», che rientra nella competenza concorrente di Stato e regioni. In tali materie, l'attuazione delle fonti comunitarie non self-executing e' regolata, tuttora, dall'art. 9 legge n. 86 del 1989 (come e' noto, la legge n. 131 del 2003 non si e' occupata della materia, mentre una apposita legge modificativa della legge. n. 86 del 1989 e' in corso di discussione). In attesa della legge regionale di recepimento, e' ammesso che sia lo Stato ad attuare la direttiva, ma e' necessario che cio' avvenga, perlomeno, con un regolamento governativo (v. art. 9, comma 4, legge n. 86 del 1989). Dunque, la previsione di un decreto del Ministro (sostanzialmente regolamentare) per il recepimento dei «criteri» europei in materia di competenza concorrente risulta lesiva della sfera costituzionale di competenza regionale, dato che la competenza dell'organo collegiale, prevista dalla legge n. 86 del 1989, deve ritenersi costituzionalmente necessaria in relazione al rango costituzionale dell'autonomia regionale. Quanto al comma 20, che non fa riferimento ai criteri europei, esso e' ancor piu' chiaramente illegittimo in quanto prevede un potere sostanzialmente regolamentare in materia di competenza concorrente, in violazione dell'art. 117, comma 6, Cost. Della natura sostanzialmente regolamentare del decreto ministeriale previsto dalle norme di cui sopra non sembra potersi dubitare. Ma, anche qualora si ritenesse che esse prevedano, invece, una funzione amministrativa attribuita al Ministro in virtu' del principio di sussidiarieta', non verrebbe meno l'illegittimita', dato che, comunque, mancherebbe qualsiasi meccanismo di coinvolgimento delle regioni, in contrasto con il principio di leale collaborazione e secondo quanto richiesto dalla sent. n. 303 del 2003. Infine, nella parte in cui si riferisce alle tipologie di cui al comma 18, il comma 20 risulta illegittimo anche perche' conferisce al Ministro un «nudo» potero discrezionale, senza formulare criteri idonei a guidare l'esercizio del potere, in violazione del principio di legalita' sostanziale; ne' tale mancanza puo' essere compensata dal parere dell'ISTAT, la cui opinione non ha ne' la funzione ne' gli effetti giuridici di criteri fissati nella legge. Poiche' al Ministro e' affidato un potere del tutto discrezionale capace di incidere notevolmente sull'autonomia regionale, la violazione del principio di legalita' sostanziale (che si aggiunge a quella dell'art. 117, comma 6, e del principio di leale collaborazione) si traduce in lesione dell'autonomia stessa. 6. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 32. La disposizione impugnata ribadisce ed amplia alcune delle misure di «razionalizzazione» della spesa sanitaria introdotte dalla Legge finanziaria 2003 (legge 27 dicembre 2002, art. 52, comma 4), gia' oggetto del ricorso della Regione Emilia-Romagna; ma il meccanismo cosi' rafforzato ulteriormente altera l'assetto dei rapporti tra Stato e regioni consensualmente stabilito come metodo di razionalizzazione della spesa sanitaria. Sia consentito di riassumere la complessiva situazione: in materia di servizi sanitari le regioni hanno piena autonomia, salvi i principi fondamentali di «tutela della salute» (art. 117, comma 3) e la definizione dei «livelli essenziali delle prestazioni» (art. 117, comma 2, lettera m) da parte dello Stato; la conseguente forte incidenza sull'esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative delle regioni e delle province autonome impone evidentemente che queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovra' inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rcndano necessarie nei vari settori» (sent. 88/2003). Nel sistema introdotto dalla legge n. 405/2001, il procedimento di adozione dei livelli essenziali di assistenza prevede la definizione tramite decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa intesa tra regioni e Governo, da conseguire in sede di Conferenza Stato-regioni; questo sistema ha originato una serie di accordi tra Stato e regioni che hanno determinato sia i «livelli essenziali», sia i correlati rapporti finanziari. Siccome la spesa sanitaria costituisce ampia parte del bilancio delle regioni, il problema di sottoporla a controllo e' di comune interesse dello Stato e delle regioni e si intreccia strettamente con la necessita' di assicurare che le prestazioni che le regioni devono garantire siano integralmente finanziate, ai sensi dell'art. 119, comma 4, Cost.; l'Accordo dell'8 agosto 2001, tra Governo, regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano - richiamato dalla disposizione impugnata - mirava appunto a «definire un quadro stabile di evoluzione delle risorse pubbliche destinate al finanziamento del Servizio sanitario nazionale, che, tenendo conto degli impegni assunti con il patto di stabilita' e crescita, consente di migliorarne l'efficienza razionalizzando i costi», a «rendere realistica l'entita' dei finanziarnenti statali, eliminando gli inconvenienti derivanti da sottostime delle esigenze finanziarie e conferire stabilita' alla spesa in un arco almeno triennale», ed a «dirimere definitivamente» le controversie relative alla congruita' delle risorse finanziarie in materia sanitaria; nell'ambito di questo Accordo, che si ricollega al successivo Accordo del 22 novembre 2001 sui «livelli essenziali», venivano individuati con precisione quali adempimenti le regioni si assumevano di fronte all'impegno finanziario assunto dallo Stato, tra i quali l'assunzione a proprio carico degli oneri relativi a sforamenti della spesa sanitaria ad esse imputabili. Da parte sua lo Stato si impegnava ad un finanziamento integrativo del S.S.N. dando certezza per l'intero periodo finanziario; sempre l'Accordo condizionava l'accesso al finanziamento al rispetto di una serie di impegni assunti dalle regioni; adozione di misure di anticipazione di verifica degli andamenti della spesa; adesione alle convenzioni in tema di acquisti di beni e servizi; adempimento agli obblighi informativi sul monitoraggio della spesa; adeguamento alle prescrizioni del patto di stabilita' interno; sottoscrizione dell'impegno a mantenere l'erogazione delle prestazioni ricomprese nei livelli essenziali di assistenza; mantenimento della stabilita' della gestione, applicando direttamente misure di contenimento della spesa stessa, «che potranno riguardare l'introduzione di strumenti di controllo della domanda, la riduzione della spesa sanitaria o in altri settori, ovvero l'applicazione di una addizionale regionale all'IRPEF o altri strumenti fiscali previsti dalla normativa vigente, nella misura necessaria a coprire l'incremento di spesa»; «l'attivazione di un tavolo di monitoraggio e verifica ... tra Ministeri della salute e dell'economia e le regioni e le province autonome, con il supporto dell'agenzia per i Servizi sanitari regionali sui suddetti livelli effettivamente erogati e sulla corrispondenza ai volumi di spesa stimati e previsti, articolati per fattori produttivi e responsabilita' decisionali, al fine di identificare i determinanti di tale andamento, a garanzia dell'efficienza e dell'efficacia del Servizio sanitario nazionale». Tuttavia, con una serie di provvedimenti legislativi, lo Stato modificava gli adempimenti posti a carico delle regioni, introducendo, in particolare, con l'art. 52, comma 4, della legge n. 289/2002, l'obbligo di attuare, «senza maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato», iniziative dirette a favorire lo svolgimento, presso gli ospedali pubblici, degli accertamenti diagnostici in maniera continuativa, con l'obiettivo finale della copertura del servizio nei sette giorni della settimana, e la previsione della decadenza automatica dei direttori generali nell'ipotesi di mancato raggiungimento dell'equilibrio economico delle aziende sanitarie e ospedaliere, nonche' delle aziende ospedaliere autonome. Contro quest'ultima disposizione la Regione Emilia-Romagna ha promosso ricorso a questa ecc.ma Corte. In esso si muovevano rilievi che devono essere qui ribaditi. Il primo, piu' generale, riguarda lo squilibrio strutturale tra risorse e obbligazioni di spesa derivante dall'obbligo di assicurare prestazioni stabilite con atto dello Stato, la cui sola esistenza e' in contrasto con i principi di autonomia finanziaria, ed in particolare con l'art. 119, quarto comma, che prescrive che le entrate proprie e le compartecipazioni debbono consentire alle Regioni «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite». A tale squilibrio strutturale - come detto gia' di per se costituzionalmente inammissibile - non si pone rimedio neppure nel comma 52 di questo stesso articolo, il quale dispone un adeguamento del finanziamento del Servizio sanitario nazionale per gli anni 2004-2006, ma a copertura dei soli maggiori oneri di personale. In generale, invece, mentre i livelli essenziali delle prestazioni, fissati in sede di Accordo tra Governo, Regioni e Province autonome, sono rimasti immutati, le risorse regionali, invece, si sono ridotte in misura rilevante, anche perche' (come sopra esposto in relazione all'impugnazione dell'art. 2, comma 21) e' stato paralizzata - pur se, come si ritiene, illegittimamente - la capacita' regionale di incrementare le entrate fiscali. Un ulteriore aggravio degli oneri accollati alle Regioni deriva dalle particolari condizioni a cui l'accesso al finanziamento integrativo e' subordinato. Si vuol dire cioe' che se le risorse sono oggettivamente carenti in relazione alle funzioni obbligatorie, l'adeguamento del finanziamento e' costituzionalmente dovuto, e non puo' essere condizionato a prescrizioni illegittime: ed e' illegittimo in particolare, tra gli adempimenti richiamati dal comma 32, quello, introdotto dal comma 4 dell'art. 52 della legge finanziaria 2003, a suo tempo impugnata, che subordina l'accesso all'adeguamento finanziario all'adozione da parte delle Regioni di «provvedimenti diretti a prevedere, ai sensi dell'art. 3, comma 2, lettera c), del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405, la decadenza automatica dei direttori generali nell'ipotesi di mancato raggiungimento dell'equilibrio economico delle aziende sanitarie e ospedaliere, nonche' delle aziende ospedaliere autonome». Tale disposizione e' incostituzionale perche', in violazione dell'art. 97 Cost. (per non dire della stessa soggettiva privazione del lavoro nell'amministrazione, in violazione dell'art. 4 e dell'art. 51), prevede la rimozione sanzionatoria dalla carica per il puro verificarsi di circostanze oggettive, in assenza di alcuna prova o riscontro che il mancato raggiungimento dell'equilibrio economico fosse in qualche modo evitabile da parte dello stesso direttore generale. Sembra evidente che tocca invece alla Regione, quale responsabile generale del servizio sanitario e quale amministrazione nominante, la valutazione del comportamento del direttore generale e del grado di responsabilita' che ad esso possa imputarsi nel mancato conseguimento dell'equilibrio economico: che puo' bene essere dovuto - in condizione di carenza finanziaria strutturale - all'obbligo di assicurare le prestazioni; Una ulteriore specifica ragione di illegittimita' colpisce l'adempimento di cui alla lett. c) dell'art. 52, comma 4, della legge n. 289, richiamato e confermato dalla disposizione ora impugnata ovvero lo svolgimento, per giunta «senza maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato», degli accertamenti diagnostici «in maniera continuativa, con l'obiettivo finale della copertura del servizio nei sette giorni della settimana». Si tratta infatti di misure puramente organizzative, che limitano la relativa autonomia legislativa regionale, anziche' limitarsi a fissare un principio in termini di risultato, che le Regioni rimangono libere di raggiungere secondo le proprie scelte organizzative. Le misure citate ledono insieme l'autonomia finanziaria e l'autonomia legislativa delle Regioni. Misure come l'obbligo di introdurre norme che comportano la decadenza automatica dei direttori generali non sono configurabili come «principi fondamentali della materia»: come mostra il fatto stesso che si tratta non di norme inderogabili ma di «condizioni» per l'accesso ad integrazioni finanziarie (integrazioni senza le quali cessato di essere «integralmente finanziate» le funzioni assegnate alle Regioni). Per altro verso, l'imposizione alle Regioni di rafforzare i servizi diagnostici «senza maggiori onori a carico del bilancio dello Stato» non puo' prospettarsi come parte della definizione dei LEA, proprio perche' non e' compatibile con il quadro costituzionale in cui si inseriscono le garanzie dell'autonomia finanziaria che lo Stato imponga alle Regioni funzioni senza finanziarle (ma anzi, al contrario, impedendo ad essa di reperire le risorse finanziarie attraverso gli strumenti impositivi). In conclusione, emerge con chiarezza l'illegittimita' sia del congelamento degli strumenti di autofinanziamento della Regione mentre si aumentano le prestazioni che le Regioni devono erogare, sia il condizionamento delle pur limitate integrazioni finanziarie concordate ad adempimenti incongrui, che la legge statale non potrebbe ad altro titolo costituzionale introdurre. Avverso la interruzione dei procedimenti di collaborazione e dell'applicazione degli accordi da parte del Govemo, e l'assunzione di decisioni unilaterali cosi' gravemente pregiudizievoli per l'autonomia finanziaria e per le attribuzioni costituzionali, alle Regioni, che mai hanno fatto mancare la propria disponibilita' ad un ragionevole accordo, non resta che il ricorso a codesta ecc.ma Corte costituzionale. 7. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 43. Il comma 43 prevede che il Ministro degli affari esteri, con decreto da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentite le competenti Commissioni parlamentari, emana disposizioni per razionalizzare i flussi di erogazione finanziaria e per semplificare le procedure relative alla gestione delle attivita' di cooperazione internazionale, con particolare riferimento alle procedure amministrative relative alle organizzazioni non governative». Tale disposizione e' formulata in modo tale da comprendere, potenzialmente, anche le attivita' di cooperazione internazionale svolte dalle Regioni. Qualora fosse intesa in questo senso, essa sarebbe chiaramente illegittima in quanto interverrebbe in una materia di competenza concorrente («rapporti internazionali ... delle Regioni») prevedendo un atto ministeriale sostanzialmente regolamentare, in violazione dell'art. 117, comma 6, Cost. Inoltre, quanto al contenuto, tale atto dovrebbe «razionalizzare i flussi di erogazione finanziaria e ... semplificare le procedure relative alla gestione delle attivita' di cooperazione internazionale, con particolare riferimento alle procedure amministrative relative alle organizzazioni non governative»: con conseguente lesione dell'autonomia finanziaria e amministrativa regionale. Naturalmente, qualora invece la disposizione del comma 43 dovesse intendersi come riferita esclusivamente alle attivita' di cooperazione internazionale svolte dallo Stato ed alle relative procedure finanziarie ed amministrative, le ragioni di doglianza verrebbero meno. 8. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 49. La disposizione del comma 49 dell'art. 3 ricorda quella contenuta nell'art. 33, comma 4, legge n. 289 del 2002, gia' impugnata da questa Regione. Essa prevede che «per il personale dipendente da amministrazioni, istituzioni ed enti pubblici diversi dall'amministrazione statale gli oneri derivanti dai rinnovi contrattuali per il biennio 2004-2005, nonche' quelli derivanti dalla corresponsione dei miglioramenti economici al personale di cui all'art. 3, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono posti a carico dei rispettivi bilanci ai sensi dell'art. 48, comma 2, del medesimo decreto legislativo», aggiungendo che «in sede di deliberazione degli atti di indirizzo previsti dall'art. 47, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, i comitati di settore provvedono alla quantificazione delle relative risorse e alla determinazione della quota da destinare all'incentivazione della produttivita', attenendosi quale tetto massimo di crescita delle retribuzioni, ai criteri previsti dal comma 46 per il personale delle amministrazioni dello Stato» (enfasi aggiunta). Ad avviso della ricorrente Regione, tale vincolo risulta illegittimo, e persino peggiorativo della situazione antecedente la legge cost. n. 3 del 2001. Infatti, in base all'art. 47, comma 1, del decreto legislativo n. 165 del 2001, il comitato di settore del comparto Regioni - Autonomie locali, costituito «nell'ambito della Conferenza dei Presidenti delle regioni, per le amministrazioni regionali e per le amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, e dell'Associazione nazionale dei comuni d'italia - ANCI e dell'Unione delle province d'Italia - UPI e dell'Unioncamere, per gli enti locali rispettivamente rappresentati» (art 41, comma 3, lett. a), determina «gli indirizzi per la contrattazione collettiva nazionale» (mediante i quali esso esercita «il potere di indirizzo nei confronti dell'ARAN e le altre competenze relative alle proedure di contrattazione collettiva nazionale»: art. 41, comma 1) «prima di ogni rinnovo contrattuale e negli altri casi in cui e' richiesta una attivita' negoziale dell'ARAN» senza alcun vincolo pregiudiziale. Solo successivamente tali atti sono «sottoposti al Governo che, non oltre dieci giorni, puo' esprimere le sue valutazioni per quanto attiene agli aspetti riguardanti la compatibilita' con le linee di politica economica e finanziaria nazionale». Dunque, in base al t.u. pubblico impiego, precedente la legge cost. n. 3 del 2001, il potere di indirizzo nei confronti dell'ARAN, per la contrattazione relativa al personale regionale e degli enti locali, spettava in sostanza alle Regioni ed agli enti locali, senza interferenze da parte statale (salva la valutazione governativa sulla compatibilita' finanziaria). La materia rientra ora nella potesta' regionale piena, per tutto cio' che va oltre i livelli essenziali dei diritti dei lavoratori. Eppure la norma qui' impugnata assoggetta gli atti di indirizzo del comitato di settore «regionale», per quanto riguarda il «tetto massimo di crescita delle retribuzioni», ai criteri previsti dal comma 46 per il personale delle amministrazioni dello Stato (cioe', pare di capire, allo 0,2 %, qualora il termine «incrementi» dl cui al comma 46 venga riferito ad «oneri» e non alle «risorse» di cui all'inciso immediatamente precedente quello contenente il limite dello 0,2%). Si noti che non e' possibile invocare, a fondamento della norma impugnata, la competenza statale in materia di «coordinamento della finanza pubblica». Da una parte, intatti, nessun onere deriva al bilancio statale, dal momento che lo stesso art. 3, comma 49, precisa che gli oneri derivanti dai rinnovi contrattuali relativi al personale regionale ricadono sulle stesse Regioni. Quanto poi alla spesa regionale, i principi di coordinamento non possono che ragionevolmente concepirsi come rivolti alle grandezze complessive della spesa pubblica, in relazione alle entrate, e non possono incidere sulle scelte di politica regionale nella allocazione delle spese. Va inoltre denunciata come ulteriormente e specificamente illegittima l'assunzione di un parametro di incremento percentuale sull'esistente, che penalizza le Regioni che gia' prima avevano livelli retributivi inferiori. Il limite rigido dello 0,2 % all'aumento delle retribuzioni nel biennio 2004-2005 per il personale regionale non e' un principio in materia di coordinamento della finanza pubblica, ma e' un vincolo puntuale in una materia di competenza regionale residuale. Di qui la lesione della potesta' legislativa regionale in materia di personale regionale e degli enti locali, dell'autonomia finanziaria regionale nonche' dell'autonomia amministrativa, in relazione ai vincoli posti all'attivita' del comitato di settore regionale. 9. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 53, 58 e 60. Il comma 60, richiamato dal comma 58, estende alle Regioni e alle autonomie locali il «blocco delle assunzioni» disposto dal comma 53, riproponendo, pur con qualche modifica, le analoghe misure contenute nella legge finanziaria 2003. La disciplina che ne risulta e' la seguente. In generale, Regioni, enti locali ed enti del Servizio sanitario nazionale potranno procedere ad assunzioni di personale solo con i criteri e i limiti fissati con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri; tali decreti dovrebbero essere adottati previo accordo tra Governo, Regioni ed enti locali; fino all'emanazione di tali decreti trovano applicazione le disposizioni del comma 53, cioe' il blocco pressoche' generale delle assunzioni a tempo indeterminato; se tali decreti non sono adottati entro il 30 giugno 2004 (a prescindere di chi sia responsabile della mancanza adozione da parte del Governo), troveranno applicazione le disposizioni dei decreti adottati in attuazione della legge finanziaria 2003. Il blocco delle assunzioni vale invece integralmente per le province e i comuni sopra i 5.000 abitanti che non abbiano rispettato le regole del patto di stabilita' interno per l'anno 2003 (salvo che per le assunzioni connesse a trasferimenti di funzioni «coperte» da provviste finanziarie apposite). Si tratta di disposizioni di carattere ordinamentale ed organizzatorio, come tali estranee al contenuto tipico della legge finanziaria (cfr. l'art. 11 della legge n. 468/1978, come modificato dalla legge n. 208/1999, che disciplina i contenuti ammissibili della legge finanziaria); la loro inclusione nella legge finanziaria non puo' certo di per se' costituire per lo Stato una legittima via di sostituzione del necessario «titolo di competenza» della sua legislazione. Si deve sottolineare, infatti, che una competenza normativa generale in materia di organizzazione delle Amministrazioni pubbliche non sussiste piu' in capo allo Stato a seguito della riforma del Titolo V. E' peraltro pacifico che l'art. 117, secondo comma Cost. riserva alla potesta' esclusiva statale unicamente la materia della organizzazione e dell'ordinamento amministrativo dello Stato e degli enti pubblici nazionali ed e' quindi ad esso consentito di dettare norme vincolanti unicamente per le amministrazioni ed enti statali. Conseguentemente e' riservata alla potesta' legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, l'organizzazione amministrativa e l'ordinamento del personale regionale, sicche' in tale materia la competenza regionale e' esclusiva ed esercitabile nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. D'altronde, l'ampia autonomia regionale in materia di ordinamento degli uffici e dello stato giuridico del proprio personale e' stata riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale anche nella sussistenza del regime previgente (sentt. nn. 10/1980, 277/1983, 278/1983, 772/1988, ordinanza n. 515/2002) e a maggior ragione tale potesta' deve essere, dunque, affermata oggi. Ne consegue la palese illegittimita' costituzionale dei vincoli e dei limiti in ordine alla assunzione e reclutamento del personale introdotti dalla disposizione in esame, che esulano completamente dal necessario idoneo titolo di competenza legislativa statale e la cui illegittimita' non appare mitigata neppure dalla prevista emanazione dei futuri decreti di recepimento di accordi, stabiliti in sede di conferenza unificata, atteso che essi non valgono a sostituire e a compensare una potesta' legislativa costituzionalmente attribuita alle Regioni, sono solo eventuali (laddove l'eventualita' dipende anzitutto dalla volonta' unilaterale dello Stato di accettare le proposte delle Regioni), e comunque sono precedute ed eventualmente sostituite da misure rigide e unilaterali. Oltre a cio' tali vincoli appaiono anche privi di ragionevolezza, posto che dal punto di vista delle Regioni, chiamate a svolgere ulteriori funzioni od a gestire tutte quelle trasferite, non appare logico vincolare la dotazione oganica a quella in essere al 31 dicembre 2002, cosi' come non e' ragionevole in un'ottica di nccessario completamento del processo di decentramento che sia autoritativamente ed unilateralmente sancito il blocco delle assunzioni, in attesa dei previsti decreti. Cio' tanto piu' che la Regione Emilia-Romagna e' in grado di provvedere autonomamente al contenimento della propria spesa per il personale, coma ha dimostrato approvando, con la legge n. 4/2003 («Disposizioni in materia di dotazioni organiche e di copertura di posti vacanti per l'anno 2003») una disciplina rivolta «al fine di concorrere al contenimento della spesa pubblica e all'ottimizzazione dell'utilizzo del personale nelle pubbliche amministrazioni», e quindi alla razionalizzazione della spesa inerente al personale e alla salvaguardia delle politiche di copertura dei posti vacanti in riferimento alle risorse professionali necessarie per il raggiungimento delle finalita' dell'Ente. Nulla giustifica, in un sistema di regionalismo maturo e responsabile, che lo Stato mantenga un atteggiamento tutorio nei confronti delle Regioni, anche di quelle che mostrano di saper gestire responsabilmento la propria amministrazione. Ne consegue un'evidente lesione di prerogative ed esigenze costituzionalmente riservate alla competenza regionale e non giustificabili neppure sul piano della riserva statale connessa al «sistema tributario e contabile dello Stato» (art. 117, secondo comma, lett. e) o alla «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordimamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (art. 11, terzo comma), se e' vero che le disposizioni dianzi citate non rappresentano «norme tese a realizzare effetti finanziari con decorrenza dal primo anno considerato nel bilancio pluriennale» come dispone la legge che disciplina i contenuti dello strumento finanziario dello Stato, ma si risolvono piuttosto in misure tipicamente organizzatorie, impropriamente assurte a livello di disposizioni di contenimento della spesa, senza alcun rispetto delle regole costituzionalmente fissate in relazione ai rispettivi ambiti di autonomia e competenza. 10. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 75. Secondo il comma 75 dell'art. 3 «ai fini del contenimento della spesa pubblica, al personale appartenente alle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, che si reca in missione o viaggio di servizio presso le istituzioni dell'Unione uropea, ovvero che partecipi, in Europa o in Paesi extra-europei, a riunioni, commissioni o a gruppi di lavoro, comunque denominati, nell'ambito o per conto del Consiglio o di altra istituzione dell'Unione europea, ad eccezione dei dirigenti di prima fascia e qualifiche equiparabili, spetta il pagamento delle spese di viaggio aereo nella classe economica». Tale norma, dunque, addirittura limita la possibilita' per le Regioni (oltre che per gli altri enti pubblici) di rimborsare le spese di viaggi aereo dei propri dipendenti che abbiano compiuto determinate missioni, prevedendo il rimborso per la sola classe economica. Pare chiaro che non si tratta affatto di un «principio fondamentale» in materia di coordinamento della finanza pubblica, ma di una minutissima norma di dettaglio, palesemente lesiva dell'autonomia legislativa e finaziaria delle Regioni. I principi di coordinamento della finanza pubblica potranno stabile dei criteri generali, dei parametri da rispettare, ma non possono conportare, ad avviso della ricorrente Regione, la sostituzione della valutazione dello Stato a quella della competente Regione nel determinare, in relazione alla propria struttura di funzionariato, alla distribuzione delle responsabilita' ed alla situazione di bilancio, a quali dipendenti rimborsare quale classe di viaggio nei diversi mezzi di trasporto. 11. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 76, 77 e 82. Il comma 76 dell'art 3 autorizza il Ministro del lavoro, nel limite di 47,063 milioni di euro, «a prorogare, limitatamente all'esercizio 2004, le convenzioni stipulate, anche in deroga alla normativa vigente relativa al lavori socialmente utili, direttamente con i comuni, per lo svolgimento di attivita' socialmente utili (ASU) e per l'attuazione, nel limite complessivo di 20,937 milioni di euro, di misure di politica attiva del lavoro, riferite a lavoratori impiegati in ASU nella disponibilita' degli stessi comuni da almeno un triennio, nonche' ai soggetti provenienti dal medesimo bacino, utilizzati attraverso convenzioni gia' stipulate in vigenza dell'articolo 10, comma 3, del decreto legislativo 1° dicembre 1997, n. 468, per un periodo che, eventualmente prorogato, non ecceda i sessanta mesi complessivi, al fine di una definitiva stabilizzazione occupazionale». Il comma 77 e' collegato al comma 76, disponendo che, «in presenza delle convenzioni di cui al comma 76, il termine di cui all'articolo 78, comma 2, alinea, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e' prorogato al 31 dicembre 2004»: la disposizione richiamata rinvia, in realta', ad un termine previsto da un'altra disposizione, cioe' dall'art. 8, comma 3, d.lgs. n. 81/2000 («le risorse del fondo di cui al comma 1 [cioe' del Fondo per l'occupazione], qualora impegnate per attivita' socialmente utili, sono destinate al pagamento del 100 per cento degli assegni e dei sussidi per il periodo dal 1° gennaio 2000 al 31 ottobre 2000 e per l'ammontare del 50 per cento degli assegni e dei sussidi per i periodi dal 1° novembre 2000 al 30 aprile 2001»). A sua volta, il comma 82 autorizza «il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ... a stipulare ... direttamente con i comuni nuove convenzioni per lo svolgimento di attivita' socialmente utili e per l'attuazione di misure di politica attiva del lavoro riferite a lavoratori impegnati in attivita' socialmente utili, nella disponibilita', da almeno un quinquiennio, di comuni con meno di 50.000 abitanti». Tali norme si collocano nell'ambito di materia di potenza concorrente («tutela del lavoro») e attribuiscono al Ministero del lavoro una funzione amministrativa (la proroga o la stipulazione di convenzioni con i comuni) senza che sussista alcuna esigenza unitaria e senza intesa con le Regioni, in violazione dell'art. 117, comma 3, dell'art. 118 Cost. e dei principi fissati dalla sent. n. 303 del 2003. Si tratta, in definitiva, di una forma di direzione dell'attivita' dei comuni, il cui svolgimento da parte statale e' del tutto ingiustificato sul piano costituzionale. E' palese inoltre che la normativa che prevede tale attivita' amministrativa non ha affatto carattere di norma di principio da attuare da parte del legislatore regionale, e dunque si tratta di norma che eccede la potesta' legislativa riconosciuta allo Stato in materia. Puo' essere qui opportuno ricordare che gia' al d.lgs. n. 469 del 1997 aveva conferito alle Regioni e agli enti locali, in attuazione della legge n. 59 del 1997, «funzioni e compiti relativi al collocamento e alle politiche attive del lavoro». In particolare, alle Regioni erano stati attribuiti i compiti di «indirizzo, programmazione e verifica dei lavori socialmente utili ai sensi delle normative in mateia» (art. 2, comma 1, lett. f). Come riconosciuto anche dalla giurisprudenza costituzionale (nelle sentt. n. 74 del 2001 e 125 del 2003), la ratio ispiratrice della delega di cui alla legge Bassanini risiedeva «nell'esigenza di superare la dissociazione tra le funzioni relative al collocamento e alle politiche attive del lavoro - di spettanza statale - e le funzioni in materia di formazione del lavoro di competenza regionale» (sent. n. 125 del 2003, punto 2 del Diritto). Dunque, in un contesto costituzionale in cui le Regioni avevano competenza solo in materia di formazione professionale, si era comunque arrivati in applicazione del principio dl sussidiarieta' a concentrare nelle Regioni quasi tutte le funzioni amministrative in materia di mercato del lavoro. A maggior ragione, nel contesto del nuovo Titolo V, la legge statale non doveva assumere contenuti diversi dalla statuizione dei principi fondamentali, ne' attribuire al Ministro, in assenza di un fondamento costituzionale, compiti attinenti alla tutela del lavoro. La gestione della «politica attiva del lavoro» spetta alle Regioni: lo Stato dovrebbe preoccuparsi di finanziare «integralmente» le funzioni regionali (art. 119, comma 4,Cost.) invece di impegnare direttamente risorse per esercitare compiti la cui spettanza allo Stato non trova alcun fondamento costituzionale. Nel caso di specie, lo Stato doveva fissare i principi fondamentali in relazione alle attivita' socialmente utili, restando riservata alle Regioni l'emanazione di norme di dettaglio e la stipulazione delle convenzioni con i comuni. Comunque, se anche si ritenesse giustificata l'allocazione al centro della funzione in questione, la norma risulta ilegittima per mancata previsione dell'intesa con le Regioni, come del resto di qualunque forma di coordinamento. Le Regioni vi sono semplicemente ignorate, come se neppure esistessero. 12. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 92. Il comma 92 dell'art. 3 dispone che «per l'attuazione del piano programmatico di cui all'articolo 1, comma 3, della legge 28 marzo 2003, n. 53, e' autorizzata, a decorrere dall'anno 2004, la spesa complessiva di 90 milioni di euro per i seguenti interventi: a) sviluppo delle tecnologie multimediali; b) interventi di orientamento contro la dispersione scolastica e per assicurare il diritto-dovere di istruzione e formazione; c) interventi per lo sviluppo dell'istruzione e formazione tecnica superiore e per l'educazione degli adulti; d) istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema di istruzione». In questi termini, la disposizione impugnata integra e parzialmente modifica l'art. 1, comma 3, della legge n. 53 del 2003, con cui il Governo veniva delegato ad emanare «norme generali sull'istruzione e (su)i livelli esenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale». Con quelle norme veniva previsto altresi' che il Ministro dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca predisponesse, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge medesima, un piano programmatico di interventi finanziari, da sottoporre all'approvazione del Consiglio dei ministri, previa intesa con la Conferenza unificata di cui al citato decreto legislativo n. 281 del 1997. Di questo piano programmatico venivano inicati undici obiettivi, rinviando la relativa provvista finanziaria alle leggi finanziarie dgli anni successivi (art. 7, comma 6). Il piano programmatico - benche' annunciato dal Governo con un comunicato del 12 settembre 2003 (http://www.istruzione.it/prehome/comunicati/2003/l20903.shtml) che pero' si riferiva solo ad una bozza tecnica, priva di concreta previsione finanziaria - non e' stato mai approvato. La disposizione del comma 92 qui impugnata, interviene ora autorizzando la spesa per l'attuazione di un piano inesistente, ma in pratica disponendo il finanziamento di specifici interventi, che selezionano solo alcuni degli obiettivi fissati dalla legge di delega, e sicuramente toccano le attribuzioni regionali (nelle quali ricadono, per esempio, gli interventi di orientamento contro la dipersione scolastica e per assicurare la realizzazione del diritto - dovere di istruzione di formazione, lett. b), e gli interventi per lo sviluppo dell'istruzione e formazione tecnica superiore e per l'educazione degli adulti, lett. c), appare illegittima in quanto, anziche' assegnare i relativi fondi alle Regioni nel quadro delle regole di cui all'art. 119 Cost., finanzia interventi settoriali diretti - ed oltretutto unilateralmente decisi - in materia di competenza «concorrente», vietati dal nuovo Titolo V secondo la giurisprudenza consolidata di codesta Corte (cfr. sentt. 370/2003; 16/2004; 49/2004). 13. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 101. Il comma 101 prevede che «nei limiti delle risorse preordinate allo scopo dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali nell'ambito del Fondo nazionale per le politiche sociali di cui all'articolo 59, comma 44, della legge 27 dcembre 1997, n. 449, e successive modificazioni, e detratte una quota fino a 20 milioni di euro per l'anno 2004 e fino a 40 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006 da destinare all'ulteriore finanziamento delle finalita' previste dall'articolo 2, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, nonche' una quota di 15 milioni di euro per ciascuno degli anni 2004, 2005 e 2006 da destinare al potenziamento dell'attivita' di ricerca scientifica e tecnologica, lo Stato concorre al finanziamento delle regioni che istituiscono il reddito di ultima istanza quale strumento di accompagnamento economico ai programmi di reinserimento sociale, destinato ai nuclei familiari a rischio di esclusione sociale ed i cui componenti non siano beneficiari di ammortizzatori sociali destinati a soggetti privi di lavoro». La disposizione e' lesiva delle attribuzioni regionali per diversi profili. In primo luogo la norma impugnata dispone unilateralmente del Fondo nazionale per le politiche sociali. Le sue caratteristiche sono descritte nello stesso sito del Ministero del lavoro e politiche sociali (http://www.welfare.gov.it): «Il Fondo nazionale per le politiche sociali e' il principale strumento di finanziamento delle politiche sociali italiane. Con il Fondo Sociale si supera la logica delle singole leggi di settore, per concepire gli interventi di politica sociale come azioni integrate, in un quadro di coerenza, con le politiche sanitarie e socio lavorative.» Esso infatti serve «a finanziare un sitema articolato di Piani Sociali Regionali e Piani Sociali di Zona, che descrivono, per ciascun territorio, una rete integrata di servizi alla persona rivolti all'inclusione dei soggetti in difficolta', o comunque all'innalzamento del livello di qualita' della vita». Il Fondo e' stato oggetto di una lunga trattativa tra Stato e Regioni, sfociata nell'accordo del 15 aprile 2003, recepito con il decreto interministeriale del 18 aprile 2003. Con la disposizione impugnata si scorporano dal Fondo, che di conseguenza viene corrispondentemente ridotto, alcuni cospicui stanziamenti destinati a sostenere specifiche linee di intervento, genericamente riferibili alle politiche sociali, disposte unilateralmente dal Governo. Palese e' percio' la violazione dell'autonomia finanziaria regionale, garantita dall'art. 119 Cost., e del principio di leale collaborazione. In secondo luogo, la disposizione distoglie dal Fondo nazionale per le politiche sociali uno stanziamento cospicuo (20 milioni di euro per il 2004, il doppio per ciascuno degli anni successivi) per aumentare consistentemente lo stanziamento entro il quale possono essere concessi contributi finalizzati alla riduzione degli oneri effettivamente rimasti a carico per l'attivita' educativa di altri componenti del medesimo nucleo familiare presso scuole paritarie (attualmente lo stanziamento e' fissato in Euro 30.000.000). La norma impugnata riduce percio' le risorse trasferite alle Regioni, per sostenere viceversa interventi diretti dello Stato (come risulta dal d.m. 28 agosto 2003, attuativo dell'art. 2, comma 7, legge n. 289 del 2002) - gia' contestati dalla Regione Emilia-Romagna - in materia che e' in parte di competenza residuale delle Regioni («diritto allo studio»), salva la definizione con legge dello Stato dei ªlivelli essenziali», in parte di competenza concorrente («istruzione»). Non varrebbe obiettare che la norma in questione risulti confermativa, sotto il profilo della ripartizione di risorse e di competenze, della norma contenuta nella legge finanziaria 2003. La giurisprudenza consolidata di codesta Corte, infatti, ha chiarito che le leggi, per propria natura, a differenza degli atti amministrativi, sono sempre intrinsecaniente «nuove», e dunque sempre impugnabili (v. ad es. sentt. nn. 30/1957, 44/1957, 47/1959, 63/1959, 3/1964, 19/1970, 171/1971, 49/1987, 381/1990, 224/1994, e l'ord. n. 1035/1988), senza che si possa invocare il loro carattere ripetitivo o confermativo (a parte il fatto che l'incremento del finanziamento gestito dal centro sarebbe comunque elemento decisivo per concretizzare la lesione dell'autonomia regionale). Come detto sopra, nelle materie di competenza regionale lo Stato non ha piu' da erogare ulteriori risorse per contributi relativi a specifici ambiti, ma deve invece stabilire le regole per il finanziamento «integrale» (art. 119, comma 4) delle funzioni regionali, nell'esercizio delle quali, poi, le Regioni potranno scegliere se ed in quale misura dare i contributi in questione, entro i limiti di legislazione statale eventualmente previsti per la specifica materia. Ne deriva la lesione sia delle attribuzioni legislative e amministrative delta Regione, sia della sua autonomia finanziaria: l'ulteriore finanziamento di un fondo settoriale in materia regionale, gestito dal centro, costituisce violazione dell'art. 117, comma 4, 118 e 119 Cost. Anche qualora poi inopinatamente si ravvisasse una qualche esigenza unitaria a fondamento della eccezionale gestione centrale dell'ulteriore finanziamento disposto dal comma 101, tale norma sarebbe sempre illegittima per la mancata previsione di meccanismi di coordinamento con le Regioni. In terzo luogo la norma impugnata distoglie dallo stesso Fondo nazionale per le politiche sociali 15 milioni di euro per ciascuno degli esercizi del triennio 2004/2006 per interventi genericamente destinati «al potenziamento dell'attivita' di ricerca scientifica e tecnologica». Anche in questo caso si ricade in materia rientrante nelle competenze «concorrenti», nelle quali non e' consentito allo Stato di intervenire con misure unilaterali e per di piu' indefinite, anziche' con norme di principio e con il pieno coinvolgimento delle Regioni. In quarto luogo, la disposizione in questione introduce il «reddito di ultima istanza», destinato ai nuclei famigliari a rischio di esclusione e privi di altri ammortizzatori sociali, sostituendo le precedenti misure sperimentali, previste dal Fondo per le politiche sociali, per il reddito minimo di inserimento. La norma, dunque, interviene nella materia delle politiche sociali. La stessa formulazione della disposizione riconosce la competenza regionale - dato che il concorso statale e' collegato all'eventuale decisione della Regione di istituire il «reddito di ultima istanza» - e dimostra che la materia non puo' essere ricondotta ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali. E' fuori questioni l'opportunita' di una politica di sostegno delle famiglie che si trovano sotto il livello di poverta' in un frangente cosi' grave di crisi economica e sociale, ma cio' non impedisce di censurare la norma in questione sia per l'evidente violazione del riparto di attribuzioni (poiche' lo Stato interviene con disposizioni di dettaglio anziche' attraverso la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni pubbliche) e del principio di leale collaborazione (dato che le nuove misure, assunte unilateralmente, sostituiscono quelle previste dall'intesa tra Stato e regioni), sia - e soprattutto - per la patente violazione dell'autonomia finanziaria regionale. Lo Stato infatti prevede specifiche forme di intervento che le Regioni dovrebbero attivare «nei limiti delle risorse preordinate dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali», sempre nell'ambito del gia' decurtato Fondo nazionale per le politiche sociali (da cui - come si e' visto - vengono distolti i finanziamenti per interventi specifici). Come codesta Corte ha piu' volte affermato, l'attuale art. 119 Cost. non consente allo Stato di disporre interventi specifici in materie che non appartengono alla sua potesta' esclusiva, ma riguardano ambiti di competenza regionale, solo con risorse aggiuntive e per finalita' perequative (cfr. sentt. 370/2003; 16/2004; 49/2004). Non solo qui non vi e' previsione alcuna di risorse aggiuntive, ma e' del tutto negato lo scopo perequativo. Infatti, come da piu' parti e' stato subito evidenziato, il meccanismo di «cofinanziamento» previsto dalla disposizione impugnata fa si' che solo le Regioni piu' ricche saranno in grado di introdurre il reddito di ultima istanza, mentre le Regioni con reddito minore saranno penalizzate dalle loro basse capacita' impositive. L'aggiramento delle procedure di leale collaborazione, attraverso decisioni centralistiche unilaterali, ha prodotto di conseguenza una norma che, oltretutto, e' palesemente affetta da intrinseca irragionevolezza. Precisato cio', ne risulta che la norma prevede un finanziamento «speciale» alle Regioni, condizionato ad una, loro iniziativa di politica sociale, disciplinata dallo stesso comma 101. Dunque, in una materia di competenza regionale, lo Stato prevede un finanziamento vincolato ad una specifica destinazione a favore non di determinate Regioni (come richiede l'art. 119, comma 5, Cost.) ma della generalita' delle Regioni, violando la loro autonomia finanziaria (come riconosciuto dalla sent. n. 370 del 2003). Si noti che il fatto che il finanziamento statale sia rimesso all'iniziativa regionale non fa venir meno la lesione: l'art. 119, comma 4, richiede che le funzioni attribuite alle Regioni siano finanziate «integralmente» con i meccanismi di cui ai commi 2 e 3 del medesimo art. 119, che non consentono vincoli di destinazione apposti al trasferimento delle risorse. Prevedendo un concorso statale all'iniziativa regionale, lo Stato condiziona illegittimamente l'autonomia finanziaria regionale, «indirizzando» le politiche di spesa al di fuori delle regole della propria potesta' legislativa. E' poi lesa anche l'autonomia legislativa regionale, dato che, in materia rientrante nell'art. 117, comma 4, lo Stato interviene attraverso la disciplina dell'attivita' che la Regione dovrebbe compiere per usufruire del concorso statale alla spesa. 14. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi da 108 a 115. Le disposizioni impugnate disciplinano interventi finanziari per l'attuazione di programmi finalizzati alla costruzione e al ricupero di unita' immobiliari nei comuni ad alta densita' abitativa, destinate ad essere locate con contratti a canone speciale. La materia dell'edilizia pubblica non e' di facile collocazione: il decreto del Presidente della Repubblica n. 616/1977 la collocava nel Capo IV del Titolo V (Assetto ed utilizzazione del territorio), disponendo un ingente trasferimento di funzioni amministrative alle Regioni, comprensive della «funzione relativa alla determinazione dei requisiti e dei prezzi massimi delle abitazioni» (art. 94). Il d.lgs. 112/1998 la colloca nella Sezione III (Edilizia residenziale pubblica) del Capo II (Territorio e urbanistica) del Titolo III (Territorio ambiente e infrastrutture). In particolare, l'art. 59 indica, quali funzioni mantenute allo Stato, «i compiti relativi: a) alla determinazione dei principi e delle finalita' di carattere generale e unitario in materia di edilizia residenziale pubblica, anche nel quadro degli obiettivi generali delle politiche sociali; b) alla definizione dei livelli minimi del servizio abitativo, nonche' degli standard di qualita' degli alloggi di edilizia residenziale pubblica; c) al concorso, unitamente alle regioni ed agli altri enti locali interessati, all'elaborazione di programmi di edilizia residenziale pubblica aventi interesse a livello nazionale; d) alla acquisizione, raccolta, elaborazione, diffusione e valutazione dei dati sulla condizione abitativa; a tali fini e' istituito l'Osservatorio della condizione abitativa; e) alla definizione dei criteri per favorire l'accesso al mercato delle locazioni dei nuclei familiari meno abbienti e agli interventi concernenti il sostegno finanziario al reddito.». Come si vede, gia' prima della riforma costituzionale del Titolo V la materia era integralmente attribuita alla competenza regionale, mentre allo Stato residuavano essenzialmente compiti di disciplina di principio, di concorso nella programmazione di settore e di definizione dei «livelli minimi del servizio abitativo». La legge cost. 3/2001 non menziona l'edilizia residenziale pubblica tra le materie in cui lo Stato possa rivendicare potesta' legislativa di tipo esclusivo o concorrente. Nella sent. 362/2003, codesta Corte ha affermato che la materia edilizia, al pari dell'urbanistica, rientra nel governo del territorio: ma questa affermazione, che guarda alla disciplina generale del processo edificatorio, probabilmente non rende interamente ragione del carattere «sociale» che e' implicito nel «servizio abitativo». Tuttavia, anche se si volesse ritenere che, in base al «criterio di prevalenza» (sent. 370/2003), l'edilizia residenziale debba imputarsi alla materia «governo del territorio», le disposizioni in questione risultano ad avviso della ricorrente Regione illegittime per almeno due ordini di motivazioni. In primo luogo, la legge statale interviene, in una materia assegnata alla competenza concorrente, con disposizioni di dettaglio (vedi i commi 112-115, in cui si introducono disposizioni puntuali sulla stipula di convenzioni tra il comune e le imprese di costruzione, sui requisiti di reddito, sulla dimensione massima degli alloggi - introducendo limiti in se' irragionevoli, dato che non tengono conto della dimensione del nucleo abitativo -, sulla durata dei contratti di locazione e i loro rinnovi), anziche' con la sola «determinazione dei principi fondamentali» (art. 117, comma 3, Cost.) o attraverso la ben diversa attivita' di determinazione dei «livelli essenziali» delle prestazioni del servizio abitativo. In secondo luogo, viene istituito un Fondo speciale, gestito dagli organi dello Stato (senza neppure prevedere meccanismi di collaborazione con le Regioni), in violazione dei principi di autonomia finanziaria sanciti dall'art. 119 Cost. Come codesta Corte ha gia' avuto modo di affermare e di ribadire, dopo la riforma costituzionale del titolo V non puo' essere piu' ammesso che lo Stato istituisca, in materie di competenza regionale, fondi speciali gestiti da organi riferibili allo Stato stesso, anziche' trasferire i finanziamenti, senza vincolo di destinazione, alle Regioni e agli enti locali. Infatti, «il nuovo art. 119 della Costituzione, prevede espressamente, al quarto comma, che le funzioni pubbliche regionali e locali debbano essere "integralmente" finanziate tramite i proventi delle entrate proprie e la compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al territorio dell'ente interessato, di cui al secondo comma, nonche' con quote del "fondo perequativo senza vincoli di destinazione", di cui al terzo comma». «Pertanto, nel nuovo sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed Enti locali, lo Stato puo' erogare solo fondi senza vincoli specifici di destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui all'art. 119, terzo comma, della Costituzione» (sent. 370/2003). Dal momento che l'attivita' dello speciale servizio pubblico costituito dall'edilizia abitativa rientra palesemente nella sfera delle funzioni proprie delle Regioni, la configurazione (nei commi 108-110) di un fondo settoriale di finanziamento gestito dal Governo viola in modo palese l'autonomia finanziaria sia di entrata che di spesa delle regioni. Un altro profilo di illegittimita' riguarda il comma 111, che attribuisce al Ministro delle infrastrutture poteri di tipo regolamentare di elevata discrezionalita' e rilevanza politica per la determinazione delle agevolazioni fiscali che possono essere concesse a favore degli investimenti (lett. a), e della misura in cui i redditi derivanti dalla locazione concorrono a determinare la base imponibile dei percettori (lett. b). Tale disposizione potrebbe restare indenne da censure di incostituzionalita', per violazione del limite che l'art. 117, comma 6, Cost. pone alla potesta' regolamentare dello Stato, solo se fosse precisato che i contenuti dei decreti ministeriali devono essere limitati agli aspetti strettamente attinenti al regime fiscale riferibile al sistema tributario e contabile dello Stato, senza in alcun modo debordare intromettendosi nella disciplina dell'edilizia abitativa o nel sistema dei tributi regionali e locali (cfr. per esempio sent. 376/2003): il fatto pero' che i decreti debbano essere emanati dal Ministro «competente per materia» (Ministro delle infrastrutture e dei trasporti), sia pure in concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, non sembra coerente con una lettura esclusivamente «fiscale» dei contenuti dei decreti stessi. Inoltre, il comma 111, quand'anche potesse essere assolto dalla violazione della regola costituzionale sul potere regolamentare dello Stato, non puo' superare la censura mossa per un altro profilo, cioe' per la violazione del principio di leale collaborazione. Infatti il costo delle misure unilateralmente decise dal Ministro, in base al comma 111, va detratto dall'ammontare della dotazione finanziaria prevista per il Fondo: l'ammontare del finanziamento delle funzioni proprie delle Regioni e degli enti locali viene percio' determinato «per sottrazione», per decisione unilaterale del Ministro, senza che sia previsto alcun coinvolgimento delle Regioni e dei comuni, come e' viceversa richiesto dal principio di leale collaborazione - principio che, invece, da sempre caratterizzava fortemente la disciplina della materia, nella quale le funzioni di programmazione erano incentrate nel C.E.R., prima, e nella Conferenza Stato-Regioni e «unificata», poi. 15. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 116 e 117. Secondo il comma 116 dell'art. 3, «l'incremento della dotazione del Fondo nazionale per le politiche sociali di cui all'art. 59, comma 44, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, disposta per l'anno 2004 dall'art. 21, comma 6, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, come modificato dalla presente legge, deve essere utilizzato nel medesimo anno 2004 per le seguenti finalita': a) politiche per la famiglia e in particolare per anziani e disabili, per un importo pari a 70 milioni di euro; b) abbattimento delle barriere architettoniche di cui alla legge 9 gennaio 1989, n. 13, per un importo pari a 20 milioni di euro; c) servizi per l'integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap, per un importo pari a 40 milioni di euro; d) servizi per la prima infanzia e scuole dell'infanzia, per un importo pari a 67 milioni di euro». Il comma 117 dispone inoltre che «gli interventi di cui alle lettere c) e d) del comma 116, limitatamente alle scuole dell'infanzia, devono essere adottati previo accordo tra i Ministeri dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca e del lavoro e delle politiche sociali e le regioni». La disposizione e' lesiva delle attribuzioni regionali perche' anch'essa (come gia' il comma 101 dello stesso art. 3, censurato sopra al punto 13+) dispone unilateralmente del Fondo nazionale per le politiche sociali. Con la disposizione impugnata si scorporano dal Fondo alcune specifiche linee di finanziamento, vincolandone la destinazione ad obiettivi scelti unilateralmente dal Governo. Palese e' percio' la violazione dell'autonomia legislativa (non trattandosi di materia concorrente, e in ogni caso non di un principio fondamentale di materia) e finanziaria regionale, garantita dall'art. 119 Cost., nonche' del principio di leale collaborazione. Infatti, come codesta Corte ha piu' volte affermato, negli ambiti di competenza regionale, «nel nuovo sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed Enti locali, lo Stato puo' erogare solo fondi senza vincoli specifici di destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui all'art. 119, terzo comma, della Costituzione.» (sent. 370/2003; cfr. anche sentt. 16 e 49/2004). In conclusione, le disposizioni impugnate proseguono la precedente - ma ora non piu' consentita - pratica di vincolo di fondi destinati alle Regioni ai piu' dettagliati e precisi scopi determinati dalla legge statale (su cui, cfr. sent. 16/2004) in settori che rientrano nella competenza delle Regioni e in cui lo Stato dovrebbe invece esercitare il suo potere-dovere di fissare, esercitando la potesta' legislativa esclusiva - che gli e' assegnata dalla lettera m) dell'art. 117, comma 2, Cost. - di fissare i livelli essenziali delle prestazioni pubbliche; ma garantendo alle Regioni l'integrale finanziamento delle loro funzioni pubbliche e senza istituire fondi settoriali a destinazione vincolata (cfr. sent. 370/2003). Il comma 117, poi, stabilendo che i servizi per l'integrazione scolastica degli alunni portatori di handicap e per la scuola d'infanzia «devono essere adottati previo accordo» tra ministeri competenti e le Regioni, sembra voler imporre alle Regioni di esercitare le proprie attribuzioni, non con la garanzia di una definizione delle prestazioni essenziali da garantire compiuta dal legislatore nazionale, ma attraverso il condizionamento da parte degli organi politici o addirittura burocratici dello Stato, mortificando l'autonomia legislativa ed amministrativa regionale che gli articoli 117 e 118 della Costituzione non consentono. 16. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 1 a 6. I commi dall'1 al 6 dell'art. 4 recano la previsione di contributi agli utenti che acquistino o noleggino un apparecchio «decoder» per fruire dei servizi televisivi in tecnica digitale terrestre e per il collegamento «a banda larga» ad internet. Anche se la rubrica dell'art. 4 - «Finanziamenti agli investimenti» - potrebbe far pensare che le provvidenze previste dalle disposizioni impugnate rientrino tra le misure di intervento diretto sul mercato (misure che la sentenza n. 14 del 2004 di codesta ecc.ma Corte ha riconosciuto che lo Stato puo' assumere nell'ambito di una nozione dinamica di «concorrenza», in quanto «volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali»), in realta' si tratta di misure rivolte ai soggetti comuni e non alle imprese, in attuazione di una politica di favore per la diffusione di tecnologie digitali. Non si tratta dunque di tutela della concorrenza, ma di sostegno alla innovazione tecnologica. In tale ambito, spetta allo Stato la legislazione di principio, ma spetta alle Regioni di disporre in concreto la disciplina degli interventi e di provvedere alla loro erogazione: tra l'altro, si tratta in concreto di una miriade di «microinterventi», che non richiedono affatto una gestione unitaria in sede nazionale. Le stesse considerazioni varrebbero se si volessero ricondurre gli interventi in questione alla materia «ordinamento della comunicazione». Anche in questa infatti lo Stato dispone - come codesta Corte ha gia' confermato con la sent. 324/2003 - di competenza legislativa limitata alla legislazione di principio preordinata alla cura di «esigenze unitarie». Ricollocate quindi nel quadro della potesta' legislativa concorrente, le disposizioni impugnate risultano illegittime per tre diversi profili: perche' contengono disposizioni di dettaglio, anziche' limitarsi alla disciplina di principio; perche' dispongono finanziamenti diretti senza alcun coinvolgimento delle Regioni; ed infine perche' attribuiscono, nel comma 4, al Ministro l'esercizio di poteri regolamentari in ordine alla definizione dei criteri e delle modalita' di attribuzione dei contributi, in violazione della regola posta dall'art. 117, comma 6, Cost. 17. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 9 e 10. Il comma 9 dispone che «il Fondo di cui all'art. 27, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289» sia «destinato alla copertura delle spese relative al progetto promosso dal Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie della Presidenza del Consiglio dei ministri denominato "PC ai giovani", diretto ad incentivare l'acquisizione e l'utilizzo degli strumenti informatici e digitali tra i giovani che compiono 16 anni nel 2004, nonche' la loro formazione», e che «le modalita' di attuazione del progetto, nonche' di erogazione degli incentivi stessi», siano disciplinate «con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per l'innovazione e le tecnologie, emanato ai sensi dell'art. 27, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289». Il comma 10 dispone analogamente che il Fondo di cui al comma 9 sia «destinato anche, nel limite di 30 milioni di euro per l'anno 2004, all'istituzione di un fondo speciale, denominato "PC alle famiglie", finalizzato alla copertura delle spese relative al progetto promosso dal Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie della Presidenza del Consiglio dei ministri, diretto all'erogazione di un contributo di 200 euro per l'acquisizione e l'utilizzo di un personal computer con la dotazione necessaria per il collegamento ad Internet, nel corso del 2004, da parte dei contribuenti persone fisiche residenti in Italia con un reddito complessivo non superiore a 15.000 euro, relativo all'anno d'imposta 2002». Secondo lo stesso comma «con decreto di natura non regolamentare, adottato dal Ministro per l'innovazione e le tecnologie, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabilite, entro i limiti delle disponibilita' finanziarie di cui al primo periodo, le modalita' di attuazione del progetto, di individuazione dei requisiti reddituali e dei soggetti tenuti alla verifica dei predetti requisiti, nonche' di erogazione degli incentivi stessi prevedendo anche la possibilita' di avvalersi a tal fine della collaborazione di organismi esterni alla pubblica amministrazione». In pratica, il comma 9 estende ai giovani che compiono 16 anni nel 2004 la disciplina prevista dall'art. 27, comma 1, legge n. 289 del 2002, gia' impugnato da questa Regione. Il comma 10, poi, istituisce un altro «fondo speciale, denominato `PC alle famiglie», destinato ad erogare un contributo per l'acquisizione di un computer, nel corso del 2004, da parte dei contribuenti il cui reddito non superi una certa soglia. Anche per il comma 10, le modalita' di attuazione sono rimesse ad un decreto ministeriale «di natura non regolamentare». Come gia' osservato nel ricorso n. 25/2003, l'intervento non rientra in nessuna delle materie di cui all'art. 117, commi 2 e 3, dato che il «sostegno all'innovazione» riguarda specificamente i «settori produttivi» e l'«istruzione» (per quanto riguarda il progetto PC ai giovani) potrebbe essere invocata solo se il progetto venisse attuato in ambito scolastico, mentre i destinatari sono i giovani in generale. Le disposizioni in questione, dunque, ricadono nella competenza piena delle Regioni. Ora, come gia' detto in altri punti, la gestione ministeriale di un fondo settoriale in una materia regionale risulta lesiva dell'autonomia finanziaria regionale. Risultano lese poi, di conseguenza, le potesta' normative ed amministrative, in quanto le norme impugnate disciplinano una materia regionale (anche in modo dettagliato), conferiscono al Ministro poteri sostanzialmente normativi ed al Dipartimento per l'innovazione poteri amministrativi in materia regionale. A conclusioni diverse non si arriverebbe qualora i commi 9 e 10 fossero ricondotti ad una materia di potesta' concorrente. Ne' si puo' invocare il fatto che i commi 9 e 10 prevedano (il comma 9 indirettamente, attraverso il richiamo dell'art. 27, comma 1, legge n. 289 del 2002) decreti «di natura non regolamentare»: se per le fonti primarie i criteri di identificazione sono prettamente formali, per le fonti secondarie, come noto, si ricorre soprattutto a criteri sostanziali, e la legge non puo' mutare la natura dell'atto attribuendogli una certa denominazione, e meno ancora una denominazione le cui stesse parole mostrano l'intento elusivo: perche', se un atto contiene precetti generali e astratti, innovativi dell'ordinamento, esso non puo' che essere sovraordinato (e cioe' normativo) agli atti amministrativi esecutivi. E' evidente che a nulla servirebbe l'art. 117, comma 6, se esso potesse essere aggirato dalla legge statale che attribuisce poteri sostanzialmente normativi al Governo o ai Ministri solo evitando il nomen di regolamento. Al contrario, questo tentativo determina invece una doppia illegittimita': per avere istituito poteri regolamentari, e per averli qualificati, elusivamente, «non regolamentari». In definitiva, i commi 9 e 10 risultano illegittimi nella parte in cui prevedono un fondo settoriale in materia regionale, attribuendo al Ministro e al Dipartimento per l'innovazione poteri nominativi ed amministrativi relativi alla gestione del Fondo in questione. Se anche vi fossero eccezionali esigenze unitarie (che non vi sono), essi sarebbero comunque illegittimi nella parte in cui non prevedono che i poteri statali ivi previsti siano esercitati previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni. 18. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 18 e 19. In base al comma 18, «le risorse provenienti da iniziative di cui all'art. 67, comma 1, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, nonche' quelle relative agli interventi di cui all'art. 11 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002 n. 178, accertate al 31 dicembre di ogni anno, sono trasferite sullo stato di previsione del Ministero delle politiche agricole e forestali, anche ai fini dell'attuazione dell'art. 66 della legge 27 dicembre 2002, n. 289». Dal comma 19 poi risulta che, «nei limiti delle risorse rese disponibili di cui al comma 18, e in base alle specifiche assegnazioni determinate annualmente ai sensi dell'art. 11, comma 3, lettera f), della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni, il Ministro delle politiche agricole e forestali sottopone all'approvazione del CIPE nuovi contratti di programma nei settori agricolo e della pesca». L'art. 67, comma 1, legge n. 448/2001, richiamato dal comma 18, prevede che «i finanziamenti revocati dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) ad iniziative di programmazione negoziata nel settore agroalimentare e della pesca sono assegnati al finanziamento di nuovi patti territoriali e contratti di programma riguardanti il settore medesimo»; l'art. 11 d.l. n. 138/2002, anch'esso richiamato, disciplina Contributi per gli investimenti in agricoltura. L'art. 4, comma 19, dunque, prevede l'approvazione - da parte del CIPE - di nuovi contratti di programma nei settori agricolo e della pesca, cioe' in materie di competenza regionale (salve le possibilita' di intervento statale derivanti dalle funzioni di cui all'art. 117, comma 2). I contratti di programma cui fa riferimento la norma impugnata trovano la loro definizione nell'art. 2, comma 203, lett. e), legge n. 662/1996. Codesta Corte si e' gia' pronunciata sulla materia della programmazione negoziata in agricoltura, con la sent. n. 14/2004, dichiarando infondata la questione sollevata da alcune Regioni in relazione all'art. 67 legge n. 448/2001. Questa disposizione, pero', si distingue da quella impugnata proprio in relazione a quei tratti che hanno costituito la ragione della sentenza di rigetto della Corte. L'art. 67, oltre al comma 1 gia' citato, contiene il comma 2, dal quale risulta che «con decreto del Ministro per le attivita' produttive, di concerto con il Ministro delle politiche agricole e forestali, sono predisposti contratti di programma ed emanati bandi di gara per patti territoriali, attivabili e finanziabili su tutto il territorio nazionale previa delibera del CIPE secondo gli orientamenti comunitari in materia di aiuti di Stato per l'agricoltura, nei limiti delle risorse rese disponibili attraverso le revoche di cui al comma 1». Codesta Corte ha osservato che: «la peculiarita' delle iniziative promosse dallo Stato e' che i relativi contratti di programma e i patti territoriali si riferiscono all'intero territorio nazionale, nei limiti e nella misura in cui cio' sia reso possibile dalla disciplina comunitaria», aggiungendo che «tali iniziative sono infatti inserite nel quadro complessivo della programmazione comunitaria degli aiuti con finalita' di coesione economico-sociale, coinvolgono i rapporti dello Stato con l'Unione europea e richiedono una visione degli assetti del mercato nazionale, del quale sono intese a rafforzare l'efficienza»; percio' la disciplina di cui all'art. 67 e' stata ascritta «alle funzioni legislative statali di cui alla lettera e) dell'art. 117, secondo comma, Cost., e segnatamente alla tutela della concorrenza, nel senso dinamico di cui si e' detto, e alla perequazione delle risorse finanziarie». Il rilievo decisivo della dimensione nazionale delle iniziative di cui all'art. 67 e' confermato da un'ulteriore considerazione svolta dalla Corte a sostegno della propria decisione. Essa ha infatti precisato che «non rileva ai fini della presente decisione il fatto che, successivamente, sotto la spinta di istanze autonomistiche, i finanziamenti revocati dal CIPE debbano essere utilizzati obbligatoriamente all'interno del territorio regionale e non piu' sull'intero territorio nazionale (delibera CIPE 25 luglio 2003, n. 26/2003, adottata sulla base degli artt. 60 e 61 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e a seguito di accordo in sede di Conferenza unificata del 15 aprile 2003 per il coordinamento della regionalizzazione degli strumenti di sviluppo locale)», concludendo «con tale nuova disciplina lo Stato ha scelto di non piu' esercitare in questa materia quella funzione di riequilibrio generale di cui la disposizione censurata era espressamente, senza che cio' comporti l'illegittimita' della precedente opzione legislativa». Per differenza, dunque, la sentenza ora ricordata ha affermato che la disciplina di cui all'art. 67 non sarebbe stata legittima nella prospettiva della regionalizzazione degli strumenti di programmazione negoziata successivamente consolidatasi, ma che lo stesso art. 67 andava giudicato di per se', a prescindere delle vicende successive, e che esso era legittimo in quanto «i relativi contratti di programma e i patti territoriali si riferiscono all'intero territorio nazionale». Ora, i commi 18 e 19 intervengono in questa complessa materia sostituendo la competenza del Ministero delle politiche agricole a quella del Ministero delle attivita' produttive e prevedendo che il primo presenti al CIPE, per l'approvazione, nuovi contratti di programma nei settori agricolo e della pesca. Nel nuovo contesto della regionalizzazione degli strumenti di programmazione negoziata, non si fa alcun cenno ad un essenziale «rilievo nazionale» delle iniziative ma si continua a tener ferma la competenza degli organi statali all'approvazione dei contratti di programma e all'erogazione delle risorse finanziarie. In assenza di quegli elementi «macroeconomici» che caratterizzavano l'art. 67 legge n. 448/2001, la previsione di una gestione centrale di risorse destinate al finanziamento di iniziative nelle materie dell'agricoltura e della pesca risulta dunque illegittima per violazione degli artt. 117, 118 e 119 Cost., in quanto - come osservato per altre norme - in materie di competenza regionale residuale spetta alla Regione decidere sulle politiche di sostegno da adottare e allocare le relative funzioni amministrative, sul presupposto del finanziamento integrale delle funzioni regionali quale dovrebbe essere compiuto dalla Stato ex art. 119 Cost. Ne' le norme impugnate si possono giustificare in virtu' del principio di sussidiarieta', non ravvisandosi esigenze unitarie che rendano necessaria la competenza statale in materia di approvazione e finanziamento dei contratti di programma in materia di agricoltura e pesca. In subordine, qualora codesta Corte ritenesse applicabile il principio di sussidiarieta', il comma 19 sarebbe pur sempre illegittimo per la mancata previsione di un'intesa con le Regioni interessate ai fini dell'approvazione dei contratti di programma. 19. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4 commi 29 e 30. Il comma 29 stabilisce che, «nelle more dell'adozione dei decreti legislativi previsti dalle leggi 5 giugno 2003, n. 131, e 7 marzo 2003, n. 38, gli interventi in favore del settore ittico di cui alla legge 17 febbraio 1982, n. 41, sono realizzati dallo Stato, dalle regioni e dalle province autonome limitatamente alle rispettive competenze previste dalla Parte IV del VI Piano nazionale della pesca e dell'acquacoltura adottato con decreto del Ministero delle politiche agricole e forestali 25 maggio 2000, pubblicato nel supplemento ordinario nella Gazzetta Ufficiale n. 174 del 27 luglio 2000». Il comma 30, del canto suo, prevede che, «entro il 28 febbraio 2004, in attuazione di quanto previsto al comma 29 e in deroga alle disposizioni di cui agli artt. 1 e 2 della legge 17 febbraio 1982, n. 41, e successive modificazioni, con decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali e' approvato il Piano nazionale della pesca e dell'acquacoltura per l'anno 2004». L'art. 1 legge n. 41/1982, Piano per la razionalizzazione e lo sviluppo della pesca marittima, stabilisce, nel contesto del vecchio Titolo V della Costituzione, che, «al fine di promuovere lo sfruttamento razionale e la valorizzazione delle risorse biologiche del mare attraverso uno sviluppo equilibrato della pesca marittima, il Ministro della marina mercantile, tenuto conto dei programmi statali e regionali anche in materie connesse, degli indirizzi comunitari e degli impegni internazionali, adotta con proprio decreto il piano nazionale degli interventi previsti dalla presente legge», aggiungendo che «tale piano, di durata triennale, e' elaborato dal Comitato nazionale per la conservazione e la gestione delle risorse biologiche del mare, istituito ai sensi del successivo art. 3, ed approvato dal CIPE». In attuazione di questa disposizione, con diversi decreti ministeriali sono stati adottati vari triennali della pesca, fino al d.m. 25 maggio 2000, Adozione del VI Piano nazionale triennale della pesca e dell'acquacoltura 2000-2002. La parte IV di questo decreto riguarda il Bilancio preventivo e contiene la «ripartizione delle risorse finanziarie tra interventi gestiti dallo Stato ed interventi gestiti dalle Regioni». Fra gli interventi gestiti dallo Stato rientrano quelli concernenti: il Fondo centrale credito peschereccio, i Contribuiti a fondo perduto per Osservatorio del lavoro, il Contributo a fondo perduto per iniziative associazionismo, i Contributi per incentivi alla cooperazione, la Ricerca applicata alla pesca e acquicoltura, le Campagne di educazione alimentare, gli Interventi sul sistema statistico, il Funzionamento degli organi collegiali, le Missioni all'estero, le Iniziative a sostegno dell'attivita' ittica, il Controllo attivita' di pesca da parte delle Capitanerie di porto, il Fondo di solidarieta', gli Studi di mercato (ISMEA), la Commissione per la sostenibilita' (INEA). E' opportuno segnalare che l'art. 69, comma 14, legge n. 289/2002 ha prorogato il piano in questione fino al 31 dicembre 2003. Dunque, l'art. 4, comma 29, recepisce (con un rinvio «fisso») la ripartizione di competenze fra Stato e Regioni operata dal d.m. 25 maggio 2000 (scaduto, come detto, il 31 dicembre 2003) nel contesto del vecchio Titolo V della Costituzione, che attribuiva alla competenza regionale solo la «pesca nelle acque interne». Inevitabilmente, dunque, il comma 29 non e' coerente con il nuovo quadro costituzionale, nell'ambito del quale (salvi i titoli di intervento di cui all'art. 117, comma 2) lo Stato puo' svolgere e regolare funzioni amministrative nelle materie di competenza regionale (come la pesca e anche la ricerca e l'educazione alimentare) solo qualora cio' sia reso necessario dal principio di sussidiarieta'. Ma, recependo in modo tralaticio la ripartizione operata dal d.m. 25 maggio 2000, la legge n. 350/2003 non ha affatto compiuto le valutazioni rese necessarie dagli artt. 117 e 118 Cost., attribuendo allo Stato competenze rientranti in materie regionali, in assenza di esigenze unitarie. In particolare, ricadono - piu' chiaramente degli altri - nelle materie di competenza regionale di cui all'art. 1l7, comma 3 e 4 gli interventi riguardanti i Contributi a fondo perduto per Osservatorio del lavoro, il Contributo a fondo perduto per iniziative associazionismo, i Contributi per incentivi alla cooperazione, la Ricerca applicata alla pesca e acquicoltura, le Campagne di educazione alimentare, le Iniziative a sostegno dell'attivita' ittica, il Controllo attivita' di pesca da parte delle Capitanerie di porto, il Fondo di solidarieta', gli Studi di mercato (ISMEA) e la Commissione per la sostenibilita' (INEA). In subordine, qualora codesta Corte ravvisi esigenze unitarie, permanenti o transitorie, a sostegno di queste competenze statali, il comma 29 sarebbe comunque illegittimo per la mancata previsione dell'intesa con le Regioni. Quanto al comma 30, esso prevede una procedura speciale di approvazione del Piano nazionale della pesca per il 2004: le particolarita' sembrano consistere nella sufficienza del solo decreto ministeriale e nella durata annuale del piano. Anche ammettendo che per l'approvazione del Piano nazionale possa essere giustificata la competenza statale, la norma risulta illegittima per la mancata previsione dell'intesa con le Regioni interessate, ai sensi della sent. n. 303/2003. 20. - Illegittimita' costituzionale dei commi 61 e 63 dell'art. 4. Il comma 61 dell'art. 4 dispone che «e' istituito presso il Ministero delle attivita' produttive un apposito fondo con dotazione di 20 milioni di euro per il 2004, 30 milioni di euro per il 2005 e 20 milioni di euro a decorrere dal 2006, per la realizzazione di azioni a sostegno di una campagna promozionale straordinaria a favore del «made in Italy», anche attraverso la regolamentazione dell'indicazione di origine o l'istituzione di un apposito marchio a tutela delle merci integralmente prodotte sul territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine, nonche' per il potenziamento delle attivita' di supporto formativo e scientifico particolarmente rivolte alla diffusione del «made in Italy» nei mercati mediterranei, dell'Europa continentale e orientale, a cura di apposita sezione dell'ente di cui all'art. 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 287, collocata presso due delle sedi periferiche esistenti, con particolare attenzione alla naturale vocazione geografica di ciascuna nell'ambito del territorio nazionale». La disposizione prosegue poi specificando che «a tale fine, e per l'adeguamento delle relative dotazioni organiche, e' destinato all'attuazione delle attivita' di supporto formativo e scientifico indicate al periodo precedente un importo non superiore a 5 milioni di euro annui». Complessivamente, dunque, il comma 61 dispone interventi a sostegno della commercializzazione dei prodotti italiani, ed in particolare, esso istituisce presso il Ministero delle attivita' produttive un Fondo destinato: a) alla realizzazione da parte del Ministero stesso di «azioni a sostegno di una campagna promozionale straordinaria a favore del «made in Italy», anche attraverso la regolamentazione dell'indicazione di origine o l'istituzione di un apposito marchio a tutela delle merci integralmente prodotte sul territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine». Questa previsione e' completata dal comma 63, a termini del quale «le modalita' di regolamentazione delle indicazioni di origine e di istituzione ed uso del marchio di cui al comma 61 sono definite con regolamento emanato ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dal Ministro delle attivita' produttive, di concerto con i Ministri dell'economia e delle finanze, degli affari esteri, delle politiche agricole e forestali e per le politiche comunitarie»; b) al «potenziamento delle attivita' di supporto formativo e scientifico particolarmente rivolte alla diffusione del «made in Italy» nei mercati mediterranei, dell'Europa continentale e orientale». Ma in pratica queste attivita' sono affidate alla Scuola superiore dell'economia e delle finanze, che e' posta alle dirette dipendenze del Ministro dell'economia e delle finanze. In essa deve essere istituita un'apposita sezione collocata in due delle sedi periferiche della scuola medesima, «con particolare attenzione alla naturale vocazione geografica di ciascuna nell'ambito del territorio nazionale». Un apposito finanziamento annuo di Euro 5 milioni e' destinato alla Scuola per sostenere questa attivita'. Si tratta dunque di due aspetti distinti: un'azione promozionale e regolativa diretta del Ministero, e un finanziamento ad una specifica istituzione statale di carattere formativo. Quanto al primo aspetto (l'azione promozionale e regolativa diretta del Ministero), la Regione Emilia-Romagna non contesta, su un piano generale, ne' la legittimita' ne' l'opportunita' di iniziative promosse dal Governo per il potenziamento delle attivita' promozionali a favore dei prodotti nazionali, iniziative che ben possono rientrare in quella «concezione dinamica» della competenza statale in materia di «tutela della concorrenza» che giustifica, a tenore della sent. 14/2004 di codesta Corte, l'impiego di «strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese» ed interventi di rilevanza macroeconomica «finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico». Tuttavia e' necessario considerare che gli interventi previsti dalle disposizioni impugnate, per le loro stesse dimensioni finanziarie, non si collocano in una dimensione macroeconomica, ne' appaiono idonee «quanto ad accessibilita' a tutti gli operatori ad impatto complessivo, ad incidere sull'equilibrio economico generale» (cosi' ancora la sent. 14/2004). Si tratta piuttosto di interventi che, impiegando il «criterio di prevalenza» indicato dalla sent. 370/2003, risultano ricadere piuttosto nella materia «commercio con l'estero», attribuita dall'art. 117, comma 3, Cost. alla «potesta' concorrente». Anche a riconoscere l'opportunita' che l'indicazione di origine e l'istituzione di marchi che connotano i prodotti di qualita' italiani siano regolati con criteri omogenei su tutto il territorio nazionale, la disciplina contenuta nelle disposizioni impugnate risulta tuttavia lesiva delle attribuzioni regionali sotto almeno due profili. In primo luogo, la previsione che le modalita' di regolamentazione delle indicazioni di origine e di istituzione ed uso del marchio made in Italy siano disciplinate con regolamento governativo viola l'art. 117, comma 6, che circoscrive la potesta' regolamentare dello Stato alle sole materie di cui all'art. 117, comma 2, Cost. (cfr. le sentenze 303/2003 e 12/2004). In secondo luogo, la previsione che la disciplina regolamentare sia emanata con le forme proprie del regolamento governativo, su proposta del Ministro delle attivita' produttive, di concerto con i Ministri dell'economia e delle finanza, degli affari esteri, delle politiche agricole e forestali e per le politiche comunitarie, senza prevedere alcuna partecipazione delle Ragioni, lede il principio di leale collaborazione che, per costante giurisprudenza di codesta Corte (cfr. da ultimo le sentenze 303/2003 e 6/2004), comporta la «necessaria previsione di idonee forme di intesa e collaborazione tra il livello statale e i livelli regionali» ogniqualvolta lo Stato agisca in materie non sue esclusive a tutela di esigenze unitarie. Risulta inoltre lesiva delle attribuzioni regionali la previsione del comma 61, laddove affida alla Scuola superiore dell'economia e delle finanze «attivita' di supporto formativo e scientifico» rivolte alla diffusione del «made in Italy». Senza entrare nel merito delle competenza effettive di detta Scuola a svolgere tali compiti, per i quali infatti e' previsto uno stanziamento annuale aggiuntivo, non puo' trascurare che: a) la formazione professionale rientra tra le materie di competenza residuale delle Regioni, come chiaramente indicato dallo stesso art. 117, comma 3, Cost., che espressamente la scorpora dalla «istruzione»; b) se l'attivita' formativa e di supporto scientifico in questione deve ritenersi servente lo specifico oggetto della disposizione, se ne deve dedurre che per essa si espande la competenza concorrente in materia di «commercio con l'estero», con la conseguenza che le Regioni non possono essere escluse da essa. Va sottolineato, del resto, che gia' il decreto legislativo n. 112/1998, all'art. 41, lett. g), ha trasferito alle Regioni l'organizzazione, anche con l'ausilio dell'ICE, di corsi di formazione professionale, tecnica e manageriale per gli operatori commerciali con l'estero; c) la «ricerca scientifica e tecnologica» e il «sostegno all'innovazione per i settori produttivi» e' anch'essa materia concorrente. Dunque, assegnare l'attivita' di formazione e di supporto scientifico ad un soggetto posto alle dirette dipendenze del Ministero, che dichiaratamente si pone quale «istituzione di alta cultura, formazione e ricerca a vocazione generale che... agisce in concorrenza con le altre istituzioni di formazione superiore» (in questi termini la Scuola presenta se stessa nel proprio sito www.ssef.it), costituisce una scelta che viola le attribuzioni regionali in materia di commercio con l'estero o di formazione professionale senza poter vantare alcun titolo giustificativo costituzionale. Si noti che la lesione delle competenze regionali non e' attenuata, ma semmai resa piu' evidente, dalla prescrizione che la Scuola svolga l'attivita' «presso due delle sedi periferiche esistenti, con particolare attenzione alla naturale vocazione geografica di ciascuna nell'ambito del territorio nazionale», quasi che l'articolazione territoriale della Scuola possa soddisfare alle esigenze di collegamento con il territorio, escludendo e surrogando le Regioni. 21. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 82 e 83. Il comma 82 provede che «le disponibilita' del fondo di cui all'art. 37 della legge 25 luglio 1952, n. 949, e successive modificazioni, sono incrementate di 10 milioni di euro per l'anno 2004 per agevolare i processi di internazionalizzazione ed i programmi di penetrazione commerciale promossi dalle imprese artigiane e dai consorzi di esportazione a queste collegati». In base al comma 83, «le modalita', le condizioni e le forme tecniche delle attivita' di cui al comma 82 sono definite con decreto del Ministro delle attivita' produttive di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, ai sensi dell'art. 21, comma 7, della legge 5 marzo 2001, n. 57. L'art. 37 legge n. 949/1952 ha istituito un fondo per il concorso nel pagamento degli interessi sulle operazioni di credito a favore delle imprese artigiane. Benche' l'art. 21, comma 7, legge n. 57/2001 sia richiamato dal comma 83 e non dal comma 82, l'utilizzo del fondo in questione per le finalita' indicate dal comma 82 era in realta' gia' previsto, appunto, dall'art. 21, comma 7, legge n. 57/2001. Il comma 82, dunque, non fa che perpetuare un intervento statale previsto nella vigenza del vecchio Titolo V della Costituzione, disponendo un intervento statale diretto a sostegno dei «processi di internazionalizzazione» e dei «programmi di penetrazione commerciale» promossi dalle imprese artigiane e dai consorzi di esportazione a queste collegati. L'artigianato, come noto, ricade nella potesta' piena delle Regioni e gia' nel vigore del vecchio Titolo V le Regioni ricoprivano un ruolo preminente nella materia in questione. Proprio in relazione ai contributi a favore delle imprese artigiane, l'art. 12 d.lgs. n. 112/1998 prevedeva che «le funzioni amministrative relative alla materia "artigianato", cosi' come definita dall'art. 63 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, comprendono anche tutte le funzioni amministrative relative alla erogazione di agevolazioni, contributi, sovvenzioni, incentivi e benefici di qualsiasi genere, comunque denominati, alle imprese artigiane, con particolare riguardo alle imprese artistiche». L'art. 13, poi, conservava allo Stato solo «le funzioni attualmente previste concernenti: a) la tutela delle produzioni ceramiche, in particolare di quella artistica e di qualita', di cui alla legge 9 luglio 1990, n. 188; b) eventuali cofinanziamenti, nell'interesse nazionale, di programmi regionali di sviluppo e sostegno dell'artigianato, secondo criteri e modalita' definiti con decreto del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, d'intesa con la conferenza unificata». L'art. 14 precisava che «sono conferite alle regioni tutte le funzioni amministrative statali concernenti la materia dell'artigianato, come definita nell'art. 12, non riservate allo Stato ai sensi dell'art. 13», e l'art. 15 ribadiva che «le regioni provvedono all'incentivazione delle imprese artigiane, secondo quanto previsto con legge regionale». Il fatto che i contributi previsti dal comma 82 siano finalizzati a sostenere i programmi di «internazionalizzazione» delle imprese artigiane non implica affatto la competenza statale alla gestione e alla regolazione del fondo. Il finanziamento statale non attiene allo sviluppo «dell'intero Paese» (per usare un'espressione della sent. n. 14/2004), riguardando i programmi elaborati da singole imprese artigiane al fine di una loro maggiore «internazionalizzazione». E' bene precisare che il rilievo «macroeconomico» di un intervento di sostegno del mercato non sussiste solo per il fatto che l'intervento afferisce ai rapporti internazionali, tanto e' vero che la materia del «commercio con l'estero» e' attribuita alla competenza concorrente di Stato e Regioni. L'intervento di sostegno, dunque, puo' essere attratto alla competenza statale solo in presenza di chiare caratteristiche «macroeconomiche», che nel caso di specie sono assenti. Sotto altro profilo, se la competenza statale ad un intervento si giustificasse solo in virtu' del fatto che esso non ha una delimitazione territoriale regionale, ne deriverebbe una straordinaria confusione di ruoli, perche' le Regioni e lo Stato farebbero le stesse cose, con duplicazioni e distorsioni delle politiche. E' chiaro invece che gli interventi dello Stato devono contrassegnarsi per caratteristiche tali che richiedano necessariamente la dimensione statale. Ne risulta che i commi 82 e 83, dunque, contemplano la gestione e la regolazione statale di un finanziamento finalizzato al sostegno delle imprese in materia regionale, in violazione degli articoli 117, 118 e 119 Cost. Si tratta di politiche di sostegno che possono e devono essere decise e gestite a livello regionale, mancando (oltre al carattere macroeconomico) qualsiasi esigenza unitaria. In particolare, e' illegittima la previsione - da parte del comma 83 - di un atto sostanzialmente regolamentare in materia di competenza regionale piena (artigianato) o, al massimo, concorrente (commercio con l'estero). In subordine, qualora codesta Corte ritenesse che l'intervento previsto dal comma 82 ha carattere macroeconomico, i commi 82 e 83 sarebbero comunque illegittimi per la mancata previsione di meccanismi di coordinamento con le Regioni, perche', se anche risulta invocabile la competenza statale in materia di «tutela della concorrenza», cio' non toglie che le norme impugnate incidono su una materia regionale e cio' rende necessario che le funzioni statali di gestione e regolazione da esse previste siano svolte in modo da tener conto del punto di vista della Regione e da coordinarsi con l'azione che la Regione stessa svolge. A maggior ragione, naturalmente, cio' varrebbe qualora si ritenesse insussistente il carattere macroeconomico ma esistente una ipotetica esigenza unitaria, tale da giustificare la gestione centrale del finanziamento (ma, comunque, non la previsione del decreto sostanzialmente regolamentare). 22. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 100, 101, 102. Il comma 99 dell'art. 4 stabilisce che «in conformita' con il principio di cui all'art. 34, terzo comma, della Costituzione, agli studenti capaci e meritevoli, iscritti ai corsi di cui all'art. 3 del regolamento di cui al decreto del Ministro dell'universita' e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509, possono essere concessi prestiti fiduciari per il finanziamento degli studi». Si tratta di una disposizione di per se' priva di contenuto normativo, trattandosi di uno strumento di diritto comune in ogni caso a disposizione delle politiche di assistenza agli studi universitari. Il vero contenuto normativo appare invece al successivo comma 100, secondo il quale «e' istituito un Fondo finalizzato alla costituzione di garanzie sul rimborso dei prestiti fiduciari concessi dalle banche e dagli altri intermediari finanziari», il quale «puo' essere utilizzato anche per la corresponsione agli studenti, privi di mezzi, e agli studenti nelle medesime condizioni residenti nelle aree sottoutilizzate di cui all'art. 61 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, di contributi in conto interessi per il rimborso dei predetti prestiti fiduciari». Il comma 101 dispone che tale Fondo sia «gestito da Sviluppo Italia S.p.a. sulla base di criteri ed indirizzi stabiliti dal Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni o le province autonome di Trento e di Bolzano». Il comma 103 stabilisce la dotazione del Fondo in misura «pari a 10 milioni di euro per l'anno 2004», aggiungendo che «il Fondo puo' essere incrementato anche con i contributi di regioni, fondazioni e altri soggetti pubblici e privati». Le disposizioni impugnate intervengono in materia di diritto allo studio universitario, modificando la disciplina dei c.d. prestiti d'onore gia' introdotta dalla legge 390/1991. Le funzioni amministrative in materia di assistenza scolastica a favore degli studenti universitari sono state conferite alle Regioni sin dal d.P.R. 616/1977, il cui art. 44 ha disposto il trasferimento ad esse delle funzioni gia' esercitate dalle Opere universitarie. Oggi, dopo la riforma del titolo V, la materia e' di sicura competenza «residuale» delle Regioni salvo, ovviamente, il potere - dovere del legislatore statale di fissare i «livelli essenziali» delle prestazioni pubbliche. Ora, se pure si volesse affermare che la disciplina dei prestiti d'onore sia configurabile come componente della definizione delle prestazioni pubbliche che devono essere erogate senza differenziazione territoriali agli studenti universitari che ne hanno titolo, cio' non potrebbe comunque consentire che organi o organismi statali si sostituiscano alle Regioni e alle loro strutture nell'erogazione delle prestazioni; ne' potrebbe portare ad ammettere che lo Stato istituisca, in materie di competenza regionale, fondi speciali gestiti da organismi riferibili allo Stato stesso, anziche' trasferire i finanziamenti, senza vincolo di destinazione, alle Regioni. Come codesta Corte ha gia' avuto modo di ribadire piu' volte, «il nuovo art. 119 della Costituzione, prevede espressamente, al quarto comma, che le funzioni pubbliche regionali e locali debbano essere «integralmente» finanziate tramite i proventi delle entrate proprie e la compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al territorio dell'ente interessato, di cui al secondo comma, nonche' con quote del `fondo perequativo senza vincoli di destinazione', di cui al terzo comma». «Pertanto, nel nuovo sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed Enti locali, lo Stato puo' erogare solo fondi senza vincoli, specifici di destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui all'art. 119, terzo comma, della Costituzione» (sent. 370/2003). Dal momento che l'attivita' dello speciale servizio pubblico costituito dall'assistenza scolastica agli studenti universitari rientra palesemente nella sfera delle funzioni proprie delle Regioni, la configurazione (nei commi 100-102) di un fondo settoriale di finanziamento gestito da organismi dipendenti dallo Stato viola in modo palese l'autonomia finanziaria sia di entrata che di spesa delle regioni. Inoltre, la previsione che il fondo sia gestito «sulla base di criteri e indirizzi stabiliti dal MIUR, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano» (comma 101) risulta anch'essa illegittima, per difetto di fondamento costituzionale di un potere di indirizzo. In via interpretativa della Costituzione, l'art. 8, comma 6, della legge n. 131 del 2003 ha stabilito che nelle materie di potesta' legislativa regionale «non possono essere adottati gli atti di indirizzo e di coordinamento». Se pure potesse costituzionalmente esistere un simile potere, la disciplina che ad esso viene data sarebbe in ogni modo illegittima, sia perche' rinvia ad un atto ministeriale, anziche' ad un atto collegiale del Governo, sia per il difetto di legalita' sostanziale (essendo la fattispecie legislativa estremamente indeterminata), sia per la mancata previsione dell'intesa con le Regioni (gia' a suo tempo prescritta per gli atti di indirizzo e coordinamento dal d.lgs. n. 281/1997). Le stesse considerazioni varrebbero anche se la funzione di cui si tratta venisse limitata alla determinazione dei «livelli essenziali», in relazione ai quali, come la sent. n. 88/2003 di codesta Corte ha affermato, si richiede «che queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge», ed inoltre che essa debba «determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie nei vari settori», nel rispetto del principio di leale collaborazione, senza di cui sarebbe illegittima «la compressione dei poteri delle Regioni e delle Province autonome». E' palese inoltre che creazione di un fondo separato e la sua gestione centrale, distinta dalla gestione delle politiche di assistenza agli studi universitari viene a creare una distinta politica di assistenza, che interferisce irragionevolmente con quella delle Regioni e degli enti regionali o locali istituzionalmente competente, creando sovrapposizioni e impedendo una gestione che tenga conto di tutti gli aspetti dell'assistenza universitaria. 23. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 106-111. I commi dal 106 al 111 istituiscono e disciplinano un Fondo rotativo nazionale per effettuare interventi temporanei di potenziamento del capitale di imprese medio-grandi che presentino nuovi programmi di sviluppo, anche attraverso la sottoscrizione di quote di minoranze di fondi immobiliari chiusi che investono in esse. Nonostante il riferimento alle imprese medio-grandi, la relativa modestia delle risorse allocate per l'esercizio in corso e i vincoli comunitari agli aiuti di Stato preludono ad un intervento di modesto rilievo, tale da escludere, ad avviso della ricorrente Regione, che esso possa essere classificato tra gli «strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese», «finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico» e giustificati per la loro «rilevanza macroeconomia»: e solo in tale quadro - come ha affermato codesta ecc.ma Corte nella sent. n. 14/2004 - «e' mantenuta allo Stato la facolta' di adottare sia specifiche misure di rilevante entita', sia regimi di aiuto ammessi dall'ordinamento comunitario (fra i quali gli aiuti de minimis), purche' siano in ogni caso idonei, quanto ad accessibilita' a tutti gli operatori ed impatto complessivo, ad incidere sull'equilibrio economico generale». Tuttavia, anche se la previsione di interventi siffatti si potesse giustificare in nome della concezione «dinamica» delle competenze statali in ordine alla «tutela della concorrenza», le modalita' di gestione delle misure previste rimarrebbero censurabili per lo spiccato carattere centralistico che esse presentano, in quanto pretermettono totalmente le Regioni (esse sono citate dall'art. 106 solo per concedere priorita' agli interventi da esse cofinanziati). Da un lato infatti, quanto alla programmazione degli interventi, risulta lesiva del principio di leale collaborazione l'aver attribuito al CIPE il compito di fissare, senza alcun concorso delle Regioni, i criteri generali di valutazione e la durata massima di essi (comma 110). Si noti che il fatto che allo Stato si (in ipotesi) consentito di intervenire in base al titolo «trasversale» della tutela della concorrenza non toglie minimamente che l'intervento si riferisca ad ambiti materiali che fanno parte delle responsabilita' proprie delle Regioni: di qui un «incrocio» di responsabilita' al quale devono necessariamente corrispondere strumenti di concertazione e di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni. Tali strumenti erano presenti nella fattispecie esaminata dalla sentenza n. 14 del 2004, e solo percio', ritiene la ricorrente Regione, la sentenza stessa non ha avuto occasione di rilevarne la necessita'. Dall'altro lato, quello della gestione degli interventi, la eventuale giustificazione dell'intervento statale, basata su un titolo di competenza tratto dall'interpretazione estensiva dell'art 117, non esclude certo qualsiasi valutazione in termini di ragionevolezza, congruita' e proporzionalita'. La stessa sentenza n. 14/2004, all'opposto, richiede che le scelte dello Stato possano essere sottoposte «ad un controllo di costituzionalita' diretto a verificare che i loro presupposti non siano manifestamente irrazionali e che gli strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi», poiche' «(q)uando venga in considerazione il titolo di competenza funzionale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che non definisce ambiti oggettivamente delimitabili, ma interferisce con molteplici attribuzioni delle Regioni, e' la stessa conformita' dell'intervento statale al riparto costituzionale delle competenze a dipendere strettamente dalla ragionevolezza della previsione legislativa». Sotto questo profilo, risulta ingiustificata e lesiva delle attribuzioni riconosciute alla Regione dall'art. 117 Cost. la concentrazione della gestione degli interventi in Sviluppo Italia S.p.a., che e' un'Agenzia nazionale per lo sviluppo che ha tra le sue finalita' la «co-gestione» di funzioni pubbliche ed agisce tramite una rete di Societa' regionali presenti in quasi tutte le regioni (ma, tra l'altro, non in Emilia-Romagna). Sia il riparto delle competenze che il principio di sussidiarieta' richiedono invece che le funzioni di gestione ed attuazione degli interventi siano affidate alla Regione, che vi provvedera' attraverso i propri strumenti di intervento, tra i quali l'Ervet S.p.a. 24. - lllegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 112 a 115. Con le disposizioni impugnate, viene istituito un Fondo speciale per l'incentivazione della partecipazione dei lavoratori nelle imprese, che dovrebbe sostenere programmi finalizzati alla partecipazione dei lavoratori ai risultati o alle scelte gestionali delle imprese medesime. La gestione del Fondo e' affidata ad un Comitato composto da esperti nominati in parte dal Ministero e in parte dalle associazioni sindacali. La materia nel cui ambito, usando «un criterio dl prevalenza» (come suggerisce la sent. n. 370/2003), sembrano ricadere gli interventi in questione e' la «tutela e sicurezza del lavoro», che l'art. 117, comma 3, Cost. assegna alla potesta' concorrente. In materie non «esclusive» dello Stato, anche qualora potessero essere configurate esigenze unitarie che giustifichino l'intervento legislativo dello Stato, il nuovo Titolo V vieta che lo Stato istituisca fondi speciali, anziche' destinare le risorse alla finanza regionale secondo i principi dell'art. 119 Cost. Ancor piu' illegittimo appare che il fondo settoriale sia affidato alla gestione statale, violandosi cosi sia la potesta' legislativa regionale - che non avrebbe ovviamente modo alcuno di esplicarsi - sia la propria potenziale titolarita' delle funzioni amministrative. Se pure una eccezionale gestione unitaria fosse giustificata - in denegata ipotesi - da interessi indivisibili (che peraltro non sono neppure affermati), la normativa risulterebbe comunque illegittima per il mancato coinvolgimento delle Regioni secondo le modalita' richieste dal principio di leale collaborazione (cfr. sent. n. 16 e n. 49/2004). Da qui deriva la violazione delle attribuzoni regionali, garantite dall'art. 117, comma 3, Cost., nonche' del principio di leale collaborazione. 25. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 157. Il comma 157 dell'art. 4 prevede tra l'altro che «per il conseguimento dei risultati di maggiore efficienza e produttivita' dei servizi di trasporto pubblico locale, e' istituito un apposito fondo presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti» e che «con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentita la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono stabilite le modalita' di riparto delle risorse di cui al presente comma». La disposizione e' censurabile in quanto istituisce un Fondo ministeriale separato e con destinazione vincolata in materia di competenza residuale delle Regioni. Come codesta Corte ha ripetutamente affermato, nel nuovo sistema della finanza regionale, tratteggiato dall'art. 119 Cost., per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed enti locali, lo Stato non puo' proseguire nella pratica di trasferimento diretto di risorse... per scopi determinati dalla legge statale, in base a criteri stabiliti, nell'ambito della stessa legge, dall'amministrazione dello Stato»; al contrario, «lo Stato puo' e deve agire in conformita' al nuovo riparto di competenze e alle nuove regole, disponendo i trasferimenti senza vincoli di destinazione specifica, o, se del caso, passando attraverso il filtro dei programmi regionali, coinvolgendo dunque le Regioni interessate nei processi decisionali concernenti il riparto e la destinazione dei fondi» (sent. n. 16/2004; negli stessi termini, cfr. sent. nn. 370/2003 e 49/2004). Oltretutto, la previsione per cui le modalita' di riparto delle risorse sono decise con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, «sentita la Conferenza unificata», non corrisponde alle ben piu' intense modalita' di leale collaborazione («passando attraverso il filtro dei programmi regionali, coinvolgendo dunque le Regioni interessate nei processi decisionali concernenti il riparto e la destinazione del fondi»: ancora sent. n. 16/2004) che devono essere rispettate quando i trasferimenti non possono essere disposti senza vincoli di destinazione specifica. L'impugnazione non coinvolge i contributi disposti dal terzo periodo del comma impugnato, in quanto essi costituiscono rimborso di contributi non dovuti. 26. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 159. La disposizione impugnata prevede l'erogazione di contributi in conto capitale per «il sostegno e l'ulteriore potenziamento dell'attivita' di ricerca scientifica e tecnologica», rinviando la determinazione delle misure dei contributi, della tipologia degli interventi ammessi e dei destinatari ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Essa viola l'autonomia finanziaria che l'art. 119 Cost. garantisce alla Regione, in quanto, in una materia - «ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi» - che l'art. 117, terzo comma, Cost. assegna alla potesta' concorrente, vengono disposti interventi diretti che, secndo la giurisprudenza consolidata di codesta Corte (cfr. sentt. nn. 370/2003; 16/2004; 49/2004), sono ammessi soltanto nelle materie di competenza «esclusiva» dello Stato. Se anche si dovesse ritenere che questi interventi, dei quali nessun contorno e' in realta' definito nella previsione legislativa, siano riconducibili a quelle forme di intervento economico diretto alla politica di sviluppo che la sent. n. 14/2004 di codesta Corte ha ritenuto di poter ricondurre agli interventi a «tutela della concorrenza», rientranti nella potesta' esclusiva dello Stato, evidente apparirebbe un diverso profilo di illegittimita': essendo la fattispecie legislativa del tutto priva di elementi di identificazione degli interventi finanziabili, la disposizione si sottrae a quel controllo di ragionevolezza, congruita' e proporzionalita' a cui, come sottolinea la citata sent. n. 14/2004, gli interventi statali, che interferiscono con molteplici attribuzioni delle Regioni, non possono sottrarsi. L'indeterminatezza della legge si riflette percio' in inammissibile pregiudizio per la garanzia costituzionale delle attribuzioni regionali, senza neppure che a cio' si cerchi di porre rimedio coinvolgendo le Regioni stesse nella individuazione delle tipologie di intervento. La copertura finanziaria di questi interventi, che l'art. 3, comma 101, individua in stanziamenti distratti dal Fondo nazionale per le politiche sociali, e' stata fatta oggetto di apposita impugnativa (v. sopra, punto +). 27) Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 204. Il comma 204 dell'art. 4 dispone che per «consentire lo svolgimento dei propri compiti istituzionali, nonche' per il finanziamento e il potenziamento dei programmi relativi allo sport sociale, agli enti di promozione sportiva e' destinata la somma di un milione di euro per l'anno 2004». La promozione ed il sostegno dello sport costituiscono materia di competenza regionale sia dal trasferimento compiuto dal d.P.R. n. 616/1977. Nel vigente ordinamento costituzionale lo Stato ha potesta' concorrente in materia di ordinamento sportivo ex art. 117, comma 3, nei consueti limiti della normazione dei principi fondamentali che sono propri della potesta' concorrente statale. Pertanto e' illegittima la norma che dispone un finanziamento diretto, da parte dello Stato, a favore degli enti di promozione sportiva e per il potenziamento dei programmi relativi allo sport sociale (entrambe materie di sicura competenza residuale regionale) in quanto, come codesta Corte ha piu' volte affermato (cfr. sent. nn. 370/2003; 16/2004; 49/2004), gli interventi finanziari diretti in materia di competenza non «esclusiva» dello Stato ledono l'autonomia finanziaria della Regione. Si tratta invece di risorse che vanno assegnate al sistema regionale e locale secondo i principi dell'art. 119, Cost. In ogni caso, costituirebbe ulteriore illegittimita' il difetto di meccanismi di cooperazione e la mancata previsione dell'intesa con le Regioni. 28. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 209 a 211. Il comma 209 stanzia, «per gli interventi di cui all'art. 3 della legge 16 marzo 2001, n. 88,.... la somma annuale di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2004, 2005 e 2006», e, «per gli interventi di cui all'art. 2 della legge 28 dicembre 1999, n. 522,... la somma annuale di 2 milioni di euro per ciascuno degli anni 2004, 2005 e 2006». L'art. 3 legge n. 88/2001 prevede che il Ministero dei trasporti possa concedere un contributo «alle imprese armatoriali aventi i requisiti di cui all'art. 143 del codice della navigazione che effettuano gli investimenti di cui all'art. 1 della presente legge». Gli investimenti in questione sono quelli rivolti al rinnovo e all'ammodernamento della flotta. Il comma 210 adegua, tenuto conto del comma 209, il termine fissato nell'art. 1, comma 3, legge n. 88/2001 mentre il comma 211 dispone che con regolamento ministeriale «sono emanate disposizioni attuative,... in particolare per determinare le condizioni ed i criteri per la concessione dei contributi». Dunque, siamo nuovamente in presenza di un intervento diretto statale in materia di competenza regionale (residuale o, al massimo, concorrente, qualora l'intervento in questione fosse ricondotto al «sostegno all'innovazione per i settori produttivi»). Il legislatore del 2003 reitera previsioni di interventi finanziari contenute in leggi precedenti la legge cost. n. 3/2001 e che non sono piu' compatibili con il nuovo quadro costituzionale. Ne' sembra possibile invocare il carattere «macroeconomico» dell'intervento statale, dato che si tratta di contributi concessi a singoli armatori, «con l'obiettivo di assicurare lo sviluppo del trasporto marittimo, in particolare del trasporto di merci e di quello a breve e medio raggio, e la tutela degli interessi occupazionali del settore». Dunque, le norme impugnate non hanno lo scopo di accrescere la «competitivita' complessiva del sistema» ma quello di incentivare una modalita' di trasporto rispetto alle altre e dl sostenere l'occupazione nel settore. Si tratta, pero', di scelte che, dopo il 2001, dovrebbero essere compiute dalle Regioni, o almeno sviluppate dalle Regioni sulla base di principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale. Dunque, la previsione di un intervento finanziario a sostegno di privati in materia regionale, gestito e regolato a livello ministeriale, risulta in contrasto con gli articoli 117, 118 e 119 Cost., dovendo lo Stato finanziare «integralmente» le funzioni regionali e spettando alle Regioni elaborare le proprie politiche di sostegno e svolgere le relative funzioni. Qualora, poi, in denegata ipotesi, si ravvisasse un'esigenza unitaria a sostegno delle norme impugnate, esse sarebbero comunque illegittime sia per la mancata previsione di un'intesa con le Regioni, per lo svolgimento della funzione amministrativa (comma 209), sia per la previsione di un regolamento ministeriale (comma 211), escluso dall'art. 117, comma 6, Cost. Si noti che perfino se si trattasse - come la ricorrente Regione non ritiene - di interventi a tutela della concorrenza e della competitivita' del sistema, rimarrebbe comunque che essi si collegano con ambiti di materia di competenza regionale: dunque sarebbe comunque necessario un rapporto di leale cooperazione, che dovrebbe tradursi in strumenti di concertazione e di intesa, come accadeva nella fattispecie che ha dato origine alla sentenza n. 14 del 2004. 29. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 215 a 217. Secondo il comma 215 dell'art. 4, «al fine di sostenere le attivita' dei distretti industriali della nautica da diporto e' istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze un apposito fondo con dotazione di un milione di euro per l'anno 2004, un milione di euro per l'anno 2005 e un milione di euro per l'anno 2006». Il comma 216, precisa che «il fondo di cui al comma 215 e' destinato all'assegnazione di contributi, per l'abbattimento degli oneri concessori, a favore delle imprese o dei consorzi di imprese operanti nei distretti industriali dedicati alla nautica da diporto, che insistono in aree del demanio fluviale o che ospitano in approdo meno cinquecento posti barca», mentre il comma 217 precisa che «con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono individuate le aree di cui al comma 216 e sono definite le modalita' di assegnazione dei contributi». Nonostante l'intervento finanziario finalizzato al sostegno delle «attivita' dei distretti industriali della nautica da diporto» sia presentato con un involucro che puo' far pensare ad un'azione significativa sul mercato, tale da potersi giustificare, secondo le indicazioni fornite dalla sent. 14/2004, secondo «quell'accezione dinamica» delle «tutela della concorrenza», «che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali», la reale consistenza, i contenuti e le modalita' dell'intervento lo collocano in una prospettiva ben diversa. Qui, infatti, non si tratta affatto di «unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese; strumenti che, in definitiva, esprimono un carattere unitario e, interpretati gli uni per mezzo degli altri, risultano tutti finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico»; ne' l'intervento statale si giustifica «per la sua rilevanza macroeconomica», secondo le indicazioni della citata sentenza. L'esiguita' dello stanziamento disposto a carico dei bilanci 2004-2006 (un milione di euro per esercizio) e la limitazione dell'intervento ai soli «distretti industriali» dedicati alla nautica da diporto che corrispondano a due requisiti molto selettivi, cioe' insistere «in aree di demanio fluviale» (con l'esclusione dunque di gran parte degli insediamenti connessi alla nautica da diporto che insistono sul demanio marittimo), ed ospitare in approdo almeno cinquecento posti barca (e quindi con esclusione degli insediamenti medio-piccoli), mostrano con chiarezza che l'intervento non rientra affatto in quelle «specifiche misure di rilevante entita», accessibili «a tutti gli operatori» e di «impatto complessivo», atto «ad incidere sull'equilibrio economico generale», secondo i criteri enunciati dalla menzionata sentenza di codesta Corte. Al contrario, i benefici diretti ad abbattere gli oneri di concessione costituiscono interventi mirati, che costituiscono null'altro che un privilegio per pochi operatori economici, la cui identificazione e' riservata al Ministro dell'economia e delle finanze: dunque, semmai una alterazione della concorrenza, e non certo una sua tutela. Del resto se, come e' stato autorevolmente sostenuto, la concorrenza opera «come limite non solo della competenza legislativa regionale.., ma anche della potesta' legislativa statale: nel senso che il Parlamento dovra' trattare la concorrenza non come un fatto da regolare (magari in modo restrittivo della sua portata), ma come un valore o un bene o un fine da promuovere astenendosi dalle politiche che indebitamente escludono o limitano la concorrenza» (G. Corso, La tutela della concorrenza come limite della potesta' legislativa (delle regioni e dello Stato), in Dir. pubbl. 2002, 3, 981 ss.), allora la «tutela della concorrenza» non solo non puo' essere invocata per giustificare interventi di settore cosi' specifici e quasi «fotografati», ma e' anzi un parametro rispetto al quale la disposizione impugnata si dimostra in grave difetto. Poiche' gli interventi dello Stato nello sviluppo economico sono comunque sottoposti a controllo di costituzionalita' diretto a verificare che i loro presupposti non siano manifestamente irrazionali e che gli strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi», in questo caso pare evidente che i benefici disposti costituiscono un'interferenza illegittima in materie di competenza regionale (l'industria e il turismo), perche' manca la «congruita' dello strumento utilizzato rispetto al fine di rendere attivi i fattori determinanti dell'equilibrio economico generale.». A cio' si aggiunga che, se davvero l'intervento dello Stato a favore di quegli indeterminati «distretti industriali» dovesse essere giudicato conforme ai canoni di ragionevolezza prescritti da codesta Corte, resterebbe pero' da rilevare che interventi finanziari «speciali» dello Stato in materie di competenza regionale, sia residuale che, eventualmente, concorrente, non possono attuarsi direttamente, senza un coinvolgimento «forte» delle Regioni stesse, come e' stato piu' volte ribadito dalle recenti decisioni di codesta Corte (cfr. sent. n. 370/2003, sent. n. 16/2004 e n. 49/2004), essendo evidente l'interferenza di questa specifica azione rispetto alla politica di sostegno al turismo di cui sono responsabili le Regioni. 30. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 236. Il comma 236 autorizza «le fondazioni IRCCS e gli IRCCS non trasformati in fondazioni.., a procedere all'alienazione di beni immobili del proprio patrimonio al fine di ripianare eventuali debiti pregressi maturati fino al 31 ottobre 2003», stabilendo che «le modalita' di attuazione sono autorizzate con decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, nel rispetto della normativa generale sull'alienazione dei beni immobili pubblici». Gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico operano in ambiti di compenza regionale, soggetta a legisazione concorrente statale per quanto riguarda i principi fondamentali. Si tratta di enti che rientrano ormai nell'orbita regionale, e che del resto sono da sempre collegati al sistema sanitario. Ogni decisione sull'alienazione del patrimonio spetta dunque alle Regioni. Il consentirlo o il vietarlo non costituisce certo principio fondamentale della materia, trattandosi invece di una pura scelta di gestione economica, suscettibile di influire sullo svolgimento del servizio pubblico. Ulteriormente illegittima e' la previsione che affida al Ministro un potere regolamentare in materia. Risultano dunque violati gli articoli 117, comma 3 e 6, nonche' 118, Cost.