Ricorso  della  regione Emilia-Romagna, in persona del presidente
della giunta regionale pro tempore sig. Vasco Errani, autorizzato con
deliberazione  della  giunta  regionale  n. 289 del 16 febbraio 2004,
rappresentata  e  difesa,  come  da  procura  del  19  febbraio 2004,
n. 25772 di rep., rogata dal notaio Viapiana del collegio di Bologna,
dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova, dall'avv. prof. Franco
Mastragostino  di  Bologna  e  dall'avv.  Luigi  Manzi  di  Roma, con
domicilio  eletto  in  Roma  presso  lo  studio  dell'avv. Manzi, Via
Confalonieri, n. 5;

    Contro   il   Presidente   del  Consiglio  dei  ministri  per  la
dichiarazione   di   illegittimita'  costituzionale  della  legge  24
dicembre  2003,  n. 350,  recante «Disposizioni per la formazione del
bilancio  annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004),
pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  n. 299  del 27 dicembre 2003,
Suppl.    ordinario   n. 196/L,   con   riferimento   alle   seguenti
disposizioni:
        art. 2, commi 21, 38, 53 e 70;
        art. 3, commi 17, 18, 20, 32, 43, 49, 53, 58, 60, 75, 76, 77,
82, 92, 101, da 108 a 115, 116, 117;
        art. 4, commi da 1 a 6, 9 e 10, 18 e 19, 29 e 30, 61 e 63, 82
e 83, da 100 a 102, da 106 a 111, da 112 a 115, 157, 159, 204, da 209
a 211, da 215 a 217, 236;
per violazione degli artt. 3, 97, 117, 118, 119 Cost., e dei principi
costituzionali  di legalita' sostanziale, uguaglianza, ragionevolezza
e  leale  collaborazione,  nei  modi  e  per  i  profili  di  seguito
illustrati.

                              F a t t o

    La  legge  24  dicembre  2003, n. 350 (finanziaria 2004) contiene
diverse  disposizioni  concernenti  molte  e  differeriziate materie,
accomunate  dal  fatto di avere direttamente o indirettamente rilievo
finanziario.
    Molte di queste disposizioni che riguardano materie di competenza
regionale,  ed  alcune  di  esse, qui impugnate, sono ad avviso della
ricorrente regione costituzionalmente illegittime.
    Da  qui  la  necessita'  della  proposizione del presente ricorso
attraverso  cui  si  contesta l'illegittimita' costituzionale di tali
disposizioni,  in  relazione  alle  quali  l'intervento  del  giudice
costituzionale  puo' valere ad impedire che si consolidino situazioni
non  corrispondenti  al  nuovo  assetto  conseguente alla riforma del
Titolo  V  e  che si pregiudichino prerogative e competenze di sicura
spettanza regionale.
    Le disposizioni impugnate risultano in particolare illegittime ed
invasive per le seguenti ragioni di

                            D i r i t t o

    1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 21.
    Il  comma  21  dell'art. 2  dispone che «fino al 31 dicembre 2004
restano  sospesi  gli effetti degli aumenti delle addizionali e delle
maggiorazioni  di  cui  alla  lettera  a) del comma 1 dell'articolo 3
della  legge  27 dicembre 2002, n. 289, eventualmente deliberati; gli
effetti  decorrono,  in  ogni caso, a decorrere dal periodo d'imposta
successivo alla predetta data».
    La norma dunque proroga per l'esercizio 2004 la sospensione degli
aumenti delle addizionali all'IRPEF per i comuni e le regioni e della
maggiorazione dell'aliquota IRAP. Al contrario della precedente legge
finanziaria,   la   sospensione,   pero',  non  e'  disposta  in  via
transitoria,  in attesa di un imminente accordo in sede di conferenza
unificata   tra   Stato,   regioni  ed  enti  locali  sui  meccanismi
strutturali  del  federalismo  fiscale,  ma  vale comunque sino al 31
dicembre 2004.
    Codesta  ecc.ma.  Corte costituzionale ha gia' avuto occasione di
affermare  con  la  sentenza  n. 37/2004 (facendo seguito alle sentt.
nn. 296  e  297  del  2003), che «oggi non si danno ancora, se non in
limiti  ristrettissimi,  tributi che possano definirsi a pieno titolo
"propri"   delle   regioni   o   degli  enti  locali»,  autonomamente
disciplinabili  dalle  leggi regionali, nel rispetto solo di principi
di  coordinamento.  «Anche  i tributi di cui gia' oggi la legge dello
Stato  destina il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi, e
per  i  quali  la  stessa  legge  riconosce  gia'  spazi  limitati di
autonomia  agli  enti  quanto alla loro disciplina - e che percio' la
stessa  legislazione  definiva  talora  come  "tributi  propri" delle
regioni, nel senso invalso nella applicazione del previgente art. 119
della  Costituzione  -  sono  istituiti dalla legge statale e in essa
trovano   la   loro   disciplina,   salvo  che  per  i  soli  aspetti
espressamente rimessi all'autonomia degli enti territoriali».
    In  base  a  queste  premesse,  la regione non puo' contestare il
potere  dello  Stato  di dettare norme modificativee della disciplina
dei  tributi  locali  esistenti,  in  attesa  che  sia il legislatore
statale   a   definire   il   rapporto  tra  legislazione  statale  e
legislazione  regionale  per  quanto attiene alla disciplina di grado
primario dei tributi locali.
    Tuttavia,  come  codesta  Corte ha pure sottolineato nella stessa
sent.  37/2004,  la situazione di transizione non consente affatto al
legislatore statale di sopprimere gli spazi di decisione autonoma che
la  legislazione  previgente  consentiva  alle  regioni  ed agli enti
locali.  Se  essi  non  possono  per  il momento decidere essi stessi
modifiche,  il  legislatore statale e' pero' vincolato, nel senso che
esso  non  puo'  evidentemente legiferare in una direzione diversa da
quella imposta dall'art. 119 Cost.
    In  termini  davvero  minimi,  questo  vincolo  si traduce in una
clausola  stand  still,  ossia  nel divieto di modificare in pejus il
livello  di autonomia, gia' garantito dalla legislazione dello Stato.
Sottolinea  infatti  la  gia'  ricordata  sentenza  di codesta ecc.ma
Corte,  che  «in  proposito vale ovviamente il limite discendente dal
divieto  di  procedere  in  senso  inverso  a  quanto oggi prescritto
dall'art. 119    della    Costituzione,   e   cosi'   di   sopprimere
semplicemente,   senza  sostituirli,  gli  spazi  di  autonomia  gia'
riconosciuti  dalle  leggi statali in vigore alle regioni e agli enti
locali,   o   di  procedere  a  configurare  un  sistema  finanziario
complessivo che contraddica i principi del medesimo art. 119».
    Il  comma  21  invece  sospende  la  potesta',  riconosciuta alle
regioni  ed  agli  enti  locali  dalla  stessa disciplina statale, di
aumentare  l'addizionale  IRPEF  loro spettante e quella riconosciuta
alle   regioni  di  maggiorare  l'aliquota  lRAP  rispetto  a  quella
stabilita dalla legge istitutiva.
    La norma risulta dunque, per entrambi i profili, in contrasto con
la   piu'   ampia   autonomia  impositiva  riconosciuta  dalla  nuova
formulazione dell'art. 119 della Costituzione.
    Inoltre,  poiche'  come  e'  noto,  il  bilancio  regionale  deve
necessariamente   chiudere   in   pareggio,  la  carenza  di  risorse
finanziarie che la disposta sospensione produce, dato il blocco di un
fondamentale  canale  di finanziamento delle competenze regionali, e'
destinata a determinare una contrazione delle politiche regionali che
si realizzano tramite l'allocazione delle risorse libere. Percio', la
disposizione   viola   anche   il   principio   di   «autosufficienza
finanziaria»  sancito  dall'art.  119,  terzo  comma,  Cost.,  e  non
consente l'ordinario esercizio delle competenze proprie della regione
di cui agli artt. 117 e 118 Cost.
    2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 38.
    Il  comma 38 prevede che, «allo scopo di promuovere la diffusione
della  cultura italiana e di sostenere lo sviluppo delle attivita' di
ricerca  e  studio e' autorizzata la spesa di 100.000 euro per l'anno
2004»,  specificando  poi  che  «le disponibilita' di cui al presente
comma  sono  destinate prioritariamente all'erogazione di contributi,
anche  in  forma  di  crediti  di imposta, a favore degli istituti di
cultura di cui alla legge 17 ottobre 1996, n. 534, per la costruzione
della  propria  sede principale», ed aggiungendo che «con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri, da emanare entro trenta giorni
dalla  data  di entrata in vigore della presente legge, sono adottate
le disposizioni attuative del presente comma».
    Il comma 38, in pratica, prevede un contributo per la costruzione
della  sede di determinati istituti di cultura di cultura di cui alla
egge  n. 534/1996:  i  quali,  giova  ricordarlo,  sono istituti che,
essendo  in  possesso  di determinati requisiti (elencati nell'art. 2
della  legge  n. 534/1996),  sono  ammessi  a godere di un contributo
statale mediante l'inserimento in una apposita tabella.
    Tale sistema si giustificava nella vigenza dell'originario Titolo
V  della  Costituzione,  quando  la competenza legislativa in materia
spettava  allo  Stato.  Dopo  la  legge costituzionale n. 3 del 2001,
invece,  erogazioni  di  contributi quali quella prevista dalla norma
impugnata   ad   avviso  della  ricorrente  regione  non  hanno  piu'
fondamento costituzionale e non sono piu' legittime.
    L'intervento   puo'   essere   ricondotto   alle   materie  della
«valorizzazione dei beni culturali» e della «ricerca scientifica». In
tali   materie,   entrambe   di  competenza  concorrente,  a  termini
dell'art. 117  Cost.  la  potesta'  legislativa  spetta alle regioni,
salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, che spetta
allo Stato.
    Lo  stanziamento  di  somme  per  interventi  statali diretti non
costituisce certo un principio fondamentale della materia, da attuare
mediante  legislazione  regionale.  Ne' si puo' dire (e neppure viene
affermato)  che  vi siano esigenze che richiedano la diretta gestione
statale di tali interventi.
    Ne',  ancora,  si  puo'  dire che si tratti di interventi volti a
sostenere  la competitivita' del sistema economico (meno ancora, poi,
di   «rilievo   macroeconomico»),  giustificabili  nell'ambito  della
funzione statale di tutela della concorrenza in base alla sentenza di
codesta ecc.ma Corte n. 14 del 2004.
    Invero,  lo strumento di intervento utilizzato dalla legge non e'
compatibile  con il nuovo quadro costituzionale, nel quale allo Stato
non  spetta di erogare speciali risorse per contributi a favore degli
istituti  di  cultura,  spettando  ad  esso,  invece,  di  finanziare
«integralmente»    (art. 119,   comma 4)   le   funzioni   regionali,
nell'esercizio  delle  quali, poi le regioni dovranno disciplinare la
materia  - ed in questa gli eventuali contributi agli istituti stessi
-  nel quadro dei principi fondamentali eventualmente stabiliti dalla
legislazione  dello Stato. Il comma 38, dunque, viola sia l'art. 117,
comma 3, che l'art. 119 Cost.
    E' inoltre illegittima la previsione di un decreto del Presidente
del  Consiglio dei ministri sostanzialmente regolamentare, in materie
di  competenza  concorrente,  per  violazione dell'art. 117, comma 6,
Cost.  (sulla  necessita' di utilizzare il criterio «sostanziale» per
determinare la natura dell'atto v. la sent. n. 88 del 2003).
    3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 53.
    Il  comma  sopra  citato  concerne  l'aumento  dei  canoni per le
concessioni    d'uso    del    demanio    marittimo   per   finalita'
turistico-ricreative,   e  modifica  le  disposizioni  del  comma  22
dell'art.  32  del  d.l.  n. 269/2003,  come  convertito  dalla legge
n. 326/2003, disposizioni che la regione Emilia-Romagna ha gia' fatto
oggetto di apposita impugnazione.
    La   disposizione   della  Legge  Finanziaria  ora  impugnata  ha
modificato  il  comma  22  stabilendo  che  l'aumento  dei  canoni di
concessione  e' fissato con un decreto interministeriale, da emanarsi
entro il 30 giugno 2004, al quale e' indicato, come unico parametro o
indirizzo,  l'obiettivo  finanziario  di assicurare «maggiori entrate
non inferiori a 140 milioni di euro a decorrere dal 1° gennaio 2004»:
decorso   il   termine  per  l'emanazione  di  tale  decreto,  scatta
automaticamente e retroattivamente la quadruplicazione del canone.
    Come  e'  noto,  tutte  le  funzioni amministrative inerenti allo
sfruttamento per finalita' turistico-ricreative del demanio marittimo
sono state conferite alle regioni a far tempo dal d.lgs. n. 112/1998.
In precedenza erano state delegate alle regioni gia' dall'art. 59 del
d.P.R.   616/1977,   in   considerazione   della   stretta  attinenza
dell'esercizio  delle  funzioni  concessorie con la materia turismo e
attivita'  ricreative.  In  effetti, in molte regioni, e segnatamente
nell'Emilia-Romagna,  il  demanio marittimo rappresenta un fattore di
enorme importanza per la politica e l'economia del turismo.
    Con  la  presente impugnazione la regione non contesta il diritto
dominicale  dello  Stato di fissare un canone per l'utilizzo dei suoi
beni  demaniali.  Essa contesta invece la legittimita' costituzionale
della  misura,  del  metodo  e della forma con cui l'aumento e' stato
deciso,  in  quanto  tale  illegittimita'  costituzione  comporta una
lesione delle competenze regionali nella materia del turismo.
    Quanto   alla  misura,  non  puo'  non  essere  rilevato  che  la
quadruplicazione  del  canone  e'  contemporaneamente:  un intervento
dagli  effetti  assai  gravi per la totalita' delle imprese balneari;
una misura discriminatoria rispetto agli altri canoni; non fondata su
specifiche  considerazioni  di  fatto  e  sul  livello dei precedenti
canoni.
    Va  rilevato che i canoni erano stati fissati con il d.m. 342 del
1998,  per  cui,  dato  l'andamento  contenuto  dell'inflazione,  non
rappresentavano  certo  evidenti  anacronismi  rispetto  alla attuale
realta'   economico-finanziaria:   tanto   piu'   che  l'art.  4  del
decreto-legge  n. 400/1993  prevede che «i canoni annui relativi alle
concessioni  demaniali  marittime  sono  aggiornati  annualmente, con
decreto  del Ministro della marina mercantile, sulla base della media
degli  indici  determinati  dall'ISTAT».  E' singolare che proprio su
questa unica categoria di canoni si sia percio' concentrata la rapace
attenzione  del  Tesoro, trascurando ben altri e piu' lucrosi settori
in  cui  i beni pubblici sono sfruttati per produrre reddito a favore
degli  operatori  privati;  per  lo  stesso  sfruttamento del demanio
marittimo il provvedimento crea un'ingiustificata discriminazione tra
gli  imprenditori  turistici e le altre categorie di imprenditori che
usano  il  demanio  per  finalita' non turistiche, Come detto, non si
contesta  il  potere  del  Governo di valutare per quali categorie di
beni  pubblici  sia  conveniente  e  in  che  misura elevare i canoni
dell'utilizzazione privata; ma e' evidente che queste valutazioni non
possono   prescindere   dal   rispetto   dei   consueti   criteri  di
ragionevolezza,   congruita'  e  giustizia,  nonche'  dalla  corretta
considerazione   degli   interessi   della   regione   e  delle  loro
attribuzioni in materia turistica.
    la  forte  incidenza del fattore fiscale sulla operativita' delle
imprese  turistiche,  infatti,  compromette l'azione promozionale, di
programmazione  e  di  sviluppo  che  la  Regione  Emilia-Romagna  ha
esercitato  in un settore fondamentale per il suo sviluppo economico.
Inoltre,  un  aumento  cosi'  esorbitante  del  canone di concessione
comprime  le  risorse  degli imprenditori turistici impedendo loro di
intraprendere  gli  investimenti necessari per restare competitivi in
un  settore  che  e'  ormai  diventato  altamente  concorrenziale,  e
gravemente  riduce  la  possibilita' per essi di proseguire in quelle
opere  e  iniziative  che  tradizionalmente  sono  state  dirette  ad
interessi  pubblici  quali  la  sicurezza  degli  utenti,  la  tutela
ambientale ecc.
    Inoltre,   per   la   stessa  regione,  di  conseguenza,  diventa
impossibile  qualsiasi  aggioniamento  dei propri diritti di imposta,
attualmente  prevista  e disciplinata dalla legge regionale 31 maggio
2002,   n. 9,  attraverso  i  quali  e'  stato  possibile  finanziare
l'esercizio  delle  funzioni  amministrative  (di  rilascio, rinnovo,
modifica   delle   concessioni   demaniali   marittime   a  finalita'
turistico-ricreative,  di  quelle  inerenti  ai  porti  di  interesse
regionale  e  sub-regionale ed inerenti ad esercizio del commercio su
aree  demaniali)  in  larga  parte delegate agli enti locali. Risulta
evidente la sproporzione tra i diritti derivanti dalla mera e passiva
proprieta'  dei  beni  demaniali  e  i  diritti derivanti dall'attivo
esercizio di importanti funzioni amministrative, legate allo sviluppo
economico, alla sicurezza, alla tutela ambientale.
    Quanto al metodo, va rilevato che il d.l. n. 400/1993, cosi' come
convertito  dalla  legge n. 494/1993, aveva correttamente considerato
lo  stretto  legame  che  deve  sussistere  tra la determinazione dei
diritti  spettanti  al  proprietario  e  gli  interessi  dei soggetti
chiamati  ad amministrare tali beni a fini turistici e a disciplinare
la materia: infatti, veniva previsto dall'art 3 del decreto-legge che
«i canoni annui per concessioni con finalita' turistico-ricreative di
aree,  pertinenze demaniali marittime e specchi acquei per i quali si
applicano  le  disposizioni  relative  alle utilizzazioni del demanio
marittimo  sono  determinati,  a  decorrere  dal 1° gennaio 1994, con
decreto  del  Ministro  della  marina  mercantile, emanato sentita la
Conferenza  permanente  per  i rapporti fra lo Stato, le regioni e le
province  autonome  di Trento e di Bolzano». Di questo indispensabile
passaggio  procedurale si e' invece persa la traccia sia nei commi 21
e  22  del  testo originale del decreto-legge, sia nella disposizione
fatta  oggetto  di  impugnazione  con il presente ricorso, nonostante
fosse stato esplicito l'invito formulato alla Camera dei deputati nel
corso  dell'approvazione della legge di conversione (si veda l'o.d.g.
presentato dall'on. La Malfa il 19 novembre 2003).
    La    deliberata   esclusione   del   parere   della   Conferenza
Stato-regione  nel  procedimento di adozione del decreto ministeriale
cui  e' rinviata la fissazione del canone, si riverbera percio' nella
violazione  del  principio  di  leale  collaborazione  che,  come  la
costante  giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato, rappresenta
l'ineliminabile  onere procedurale che deve essere assolto da tutti i
provvedimenti  che  incidono  su «materie» in cui gli interessi dello
Stato convergono e devono armonizzarsi con quelli delle regioni.
    Quanto alla forma, infine, la gia' scarsa coerenza tra i commi 21
e  22  del  testo  originale  e'  stata ulteriormente aggravata dalla
riforma  introdotta  dalla  successiva legge finanziaria. Persino nei
lavori  parlamentari (si veda ancora l'o.d.g. La Malfa) non risultava
affatto  chiara  la  portata  dei  due  commi,  sembrando addirittura
possibile   un'interpretazione   per   cui   essi   prevedessero  due
provvedimenti  diversi,  il  comma  21,  ma non il 22, riguardando le
concessioni  a  finalita'  turistico-ricreative.  Ogni  invito  delle
Camere a riconsiderare la questione e a chiarire il testo legislativo
(si  veda  l'o.d.g  9/4447/1996  proposto dall'on. Cazzaro, approvato
dalla   Camera  dei  deputati  e  accettato  dal  Governo)  e'  stato
disatteso,  dato  che  la modifica introdotta dalla legge finanziaria
non  chiarisce  affatto  i  rapporti  i  due  commi, ne' introduce il
doveroso  obbligo  dello  autorita'  ministeriali  di  sottoporre  il
provvedimento al previo parere della Conferenza Stato-regioni.
    Per tutti gli enunciati profili la disposizione impugnata risulta
lesiva  delle  attribuzioni  regionali garantite dall'art. 117 Cost.,
del  principio  di leale collaborazione, del principio di eguaglianza
sancito  dall'art. 3  Cost.,  del principio di certezza del diritto e
del generale canone di ragionevolezza delle leggi.
    4. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 70.
    I  commi  6,  9,  11  e 24 dell'art 32 del d.l. n. 269/2003, come
convertito  dalla  legge n. 326/2003, prevedevano il reperimento e la
destinazione  vincolata  di risorse preordinate alla effettuazione di
interventi   di   riqualificazione   di   nuclei  edilizi  ed  urbani
caratterizzati  da  abusivismo  edilizio:  si  trattava  di un timido
tentativo  di  giustificare  in  termini  di «governo del territorio»
l'introduzione  di un nuovo condono edilizio, motivato esclusivamente
dall'esigenza  di reperire ulteriori risorse finanziarie, condono che
la  Regione  Emilia-Romagna  ha  gia'  impugnato, con ricorso avverso
l'art. 32  del decreto-legge n. 269/2003, che risulta pendente avanti
a  codesta  Corte  con  il  n. 83/2003, cui e' seguita l'impugnazione
della  legge  n. 326/2003,  che ha convertito il d.l. lasciando nella
sostanza inalterate quasi tutte le disposizioni censurate.
    Il  comma  6,  in  particolare,  destinava 10 milioni di euro per
l'anno  2004 e 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006
al  fine  di concorrere alla partecipazione ad interventi e politiche
di riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di abusivismo,
attivati  dalla  regioni  attraverso  l'incremento  della  oblazione,
secondo  quanto  disposto  dal  comma  33.  Parimenti, al comma 9 del
decreto-legge come convertito, erano previste risorse finanziarie per
attivare  un  programma  nazionale  di interventi di riqualificazione
delle  aree  per degrado economico-sociale (i cui ambiti di rilevanza
ed   interesse  nazionale  erano  da  individuarsi  con  decreti  del
Ministero   per   le  infrastrutture,  di  concerto  con  i  Ministri
dell'ambiente   e   d'intesa  con  la  conferenza  unificata)  e,  ai
successivi  commi 11 e 24, rispettivamente per interventi di recupero
e  riqualificazione paesaggistica, nonche' per la valorizzazione e il
miglioramento   delle   aree   demaniali.   Sennonche'  tali  risorse
finanziarie - gia' ritenute palesemente insufficienti dalle regioni -
sono state completamente espunte dal testo legislativo ad opera della
disposizione  della  legge  finanziaria  2004, oggetto della presente
impugnazione.  Il comma 70 dell'art. 2 ha abrogato seccamente i commi
6, 9, 11 e 24, del sopra citato art. 32 della legge n. 326/ 2003, con
cio'  cancellando  dal  sistema  di  reimpiego  di  parte  dei  fondi
provenienti   dal   condono   e  dalla  stessa  ratio  dell'art.  32,
qualsivoglia  concreta possibilita' di attuazione degli interventi di
riqualificazione  previsti,  su  un  piano  non certamente marginale,
dalle misure di condono edilizio.
    Mentre  tale  misura  rafforza  la  irragionevolezza  e la scarsa
attendibilita'   del   meccanismo   congegnato  attraverso  le  varie
disposizioni  di cui all'art. 32, per realizzare finalita' di reale e
credibile  intento  di  riqualificazione  del  territorio - il che e'
stato  rilevato  nei  ricorsi  richiamati  -  essa appare a sua volta
lesiva  delle  attribuzioni  regionali.  Infatti, l'istituzione di un
finanziamento a destinazione vincolata, volto a coprire interventi di
competenza  regionale,  rientranti  nelle  funzioni  proprie  che  le
regioni  esercitano  in  materia di «governo del territorio», sarebbe
illegittimo,  come  codesta Corte ha piu' volte rilevato (cfr. sentt.
370/2003,   16/2004   e   49/2004)   perche'   lederebbe  l'autonomia
finanziaria delle regioni stesse.
    L'abolizione  del  finanziamento  non  puo' sottrarsi alle stesse
censure:  la  decisione  unnilaterale  dello  Stato di estinguere una
linea  di  finanziamento diretta a sostenere compiti rientranti nelle
funzioni delle regioni e degli enti locali, se da un lato costituisce
un  vulnus  all'obiettivo  che la costituzione assegna al legislatore
statale,  attribuendogli  la  potesta'  legislativa  esclusiva per la
«tutela  dell'ambiente  o  dell'ecosistema»  - configurabile non come
«materia   in  senso  tecnico»,  ma  teleologicamente  come  «valore»
costituzionalmente  protetto  (sent.  407/2002)  -  dall'altro lascia
regioni  e enti locali privi delle risorse necessarie per un corretto
recupero  delle  opere abusive condonate. Essendo fuori di dubbio che
il  condono  deciso  dallo  Stato  produrra'  la stabilizzazione e il
consolidamento  di situazioni di grave degrado edilizio, urbanistico,
paesistico  ed  ambientale, viene meno una fonte di finanziamento che
la  regione  aveva giudicato insufficiente nella misura e illegittima
nelle  modalita', ma la cui eliminazione non puo' che tradursi in una
lesione ancora piu' grave della loro autonomia finanziaria.
    5.  -  Illegittimita'  costituzionale dell'art. 3, commi 17, 18 e
20.
    La   legge  n. 350  del  2003  dedica  alcune  disposizioni  alla
precisazione  della  regola posta dall'art. 119, sesto comma, secondo
il  quale  le  regioni  possono  ricorrere all'indebitamento solo per
finanziare spese di investimento.
    Ribadita  al  comma  16 tale regola, il comma 17 stabilisce quali
operazioni   costituiscano   indebitamento,  e  rientrino  cosi'  nel
divieto. Precisamente, esso dispone (primo periodo) che «per gli enti
di   cui  al  comma  16  costituiscono  indebitamento,  agli  effetti
dell'articolo  119,  sesto comma, della Costituzione, l'assunzione di
mutui,  l'emissione  di prestiti obbligazionari, le cartolarizzazioni
di flussi futuri di entrata non collegati a un'attivita' patrimoniale
preesistente   e  le  cartolarizzazioni  con  corrispettivo  iniziale
inferiore  all'85  per  cento  del  prezzo  di mercato dell'attivita'
oggetto  di  cartolarizzazione  valutato  da un'unita' indipendente e
specializzata».  Aggiunge  poi  (secondo periodo) che «costituiscono,
inoltre,    indebitamento    le   operazioni   di   cartolarizzazione
accompagnate  da  garanzie  fornite da amministrazioni pubbliche e le
cartolarizzazioni  e  le  cessioni  di  crediti  vantati  verso altre
amministrazioni  pubbliche»,  mentre  non costituiscono indebitamento
(terzo periodo) «le operazioni che non comportano risorse aggiuntive,
ma  consentono  di  superare, entro il limite massimo stabilito dalla
normativa  statale vigente, una momentanea carenza di liquidita' e di
effettuare  spese  per  le quali e' gia' prevista idonea copertura di
bilancio».
    L'ultimo  periodo  del  comma  17  statuisce  che «modifiche alle
predette  tipologie  di  indebitamento  sono disposte con decreto del
Ministro  dell'economia  e delle finanze, sentito l'ISTAT, sulla base
dei criteri definiti in sede europea».
    A  sua  volta,  il  comma  18 stabilisce quali operazioni possano
rientrare  nel concetto di «investimento» ai fini di cui all'articolo
119, sesto comma, della Costituzione.
    Precisamente,    secondo    tale    disposizione    costituiscono
investimenti:
        «a)  l'acquisto,  la  costruzione,  la  ristrutturazione e la
manutenzione straordinaria di beni immobili, costituiti da fabbricati
sia   residenziali  che  non  residenziali;  b)  la  costruzione,  la
demolizione,  la  ristrutturazione,  il  recupero  e  la manutenzione
straordinaria  di  opere  e  impianti;  c)  l'acquisto  di  impianti.
macchinari,  attrezzature  tecnico-scientifiche, mezzi di trasporto e
altri  beni  mobili  ad  utilizzo  pluriennale; d) gli oneri per beni
immateriali  ad  utilizzo  pluriennale;  e)  l'acquisizione  di aree,
espropri  e  servitu'  onerose;  f) le  partecipazioni  azionarie e i
conferimenti di capitale, nei limiti della facolta' di partecipazione
concessa  ai  singoli enti mutuatari dai rispettivi ordinamenti; g) i
trasferimenti   in   conto  capitale  destinati  specificamente  alla
realizzazione degli investimenti a cura di un altro ente od organismo
appartenente   al  settore  delle  pubbliche  amministrazioni;  h)  i
trasferimenti  in  conto capitale in favore di soggetti concessionari
di  lavori pubblici o di proprietari o gestori di impianti, di reti o
di  dotazioni  funzionali  all'erogazione  di  servizi  pubblici o di
soggetti che erogano servizi pubblici, le cui concessioni o contratti
di  servizio  prevedono  la retrocesione degli investimenti agli enti
committenti alla loro scadenza, anche anticipata. In tale fattispecie
rientra  l'intervento  finanziario a favore del concessionario di cui
al  comma 2 dell'articolo 19 della legge 11 febbraio 1994, n. 109; i)
gli  interventi  contenuti  in  programmi  generali  relativi a piani
urbanistici  attuativi, esecutivi, dichiarati di preminente interesse
regionale   aventi  finalita'  pubblica  volti  al  recupero  e  alla
valorizzazione del territorio».
    Il comma 20, poi, dispone che «le modifiche alle tipologie di cui
ai commi 17 e 18 sono disposte con decreto del Ministro dell'economia
e  delle  finanze,  sentito  l'ISTAT». Il riferimento al comma 17, si
notera',  e'  meramente  ripetitivo  dell'ultimo periodo dello stesso
comma, il quale, inoltre era piu' ampio, riferendosi per le modifiche
al parametro dei criteri definiti in sede europea.
    Tali  disposizioni  restringono  le  possibilita' di azione delle
regioni  rispetto  alla  regola  costituzionale, e presentano diversi
elementi e profili di illegittimita'.
    Nel  contenuto,  va  premesso  che  la  regola costituzionale del
divieto  di  indebitamento  se  non  per investimenti e' direttamente
operativa,  e non demanda alcun compito attuativo alla legge statale.
Anche   se  si  ammettesse  che  questa  possa  dettare  disposizioni
specificative  ed  attuative, e' pero' evidente che tali disposizioni
dovrebbero  attenersi  al  concetto  economico di investimenti, e non
potrebbero   arbitrariamente   restringerlo,  estendendo  il  divieto
costituzionale ad ambiti che esso non era destinato a coprire.
    In  particolare, e' da sottolineare che il comma 18, lettera g) e
h),  considera  «investimenti» solo i trasferimenti in conto capitale
effettuati  a  favore di determinati soggetti, cosi' precludendo alle
regioni la possibilita' di ricorrere all'indebitamento per effettuare
trasferimenti in conto capitale di altro tipo, cioe', essenzialmente,
per concedere contributi ai privati per i loro investimenti.
    In  questo  modo  la norma statale restringe irragionevolmente un
consolidato  concetto  di  investimento,  escludendo  dal  suo ambito
alcuni  trasferimenti in conto capitale in quanto effettuati a favore
di  privati  anziche' a favore di soggetti pubblici. E' invece chiaro
che  la  tipologia  del  soggetto destinatario non modifica la natura
economica  della  spesa  e  che  i trasferimenti in conto capitale ai
privati  non  possono  ragionevolmente essere esclusi dal concetto di
investimento  (e,  dunque, dalla possibilita' dell'indebitamento). Il
comma   18,   dunque,  incide  sull'autonomia  finanziaria  regionale
restringendo irragionevolniente il concetto di investimenti, violando
l'art. 119  Cost.  nonche', quanto al carattere discriminatorio della
restrizione, l'art. 3 Cost.
    L'irragionevolezza  della  norma, gia' chiara in assoluto, emerge
anche  all'interno  della  stessa  legge  n. 350 del 2003, se si pone
mente   al   fatto   che   l'art. 4,  intitolato  Finanziamento  agli
investimenti,  contempla  sin dal primo comma contributi a privati (e
poi  ne sono pervisti molti altri). Ora - anche tralasciando il fatto
che  finanziare gli investimenti e' ovviamente esso stesso, dai punto
di  vista  dell'ente  finanziatore,  un  investimento  - in ogni caso
l'art. 119,  sesto comma, espressamente consente l'indebitamento «per
finanziare  spese  di  investimento».  Del tutto illegittima pertando
l'esclusione  da  tale categoria, per le regioni, di una tipologia di
spesa che lo stesso legislatore statale qualifica come «finanziamento
agli investimenti».
    Inoltre,  la  definizione  contenuta nel comm 8, lettere g) e h),
non corrisponde alla disciplina dei «trasferimenti in conto capitale»
contenuta  nel  regolamento  CE  n. 2223/96 del 25 giugno 1996 (punto
D.9),  relativo  al  Sistema  europeo dei conti nazionali e regionali
nella   Comunita'.   Tale   regolamento,   fra   l'altro,  comprende,
nell'ambito  dei  trasferimenti in conto capitale, i «contributi agli
investimenti»  (D.92)  e  fra  questi  sono  espressamente menzionati
quelli  alle  imprese  private  o  a  soggetti  privati diversi dalle
imprese.  Dunque,  le norme impugnate violano anche l'art. 117, comma
1,  Cost.,  ed  anche  tale  illegittimita'  si  traduce  in  lesione
dell'autonomia finanziaria regionale.
    Infine,  le norme in questione differenziano irragionevolmente le
possibilita'  di  indebitamento  delle regioni da quelle dello Stato,
per  il  quale  continua  a valere la disciplina comunitaria: e anche
questa   illegittimita'   si   traduce   in   lesione  dell'autonomia
finanziaria regionale.
    Illegittime  risultano  anche  le  norme  che  prevedono  che gli
elenchi  di  cui  agli  artt. 17  e  18 possano essere modificati con
decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, sentito l'ISTAT.
    In  primo  luogo e' da segnalare che, come gia' accennato, mentre
l'ultimo  periodo  del comma 17 autorizza il Ministro dell'economia e
delle  finanze  a  modificare  le tipologie di indebitamento, sentito
l'ISTAT,  «sulla base dei criteri definiti in sede europea», il comma
20  prevede, per la modifica sia delle tipologie di indebitamento che
di  quelle  di  investimento, un decreto del Ministro dell'economia e
delle  finanze,  sentito l'ISTAT, ma senza piu' richiamare i «criteri
definiti  in  sede europea». La differenza non e' irrilevante perche'
il  comma  17  potrebbe  essere  inteso  nel senso che il Ministro e'
autorizzato  a  apportare  quelle  modifiche rese necessarie da nuovi
criteri  elaborati  a  livello comunitario, mentre il comma 20 sembra
prevedere  un regolamento ministeriale «in deroga», discrezionalmente
adottabile dal Ministro.
    Entrambe le norme, comunque, risultano illegittime. La materia in
questione  e'  il «coordinamento della finanza pubblica», che rientra
nella  competenza  concorrente  di  Stato e regioni. In tali materie,
l'attuazione  delle fonti comunitarie non self-executing e' regolata,
tuttora,  dall'art. 9  legge  n. 86  del 1989 (come e' noto, la legge
n. 131 del 2003 non si e' occupata della materia, mentre una apposita
legge  modificativa  della  legge.  n. 86  del  1989  e'  in corso di
discussione).
    In  attesa  della  legge regionale di recepimento, e' ammesso che
sia  lo  Stato  ad  attuare  la  direttiva, ma e' necessario che cio'
avvenga,  perlomeno, con un regolamento governativo (v. art. 9, comma
4,  legge  n. 86  del  1989). Dunque, la previsione di un decreto del
Ministro  (sostanzialmente  regolamentare)  per  il  recepimento  dei
«criteri» europei in materia di competenza concorrente risulta lesiva
della  sfera  costituzionale  di  competenza  regionale,  dato che la
competenza  dell'organo  collegiale,  prevista  dalla legge n. 86 del
1989,  deve  ritenersi  costituzionalmente necessaria in relazione al
rango costituzionale dell'autonomia regionale.
    Quanto  al  comma  20, che non fa riferimento ai criteri europei,
esso  e'  ancor  piu'  chiaramente  illegittimo  in quanto prevede un
potere   sostanzialmente   regolamentare  in  materia  di  competenza
concorrente, in violazione dell'art. 117, comma 6, Cost.
    Della    natura   sostanzialmente   regolamentare   del   decreto
ministeriale  previsto  dalle  norme  di cui sopra non sembra potersi
dubitare.  Ma, anche qualora si ritenesse che esse prevedano, invece,
una  funzione  amministrativa  attribuita  al  Ministro in virtu' del
principio di sussidiarieta', non verrebbe meno l'illegittimita', dato
che,  comunque,  mancherebbe  qualsiasi  meccanismo di coinvolgimento
delle  regioni, in contrasto con il principio di leale collaborazione
e secondo quanto richiesto dalla sent. n. 303 del 2003.
    Infine,  nella parte in cui si riferisce alle tipologie di cui al
comma 18, il comma 20 risulta illegittimo anche perche' conferisce al
Ministro  un  «nudo»  potero  discrezionale,  senza formulare criteri
idonei  a guidare l'esercizio del potere, in violazione del principio
di  legalita'  sostanziale;  ne' tale mancanza puo' essere compensata
dal parere dell'ISTAT, la cui opinione non ha ne' la funzione ne' gli
effetti giuridici di criteri fissati nella legge. Poiche' al Ministro
e'  affidato  un  potere  del  tutto discrezionale capace di incidere
notevolmente sull'autonomia regionale, la violazione del principio di
legalita'  sostanziale  (che  si  aggiunge  a  quella  dell'art. 117,
comma 6,  e  del  principio  di  leale  collaborazione) si traduce in
lesione dell'autonomia stessa.
    6. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 32.
    La disposizione impugnata ribadisce ed amplia alcune delle misure
di  «razionalizzazione»  della spesa sanitaria introdotte dalla Legge
finanziaria  2003  (legge  27  dicembre 2002, art. 52, comma 4), gia'
oggetto  del  ricorso  della Regione Emilia-Romagna; ma il meccanismo
cosi'  rafforzato  ulteriormente  altera  l'assetto  dei rapporti tra
Stato   e   regioni   consensualmente   stabilito   come   metodo  di
razionalizzazione della spesa sanitaria.
    Sia consentito di riassumere la complessiva situazione:
        in  materia  di  servizi  sanitari  le  regioni  hanno  piena
autonomia,  salvi  i  principi  fondamentali di «tutela della salute»
(art.  117,  comma  3) e la definizione dei «livelli essenziali delle
prestazioni» (art. 117, comma 2, lettera m) da parte dello Stato;
        la  conseguente forte incidenza sull'esercizio delle funzioni
nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative
delle  regioni  e  delle  province  autonome impone evidentemente che
queste  scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo
Stato  con legge, che dovra' inoltre determinare adeguate procedure e
precisi   atti   formali   per   procedere   alle  specificazioni  ed
articolazioni  ulteriori  che si rcndano necessarie nei vari settori»
(sent.  88/2003).  Nel sistema introdotto dalla legge n. 405/2001, il
procedimento di adozione dei livelli essenziali di assistenza prevede
la  definizione  tramite  decreto  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri,  previa intesa tra regioni e Governo, da conseguire in sede
di Conferenza Stato-regioni;
        questo  sistema ha originato una serie di accordi tra Stato e
regioni  che  hanno  determinato  sia  i  «livelli essenziali», sia i
correlati rapporti finanziari. Siccome la spesa sanitaria costituisce
ampia  parte  del bilancio delle regioni, il problema di sottoporla a
controllo  e'  di  comune  interesse dello Stato e delle regioni e si
intreccia  strettamente  con  la  necessita'  di  assicurare  che  le
prestazioni  che  le  regioni  devono  garantire  siano integralmente
finanziate, ai sensi dell'art. 119, comma 4, Cost.;
        l'Accordo  dell'8  agosto  2001,  tra  Governo,  regioni e le
Province autonome di Trento e Bolzano - richiamato dalla disposizione
impugnata   -  mirava  appunto  a  «definire  un  quadro  stabile  di
evoluzione  delle  risorse  pubbliche  destinate al finanziamento del
Servizio  sanitario  nazionale,  che,  tenendo  conto  degli  impegni
assunti   con   il  patto  di  stabilita'  e  crescita,  consente  di
migliorarne   l'efficienza   razionalizzando  i  costi»,  a  «rendere
realistica  l'entita'  dei  finanziarnenti  statali,  eliminando  gli
inconvenienti  derivanti  da  sottostime delle esigenze finanziarie e
conferire  stabilita'  alla  spesa in un arco almeno triennale», ed a
«dirimere  definitivamente»  le controversie relative alla congruita'
delle risorse finanziarie in materia sanitaria;
        nell'ambito di questo Accordo, che si ricollega al successivo
Accordo  del  22 novembre  2001  sui  «livelli  essenziali», venivano
individuati con precisione quali adempimenti le regioni si assumevano
di  fronte  all'impegno  finanziario assunto dallo Stato, tra i quali
l'assunzione a proprio carico degli oneri relativi a sforamenti della
spesa  sanitaria  ad  esse  imputabili.  Da  parte  sua  lo  Stato si
impegnava  ad  un finanziamento integrativo del S.S.N. dando certezza
per l'intero periodo finanziario;
        sempre  l'Accordo  condizionava l'accesso al finanziamento al
rispetto  di  una serie di impegni assunti dalle regioni; adozione di
misure  di  anticipazione  di  verifica  degli andamenti della spesa;
adesione  alle  convenzioni  in  tema  di acquisti di beni e servizi;
adempimento  agli  obblighi informativi sul monitoraggio della spesa;
adeguamento  alle  prescrizioni  del  patto  di  stabilita'  interno;
sottoscrizione    dell'impegno   a   mantenere   l'erogazione   delle
prestazioni   ricomprese   nei   livelli  essenziali  di  assistenza;
mantenimento della stabilita' della gestione, applicando direttamente
misure  di  contenimento della spesa stessa, «che potranno riguardare
l'introduzione  di strumenti di controllo della domanda, la riduzione
della  spesa  sanitaria  o in altri settori, ovvero l'applicazione di
una   addizionale  regionale  all'IRPEF  o  altri  strumenti  fiscali
previsti  dalla  normativa vigente, nella misura necessaria a coprire
l'incremento di spesa»; «l'attivazione di un tavolo di monitoraggio e
verifica  ... tra Ministeri della salute e dell'economia e le regioni
e  le  province  autonome, con il supporto dell'agenzia per i Servizi
sanitari  regionali  sui  suddetti  livelli  effettivamente erogati e
sulla   corrispondenza   ai  volumi  di  spesa  stimati  e  previsti,
articolati  per  fattori produttivi e responsabilita' decisionali, al
fine  di  identificare  i  determinanti di tale andamento, a garanzia
dell'efficienza e dell'efficacia del Servizio sanitario nazionale».
    Tuttavia,  con  una  serie di provvedimenti legislativi, lo Stato
modificava   gli   adempimenti   posti   a   carico   delle  regioni,
introducendo,  in  particolare,  con  l'art. 52, comma 4, della legge
n. 289/2002, l'obbligo di attuare, «senza maggiori oneri a carico del
bilancio  dello Stato», iniziative dirette a favorire lo svolgimento,
presso  gli  ospedali  pubblici,  degli  accertamenti  diagnostici in
maniera  continuativa,  con  l'obiettivo  finale  della copertura del
servizio  nei  sette  giorni  della  settimana, e la previsione della
decadenza  automatica  dei direttori generali nell'ipotesi di mancato
raggiungimento  dell'equilibrio  economico  delle aziende sanitarie e
ospedaliere, nonche' delle aziende ospedaliere autonome.
    Contro  quest'ultima  disposizione  la  Regione Emilia-Romagna ha
promosso  ricorso a questa ecc.ma Corte. In esso si muovevano rilievi
che devono essere qui ribaditi.
    Il  primo,  piu' generale, riguarda lo squilibrio strutturale tra
risorse  e obbligazioni di spesa derivante dall'obbligo di assicurare
prestazioni  stabilite con atto dello Stato, la cui sola esistenza e'
in   contrasto  con  i  principi  di  autonomia  finanziaria,  ed  in
particolare  con  l'art. 119,  quarto  comma,  che  prescrive  che le
entrate  proprie  e  le  compartecipazioni  debbono  consentire  alle
Regioni  «di  finanziare  integralmente  le  funzioni  pubbliche loro
attribuite».  A  tale squilibrio strutturale - come detto gia' di per
se costituzionalmente inammissibile - non si pone rimedio neppure nel
comma  52  di questo stesso articolo, il quale dispone un adeguamento
del  finanziamento  del  Servizio  sanitario  nazionale  per gli anni
2004-2006, ma a copertura dei soli maggiori oneri di personale.
    In   generale,   invece,   mentre   i  livelli  essenziali  delle
prestazioni,  fissati  in  sede  di  Accordo  tra  Governo, Regioni e
Province  autonome,  sono  rimasti  immutati,  le  risorse regionali,
invece,  si  sono  ridotte  in  misura rilevante, anche perche' (come
sopra esposto in relazione all'impugnazione dell'art. 2, comma 21) e'
stato  paralizzata  -  pur se, come si ritiene, illegittimamente - la
capacita' regionale di incrementare le entrate fiscali.
    Un  ulteriore  aggravio degli oneri accollati alle Regioni deriva
dalle   particolari  condizioni  a  cui  l'accesso  al  finanziamento
integrativo e' subordinato. Si vuol dire cioe' che se le risorse sono
oggettivamente  carenti  in  relazione  alle  funzioni  obbligatorie,
l'adeguamento  del  finanziamento e' costituzionalmente dovuto, e non
puo'   essere   condizionato   a   prescrizioni  illegittime:  ed  e'
illegittimo  in  particolare,  tra  gli  adempimenti  richiamati  dal
comma 32,  quello,  introdotto  dal  comma 4 dell'art. 52 della legge
finanziaria  2003,  a  suo  tempo  impugnata, che subordina l'accesso
all'adeguamento  finanziario  all'adozione  da parte delle Regioni di
«provvedimenti  diretti  a  prevedere, ai sensi dell'art. 3, comma 2,
lettera  c), del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347, convertito,
con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405, la decadenza
automatica   dei   direttori   generali   nell'ipotesi   di   mancato
raggiungimento  dell'equilibrio  economico  delle aziende sanitarie e
ospedaliere,   nonche'  delle  aziende  ospedaliere  autonome».  Tale
disposizione  e' incostituzionale perche', in violazione dell'art. 97
Cost.  (per  non  dire  della stessa soggettiva privazione del lavoro
nell'amministrazione,  in  violazione  dell'art. 4  e  dell'art. 51),
prevede   la   rimozione  sanzionatoria  dalla  carica  per  il  puro
verificarsi  di  circostanze  oggettive, in assenza di alcuna prova o
riscontro  che  il  mancato  raggiungimento dell'equilibrio economico
fosse  in  qualche  modo  evitabile  da  parte dello stesso direttore
generale.
    Sembra evidente che tocca invece alla Regione, quale responsabile
generale del servizio sanitario e quale amministrazione nominante, la
valutazione  del  comportamento del direttore generale e del grado di
responsabilita' che ad esso possa imputarsi nel mancato conseguimento
dell'equilibrio   economico:   che  puo'  bene  essere  dovuto  -  in
condizione  di  carenza  finanziaria  strutturale  -  all'obbligo  di
assicurare le prestazioni;
    Una   ulteriore  specifica  ragione  di  illegittimita'  colpisce
l'adempimento di cui alla lett. c) dell'art. 52, comma 4, della legge
n. 289,  richiamato  e  confermato  dalla  disposizione ora impugnata
ovvero  lo svolgimento, per giunta «senza maggiori oneri a carico del
bilancio  dello  Stato»,  degli  accertamenti diagnostici «in maniera
continuativa, con l'obiettivo finale della copertura del servizio nei
sette  giorni della settimana». Si tratta infatti di misure puramente
organizzative,   che   limitano  la  relativa  autonomia  legislativa
regionale,  anziche'  limitarsi  a fissare un principio in termini di
risultato,  che le Regioni rimangono libere di raggiungere secondo le
proprie scelte organizzative.
    Le   misure  citate  ledono  insieme  l'autonomia  finanziaria  e
l'autonomia  legislativa  delle  Regioni.  Misure  come  l'obbligo di
introdurre norme che comportano la decadenza automatica dei direttori
generali  non  sono  configurabili  come «principi fondamentali della
materia»:  come  mostra  il  fatto  stesso che si tratta non di norme
inderogabili   ma  di  «condizioni»  per  l'accesso  ad  integrazioni
finanziarie   (integrazioni   senza   le   quali  cessato  di  essere
«integralmente finanziate» le funzioni assegnate alle Regioni).
    Per  altro  verso,  l'imposizione  alle  Regioni  di rafforzare i
servizi diagnostici «senza maggiori onori a carico del bilancio dello
Stato»  non  puo'  prospettarsi come parte della definizione dei LEA,
proprio  perche'  non  e' compatibile con il quadro costituzionale in
cui  si  inseriscono  le  garanzie  dell'autonomia finanziaria che lo
Stato  imponga  alle  Regioni funzioni senza finanziarle (ma anzi, al
contrario,  impedendo  ad  essa  di  reperire  le risorse finanziarie
attraverso gli strumenti impositivi).
    In  conclusione,  emerge  con  chiarezza l'illegittimita' sia del
congelamento  degli  strumenti  di  autofinanziamento  della  Regione
mentre si aumentano le prestazioni che le Regioni devono erogare, sia
il   condizionamento  delle  pur  limitate  integrazioni  finanziarie
concordate  ad  adempimenti  incongrui,  che  la  legge  statale  non
potrebbe ad altro titolo costituzionale introdurre.
    Avverso  la  interruzione  dei  procedimenti  di collaborazione e
dell'applicazione  degli  accordi da parte del Govemo, e l'assunzione
di   decisioni   unilaterali  cosi'  gravemente  pregiudizievoli  per
l'autonomia  finanziaria  e  per le attribuzioni costituzionali, alle
Regioni,  che mai hanno fatto mancare la propria disponibilita' ad un
ragionevole  accordo, non resta che il ricorso a codesta ecc.ma Corte
costituzionale.
    7. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 43.
    Il  comma  43  prevede  che  il Ministro degli affari esteri, con
decreto  da  adottare  entro  novanta giorni dalla data di entrata in
vigore  della  presente  legge,  sentite  le  competenti  Commissioni
parlamentari,  emana  disposizioni  per  razionalizzare  i  flussi di
erogazione  finanziaria e per semplificare le procedure relative alla
gestione   delle   attivita'   di  cooperazione  internazionale,  con
particolare  riferimento  alle procedure amministrative relative alle
organizzazioni non governative».
    Tale  disposizione  e'  formulata  in  modo  tale da comprendere,
potenzialmente,  anche  le  attivita'  di cooperazione internazionale
svolte  dalle  Regioni.  Qualora  fosse  intesa in questo senso, essa
sarebbe  chiaramente  illegittima  in  quanto  interverrebbe  in  una
materia di competenza concorrente («rapporti internazionali ... delle
Regioni»)    prevedendo    un   atto   ministeriale   sostanzialmente
regolamentare, in violazione dell'art. 117, comma 6, Cost.
    Inoltre,  quanto al contenuto, tale atto dovrebbe «razionalizzare
i  flussi  di  erogazione finanziaria e ... semplificare le procedure
relative    alla    gestione    delle   attivita'   di   cooperazione
internazionale,    con   particolare   riferimento   alle   procedure
amministrative  relative  alle  organizzazioni  non governative»: con
conseguente   lesione  dell'autonomia  finanziaria  e  amministrativa
regionale.  Naturalmente, qualora invece la disposizione del comma 43
dovesse  intendersi  come  riferita  esclusivamente alle attivita' di
cooperazione  internazionale  svolte  dallo  Stato  ed  alle relative
procedure  finanziarie  ed  amministrative,  le  ragioni di doglianza
verrebbero meno.
    8. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 49.
    La disposizione del comma 49 dell'art. 3 ricorda quella contenuta
nell'art. 33,  comma  4,  legge  n. 289  del  2002, gia' impugnata da
questa Regione.
    Essa prevede che «per il personale dipendente da amministrazioni,
istituzioni ed enti pubblici diversi dall'amministrazione statale gli
oneri  derivanti  dai  rinnovi contrattuali per il biennio 2004-2005,
nonche'  quelli  derivanti  dalla  corresponsione  dei  miglioramenti
economici  al  personale  di  cui  all'art. 3,  comma  2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono posti a carico dei rispettivi
bilanci   ai  sensi  dell'art. 48,  comma  2,  del  medesimo  decreto
legislativo», aggiungendo che «in sede di deliberazione degli atti di
indirizzo  previsti dall'art. 47, comma 1, del decreto legislativo 30
marzo   2001,   n. 165,   i   comitati  di  settore  provvedono  alla
quantificazione  delle  relative  risorse e alla determinazione della
quota    da   destinare   all'incentivazione   della   produttivita',
attenendosi  quale  tetto  massimo di crescita delle retribuzioni, ai
criteri  previsti dal comma 46 per il personale delle amministrazioni
dello Stato» (enfasi aggiunta).
    Ad   avviso   della  ricorrente  Regione,  tale  vincolo  risulta
illegittimo,  e  persino peggiorativo della situazione antecedente la
legge cost. n. 3 del 2001.
    Infatti,  in  base  all'art. 47, comma 1, del decreto legislativo
n. 165  del  2001,  il  comitato  di  settore  del comparto Regioni -
Autonomie   locali,  costituito  «nell'ambito  della  Conferenza  dei
Presidenti  delle  regioni, per le amministrazioni regionali e per le
amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, e dell'Associazione
nazionale  dei  comuni  d'italia  - ANCI e dell'Unione delle province
d'Italia   -   UPI   e   dell'Unioncamere,   per   gli   enti  locali
rispettivamente  rappresentati» (art 41, comma 3, lett. a), determina
«gli  indirizzi per la contrattazione collettiva nazionale» (mediante
i quali esso esercita «il potere di indirizzo nei confronti dell'ARAN
e  le  altre  competenze  relative  alle  proedure  di contrattazione
collettiva  nazionale»:  art. 41,  comma  1)  «prima  di ogni rinnovo
contrattuale  e  negli  altri  casi in cui e' richiesta una attivita'
negoziale   dell'ARAN»   senza   alcun  vincolo  pregiudiziale.  Solo
successivamente  tali atti sono «sottoposti al Governo che, non oltre
dieci  giorni,  puo'  esprimere le sue valutazioni per quanto attiene
agli  aspetti  riguardanti la compatibilita' con le linee di politica
economica  e finanziaria nazionale». Dunque, in base al t.u. pubblico
impiego,  precedente  la  legge  cost.  n. 3  del  2001, il potere di
indirizzo  nei confronti dell'ARAN, per la contrattazione relativa al
personale  regionale  e  degli enti locali, spettava in sostanza alle
Regioni  ed  agli  enti  locali,  senza interferenze da parte statale
(salva la valutazione governativa sulla compatibilita' finanziaria).
    La  materia rientra ora nella potesta' regionale piena, per tutto
cio'  che  va  oltre i livelli essenziali dei diritti dei lavoratori.
Eppure  la  norma qui' impugnata assoggetta gli atti di indirizzo del
comitato  di  settore  «regionale»,  per  quanto  riguarda  il «tetto
massimo  di  crescita  delle  retribuzioni»,  ai criteri previsti dal
comma  46  per il personale delle amministrazioni dello Stato (cioe',
pare di capire, allo 0,2 %, qualora il termine «incrementi» dl cui al
comma  46  venga  riferito  ad  «oneri»  e  non alle «risorse» di cui
all'inciso  immediatamente  precedente  quello  contenente  il limite
dello 0,2%).
    Si  noti  che non e' possibile invocare, a fondamento della norma
impugnata,  la  competenza statale in materia di «coordinamento della
finanza pubblica».
    Da  una  parte, intatti, nessun onere deriva al bilancio statale,
dal  momento  che  lo  stesso art. 3, comma 49, precisa che gli oneri
derivanti  dai  rinnovi  contrattuali relativi al personale regionale
ricadono sulle stesse Regioni.
    Quanto  poi alla spesa regionale, i principi di coordinamento non
possono  che  ragionevolmente  concepirsi come rivolti alle grandezze
complessive  della  spesa  pubblica, in relazione alle entrate, e non
possono incidere sulle scelte di politica regionale nella allocazione
delle spese.
    Va   inoltre   denunciata  come  ulteriormente  e  specificamente
illegittima  l'assunzione  di  un parametro di incremento percentuale
sull'esistente,  che  penalizza  le  Regioni  che  gia' prima avevano
livelli retributivi inferiori.
    Il  limite  rigido dello 0,2 % all'aumento delle retribuzioni nel
biennio  2004-2005  per il personale regionale non e' un principio in
materia  di  coordinamento  della  finanza pubblica, ma e' un vincolo
puntuale  in una materia di competenza regionale residuale. Di qui la
lesione  della potesta' legislativa regionale in materia di personale
regionale  e  degli enti locali, dell'autonomia finanziaria regionale
nonche'  dell'autonomia amministrativa, in relazione ai vincoli posti
all'attivita' del comitato di settore regionale.
    9.  -  Illegittimita'  costituzionale dell'art. 3, commi 53, 58 e
60.
    Il comma 60, richiamato dal comma 58, estende alle Regioni e alle
autonomie  locali il «blocco delle assunzioni» disposto dal comma 53,
riproponendo,  pur con qualche modifica, le analoghe misure contenute
nella legge finanziaria 2003.
    La  disciplina  che  ne  risulta  e'  la  seguente.  In generale,
Regioni,  enti  locali  ed  enti  del  Servizio  sanitario  nazionale
potranno  procedere ad assunzioni di personale solo con i criteri e i
limiti fissati con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri;
tali  decreti  dovrebbero essere adottati previo accordo tra Governo,
Regioni  ed  enti locali; fino all'emanazione di tali decreti trovano
applicazione le disposizioni del comma 53, cioe' il blocco pressoche'
generale  delle assunzioni a tempo indeterminato; se tali decreti non
sono  adottati  entro  il  30  giugno  2004 (a prescindere di chi sia
responsabile   della   mancanza   adozione  da  parte  del  Governo),
troveranno  applicazione  le  disposizioni  dei  decreti  adottati in
attuazione della legge finanziaria 2003.
    Il  blocco  delle  assunzioni  vale  invece  integralmente per le
province e i comuni sopra i 5.000 abitanti che non abbiano rispettato
le  regole del patto di stabilita' interno per l'anno 2003 (salvo che
per  le  assunzioni connesse a trasferimenti di funzioni «coperte» da
provviste finanziarie apposite).
    Si   tratta   di   disposizioni  di  carattere  ordinamentale  ed
organizzatorio,  come  tali  estranee al contenuto tipico della legge
finanziaria  (cfr. l'art. 11 della legge n. 468/1978, come modificato
dalla legge n. 208/1999, che disciplina i contenuti ammissibili della
legge  finanziaria);  la  loro inclusione nella legge finanziaria non
puo'  certo  di  per se' costituire per lo Stato una legittima via di
sostituzione   del   necessario  «titolo  di  competenza»  della  sua
legislazione.  Si  deve  sottolineare,  infatti,  che  una competenza
normativa generale in materia di organizzazione delle Amministrazioni
pubbliche  non  sussiste  piu'  in  capo  allo  Stato a seguito della
riforma del Titolo V.
    E'  peraltro pacifico che l'art. 117, secondo comma Cost. riserva
alla   potesta'   esclusiva   statale  unicamente  la  materia  della
organizzazione  e dell'ordinamento amministrativo dello Stato e degli
enti  pubblici  nazionali  ed e' quindi ad esso consentito di dettare
norme  vincolanti  unicamente per le amministrazioni ed enti statali.
Conseguentemente  e'  riservata  alla  potesta' legislativa residuale
delle Regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, l'organizzazione
amministrativa  e  l'ordinamento  del personale regionale, sicche' in
tale materia la competenza regionale e' esclusiva ed esercitabile nel
rispetto  della Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali.
    D'altronde, l'ampia autonomia regionale in materia di ordinamento
degli  uffici  e dello stato giuridico del proprio personale e' stata
riconosciuta   dalla   stessa   Corte   costituzionale   anche  nella
sussistenza  del  regime  previgente  (sentt. nn.  10/1980, 277/1983,
278/1983,  772/1988,  ordinanza n. 515/2002) e a maggior ragione tale
potesta' deve essere, dunque, affermata oggi.
    Ne consegue la palese illegittimita' costituzionale dei vincoli e
dei  limiti  in  ordine  alla assunzione e reclutamento del personale
introdotti dalla disposizione in esame, che esulano completamente dal
necessario  idoneo  titolo di competenza legislativa statale e la cui
illegittimita'  non appare mitigata neppure dalla prevista emanazione
dei  futuri  decreti  di recepimento di accordi, stabiliti in sede di
conferenza  unificata,  atteso  che essi non valgono a sostituire e a
compensare  una  potesta'  legislativa  costituzionalmente attribuita
alle  Regioni,  sono  solo  eventuali (laddove l'eventualita' dipende
anzitutto  dalla  volonta'  unilaterale  dello  Stato di accettare le
proposte  delle  Regioni), e comunque sono precedute ed eventualmente
sostituite da misure rigide e unilaterali.
    Oltre a cio' tali vincoli appaiono anche privi di ragionevolezza,
posto  che  dal  punto  di  vista  delle Regioni, chiamate a svolgere
ulteriori  funzioni  od a gestire tutte quelle trasferite, non appare
logico  vincolare  la  dotazione  oganica  a  quella  in essere al 31
dicembre  2002,  cosi'  come  non  e'  ragionevole  in  un'ottica  di
nccessario  completamento  del  processo  di  decentramento  che  sia
autoritativamente   ed   unilateralmente   sancito  il  blocco  delle
assunzioni, in attesa dei previsti decreti.
    Cio'  tanto  piu'  che  la  Regione Emilia-Romagna e' in grado di
provvedere  autonomamente  al contenimento della propria spesa per il
personale,  coma  ha  dimostrato  approvando,  con la legge n. 4/2003
(«Disposizioni  in  materia  di dotazioni organiche e di copertura di
posti  vacanti  per  l'anno 2003») una disciplina rivolta «al fine di
concorrere  al contenimento della spesa pubblica e all'ottimizzazione
dell'utilizzo  del  personale  nelle  pubbliche  amministrazioni»,  e
quindi  alla  razionalizzazione  della  spesa inerente al personale e
alla  salvaguardia  delle politiche di copertura dei posti vacanti in
riferimento    alle   risorse   professionali   necessarie   per   il
raggiungimento  delle  finalita'  dell'Ente.  Nulla giustifica, in un
sistema  di regionalismo maturo e responsabile, che lo Stato mantenga
un atteggiamento tutorio nei confronti delle Regioni, anche di quelle
che   mostrano   di   saper   gestire   responsabilmento  la  propria
amministrazione.
    Ne  consegue  un'evidente  lesione  di  prerogative  ed  esigenze
costituzionalmente   riservate   alla   competenza  regionale  e  non
giustificabili  neppure  sul  piano della riserva statale connessa al
«sistema  tributario  e  contabile  dello  Stato»  (art. 117, secondo
comma,  lett. e)  o  alla  «armonizzazione  dei  bilanci  pubblici  e
coordimamento  della  finanza  pubblica  e  del  sistema  tributario»
(art. 11,  terzo comma), se e' vero che le disposizioni dianzi citate
non  rappresentano  «norme  tese  a realizzare effetti finanziari con
decorrenza  dal primo anno considerato nel bilancio pluriennale» come
dispone   la   legge  che  disciplina  i  contenuti  dello  strumento
finanziario   dello  Stato,  ma  si  risolvono  piuttosto  in  misure
tipicamente  organizzatorie,  impropriamente  assurte  a  livello  di
disposizioni  di contenimento della spesa, senza alcun rispetto delle
regole  costituzionalmente  fissate in relazione ai rispettivi ambiti
di autonomia e competenza.
    10. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 75.
    Secondo  il  comma 75 dell'art. 3 «ai fini del contenimento della
spesa pubblica, al personale appartenente alle amministrazioni di cui
all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e
successive  modificazioni,  che  si  reca  in  missione  o viaggio di
servizio   presso  le  istituzioni  dell'Unione  uropea,  ovvero  che
partecipi,   in   Europa   o  in  Paesi  extra-europei,  a  riunioni,
commissioni  o a gruppi di lavoro, comunque denominati, nell'ambito o
per  conto  del Consiglio o di altra istituzione dell'Unione europea,
ad eccezione dei dirigenti di prima fascia e qualifiche equiparabili,
spetta  il  pagamento  delle  spese  di  viaggio  aereo  nella classe
economica».  Tale  norma,  dunque, addirittura limita la possibilita'
per  le Regioni (oltre che per gli altri enti pubblici) di rimborsare
le  spese  di viaggi aereo dei propri dipendenti che abbiano compiuto
determinate  missioni,  prevedendo  il  rimborso  per  la sola classe
economica.
    Pare   chiaro   che  non  si  tratta  affatto  di  un  «principio
fondamentale»  in materia di coordinamento della finanza pubblica, ma
di   una   minutissima   norma   di   dettaglio,  palesemente  lesiva
dell'autonomia legislativa e finaziaria delle Regioni.
    I  principi  di  coordinamento  della  finanza  pubblica potranno
stabile  dei  criteri  generali,  dei parametri da rispettare, ma non
possono   conportare,   ad   avviso   della  ricorrente  Regione,  la
sostituzione  della valutazione dello Stato a quella della competente
Regione  nel  determinare,  in  relazione  alla  propria struttura di
funzionariato,  alla  distribuzione  delle  responsabilita'  ed  alla
situazione di bilancio, a quali dipendenti rimborsare quale classe di
viaggio nei diversi mezzi di trasporto.
    11.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 76, 77 e
82.
    Il  comma  76  dell'art  3  autorizza il Ministro del lavoro, nel
limite  di  47,063  milioni  di  euro,  «a  prorogare,  limitatamente
all'esercizio  2004,  le  convenzioni stipulate, anche in deroga alla
normativa  vigente relativa al lavori socialmente utili, direttamente
con i comuni, per lo svolgimento di attivita' socialmente utili (ASU)
e per l'attuazione, nel limite complessivo di 20,937 milioni di euro,
di  misure  di  politica  attiva  del  lavoro,  riferite a lavoratori
impiegati  in  ASU nella disponibilita' degli stessi comuni da almeno
un  triennio,  nonche'  ai  soggetti provenienti dal medesimo bacino,
utilizzati   attraverso   convenzioni   gia'   stipulate  in  vigenza
dell'articolo  10, comma 3, del decreto legislativo 1° dicembre 1997,
n. 468,  per  un  periodo  che, eventualmente prorogato, non ecceda i
sessanta  mesi complessivi, al fine di una definitiva stabilizzazione
occupazionale».
    Il  comma  77  e'  collegato  al  comma  76,  disponendo che, «in
presenza  delle  convenzioni  di  cui  al comma 76, il termine di cui
all'articolo  78,  comma  2,  alinea,  della  legge 23 dicembre 2000,
n. 388, e' prorogato al 31 dicembre 2004»: la disposizione richiamata
rinvia,  in realta', ad un termine previsto da un'altra disposizione,
cioe'  dall'art. 8, comma 3, d.lgs. n. 81/2000 («le risorse del fondo
di  cui  al  comma  1  [cioe'  del  Fondo per l'occupazione], qualora
impegnate   per   attivita'  socialmente  utili,  sono  destinate  al
pagamento  del  100  per  cento  degli  assegni  e dei sussidi per il
periodo  dal 1° gennaio 2000 al 31 ottobre 2000 e per l'ammontare del
50  per  cento  degli  assegni  e  dei  sussidi  per i periodi dal 1°
novembre 2000 al 30 aprile 2001»).
    A  sua  volta,  il  comma 82 autorizza «il Ministero del lavoro e
delle politiche sociali ... a stipulare ... direttamente con i comuni
nuove convenzioni per lo svolgimento di attivita' socialmente utili e
per  l'attuazione  di misure di politica attiva del lavoro riferite a
lavoratori   impegnati   in   attivita'   socialmente   utili,  nella
disponibilita',  da  almeno  un  quinquiennio,  di comuni con meno di
50.000 abitanti».
    Tali  norme  si  collocano  nell'ambito  di  materia  di  potenza
concorrente  («tutela  del  lavoro») e attribuiscono al Ministero del
lavoro  una  funzione amministrativa (la proroga o la stipulazione di
convenzioni con i comuni) senza che sussista alcuna esigenza unitaria
e  senza intesa con le Regioni, in violazione dell'art. 117, comma 3,
dell'art.  118  Cost.  e  dei principi fissati dalla sent. n. 303 del
2003.
    Si   tratta,   in   definitiva,   di   una   forma  di  direzione
dell'attivita' dei comuni, il cui svolgimento da parte statale e' del
tutto ingiustificato sul piano costituzionale.
    E'  palese  inoltre  che  la normativa che prevede tale attivita'
amministrativa  non  ha  affatto  carattere  di norma di principio da
attuare  da  parte  del  legislatore regionale, e dunque si tratta di
norma  che  eccede la potesta' legislativa riconosciuta allo Stato in
materia.
    Puo' essere qui opportuno ricordare che gia' al d.lgs. n. 469 del
1997  aveva  conferito alle Regioni e agli enti locali, in attuazione
della   legge  n. 59  del  1997,  «funzioni  e  compiti  relativi  al
collocamento  e  alle  politiche  attive del lavoro». In particolare,
alle   Regioni  erano  stati  attribuiti  i  compiti  di  «indirizzo,
programmazione e verifica dei lavori socialmente utili ai sensi delle
normative  in  mateia»  (art. 2, comma 1, lett. f). Come riconosciuto
anche  dalla  giurisprudenza  costituzionale  (nelle sentt. n. 74 del
2001  e  125 del 2003), la ratio ispiratrice della delega di cui alla
legge Bassanini risiedeva «nell'esigenza di superare la dissociazione
tra  le funzioni relative al collocamento e alle politiche attive del
lavoro  -  di  spettanza  statale  -  e  le  funzioni  in  materia di
formazione  del  lavoro  di  competenza  regionale» (sent. n. 125 del
2003, punto 2 del Diritto).
    Dunque,  in  un contesto costituzionale in cui le Regioni avevano
competenza  solo  in  materia  di  formazione  professionale,  si era
comunque  arrivati  in applicazione del principio dl sussidiarieta' a
concentrare  nelle  Regioni quasi tutte le funzioni amministrative in
materia di mercato del lavoro.
    A  maggior  ragione,  nel  contesto  del nuovo Titolo V, la legge
statale  non  doveva assumere contenuti diversi dalla statuizione dei
principi  fondamentali,  ne' attribuire al Ministro, in assenza di un
fondamento costituzionale, compiti attinenti alla tutela del lavoro.
    La  gestione  della  «politica  attiva  del  lavoro»  spetta alle
Regioni: lo Stato dovrebbe preoccuparsi di finanziare «integralmente»
le  funzioni  regionali (art. 119, comma 4,Cost.) invece di impegnare
direttamente  risorse  per  esercitare  compiti la cui spettanza allo
Stato non trova alcun fondamento costituzionale.
    Nel   caso   di  specie,  lo  Stato  doveva  fissare  i  principi
fondamentali  in relazione alle attivita' socialmente utili, restando
riservata  alle  Regioni  l'emanazione  di  norme  di  dettaglio e la
stipulazione  delle  convenzioni  con i comuni. Comunque, se anche si
ritenesse  giustificata  l'allocazione  al  centro  della funzione in
questione,   la  norma  risulta  ilegittima  per  mancata  previsione
dell'intesa  con  le  Regioni,  come  del resto di qualunque forma di
coordinamento.  Le  Regioni  vi  sono semplicemente ignorate, come se
neppure esistessero.
    12. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 92.
    Il  comma  92 dell'art. 3 dispone che «per l'attuazione del piano
programmatico  di  cui  all'articolo 1, comma 3, della legge 28 marzo
2003,  n. 53,  e'  autorizzata,  a decorrere dall'anno 2004, la spesa
complessiva  di  90  milioni  di  euro  per i seguenti interventi: a)
sviluppo delle tecnologie multimediali; b) interventi di orientamento
contro  la  dispersione scolastica e per assicurare il diritto-dovere
di   istruzione   e   formazione;   c)  interventi  per  lo  sviluppo
dell'istruzione  e  formazione  tecnica  superiore e per l'educazione
degli  adulti;  d)  istituzione del Servizio nazionale di valutazione
del sistema di istruzione».
    In   questi   termini,   la   disposizione  impugnata  integra  e
parzialmente  modifica l'art. 1, comma 3, della legge n. 53 del 2003,
con  cui  il  Governo  veniva  delegato  ad  emanare  «norme generali
sull'istruzione  e  (su)i  livelli  esenziali  delle  prestazioni  in
materia  di  istruzione e formazione professionale». Con quelle norme
veniva   previsto   altresi'   che   il   Ministro   dell'istruzione,
dell'universita'  e della ricerca predisponesse, entro novanta giorni
dalla  data  di  entrata  in  vigore  della  legge medesima, un piano
programmatico     di    interventi    finanziari,    da    sottoporre
all'approvazione  del  Consiglio  dei  ministri, previa intesa con la
Conferenza  unificata di cui al citato decreto legislativo n. 281 del
1997.   Di   questo   piano  programmatico  venivano  inicati  undici
obiettivi,  rinviando  la  relativa  provvista finanziaria alle leggi
finanziarie dgli anni successivi (art. 7, comma 6).
    Il  piano  programmatico  - benche' annunciato dal Governo con un
comunicato           del          12          settembre          2003
(http://www.istruzione.it/prehome/comunicati/2003/l20903.shtml)   che
pero'  si  riferiva  solo  ad  una  bozza  tecnica, priva di concreta
previsione finanziaria - non e' stato mai approvato.
    La  disposizione  del  comma  92  qui  impugnata,  interviene ora
autorizzando la spesa per l'attuazione di un piano inesistente, ma in
pratica  disponendo  il  finanziamento  di  specifici interventi, che
selezionano  solo  alcuni  degli  obiettivi  fissati  dalla  legge di
delega,  e sicuramente toccano le attribuzioni regionali (nelle quali
ricadono,  per  esempio,  gli  interventi  di  orientamento contro la
dipersione scolastica e per assicurare la realizzazione del diritto -
dovere di istruzione di formazione, lett. b), e gli interventi per lo
sviluppo   dell'istruzione  e  formazione  tecnica  superiore  e  per
l'educazione  degli  adulti,  lett. c), appare illegittima in quanto,
anziche'  assegnare  i  relativi  fondi alle Regioni nel quadro delle
regole  di  cui  all'art.  119  Cost., finanzia interventi settoriali
diretti  -  ed  oltretutto  unilateralmente  decisi  -  in materia di
competenza  «concorrente»,  vietati  dal  nuovo  Titolo  V secondo la
giurisprudenza  consolidata  di  codesta Corte (cfr. sentt. 370/2003;
16/2004; 49/2004).
    13. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 101.
    Il  comma  101  prevede che «nei limiti delle risorse preordinate
allo  scopo  dal  Ministro  del  lavoro  e  delle  politiche  sociali
nell'ambito  del  Fondo  nazionale  per  le  politiche sociali di cui
all'articolo  59,  comma  44,  della legge 27 dcembre 1997, n. 449, e
successive  modificazioni,  e detratte una quota fino a 20 milioni di
euro  per  l'anno 2004 e fino a 40 milioni di euro per ciascuno degli
anni  2005  e  2006  da  destinare  all'ulteriore finanziamento delle
finalita'  previste dall'articolo 2, comma 7, della legge 27 dicembre
2002,  n. 289,  nonche'  una quota di 15 milioni di euro per ciascuno
degli   anni   2004,  2005  e  2006  da  destinare  al  potenziamento
dell'attivita'   di  ricerca  scientifica  e  tecnologica,  lo  Stato
concorre  al  finanziamento delle regioni che istituiscono il reddito
di  ultima  istanza  quale  strumento di accompagnamento economico ai
programmi  di  reinserimento sociale, destinato ai nuclei familiari a
rischio   di  esclusione  sociale  ed  i  cui  componenti  non  siano
beneficiari  di  ammortizzatori sociali destinati a soggetti privi di
lavoro».
    La  disposizione  e'  lesiva  delle  attribuzioni  regionali  per
diversi   profili.   In   primo  luogo  la  norma  impugnata  dispone
unilateralmente  del Fondo nazionale per le politiche sociali. Le sue
caratteristiche  sono  descritte  nello stesso sito del Ministero del
lavoro  e  politiche  sociali  (http://www.welfare.gov.it): «Il Fondo
nazionale  per  le  politiche  sociali  e' il principale strumento di
finanziamento  delle politiche sociali italiane. Con il Fondo Sociale
si supera la logica delle singole leggi di settore, per concepire gli
interventi di politica sociale come azioni integrate, in un quadro di
coerenza,  con  le  politiche  sanitarie  e  socio  lavorative.» Esso
infatti  serve  «a  finanziare  un sitema articolato di Piani Sociali
Regionali  e  Piani  Sociali  di  Zona,  che  descrivono, per ciascun
territorio,  una  rete  integrata  di  servizi  alla  persona rivolti
all'inclusione    dei    soggetti    in   difficolta',   o   comunque
all'innalzamento del livello di qualita' della vita».
    Il  Fondo  e'  stato  oggetto di una lunga trattativa tra Stato e
Regioni,  sfociata  nell'accordo  del 15 aprile 2003, recepito con il
decreto  interministeriale  del  18  aprile 2003. Con la disposizione
impugnata   si   scorporano  dal  Fondo,  che  di  conseguenza  viene
corrispondentemente ridotto, alcuni cospicui stanziamenti destinati a
sostenere  specifiche  linee  di intervento, genericamente riferibili
alle  politiche sociali, disposte unilateralmente dal Governo. Palese
e'   percio'  la  violazione  dell'autonomia  finanziaria  regionale,
garantita   dall'art.   119   Cost.,   e   del   principio  di  leale
collaborazione.
    In  secondo  luogo, la disposizione distoglie dal Fondo nazionale
per  le  politiche  sociali  uno stanziamento cospicuo (20 milioni di
euro  per  il 2004, il doppio per ciascuno degli anni successivi) per
aumentare  consistentemente  lo  stanziamento  entro il quale possono
essere  concessi  contributi  finalizzati  alla riduzione degli oneri
effettivamente  rimasti  a  carico per l'attivita' educativa di altri
componenti  del  medesimo  nucleo  familiare  presso scuole paritarie
(attualmente lo stanziamento e' fissato in Euro 30.000.000). La norma
impugnata  riduce  percio'  le  risorse  trasferite alle Regioni, per
sostenere  viceversa interventi diretti dello Stato (come risulta dal
d.m. 28 agosto 2003, attuativo dell'art. 2, comma 7, legge n. 289 del
2002) - gia' contestati dalla Regione Emilia-Romagna - in materia che
e'  in  parte  di  competenza  residuale delle Regioni («diritto allo
studio»),  salva  la  definizione  con legge dello Stato dei ªlivelli
essenziali», in parte di competenza concorrente («istruzione»).
    Non   varrebbe  obiettare  che  la  norma  in  questione  risulti
confermativa,  sotto  il  profilo  della ripartizione di risorse e di
competenze,  della  norma  contenuta nella legge finanziaria 2003. La
giurisprudenza consolidata di codesta Corte, infatti, ha chiarito che
le leggi, per propria natura, a differenza degli atti amministrativi,
sono sempre intrinsecaniente «nuove», e dunque sempre impugnabili (v.
ad   es.  sentt.  nn. 30/1957,  44/1957,  47/1959,  63/1959,  3/1964,
19/1970,    171/1971,   49/1987,   381/1990,   224/1994,   e   l'ord.
n. 1035/1988),   senza  che  si  possa  invocare  il  loro  carattere
ripetitivo  o  confermativo  (a  parte  il fatto che l'incremento del
finanziamento  gestito  dal centro sarebbe comunque elemento decisivo
per concretizzare la lesione dell'autonomia regionale).
    Come  detto sopra, nelle materie di competenza regionale lo Stato
non  ha  piu'  da erogare ulteriori risorse per contributi relativi a
specifici   ambiti,  ma  deve  invece  stabilire  le  regole  per  il
finanziamento   «integrale»   (art. 119,   comma  4)  delle  funzioni
regionali,  nell'esercizio  delle  quali,  poi,  le  Regioni potranno
scegliere se ed in quale misura dare i contributi in questione, entro
i  limiti  di  legislazione  statale  eventualmente  previsti  per la
specifica materia.
    Ne  deriva  la  lesione  sia  delle  attribuzioni  legislative  e
amministrative  delta  Regione,  sia della sua autonomia finanziaria:
l'ulteriore   finanziamento   di   un  fondo  settoriale  in  materia
regionale,  gestito dal centro, costituisce violazione dell'art. 117,
comma 4, 118 e 119 Cost.
    Anche  qualora  poi  inopinatamente  si  ravvisasse  una  qualche
esigenza  unitaria  a  fondamento della eccezionale gestione centrale
dell'ulteriore  finanziamento  disposto  dal  comma  101,  tale norma
sarebbe sempre illegittima per la mancata previsione di meccanismi di
coordinamento con le Regioni.
    In  terzo  luogo  la norma impugnata distoglie dallo stesso Fondo
nazionale  per  le  politiche sociali 15 milioni di euro per ciascuno
degli  esercizi  del  triennio 2004/2006 per interventi genericamente
destinati  «al  potenziamento dell'attivita' di ricerca scientifica e
tecnologica».  Anche  in  questo caso si ricade in materia rientrante
nelle  competenze  «concorrenti»,  nelle quali non e' consentito allo
Stato di intervenire con misure unilaterali e per di piu' indefinite,
anziche'  con  norme di principio e con il pieno coinvolgimento delle
Regioni.
    In  quarto  luogo,  la  disposizione  in  questione  introduce il
«reddito di ultima istanza», destinato ai nuclei famigliari a rischio
di esclusione e privi di altri ammortizzatori sociali, sostituendo le
precedenti  misure  sperimentali, previste dal Fondo per le politiche
sociali, per il reddito minimo di inserimento.
    La  norma,  dunque,  interviene  nella  materia  delle  politiche
sociali.  La  stessa  formulazione  della  disposizione  riconosce la
competenza  regionale  -  dato  che  il concorso statale e' collegato
all'eventuale  decisione  della  Regione  di istituire il «reddito di
ultima  istanza»  -  e  dimostra  che  la  materia  non  puo'  essere
ricondotta  ai  livelli  essenziali  delle  prestazioni concernenti i
diritti sociali.
    E'  fuori  questioni  l'opportunita'  di una politica di sostegno
delle  famiglie  che  si  trovano  sotto il livello di poverta' in un
frangente  cosi'  grave  di  crisi  economica  e sociale, ma cio' non
impedisce  di  censurare  la  norma  in  questione sia per l'evidente
violazione  del  riparto di attribuzioni (poiche' lo Stato interviene
con  disposizioni  di dettaglio anziche' attraverso la fissazione dei
livelli  essenziali  delle  prestazioni pubbliche) e del principio di
leale   collaborazione   (dato   che   le   nuove   misure,   assunte
unilateralmente,  sostituiscono quelle previste dall'intesa tra Stato
e  regioni),  sia  -  e  soprattutto  -  per  la  patente  violazione
dell'autonomia finanziaria regionale.
    Lo  Stato  infatti  prevede specifiche forme di intervento che le
Regioni dovrebbero attivare «nei limiti delle risorse preordinate dal
Ministro  del  lavoro  e delle politiche sociali», sempre nell'ambito
del gia' decurtato Fondo nazionale per le politiche sociali (da cui -
come  si  e'  visto - vengono distolti i finanziamenti per interventi
specifici).  Come  codesta  Corte  ha piu' volte affermato, l'attuale
art.  119  Cost.  non  consente  allo  Stato  di  disporre interventi
specifici   in   materie  che  non  appartengono  alla  sua  potesta'
esclusiva,  ma  riguardano  ambiti  di competenza regionale, solo con
risorse aggiuntive e per finalita' perequative (cfr. sentt. 370/2003;
16/2004;  49/2004).  Non  solo  qui  non  vi  e' previsione alcuna di
risorse  aggiuntive,  ma  e'  del  tutto negato lo scopo perequativo.
Infatti,   come  da  piu'  parti  e'  stato  subito  evidenziato,  il
meccanismo di «cofinanziamento» previsto dalla disposizione impugnata
fa si' che solo le Regioni piu' ricche saranno in grado di introdurre
il  reddito  di  ultima istanza, mentre le Regioni con reddito minore
saranno   penalizzate   dalle   loro   basse   capacita'  impositive.
L'aggiramento  delle  procedure  di  leale collaborazione, attraverso
decisioni  centralistiche unilaterali, ha prodotto di conseguenza una
norma   che,   oltretutto,   e'  palesemente  affetta  da  intrinseca
irragionevolezza.
    Precisato  cio', ne risulta che la norma prevede un finanziamento
«speciale»  alle  Regioni,  condizionato  ad  una, loro iniziativa di
politica sociale, disciplinata dallo stesso comma 101. Dunque, in una
materia  di  competenza  regionale, lo Stato prevede un finanziamento
vincolato  ad  una specifica destinazione a favore non di determinate
Regioni   (come   richiede  l'art. 119,  comma  5,  Cost.)  ma  della
generalita'  delle  Regioni,  violando  la loro autonomia finanziaria
(come riconosciuto dalla sent. n. 370 del 2003). Si noti che il fatto
che il finanziamento statale sia rimesso all'iniziativa regionale non
fa  venir  meno  la  lesione:  l'art. 119,  comma  4, richiede che le
funzioni attribuite alle Regioni siano finanziate «integralmente» con
i  meccanismi  di  cui  ai commi 2 e 3 del medesimo art. 119, che non
consentono  vincoli  di  destinazione  apposti al trasferimento delle
risorse.  Prevedendo un concorso statale all'iniziativa regionale, lo
Stato  condiziona illegittimamente l'autonomia finanziaria regionale,
«indirizzando»  le  politiche di spesa al di fuori delle regole della
propria potesta' legislativa.
    E' poi lesa anche l'autonomia legislativa regionale, dato che, in
materia  rientrante  nell'art. 117,  comma  4,  lo  Stato  interviene
attraverso  la  disciplina  dell'attivita'  che  la  Regione dovrebbe
compiere per usufruire del concorso statale alla spesa.
    14.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi da 108 a
115.
    Le  disposizioni impugnate disciplinano interventi finanziari per
l'attuazione  di programmi finalizzati alla costruzione e al ricupero
di   unita'  immobiliari  nei  comuni  ad  alta  densita'  abitativa,
destinate  ad  essere  locate  con  contratti  a  canone speciale. La
materia  dell'edilizia  pubblica  non  e'  di facile collocazione: il
decreto  del Presidente della Repubblica n. 616/1977 la collocava nel
Capo  IV  del  Titolo  V  (Assetto  ed utilizzazione del territorio),
disponendo  un  ingente trasferimento di funzioni amministrative alle
Regioni, comprensive della «funzione relativa alla determinazione dei
requisiti e dei prezzi massimi delle abitazioni» (art. 94).
    Il  d.lgs.  112/1998  la  colloca  nella  Sezione  III  (Edilizia
residenziale  pubblica)  del  Capo  II (Territorio e urbanistica) del
Titolo  III  (Territorio  ambiente e infrastrutture). In particolare,
l'art. 59  indica,  quali  funzioni  mantenute allo Stato, «i compiti
relativi:
        a)  alla  determinazione  dei  principi  e delle finalita' di
carattere  generale  e  unitario  in materia di edilizia residenziale
pubblica,  anche  nel quadro degli obiettivi generali delle politiche
sociali;
        b)   alla   definizione   dei  livelli  minimi  del  servizio
abitativo,  nonche'  degli  standard  di  qualita'  degli  alloggi di
edilizia residenziale pubblica;
        c)  al  concorso,  unitamente alle regioni ed agli altri enti
locali   interessati,   all'elaborazione  di  programmi  di  edilizia
residenziale pubblica aventi interesse a livello nazionale;
        d)  alla  acquisizione,  raccolta, elaborazione, diffusione e
valutazione  dei  dati  sulla  condizione  abitativa;  a tali fini e'
istituito l'Osservatorio della condizione abitativa;
        e)  alla  definizione  dei  criteri per favorire l'accesso al
mercato  delle  locazioni  dei  nuclei familiari meno abbienti e agli
interventi concernenti il sostegno finanziario al reddito.».
    Come  si  vede,  gia'  prima  della  riforma  costituzionale  del
Titolo V  la  materia  era  integralmente  attribuita alla competenza
regionale,  mentre  allo  Stato residuavano essenzialmente compiti di
disciplina  di principio, di concorso nella programmazione di settore
e di definizione dei «livelli minimi del servizio abitativo».
    La  legge  cost.  3/2001  non  menziona  l'edilizia  residenziale
pubblica  tra  le  materie in cui lo Stato possa rivendicare potesta'
legislativa  di  tipo  esclusivo o concorrente. Nella sent. 362/2003,
codesta   Corte  ha  affermato  che  la  materia  edilizia,  al  pari
dell'urbanistica,  rientra  nel  governo  del  territorio:  ma questa
affermazione,  che  guarda  alla  disciplina  generale  del  processo
edificatorio,   probabilmente   non  rende  interamente  ragione  del
carattere «sociale» che e' implicito nel «servizio abitativo».
    Tuttavia,  anche se si volesse ritenere che, in base al «criterio
di   prevalenza»  (sent.  370/2003),  l'edilizia  residenziale  debba
imputarsi  alla  materia «governo del territorio», le disposizioni in
questione  risultano  ad  avviso della ricorrente Regione illegittime
per almeno due ordini di motivazioni.
    In  primo  luogo,  la  legge  statale  interviene, in una materia
assegnata  alla competenza concorrente, con disposizioni di dettaglio
(vedi  i  commi  112-115, in cui si introducono disposizioni puntuali
sulla   stipula  di  convenzioni  tra  il  comune  e  le  imprese  di
costruzione, sui requisiti di reddito, sulla dimensione massima degli
alloggi  -  introducendo  limiti  in  se' irragionevoli, dato che non
tengono  conto  della dimensione del nucleo abitativo -, sulla durata
dei  contratti  di  locazione e i loro rinnovi), anziche' con la sola
«determinazione dei principi fondamentali» (art. 117, comma 3, Cost.)
o  attraverso la ben diversa attivita' di determinazione dei «livelli
essenziali» delle prestazioni del servizio abitativo.
    In  secondo  luogo,  viene  istituito  un Fondo speciale, gestito
dagli  organi  dello  Stato  (senza  neppure  prevedere meccanismi di
collaborazione  con  le  Regioni),  in  violazione  dei  principi  di
autonomia  finanziaria sanciti dall'art. 119 Cost. Come codesta Corte
ha  gia'  avuto  modo  di  affermare  e  di ribadire, dopo la riforma
costituzionale del titolo V non puo' essere piu' ammesso che lo Stato
istituisca,  in  materie  di  competenza  regionale,  fondi  speciali
gestiti da organi riferibili allo Stato stesso, anziche' trasferire i
finanziamenti,  senza  vincolo  di  destinazione, alle Regioni e agli
enti  locali. Infatti, «il nuovo art. 119 della Costituzione, prevede
espressamente, al quarto comma, che le funzioni pubbliche regionali e
locali  debbano  essere "integralmente" finanziate tramite i proventi
delle  entrate  proprie e la compartecipazione al gettito dei tributi
erariali  riferibili  al  territorio dell'ente interessato, di cui al
secondo comma, nonche' con quote del "fondo perequativo senza vincoli
di  destinazione",  di  cui  al  terzo  comma».  «Pertanto, nel nuovo
sistema,  per  il  finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed
Enti locali, lo Stato puo' erogare solo fondi senza vincoli specifici
di  destinazione,  in particolare tramite il fondo perequativo di cui
all'art. 119, terzo comma, della Costituzione» (sent. 370/2003).
    Dal  momento  che  l'attivita'  dello  speciale servizio pubblico
costituito  dall'edilizia  abitativa  rientra palesemente nella sfera
delle   funzioni   proprie  delle  Regioni,  la  configurazione  (nei
commi 108-110)  di  un  fondo settoriale di finanziamento gestito dal
Governo  viola  in modo palese l'autonomia finanziaria sia di entrata
che di spesa delle regioni.
    Un  altro  profilo  di  illegittimita' riguarda il comma 111, che
attribuisce   al   Ministro   delle  infrastrutture  poteri  di  tipo
regolamentare di elevata discrezionalita' e rilevanza politica per la
determinazione delle agevolazioni fiscali che possono essere concesse
a  favore  degli  investimenti  (lett. a),  e  della  misura in cui i
redditi  derivanti  dalla  locazione concorrono a determinare la base
imponibile  dei  percettori  (lett. b).  Tale  disposizione  potrebbe
restare indenne da censure di incostituzionalita', per violazione del
limite   che   l'art. 117,   comma 6,   Cost.   pone   alla  potesta'
regolamentare  dello  Stato,  solo se fosse precisato che i contenuti
dei   decreti   ministeriali  devono  essere  limitati  agli  aspetti
strettamente  attinenti  al  regime  fiscale  riferibile  al  sistema
tributario  e  contabile  dello  Stato, senza in alcun modo debordare
intromettendosi   nella  disciplina  dell'edilizia  abitativa  o  nel
sistema  dei  tributi  regionali  e  locali  (cfr.  per esempio sent.
376/2003):  il  fatto  pero' che i decreti debbano essere emanati dal
Ministro  «competente  per  materia» (Ministro delle infrastrutture e
dei  trasporti), sia pure in concerto con il Ministro dell'economia e
delle  finanze,  non  sembra  coerente con una lettura esclusivamente
«fiscale» dei contenuti dei decreti stessi.
    Inoltre,  il  comma 111, quand'anche potesse essere assolto dalla
violazione della regola costituzionale sul potere regolamentare dello
Stato, non puo' superare la censura mossa per un altro profilo, cioe'
per  la  violazione del principio di leale collaborazione. Infatti il
costo  delle  misure  unilateralmente decise dal Ministro, in base al
comma 111,  va  detratto  dall'ammontare  della dotazione finanziaria
prevista  per  il Fondo: l'ammontare del finanziamento delle funzioni
proprie  delle  Regioni e degli enti locali viene percio' determinato
«per  sottrazione», per decisione unilaterale del Ministro, senza che
sia previsto alcun coinvolgimento delle Regioni e dei comuni, come e'
viceversa richiesto dal principio di leale collaborazione - principio
che,  invece, da sempre caratterizzava fortemente la disciplina della
materia,  nella  quale le funzioni di programmazione erano incentrate
nel  C.E.R.,  prima,  e nella Conferenza Stato-Regioni e «unificata»,
poi.
    15. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, commi 116 e 117.
    Secondo  il  comma 116 dell'art. 3, «l'incremento della dotazione
del  Fondo  nazionale  per  le  politiche sociali di cui all'art. 59,
comma 44,  della  legge 27 dicembre 1997, n. 449, disposta per l'anno
2004  dall'art. 21,  comma 6,  del  decreto-legge  30 settembre 2003,
n. 269,  convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003,
n. 326,  come modificato dalla presente legge, deve essere utilizzato
nel medesimo anno 2004 per le seguenti finalita': a) politiche per la
famiglia e in particolare per anziani e disabili, per un importo pari
a  70 milioni di euro; b) abbattimento delle barriere architettoniche
di  cui  alla  legge  9 gennaio 1989, n. 13, per un importo pari a 20
milioni  di  euro;  c)  servizi  per  l'integrazione scolastica degli
alunni  portatori  di  handicap,  per un importo pari a 40 milioni di
euro; d) servizi per la prima infanzia e scuole dell'infanzia, per un
importo pari a 67 milioni di euro».
    Il  comma 117  dispone  inoltre  che  «gli interventi di cui alle
lettere   c)   e   d)   del   comma 116,  limitatamente  alle  scuole
dell'infanzia,  devono essere adottati previo accordo tra i Ministeri
dell'istruzione,  dell'universita'  e  della  ricerca  e del lavoro e
delle politiche sociali e le regioni».
    La  disposizione  e'  lesiva delle attribuzioni regionali perche'
anch'essa  (come  gia'  il  comma 101  dello stesso art. 3, censurato
sopra  al  punto 13+) dispone unilateralmente del Fondo nazionale per
le politiche sociali.
    Con  la  disposizione  impugnata  si  scorporano dal Fondo alcune
specifiche  linee  di  finanziamento, vincolandone la destinazione ad
obiettivi  scelti  unilateralmente  dal Governo. Palese e' percio' la
violazione  dell'autonomia  legislativa  (non  trattandosi di materia
concorrente,  e  in  ogni  caso  non  di un principio fondamentale di
materia)  e  finanziaria  regionale,  garantita  dall'art. 119 Cost.,
nonche' del principio di leale collaborazione.
    Infatti, come codesta Corte ha piu' volte affermato, negli ambiti
di  competenza  regionale,  «nel  nuovo sistema, per il finanziamento
delle  normali  funzioni  di  Regioni  ed  Enti locali, lo Stato puo'
erogare  solo  fondi  senza  vincoli  specifici  di  destinazione, in
particolare  tramite  il fondo perequativo di cui all'art. 119, terzo
comma,  della  Costituzione.» (sent. 370/2003; cfr. anche sentt. 16 e
49/2004).
    In   conclusione,   le   disposizioni   impugnate  proseguono  la
precedente - ma ora non piu' consentita - pratica di vincolo di fondi
destinati   alle   Regioni   ai  piu'  dettagliati  e  precisi  scopi
determinati  dalla  legge  statale  (su  cui,  cfr. sent. 16/2004) in
settori  che  rientrano  nella  competenza  delle Regioni e in cui lo
Stato  dovrebbe  invece  esercitare  il suo potere-dovere di fissare,
esercitando  la potesta' legislativa esclusiva - che gli e' assegnata
dalla lettera m) dell'art. 117, comma 2, Cost. - di fissare i livelli
essenziali  delle  prestazioni  pubbliche; ma garantendo alle Regioni
l'integrale  finanziamento  delle  loro  funzioni  pubbliche  e senza
istituire  fondi  settoriali  a  destinazione  vincolata  (cfr. sent.
370/2003).
    Il  comma 117,  poi,  stabilendo che i servizi per l'integrazione
scolastica  degli  alunni  portatori  di  handicap  e  per  la scuola
d'infanzia  «devono  essere  adottati  previo  accordo» tra ministeri
competenti  e  le  Regioni,  sembra  voler  imporre  alle  Regioni di
esercitare  le  proprie  attribuzioni,  non  con  la  garanzia di una
definizione  delle  prestazioni  essenziali da garantire compiuta dal
legislatore  nazionale,  ma  attraverso  il  condizionamento da parte
degli   organi   politici  o  addirittura  burocratici  dello  Stato,
mortificando  l'autonomia legislativa ed amministrativa regionale che
gli articoli 117 e 118 della Costituzione non consentono.
    16. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 1 a 6.
    I   commi  dall'1  al  6  dell'art. 4  recano  la  previsione  di
contributi  agli  utenti  che  acquistino  o noleggino un apparecchio
«decoder»  per  fruire  dei  servizi  televisivi  in tecnica digitale
terrestre e per il collegamento «a banda larga» ad internet.
    Anche   se   la   rubrica   dell'art. 4   -  «Finanziamenti  agli
investimenti»  -  potrebbe  far  pensare  che le provvidenze previste
dalle  disposizioni  impugnate  rientrino tra le misure di intervento
diretto sul mercato (misure che la sentenza n. 14 del 2004 di codesta
ecc.ma  Corte  ha riconosciuto che lo Stato puo' assumere nell'ambito
di  una nozione dinamica di «concorrenza», in quanto «volte a ridurre
squilibri,  a  favorire  le condizioni di un sufficiente sviluppo del
mercato  o  ad  instaurare  assetti  concorrenziali»),  in realta' si
tratta  di  misure  rivolte ai soggetti comuni e non alle imprese, in
attuazione  di una politica di favore per la diffusione di tecnologie
digitali.  Non  si  tratta  dunque di tutela della concorrenza, ma di
sostegno  alla  innovazione  tecnologica. In tale ambito, spetta allo
Stato  la  legislazione  di  principio,  ma  spetta  alle  Regioni di
disporre  in  concreto la disciplina degli interventi e di provvedere
alla  loro  erogazione:  tra  l'altro,  si  tratta in concreto di una
miriade di «microinterventi», che non richiedono affatto una gestione
unitaria in sede nazionale.
    Le  stesse  considerazioni  varrebbero se si volessero ricondurre
gli   interventi   in   questione  alla  materia  «ordinamento  della
comunicazione».  Anche  in  questa  infatti  lo  Stato dispone - come
codesta   Corte  ha  gia'  confermato  con  la  sent. 324/2003  -  di
competenza   legislativa  limitata  alla  legislazione  di  principio
preordinata alla cura di «esigenze unitarie».
    Ricollocate   quindi   nel   quadro  della  potesta'  legislativa
concorrente,  le disposizioni impugnate risultano illegittime per tre
diversi   profili:  perche'  contengono  disposizioni  di  dettaglio,
anziche'  limitarsi  alla disciplina di principio; perche' dispongono
finanziamenti  diretti  senza  alcun coinvolgimento delle Regioni; ed
infine perche' attribuiscono, nel comma 4, al Ministro l'esercizio di
poteri  regolamentari  in ordine alla definizione dei criteri e delle
modalita'  di attribuzione dei contributi, in violazione della regola
posta dall'art. 117, comma 6, Cost.
    17. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 9 e 10.
    Il  comma  9  dispone  che «il Fondo di cui all'art. 27, comma 1,
della  legge  27 dicembre 2002, n. 289» sia «destinato alla copertura
delle  spese  relative  al  progetto  promosso  dal  Dipartimento per
l'innovazione  e  le  tecnologie  della  Presidenza del Consiglio dei
ministri   denominato   "PC   ai  giovani",  diretto  ad  incentivare
l'acquisizione  e  l'utilizzo  degli strumenti informatici e digitali
tra  i  giovani  che  compiono  16 anni  nel  2004,  nonche'  la loro
formazione»,  e che «le modalita' di attuazione del progetto, nonche'
di  erogazione  degli  incentivi  stessi»,  siano  disciplinate  «con
decreto  del  Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con
il  Ministro  per  l'innovazione  e  le  tecnologie, emanato ai sensi
dell'art. 27, comma 1, della legge 27 dicembre 2002, n. 289».
    Il  comma 10  dispone analogamente che il Fondo di cui al comma 9
sia  «destinato  anche,  nel  limite di 30 milioni di euro per l'anno
2004,  all'istituzione  di  un  fondo  speciale,  denominato "PC alle
famiglie",   finalizzato  alla  copertura  delle  spese  relative  al
progetto  promosso dal Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie
della  Presidenza  del Consiglio dei ministri, diretto all'erogazione
di  un  contributo  di 200 euro per l'acquisizione e l'utilizzo di un
personal  computer con la dotazione necessaria per il collegamento ad
Internet,  nel  corso  del  2004,  da  parte dei contribuenti persone
fisiche  residenti in Italia con un reddito complessivo non superiore
a  15.000  euro, relativo all'anno d'imposta 2002». Secondo lo stesso
comma «con decreto di natura non regolamentare, adottato dal Ministro
per  l'innovazione  e  le  tecnologie,  di  concerto  con il Ministro
dell'economia  e  delle  finanze,  entro  trenta giorni dalla data di
entrata  in  vigore  della  presente  legge,  sono stabilite, entro i
limiti  delle  disponibilita' finanziarie di cui al primo periodo, le
modalita' di attuazione del progetto, di individuazione dei requisiti
reddituali   e   dei  soggetti  tenuti  alla  verifica  dei  predetti
requisiti,  nonche'  di  erogazione degli incentivi stessi prevedendo
anche la possibilita' di avvalersi a tal fine della collaborazione di
organismi esterni alla pubblica amministrazione».
    In  pratica,  il  comma 9 estende ai giovani che compiono 16 anni
nel  2004  la disciplina prevista dall'art. 27, comma 1, legge n. 289
del  2002,  gia'  impugnato  da  questa  Regione.  Il  comma 10, poi,
istituisce  un  altro «fondo speciale, denominato `PC alle famiglie»,
destinato ad erogare un contributo per l'acquisizione di un computer,
nel  corso  del  2004,  da  parte dei contribuenti il cui reddito non
superi una certa soglia.
    Anche per il comma 10, le modalita' di attuazione sono rimesse ad
un decreto ministeriale «di natura non regolamentare».
    Come  gia'  osservato  nel  ricorso  n. 25/2003, l'intervento non
rientra  in  nessuna  delle materie di cui all'art. 117, commi 2 e 3,
dato  che  il  «sostegno  all'innovazione»  riguarda specificamente i
«settori   produttivi»  e  l'«istruzione»  (per  quanto  riguarda  il
progetto  PC ai giovani) potrebbe essere invocata solo se il progetto
venisse  attuato  in  ambito  scolastico, mentre i destinatari sono i
giovani  in  generale. Le disposizioni in questione, dunque, ricadono
nella competenza piena delle Regioni.
    Ora,  come gia' detto in altri punti, la gestione ministeriale di
un   fondo   settoriale  in  una  materia  regionale  risulta  lesiva
dell'autonomia   finanziaria   regionale.   Risultano  lese  poi,  di
conseguenza,  le  potesta'  normative ed amministrative, in quanto le
norme  impugnate  disciplinano  una  materia regionale (anche in modo
dettagliato),   conferiscono   al   Ministro  poteri  sostanzialmente
normativi  ed al Dipartimento per l'innovazione poteri amministrativi
in materia regionale.
    A  conclusioni  diverse non si arriverebbe qualora i commi 9 e 10
fossero ricondotti ad una materia di potesta' concorrente.
    Ne'  si  puo'  invocare il fatto che i commi 9 e 10 prevedano (il
comma 9 indirettamente, attraverso il richiamo dell'art. 27, comma 1,
legge  n. 289 del 2002) decreti «di natura non regolamentare»: se per
le  fonti  primarie  i  criteri  di  identificazione sono prettamente
formali, per le fonti secondarie, come noto, si ricorre soprattutto a
criteri  sostanziali,  e la legge non puo' mutare la natura dell'atto
attribuendogli   una   certa   denominazione,   e   meno  ancora  una
denominazione  le  cui  stesse  parole  mostrano  l'intento  elusivo:
perche', se un atto contiene precetti generali e astratti, innovativi
dell'ordinamento,  esso  non  puo'  che essere sovraordinato (e cioe'
normativo)  agli  atti  amministrativi  esecutivi.  E' evidente che a
nulla servirebbe l'art. 117, comma 6, se esso potesse essere aggirato
dalla  legge statale che attribuisce poteri sostanzialmente normativi
al Governo o ai Ministri solo evitando il nomen di regolamento.
    Al  contrario,  questo  tentativo  determina  invece  una  doppia
illegittimita':  per  avere  istituito  poteri  regolamentari,  e per
averli qualificati, elusivamente, «non regolamentari».
    In  definitiva,  i commi 9 e 10 risultano illegittimi nella parte
in   cui   prevedono   un  fondo  settoriale  in  materia  regionale,
attribuendo  al  Ministro  e al Dipartimento per l'innovazione poteri
nominativi  ed  amministrativi  relativi  alla  gestione del Fondo in
questione.
    Se  anche  vi  fossero  eccezionali esigenze unitarie (che non vi
sono),  essi  sarebbero  comunque  illegittimi nella parte in cui non
prevedono  che  i poteri statali ivi previsti siano esercitati previa
intesa con la Conferenza Stato-Regioni.
    18. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 18 e 19.
    In base al comma 18, «le risorse provenienti da iniziative di cui
all'art. 67,  comma 1,  della legge 28 dicembre 2001, n. 448, nonche'
quelle  relative agli interventi di cui all'art. 11 del decreto-legge
8 luglio  2002,  n. 138,  convertito,  con modificazioni, dalla legge
8 agosto  2002  n. 178,  accertate  al 31 dicembre di ogni anno, sono
trasferite  sullo  stato  di previsione del Ministero delle politiche
agricole  e  forestali,  anche  ai  fini dell'attuazione dell'art. 66
della  legge 27 dicembre 2002, n. 289». Dal comma 19 poi risulta che,
«nei  limiti  delle risorse rese disponibili di cui al comma 18, e in
base  alle  specifiche  assegnazioni determinate annualmente ai sensi
dell'art. 11, comma 3, lettera f), della legge 5 agosto 1978, n. 468,
e  successive  modificazioni,  il Ministro delle politiche agricole e
forestali  sottopone  all'approvazione  del  CIPE  nuovi contratti di
programma nei settori agricolo e della pesca».
    L'art. 67,  comma 1,  legge n. 448/2001, richiamato dal comma 18,
prevede  che «i finanziamenti revocati dal Comitato interministeriale
per   la   programmazione   economica   (CIPE)   ad   iniziative   di
programmazione  negoziata  nel  settore  agroalimentare e della pesca
sono  assegnati  al  finanziamento  di  nuovi  patti  territoriali  e
contratti  di  programma  riguardanti il settore medesimo»; l'art. 11
d.l. n. 138/2002, anch'esso richiamato, disciplina Contributi per gli
investimenti in agricoltura.
    L'art. 4, comma 19, dunque, prevede l'approvazione - da parte del
CIPE  -  di nuovi contratti di programma nei settori agricolo e della
pesca,   cioe'   in   materie   di  competenza  regionale  (salve  le
possibilita'  di  intervento  statale derivanti dalle funzioni di cui
all'art.  117,  comma 2). I contratti di programma cui fa riferimento
la  norma  impugnata  trovano  la loro definizione nell'art. 2, comma
203, lett. e), legge n. 662/1996.
    Codesta   Corte  si  e'  gia'  pronunciata  sulla  materia  della
programmazione  negoziata  in  agricoltura,  con la sent. n. 14/2004,
dichiarando  infondata  la  questione  sollevata da alcune Regioni in
relazione  all'art. 67 legge n. 448/2001. Questa disposizione, pero',
si  distingue  da quella impugnata proprio in relazione a quei tratti
che  hanno  costituito  la  ragione  della  sentenza di rigetto della
Corte.  L'art. 67, oltre al comma 1 gia' citato, contiene il comma 2,
dal  quale  risulta  che  «con  decreto del Ministro per le attivita'
produttive,  di  concerto  con il Ministro delle politiche agricole e
forestali,  sono  predisposti contratti di programma ed emanati bandi
di gara per patti territoriali, attivabili e finanziabili su tutto il
territorio   nazionale   previa   delibera   del   CIPE  secondo  gli
orientamenti   comunitari   in   materia   di   aiuti  di  Stato  per
l'agricoltura,  nei  limiti delle risorse rese disponibili attraverso
le revoche di cui al comma 1».
    Codesta Corte ha osservato che: «la peculiarita' delle iniziative
promosse  dallo  Stato  e'  che i relativi contratti di programma e i
patti  territoriali  si  riferiscono all'intero territorio nazionale,
nei  limiti  e  nella  misura  in  cui  cio' sia reso possibile dalla
disciplina   comunitaria»,  aggiungendo  che  «tali  iniziative  sono
infatti   inserite   nel   quadro  complessivo  della  programmazione
comunitaria  degli aiuti con finalita' di coesione economico-sociale,
coinvolgono  i rapporti dello Stato con l'Unione europea e richiedono
una  visione  degli  assetti  del  mercato  nazionale, del quale sono
intese  a  rafforzare  l'efficienza»;  percio'  la  disciplina di cui
all'art. 67  e'  stata ascritta «alle funzioni legislative statali di
cui   alla   lettera   e)  dell'art. 117,  secondo  comma,  Cost.,  e
segnatamente alla tutela della concorrenza, nel senso dinamico di cui
si e' detto, e alla perequazione delle risorse finanziarie».
    Il  rilievo  decisivo della dimensione nazionale delle iniziative
di  cui  all'art. 67  e'  confermato  da  un'ulteriore considerazione
svolta  dalla  Corte  a  sostegno  della  propria  decisione. Essa ha
infatti precisato che «non rileva ai fini della presente decisione il
fatto    che,   successivamente,   sotto   la   spinta   di   istanze
autonomistiche,  i  finanziamenti  revocati  dal  CIPE debbano essere
utilizzati  obbligatoriamente  all'interno del territorio regionale e
non  piu'  sull'intero  territorio nazionale (delibera CIPE 25 luglio
2003, n. 26/2003, adottata sulla base degli artt. 60 e 61 della legge
27 dicembre  2002,  n. 289,  e  a  seguito  di  accordo  in  sede  di
Conferenza  unificata  del  15 aprile 2003 per il coordinamento della
regionalizzazione  degli  strumenti di sviluppo locale)», concludendo
«con  tale nuova disciplina lo Stato ha scelto di non piu' esercitare
in  questa materia quella funzione di riequilibrio generale di cui la
disposizione  censurata  era  espressamente,  senza che cio' comporti
l'illegittimita' della precedente opzione legislativa».
    Per  differenza,  dunque,  la sentenza ora ricordata ha affermato
che  la  disciplina  di  cui  all'art. 67 non sarebbe stata legittima
nella   prospettiva   della   regionalizzazione  degli  strumenti  di
programmazione  negoziata  successivamente  consolidatasi,  ma che lo
stesso  art. 67  andava  giudicato  di  per  se', a prescindere delle
vicende  successive,  e  che esso era legittimo in quanto «i relativi
contratti   di  programma  e  i  patti  territoriali  si  riferiscono
all'intero territorio nazionale».
    Ora,  i  commi  18  e 19 intervengono in questa complessa materia
sostituendo  la  competenza  del Ministero delle politiche agricole a
quella  del  Ministero delle attivita' produttive e prevedendo che il
primo  presenti  al  CIPE,  per  l'approvazione,  nuovi  contratti di
programma  nei  settori  agricolo  e  della pesca. Nel nuovo contesto
della  regionalizzazione degli strumenti di programmazione negoziata,
non  si  fa  alcun  cenno  ad un essenziale «rilievo nazionale» delle
iniziative  ma  si  continua a tener ferma la competenza degli organi
statali  all'approvazione dei contratti di programma e all'erogazione
delle risorse finanziarie.
    In    assenza    di    quegli   elementi   «macroeconomici»   che
caratterizzavano  l'art. 67  legge  n. 448/2001, la previsione di una
gestione centrale di risorse destinate al finanziamento di iniziative
nelle   materie   dell'agricoltura   e  della  pesca  risulta  dunque
illegittima  per  violazione  degli  artt. 117,  118  e 119 Cost., in
quanto  -  come  osservato per altre norme - in materie di competenza
regionale  residuale  spetta alla Regione decidere sulle politiche di
sostegno  da adottare e allocare le relative funzioni amministrative,
sul  presupposto del finanziamento integrale delle funzioni regionali
quale dovrebbe essere compiuto dalla Stato ex art. 119 Cost.
    Ne'  le  norme  impugnate  si  possono giustificare in virtu' del
principio  di  sussidiarieta', non ravvisandosi esigenze unitarie che
rendano necessaria la competenza statale in materia di approvazione e
finanziamento  dei contratti di programma in materia di agricoltura e
pesca.
    In  subordine,  qualora  codesta  Corte  ritenesse applicabile il
principio   di   sussidiarieta',   il  comma 19  sarebbe  pur  sempre
illegittimo  per  la  mancata  previsione di un'intesa con le Regioni
interessate ai fini dell'approvazione dei contratti di programma.
    19. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4 commi 29 e 30.
    Il comma 29 stabilisce che, «nelle more dell'adozione dei decreti
legislativi  previsti  dalle  leggi  5 giugno 2003, n. 131, e 7 marzo
2003,  n. 38, gli interventi in favore del settore ittico di cui alla
legge  17 febbraio  1982,  n. 41,  sono realizzati dallo Stato, dalle
regioni  e  dalle  province  autonome  limitatamente  alle rispettive
competenze previste dalla Parte IV del VI Piano nazionale della pesca
e   dell'acquacoltura   adottato  con  decreto  del  Ministero  delle
politiche   agricole  e  forestali  25 maggio  2000,  pubblicato  nel
supplemento  ordinario  nella Gazzetta Ufficiale n. 174 del 27 luglio
2000».
    Il  comma  30,  del canto suo, prevede che, «entro il 28 febbraio
2004,  in  attuazione di quanto previsto al comma 29 e in deroga alle
disposizioni  di  cui  agli artt. 1 e 2 della legge 17 febbraio 1982,
n. 41,  e  successive  modificazioni,  con decreto del Ministro delle
politiche  agricole e forestali e' approvato il Piano nazionale della
pesca e dell'acquacoltura per l'anno 2004».
    L'art. 1  legge  n. 41/1982,  Piano per la razionalizzazione e lo
sviluppo  della pesca marittima, stabilisce, nel contesto del vecchio
Titolo   V  della  Costituzione,  che,  «al  fine  di  promuovere  lo
sfruttamento  razionale  e la valorizzazione delle risorse biologiche
del  mare  attraverso uno sviluppo equilibrato della pesca marittima,
il  Ministro  della  marina  mercantile,  tenuto  conto dei programmi
statali  e  regionali  anche  in  materie  connesse,  degli indirizzi
comunitari e degli impegni internazionali, adotta con proprio decreto
il  piano  nazionale degli interventi previsti dalla presente legge»,
aggiungendo  che  «tale  piano, di durata triennale, e' elaborato dal
Comitato  nazionale  per la conservazione e la gestione delle risorse
biologiche  del  mare,  istituito  ai sensi del successivo art. 3, ed
approvato dal CIPE».
    In   attuazione  di  questa  disposizione,  con  diversi  decreti
ministeriali  sono stati adottati vari triennali della pesca, fino al
d.m.  25 maggio 2000, Adozione del VI Piano nazionale triennale della
pesca  e  dell'acquacoltura  2000-2002. La parte IV di questo decreto
riguarda  il  Bilancio  preventivo  e contiene la «ripartizione delle
risorse  finanziarie tra interventi gestiti dallo Stato ed interventi
gestiti  dalle  Regioni».  Fra  gli  interventi  gestiti  dallo Stato
rientrano quelli concernenti: il Fondo centrale credito peschereccio,
i  Contribuiti  a  fondo  perduto  per  Osservatorio  del  lavoro, il
Contributo   a   fondo  perduto  per  iniziative  associazionismo,  i
Contributi per incentivi alla cooperazione, la Ricerca applicata alla
pesca  e  acquicoltura,  le  Campagne  di  educazione alimentare, gli
Interventi  sul  sistema  statistico,  il  Funzionamento degli organi
collegiali,   le   Missioni  all'estero,  le  Iniziative  a  sostegno
dell'attivita' ittica, il Controllo attivita' di pesca da parte delle
Capitanerie  di porto, il Fondo di solidarieta', gli Studi di mercato
(ISMEA), la Commissione per la sostenibilita' (INEA).
    E' opportuno segnalare che l'art. 69, comma 14, legge n. 289/2002
ha prorogato il piano in questione fino al 31 dicembre 2003.
    Dunque,  l'art. 4, comma 29, recepisce (con un rinvio «fisso») la
ripartizione  di  competenze  fra Stato e Regioni operata dal d.m. 25
maggio  2000  (scaduto, come detto, il 31 dicembre 2003) nel contesto
del   vecchio  Titolo  V  della  Costituzione,  che  attribuiva  alla
competenza   regionale   solo   la   «pesca   nelle  acque  interne».
Inevitabilmente,  dunque,  il  comma  29 non e' coerente con il nuovo
quadro  costituzionale,  nell'ambito  del  quale  (salvi  i titoli di
intervento  di  cui  all'art. 117,  comma 2) lo Stato puo' svolgere e
regolare   funzioni   amministrative   nelle  materie  di  competenza
regionale   (come   la  pesca  e  anche  la  ricerca  e  l'educazione
alimentare)  solo  qualora  cio' sia reso necessario dal principio di
sussidiarieta'.  Ma,  recependo  in  modo  tralaticio la ripartizione
operata  dal d.m. 25 maggio 2000, la legge n. 350/2003 non ha affatto
compiuto  le valutazioni rese necessarie dagli artt. 117 e 118 Cost.,
attribuendo allo Stato competenze rientranti in materie regionali, in
assenza  di  esigenze  unitarie.  In  particolare,  ricadono  -  piu'
chiaramente  degli  altri  - nelle materie di competenza regionale di
cui all'art. 1l7, comma 3 e 4 gli interventi riguardanti i Contributi
a  fondo  perduto  per Osservatorio del lavoro, il Contributo a fondo
perduto  per  iniziative  associazionismo, i Contributi per incentivi
alla cooperazione, la Ricerca applicata alla pesca e acquicoltura, le
Campagne   di   educazione   alimentare,  le  Iniziative  a  sostegno
dell'attivita' ittica, il Controllo attivita' di pesca da parte delle
Capitanerie  di porto, il Fondo di solidarieta', gli Studi di mercato
(ISMEA) e la Commissione per la sostenibilita' (INEA).
    In  subordine,  qualora  codesta Corte ravvisi esigenze unitarie,
permanenti o transitorie, a sostegno di queste competenze statali, il
comma  29  sarebbe  comunque  illegittimo  per  la mancata previsione
dell'intesa con le Regioni.
    Quanto  al  comma  30,  esso  prevede  una  procedura speciale di
approvazione  del  Piano  nazionale  della  pesca  per  il  2004:  le
particolarita' sembrano consistere nella sufficienza del solo decreto
ministeriale  e  nella durata annuale del piano. Anche ammettendo che
per  l'approvazione  del Piano nazionale possa essere giustificata la
competenza  statale,  la  norma  risulta  illegittima  per la mancata
previsione  dell'intesa  con  le  Regioni interessate, ai sensi della
sent. n. 303/2003.
    20.   -   Illegittimita'   costituzionale   dei  commi  61  e  63
dell'art. 4.
    Il  comma  61  dell'art. 4  dispone  che  «e' istituito presso il
Ministero  delle attivita' produttive un apposito fondo con dotazione
di  20  milioni di euro per il 2004, 30 milioni di euro per il 2005 e
20  milioni  di  euro  a  decorrere dal 2006, per la realizzazione di
azioni a sostegno di una campagna promozionale straordinaria a favore
del   «made   in   Italy»,   anche   attraverso  la  regolamentazione
dell'indicazione  di origine o l'istituzione di un apposito marchio a
tutela  delle  merci integralmente prodotte sul territorio italiano o
assimilate  ai  sensi  della normativa europea in materia di origine,
nonche'  per il potenziamento delle attivita' di supporto formativo e
scientifico  particolarmente  rivolte  alla  diffusione  del «made in
Italy»   nei   mercati   mediterranei,   dell'Europa  continentale  e
orientale, a cura di apposita sezione dell'ente di cui all'art. 8 del
decreto  legislativo  30 luglio  1999,  n. 287,  collocata presso due
delle  sedi  periferiche  esistenti,  con particolare attenzione alla
naturale  vocazione geografica di ciascuna nell'ambito del territorio
nazionale».
    La disposizione prosegue poi specificando che «a tale fine, e per
l'adeguamento   delle  relative  dotazioni  organiche,  e'  destinato
all'attuazione  delle  attivita'  di supporto formativo e scientifico
indicate  al  periodo precedente un importo non superiore a 5 milioni
di euro annui».
    Complessivamente,  dunque,  il  comma  61  dispone  interventi  a
sostegno  della  commercializzazione  dei  prodotti  italiani,  ed in
particolare,  esso  istituisce  presso  il  Ministero delle attivita'
produttive un Fondo destinato:
        a)  alla  realizzazione  da  parte  del  Ministero  stesso di
«azioni  a  sostegno  di  una  campagna  promozionale straordinaria a
favore  del  «made  in  Italy»,  anche attraverso la regolamentazione
dell'indicazione  di origine o l'istituzione di un apposito marchio a
tutela  delle  merci integralmente prodotte sul territorio italiano o
assimilate  ai  sensi della normativa europea in materia di origine».
Questa previsione e' completata dal comma 63, a termini del quale «le
modalita'  di  regolamentazione  delle  indicazioni  di  origine e di
istituzione  ed  uso del marchio di cui al comma 61 sono definite con
regolamento  emanato  ai  sensi  dell'art. 17,  comma 2,  della legge
23 agosto  1988,  n. 400,  su  proposta  dal Ministro delle attivita'
produttive, di concerto con i Ministri dell'economia e delle finanze,
degli  affari  esteri,  delle politiche agricole e forestali e per le
politiche comunitarie»;
        b)  al «potenziamento delle attivita' di supporto formativo e
scientifico  particolarmente  rivolte  alla  diffusione  del «made in
Italy»   nei   mercati   mediterranei,   dell'Europa  continentale  e
orientale».  Ma in pratica queste attivita' sono affidate alla Scuola
superiore  dell'economia  e  delle finanze, che e' posta alle dirette
dipendenze  del  Ministro dell'economia e delle finanze. In essa deve
essere  istituita  un'apposita  sezione  collocata  in due delle sedi
periferiche  della  scuola medesima, «con particolare attenzione alla
naturale  vocazione geografica di ciascuna nell'ambito del territorio
nazionale».  Un  apposito  finanziamento  annuo  di Euro 5 milioni e'
destinato alla Scuola per sostenere questa attivita'.
    Si  tratta dunque di due aspetti distinti: un'azione promozionale
e  regolativa  diretta  del  Ministero,  e  un  finanziamento  ad una
specifica istituzione statale di carattere formativo.
    Quanto  al  primo  aspetto  (l'azione  promozionale  e regolativa
diretta del Ministero), la Regione Emilia-Romagna non contesta, su un
piano  generale, ne' la legittimita' ne' l'opportunita' di iniziative
promosse   dal   Governo   per   il   potenziamento  delle  attivita'
promozionali  a  favore  dei  prodotti  nazionali, iniziative che ben
possono  rientrare  in  quella «concezione dinamica» della competenza
statale  in  materia  di «tutela della concorrenza» che giustifica, a
tenore  della sent. 14/2004 di codesta Corte, l'impiego di «strumenti
di  politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese»
ed interventi di rilevanza macroeconomica «finalizzati ad equilibrare
il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico».
    Tuttavia  e'  necessario  considerare che gli interventi previsti
dalle   disposizioni   impugnate,   per  le  loro  stesse  dimensioni
finanziarie,  non  si collocano in una dimensione macroeconomica, ne'
appaiono  idonee  «quanto  ad accessibilita' a tutti gli operatori ad
impatto  complessivo, ad incidere sull'equilibrio economico generale»
(cosi'  ancora  la  sent. 14/2004). Si tratta piuttosto di interventi
che,  impiegando  il  «criterio  di  prevalenza» indicato dalla sent.
370/2003,  risultano  ricadere piuttosto nella materia «commercio con
l'estero»,  attribuita  dall'art. 117,  comma 3, Cost. alla «potesta'
concorrente». Anche a riconoscere l'opportunita' che l'indicazione di
origine  e  l'istituzione  di  marchi  che  connotano  i  prodotti di
qualita'  italiani  siano  regolati  con criteri omogenei su tutto il
territorio  nazionale,  la  disciplina  contenuta  nelle disposizioni
impugnate  risulta tuttavia lesiva delle attribuzioni regionali sotto
almeno due profili.
    In   primo   luogo,   la   previsione   che   le   modalita'   di
regolamentazione delle indicazioni di origine e di istituzione ed uso
del   marchio  made  in  Italy  siano  disciplinate  con  regolamento
governativo  viola  l'art. 117,  comma 6, che circoscrive la potesta'
regolamentare  dello  Stato  alle  sole  materie di cui all'art. 117,
comma 2, Cost. (cfr. le sentenze 303/2003 e 12/2004).
    In  secondo  luogo, la previsione che la disciplina regolamentare
sia  emanata  con  le  forme  proprie del regolamento governativo, su
proposta  del  Ministro delle attivita' produttive, di concerto con i
Ministri  dell'economia  e  delle finanza, degli affari esteri, delle
politiche  agricole e forestali e per le politiche comunitarie, senza
prevedere  alcuna  partecipazione delle Ragioni, lede il principio di
leale  collaborazione  che,  per  costante  giurisprudenza di codesta
Corte  (cfr.  da  ultimo  le sentenze 303/2003 e 6/2004), comporta la
«necessaria previsione di idonee forme di intesa e collaborazione tra
il  livello  statale  e  i  livelli regionali» ogniqualvolta lo Stato
agisca in materie non sue esclusive a tutela di esigenze unitarie.
    Risulta inoltre lesiva delle attribuzioni regionali la previsione
del  comma  61,  laddove affida alla Scuola superiore dell'economia e
delle finanze «attivita' di supporto formativo e scientifico» rivolte
alla diffusione del «made in Italy».
    Senza  entrare  nel  merito  delle  competenza effettive di detta
Scuola  a  svolgere tali compiti, per i quali infatti e' previsto uno
stanziamento annuale aggiuntivo, non puo' trascurare che:
        a)  la  formazione  professionale  rientra  tra le materie di
competenza  residuale  delle Regioni, come chiaramente indicato dallo
stesso  art. 117, comma 3, Cost., che espressamente la scorpora dalla
«istruzione»;
        b)  se  l'attivita'  formativa  e  di supporto scientifico in
questione   deve   ritenersi  servente  lo  specifico  oggetto  della
disposizione,  se  ne  deve  dedurre  che  per  essa  si  espande  la
competenza concorrente in materia di «commercio con l'estero», con la
conseguenza  che  le  Regioni  non possono essere escluse da essa. Va
sottolineato, del resto, che gia' il decreto legislativo n. 112/1998,
all'art.  41,  lett. g), ha trasferito alle Regioni l'organizzazione,
anche  con  l'ausilio dell'ICE, di corsi di formazione professionale,
tecnica e manageriale per gli operatori commerciali con l'estero;
        c)  la  «ricerca  scientifica  e  tecnologica» e il «sostegno
all'innovazione  per  i  settori  produttivi»  e'  anch'essa  materia
concorrente.
    Dunque,   assegnare  l'attivita'  di  formazione  e  di  supporto
scientifico   ad  un  soggetto  posto  alle  dirette  dipendenze  del
Ministero,  che  dichiaratamente  si  pone quale «istituzione di alta
cultura,  formazione  e ricerca a vocazione generale che... agisce in
concorrenza  con  le  altre  istituzioni di formazione superiore» (in
questi  termini  la  Scuola  presenta  se  stessa  nel  proprio  sito
www.ssef.it),  costituisce  una  scelta  che  viola  le  attribuzioni
regionali    in    materia   di   commercio   con   l'estero   o   di
formazione professionale    senza    poter   vantare   alcun   titolo
giustificativo costituzionale.
    Si  noti  che  la  lesione  delle  competenze  regionali  non  e'
attenuata,  ma  semmai  resa piu' evidente, dalla prescrizione che la
Scuola   svolga   l'attivita'  «presso  due  delle  sedi  periferiche
esistenti,   con   particolare  attenzione  alla  naturale  vocazione
geografica  di  ciascuna nell'ambito del territorio nazionale», quasi
che  l'articolazione  territoriale della Scuola possa soddisfare alle
esigenze  di  collegamento con il territorio, escludendo e surrogando
le Regioni.
    21. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 82 e 83.
    Il  comma  82  provede  che  «le  disponibilita' del fondo di cui
all'art. 37   della   legge  25 luglio  1952,  n. 949,  e  successive
modificazioni,  sono  incrementate  di  10 milioni di euro per l'anno
2004   per  agevolare  i  processi  di  internazionalizzazione  ed  i
programmi   di   penetrazione   commerciale  promossi  dalle  imprese
artigiane e dai consorzi di esportazione a queste collegati». In base
al  comma  83, «le modalita', le condizioni e le forme tecniche delle
attivita'  di  cui al comma 82 sono definite con decreto del Ministro
delle  attivita' produttive di concerto con il Ministro dell'economia
e  delle finanze, ai sensi dell'art. 21, comma 7, della legge 5 marzo
2001, n. 57.
    L'art. 37 legge n. 949/1952 ha istituito un fondo per il concorso
nel  pagamento  degli  interessi sulle operazioni di credito a favore
delle imprese artigiane. Benche' l'art. 21, comma 7, legge n. 57/2001
sia  richiamato dal comma 83 e non dal comma 82, l'utilizzo del fondo
in  questione  per  le finalita' indicate dal comma 82 era in realta'
gia'  previsto,  appunto, dall'art. 21, comma 7, legge n. 57/2001. Il
comma 82,  dunque,  non  fa  che  perpetuare  un  intervento  statale
previsto  nella  vigenza  del  vecchio  Titolo V  della Costituzione,
disponendo  un intervento statale diretto a sostegno dei «processi di
internazionalizzazione» e dei «programmi di penetrazione commerciale»
promossi  dalle  imprese  artigiane  e dai consorzi di esportazione a
queste collegati.
    L'artigianato,  come  noto,  ricade  nella  potesta'  piena delle
Regioni e gia' nel vigore del vecchio Titolo V le Regioni ricoprivano
un  ruolo preminente nella materia in questione. Proprio in relazione
ai  contributi  a  favore  delle  imprese artigiane, l'art. 12 d.lgs.
n. 112/1998  prevedeva  che «le funzioni amministrative relative alla
materia  "artigianato",  cosi' come definita dall'art. 63 del decreto
del  Presidente  della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, comprendono
anche  tutte  le  funzioni amministrative relative alla erogazione di
agevolazioni,   contributi,  sovvenzioni,  incentivi  e  benefici  di
qualsiasi  genere,  comunque  denominati, alle imprese artigiane, con
particolare   riguardo  alle  imprese  artistiche».  L'art. 13,  poi,
conservava   allo   Stato  solo  «le  funzioni  attualmente  previste
concernenti:  a) la tutela delle produzioni ceramiche, in particolare
di  quella  artistica e di qualita', di cui alla legge 9 luglio 1990,
n. 188;  b)  eventuali  cofinanziamenti, nell'interesse nazionale, di
programmi  regionali di sviluppo e sostegno dell'artigianato, secondo
criteri e modalita' definiti con decreto del Ministro dell'industria,
del   commercio   e  dell'artigianato,  d'intesa  con  la  conferenza
unificata».  L'art. 14  precisava  che  «sono  conferite alle regioni
tutte  le  funzioni  amministrative  statali  concernenti  la materia
dell'artigianato,  come  definita  nell'art. 12,  non  riservate allo
Stato  ai  sensi  dell'art. 13», e l'art. 15 ribadiva che «le regioni
provvedono all'incentivazione delle imprese artigiane, secondo quanto
previsto con legge regionale».
    Il fatto che i contributi previsti dal comma 82 siano finalizzati
a  sostenere  i  programmi  di «internazionalizzazione» delle imprese
artigiane  non  implica affatto la competenza statale alla gestione e
alla regolazione del fondo. Il finanziamento statale non attiene allo
sviluppo  «dell'intero  Paese»  (per usare un'espressione della sent.
n. 14/2004),  riguardando  i  programmi  elaborati da singole imprese
artigiane  al  fine di una loro maggiore «internazionalizzazione». E'
bene  precisare  che  il rilievo «macroeconomico» di un intervento di
sostegno  del mercato non sussiste solo per il fatto che l'intervento
afferisce  ai  rapporti  internazionali, tanto e' vero che la materia
del   «commercio   con   l'estero»   e'  attribuita  alla  competenza
concorrente  di  Stato  e  Regioni. L'intervento di sostegno, dunque,
puo'  essere  attratto  alla  competenza  statale solo in presenza di
chiare caratteristiche «macroeconomiche», che nel caso di specie sono
assenti.
    Sotto altro profilo, se la competenza statale ad un intervento si
giustificasse   solo  in  virtu'  del  fatto  che  esso  non  ha  una
delimitazione    territoriale    regionale,    ne   deriverebbe   una
straordinaria  confusione  di  ruoli,  perche'  le Regioni e lo Stato
farebbero  le  stesse  cose,  con  duplicazioni  e  distorsioni delle
politiche.  E'  chiaro  invece  che gli interventi dello Stato devono
contrassegnarsi    per    caratteristiche    tali    che   richiedano
necessariamente la dimensione statale.
    Ne risulta che i commi 82 e 83, dunque, contemplano la gestione e
la  regolazione  statale  di un finanziamento finalizzato al sostegno
delle imprese in materia regionale, in violazione degli articoli 117,
118  e  119  Cost.  Si  tratta di politiche di sostegno che possono e
devono  essere  decise e gestite a livello regionale, mancando (oltre
al   carattere   macroeconomico)   qualsiasi  esigenza  unitaria.  In
particolare,  e'  illegittima la previsione - da parte del comma 83 -
di  un  atto  sostanzialmente  regolamentare in materia di competenza
regionale  piena  (artigianato) o, al massimo, concorrente (commercio
con l'estero).
    In  subordine,  qualora  codesta Corte ritenesse che l'intervento
previsto  dal  comma 82  ha carattere macroeconomico, i commi 82 e 83
sarebbero   comunque   illegittimi   per  la  mancata  previsione  di
meccanismi di coordinamento con le Regioni, perche', se anche risulta
invocabile   la  competenza  statale  in  materia  di  «tutela  della
concorrenza»,  cio' non toglie che le norme impugnate incidono su una
materia  regionale e cio' rende necessario che le funzioni statali di
gestione e regolazione da esse previste siano svolte in modo da tener
conto  del punto di vista della Regione e da coordinarsi con l'azione
che  la  Regione stessa svolge. A maggior ragione, naturalmente, cio'
varrebbe    qualora   si   ritenesse   insussistente   il   carattere
macroeconomico  ma esistente una ipotetica esigenza unitaria, tale da
giustificare  la  gestione  centrale del finanziamento (ma, comunque,
non la previsione del decreto sostanzialmente regolamentare).
    22.  - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 100, 101,
102.
    Il  comma 99  dell'art. 4  stabilisce  che «in conformita' con il
principio  di  cui all'art. 34, terzo comma, della Costituzione, agli
studenti capaci e meritevoli, iscritti ai corsi di cui all'art. 3 del
regolamento  di  cui al decreto del Ministro dell'universita' e della
ricerca  scientifica  e  tecnologica 3 novembre 1999, n. 509, possono
essere concessi prestiti fiduciari per il finanziamento degli studi».
    Si  tratta  di  una  disposizione  di  per se' priva di contenuto
normativo,  trattandosi  di  uno  strumento di diritto comune in ogni
caso   a  disposizione  delle  politiche  di  assistenza  agli  studi
universitari.
    Il   vero   contenuto   normativo  appare  invece  al  successivo
comma 100,  secondo  il quale «e' istituito un Fondo finalizzato alla
costituzione di garanzie sul rimborso dei prestiti fiduciari concessi
dalle  banche  e dagli altri intermediari finanziari», il quale «puo'
essere utilizzato anche per la corresponsione agli studenti, privi di
mezzi, e agli studenti nelle medesime condizioni residenti nelle aree
sottoutilizzate  di  cui  all'art. 61  della  legge 27 dicembre 2002,
n. 289, di contributi in conto interessi per il rimborso dei predetti
prestiti fiduciari».
    Il  comma 101  dispone  che  tale  Fondo sia «gestito da Sviluppo
Italia  S.p.a.  sulla  base  di  criteri  ed  indirizzi stabiliti dal
Ministero  dell'istruzione,  dell'universita'  e  della  ricerca,  di
concerto  con  il Ministero dell'economia e delle finanze, sentita la
Conferenza  permanente  per  i rapporti tra lo Stato, le regioni o le
province autonome di Trento e di Bolzano». Il comma 103 stabilisce la
dotazione  del  Fondo in misura «pari a 10 milioni di euro per l'anno
2004», aggiungendo che «il Fondo puo' essere incrementato anche con i
contributi  di  regioni,  fondazioni  e  altri  soggetti  pubblici  e
privati».
    Le disposizioni impugnate intervengono in materia di diritto allo
studio  universitario,  modificando  la  disciplina dei c.d. prestiti
d'onore   gia'   introdotta   dalla   legge   390/1991.  Le  funzioni
amministrative  in  materia  di  assistenza scolastica a favore degli
studenti  universitari  sono  state  conferite  alle  Regioni sin dal
d.P.R.  616/1977, il cui art. 44 ha disposto il trasferimento ad esse
delle funzioni gia' esercitate dalle Opere universitarie.
    Oggi,  dopo  la  riforma  del  titolo V,  la materia e' di sicura
competenza  «residuale»  delle Regioni salvo, ovviamente, il potere -
dovere  del  legislatore  statale  di  fissare i «livelli essenziali»
delle prestazioni pubbliche.
    Ora,  se pure si volesse affermare che la disciplina dei prestiti
d'onore  sia  configurabile  come  componente della definizione delle
prestazioni    pubbliche    che    devono    essere   erogate   senza
differenziazione territoriali agli studenti universitari che ne hanno
titolo,  cio' non potrebbe comunque consentire che organi o organismi
statali   si   sostituiscano  alle  Regioni  e  alle  loro  strutture
nell'erogazione  delle prestazioni; ne' potrebbe portare ad ammettere
che  lo  Stato  istituisca, in materie di competenza regionale, fondi
speciali  gestiti da organismi riferibili allo Stato stesso, anziche'
trasferire  i  finanziamenti,  senza  vincolo  di  destinazione, alle
Regioni.
    Come codesta Corte ha gia' avuto modo di ribadire piu' volte, «il
nuovo  art. 119  della Costituzione, prevede espressamente, al quarto
comma,  che  le  funzioni pubbliche regionali e locali debbano essere
«integralmente» finanziate tramite i proventi delle entrate proprie e
la  compartecipazione  al  gettito dei tributi erariali riferibili al
territorio  dell'ente  interessato,  di cui al secondo comma, nonche'
con  quote  del `fondo perequativo senza vincoli di destinazione', di
cui   al   terzo   comma».  «Pertanto,  nel  nuovo  sistema,  per  il
finanziamento  delle  normali  funzioni di Regioni ed Enti locali, lo
Stato   puo'   erogare   solo   fondi  senza  vincoli,  specifici  di
destinazione,  in  particolare  tramite  il  fondo perequativo di cui
all'art. 119, terzo comma, della Costituzione» (sent. 370/2003).
    Dal  momento  che  l'attivita'  dello  speciale servizio pubblico
costituito  dall'assistenza  scolastica  agli  studenti  universitari
rientra palesemente nella sfera delle funzioni proprie delle Regioni,
la  configurazione  (nei  commi  100-102)  di  un fondo settoriale di
finanziamento  gestito  da  organismi dipendenti dallo Stato viola in
modo palese l'autonomia finanziaria sia di entrata che di spesa delle
regioni.
    Inoltre,  la  previsione  che il fondo sia gestito «sulla base di
criteri  e  indirizzi  stabiliti  dal  MIUR,  sentita  la  Conferenza
permanente  per  i  rapporti  tra  lo Stato, le regioni e le province
autonome  di  Trento  e  di  Bolzano»  (comma  101) risulta anch'essa
illegittima, per difetto di fondamento costituzionale di un potere di
indirizzo.   In  via  interpretativa  della  Costituzione,  l'art. 8,
comma 6,  della  legge n. 131 del 2003 ha stabilito che nelle materie
di  potesta'  legislativa  regionale «non possono essere adottati gli
atti di indirizzo e di coordinamento».
    Se  pure potesse costituzionalmente esistere un simile potere, la
disciplina  che  ad esso viene data sarebbe in ogni modo illegittima,
sia  perche'  rinvia  ad  un  atto  ministeriale, anziche' ad un atto
collegiale  del  Governo, sia per il difetto di legalita' sostanziale
(essendo  la fattispecie legislativa estremamente indeterminata), sia
per  la  mancata  previsione  dell'intesa  con le Regioni (gia' a suo
tempo prescritta per gli atti di indirizzo e coordinamento dal d.lgs.
n. 281/1997).
    Le  stesse  considerazioni varrebbero anche se la funzione di cui
si   tratta   venisse   limitata  alla  determinazione  dei  «livelli
essenziali»,  in  relazione  ai  quali,  come  la sent. n. 88/2003 di
codesta  Corte  ha  affermato, si richiede «che queste scelte, almeno
nelle  loro  linee generali, siano operate dallo Stato con legge», ed
inoltre che essa debba «determinare adeguate procedure e precisi atti
formali  per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori
che  si  rendano  necessarie  nei  vari  settori»,  nel  rispetto del
principio  di  leale collaborazione, senza di cui sarebbe illegittima
«la compressione dei poteri delle Regioni e delle Province autonome».
    E'  palese  inoltre  che  creazione di un fondo separato e la sua
gestione   centrale,  distinta  dalla  gestione  delle  politiche  di
assistenza  agli  studi  universitari  viene  a  creare  una distinta
politica di assistenza, che interferisce irragionevolmente con quella
delle  Regioni  e  degli  enti  regionali  o locali istituzionalmente
competente,  creando  sovrapposizioni  e  impedendo  una gestione che
tenga conto di tutti gli aspetti dell'assistenza universitaria.
    23. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 106-111.
    I  commi  dal  106  al  111  istituiscono e disciplinano un Fondo
rotativo   nazionale   per   effettuare   interventi   temporanei  di
potenziamento  del  capitale  di  imprese medio-grandi che presentino
nuovi  programmi  di  sviluppo, anche attraverso la sottoscrizione di
quote di minoranze di fondi immobiliari chiusi che investono in esse.
    Nonostante  il riferimento alle imprese medio-grandi, la relativa
modestia  delle risorse allocate per l'esercizio in corso e i vincoli
comunitari  agli aiuti di Stato preludono ad un intervento di modesto
rilievo,  tale  da escludere, ad avviso della ricorrente Regione, che
esso  possa  essere  classificato  tra  gli  «strumenti  di  politica
economica   che   attengono   allo   sviluppo   dell'intero   Paese»,
«finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite
nel  circuito  economico»  e  giustificati  per  la  loro  «rilevanza
macroeconomia»:  e  solo  in  tale quadro - come ha affermato codesta
ecc.ma  Corte  nella  sent.  n. 14/2004 - «e' mantenuta allo Stato la
facolta'  di adottare sia specifiche misure di rilevante entita', sia
regimi di aiuto ammessi dall'ordinamento comunitario (fra i quali gli
aiuti  de  minimis),  purche'  siano  in  ogni caso idonei, quanto ad
accessibilita'  a  tutti  gli  operatori  ed  impatto complessivo, ad
incidere sull'equilibrio economico generale».
    Tuttavia,  anche  se  la  previsione  di  interventi  siffatti si
potesse  giustificare  in  nome  della  concezione  «dinamica»  delle
competenze  statali  in  ordine  alla  «tutela della concorrenza», le
modalita'  di gestione delle misure previste rimarrebbero censurabili
per  lo  spiccato  carattere  centralistico  che  esse presentano, in
quanto   pretermettono   totalmente  le  Regioni  (esse  sono  citate
dall'art. 106  solo  per  concedere priorita' agli interventi da esse
cofinanziati).
    Da  un lato infatti, quanto alla programmazione degli interventi,
risulta   lesiva   del   principio  di  leale  collaborazione  l'aver
attribuito  al CIPE il compito di fissare, senza alcun concorso delle
Regioni,  i  criteri  generali  di valutazione e la durata massima di
essi (comma 110). Si noti che il fatto che allo Stato si (in ipotesi)
consentito  di  intervenire  in  base  al  titolo «trasversale» della
tutela  della  concorrenza non toglie minimamente che l'intervento si
riferisca  ad  ambiti materiali che fanno parte delle responsabilita'
proprie  delle  Regioni:  di  qui un «incrocio» di responsabilita' al
quale devono necessariamente corrispondere strumenti di concertazione
e di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni.
    Tali  strumenti  erano presenti nella fattispecie esaminata dalla
sentenza  n. 14  del  2004,  e  solo  percio',  ritiene la ricorrente
Regione,  la  sentenza  stessa non ha avuto occasione di rilevarne la
necessita'.
    Dall'altro  lato,  quello  della  gestione  degli  interventi, la
eventuale  giustificazione  dell'intervento  statale,  basata  su  un
titolo  di  competenza tratto dall'interpretazione estensiva dell'art
117,   non   esclude   certo  qualsiasi  valutazione  in  termini  di
ragionevolezza,  congruita'  e  proporzionalita'.  La stessa sentenza
n. 14/2004,  all'opposto,  richiede che le scelte dello Stato possano
essere  sottoposte  «ad  un  controllo di costituzionalita' diretto a
verificare   che   i   loro   presupposti  non  siano  manifestamente
irrazionali  e  che gli strumenti di intervento siano disposti in una
relazione   ragionevole   e  proporzionata  rispetto  agli  obiettivi
attesi»,  poiche'  «(q)uando  venga  in  considerazione  il titolo di
competenza funzionale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost.,  che  non  definisce  ambiti  oggettivamente  delimitabili, ma
interferisce  con molteplici attribuzioni delle Regioni, e' la stessa
conformita'  dell'intervento  statale al riparto costituzionale delle
competenze   a  dipendere  strettamente  dalla  ragionevolezza  della
previsione legislativa».
    Sotto  questo  profilo,  risulta  ingiustificata  e  lesiva delle
attribuzioni   riconosciute  alla  Regione  dall'art.  117  Cost.  la
concentrazione  della  gestione  degli  interventi in Sviluppo Italia
S.p.a., che e' un'Agenzia nazionale per lo sviluppo che ha tra le sue
finalita'  la  «co-gestione»  di funzioni pubbliche ed agisce tramite
una  rete  di  Societa'  regionali presenti in quasi tutte le regioni
(ma,  tra  l'altro,  non  in  Emilia-Romagna).  Sia  il riparto delle
competenze  che  il principio di sussidiarieta' richiedono invece che
le funzioni di gestione ed attuazione degli interventi siano affidate
alla  Regione,  che  vi  provvedera' attraverso i propri strumenti di
intervento, tra i quali l'Ervet S.p.a.
    24.  -  lllegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 112 a
115.
    Con  le disposizioni impugnate, viene istituito un Fondo speciale
per   l'incentivazione  della  partecipazione  dei  lavoratori  nelle
imprese,   che   dovrebbe   sostenere   programmi   finalizzati  alla
partecipazione  dei  lavoratori ai risultati o alle scelte gestionali
delle  imprese  medesime.  La  gestione  del  Fondo e' affidata ad un
Comitato  composto  da  esperti  nominati in parte dal Ministero e in
parte dalle associazioni sindacali.
    La  materia  nel  cui  ambito, usando «un criterio dl prevalenza»
(come   suggerisce  la  sent.  n. 370/2003),  sembrano  ricadere  gli
interventi  in  questione  e' la «tutela e sicurezza del lavoro», che
l'art. 117, comma 3, Cost. assegna alla potesta' concorrente.
    In  materie  non «esclusive» dello Stato, anche qualora potessero
essere  configurate  esigenze unitarie che giustifichino l'intervento
legislativo  dello  Stato,  il  nuovo  Titolo  V  vieta  che lo Stato
istituisca fondi speciali, anziche' destinare le risorse alla finanza
regionale secondo i principi dell'art. 119 Cost.
    Ancor  piu'  illegittimo  appare  che  il  fondo  settoriale  sia
affidato  alla  gestione  statale,  violandosi  cosi  sia la potesta'
legislativa  regionale  -  che  non avrebbe ovviamente modo alcuno di
esplicarsi  -  sia  la  propria potenziale titolarita' delle funzioni
amministrative.
    Se pure una eccezionale gestione unitaria fosse giustificata - in
denegata  ipotesi  - da interessi indivisibili (che peraltro non sono
neppure  affermati),  la  normativa risulterebbe comunque illegittima
per  il  mancato  coinvolgimento  delle  Regioni secondo le modalita'
richieste  dal  principio di leale collaborazione (cfr. sent. n. 16 e
n. 49/2004).
    Da   qui   deriva  la  violazione  delle  attribuzoni  regionali,
garantite  dall'art. 117,  comma  3,  Cost., nonche' del principio di
leale collaborazione.
    25. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 157.
    Il  comma  157  dell'art. 4  prevede  tra  l'altro  che  «per  il
conseguimento  dei  risultati  di maggiore efficienza e produttivita'
dei  servizi  di  trasporto pubblico locale, e' istituito un apposito
fondo presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti» e che
«con  decreto  del  Presidente del Consiglio dei Ministri, sentita la
Conferenza  unificata  di  cui  all'art. 8 del decreto legislativo 28
agosto  1997,  n. 281,  sono  stabilite le modalita' di riparto delle
risorse di cui al presente comma».
    La  disposizione  e'  censurabile  in  quanto istituisce un Fondo
ministeriale  separato  e  con  destinazione  vincolata in materia di
competenza residuale delle Regioni.
    Come  codesta Corte ha ripetutamente affermato, nel nuovo sistema
della  finanza  regionale,  tratteggiato  dall'art. 119 Cost., per il
finanziamento  delle  normali  funzioni di Regioni ed enti locali, lo
Stato  non  puo' proseguire nella pratica di trasferimento diretto di
risorse...  per  scopi  determinati  dalla  legge  statale, in base a
criteri     stabiliti,     nell'ambito     della     stessa    legge,
dall'amministrazione  dello  Stato»;  al  contrario, «lo Stato puo' e
deve agire in conformita' al nuovo riparto di competenze e alle nuove
regole,  disponendo  i  trasferimenti  senza  vincoli di destinazione
specifica,  o,  se  del  caso,  passando  attraverso  il  filtro  dei
programmi  regionali,  coinvolgendo dunque le Regioni interessate nei
processi  decisionali  concernenti  il  riparto e la destinazione dei
fondi»  (sent.  n. 16/2004;  negli  stessi  termini,  cfr.  sent. nn.
370/2003 e 49/2004).
    Oltretutto,  la  previsione per cui le modalita' di riparto delle
risorse  sono  decise  con  decreto  del Presidente del Consiglio dei
Ministri, «sentita la Conferenza unificata», non corrisponde alle ben
piu'  intense modalita' di leale collaborazione («passando attraverso
il  filtro  dei  programmi  regionali, coinvolgendo dunque le Regioni
interessate  nei  processi  decisionali  concernenti  il riparto e la
destinazione  del  fondi»: ancora sent. n. 16/2004) che devono essere
rispettate  quando  i trasferimenti non possono essere disposti senza
vincoli di destinazione specifica.
    L'impugnazione  non  coinvolge  i  contributi  disposti dal terzo
periodo del comma impugnato, in quanto essi costituiscono rimborso di
contributi non dovuti.
    26. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 159.
    La  disposizione  impugnata prevede l'erogazione di contributi in
conto   capitale   per   «il  sostegno  e  l'ulteriore  potenziamento
dell'attivita'  di  ricerca  scientifica e tecnologica», rinviando la
determinazione  delle  misure  dei  contributi, della tipologia degli
interventi ammessi e dei destinatari ad un decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri.
    Essa   viola   l'autonomia   finanziaria  che  l'art.  119  Cost.
garantisce  alla  Regione,  in  quanto,  in  una  materia  - «ricerca
scientifica  e  tecnologica  e sostegno all'innovazione per i settori
produttivi»  -  che  l'art. 117,  terzo  comma,  Cost.  assegna  alla
potesta' concorrente, vengono disposti interventi diretti che, secndo
la  giurisprudenza  consolidata  di  codesta  Corte  (cfr. sentt. nn.
370/2003;  16/2004;  49/2004), sono ammessi soltanto nelle materie di
competenza «esclusiva» dello Stato.
    Se  anche  si  dovesse  ritenere che questi interventi, dei quali
nessun  contorno e' in realta' definito nella previsione legislativa,
siano  riconducibili  a  quelle forme di intervento economico diretto
alla politica di sviluppo che la sent. n. 14/2004 di codesta Corte ha
ritenuto   di  poter  ricondurre  agli  interventi  a  «tutela  della
concorrenza»,   rientranti  nella  potesta'  esclusiva  dello  Stato,
evidente apparirebbe un diverso profilo di illegittimita': essendo la
fattispecie    legislativa   del   tutto   priva   di   elementi   di
identificazione  degli  interventi  finanziabili,  la disposizione si
sottrae   a   quel   controllo   di   ragionevolezza,   congruita'  e
proporzionalita'  a  cui, come sottolinea la citata sent. n. 14/2004,
gli   interventi   statali,   che   interferiscono   con   molteplici
attribuzioni delle Regioni, non possono sottrarsi.
    L'indeterminatezza   della   legge   si   riflette   percio'   in
inammissibile   pregiudizio  per  la  garanzia  costituzionale  delle
attribuzioni  regionali,  senza neppure che a cio' si cerchi di porre
rimedio  coinvolgendo  le  Regioni  stesse nella individuazione delle
tipologie di intervento.
    La  copertura  finanziaria  di  questi  interventi, che l'art. 3,
comma  101,  individua  in stanziamenti distratti dal Fondo nazionale
per  le  politiche  sociali,  e'  stata  fatta  oggetto  di  apposita
impugnativa (v. sopra, punto +).
    27) Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 204.
    Il   comma   204  dell'art. 4  dispone  che  per  «consentire  lo
svolgimento   dei   propri  compiti  istituzionali,  nonche'  per  il
finanziamento  e  il  potenziamento dei programmi relativi allo sport
sociale, agli enti di promozione sportiva e' destinata la somma di un
milione di euro per l'anno 2004».
    La promozione ed il sostegno dello sport costituiscono materia di
competenza  regionale  sia  dal  trasferimento  compiuto  dal  d.P.R.
n. 616/1977.  Nel  vigente  ordinamento  costituzionale  lo  Stato ha
potesta'  concorrente in materia di ordinamento sportivo ex art. 117,
comma   3,   nei   consueti  limiti  della  normazione  dei  principi
fondamentali che sono propri della potesta' concorrente statale.
    Pertanto  e'  illegittima  la  norma che dispone un finanziamento
diretto,  da  parte  dello  Stato,  a favore degli enti di promozione
sportiva  e  per  il  potenziamento dei programmi relativi allo sport
sociale  (entrambe  materie di sicura competenza residuale regionale)
in quanto, come codesta Corte ha piu' volte affermato (cfr. sent. nn.
370/2003;  16/2004;  49/2004),  gli  interventi finanziari diretti in
materia  di competenza non «esclusiva» dello Stato ledono l'autonomia
finanziaria della Regione.
    Si  tratta  invece  di  risorse  che  vanno  assegnate al sistema
regionale e locale secondo i principi dell'art. 119, Cost.
    In  ogni  caso, costituirebbe ulteriore illegittimita' il difetto
di meccanismi di cooperazione e la mancata previsione dell'intesa con
le Regioni.
    28.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 209 a
211.
    Il comma 209 stanzia, «per gli interventi di cui all'art. 3 della
legge  16  marzo  2001,  n. 88,.... la somma annuale di 10 milioni di
euro  per  ciascuno  degli  anni  2004,  2005  e  2006»,  e, «per gli
interventi di cui all'art. 2 della legge 28 dicembre 1999, n. 522,...
la  somma  annuale di 2 milioni di euro per ciascuno degli anni 2004,
2005  e 2006». L'art. 3 legge n. 88/2001 prevede che il Ministero dei
trasporti  possa  concedere  un  contributo «alle imprese armatoriali
aventi  i  requisiti di cui all'art. 143 del codice della navigazione
che  effettuano  gli  investimenti  di  cui all'art. 1 della presente
legge».  Gli investimenti in questione sono quelli rivolti al rinnovo
e all'ammodernamento della flotta.
    Il  comma  210  adegua,  tenuto  conto  del comma 209, il termine
fissato  nell'art. 1,  comma  3, legge n. 88/2001 mentre il comma 211
dispone  che  con regolamento ministeriale «sono emanate disposizioni
attuative,...  in  particolare  per  determinare  le  condizioni ed i
criteri per la concessione dei contributi».
    Dunque,  siamo  nuovamente  in  presenza di un intervento diretto
statale  in materia di competenza regionale (residuale o, al massimo,
concorrente,  qualora  l'intervento  in questione fosse ricondotto al
«sostegno  all'innovazione per i settori produttivi»). Il legislatore
del  2003  reitera  previsioni  di interventi finanziari contenute in
leggi  precedenti  la  legge  cost.  n. 3/2001  e  che  non sono piu'
compatibili con il nuovo quadro costituzionale.
    Ne'  sembra  possibile  invocare  il  carattere  «macroeconomico»
dell'intervento  statale, dato che si tratta di contributi concessi a
singoli  armatori,  «con  l'obiettivo  di  assicurare lo sviluppo del
trasporto  marittimo,  in  particolare  del  trasporto  di merci e di
quello   a  breve  e  medio  raggio,  e  la  tutela  degli  interessi
occupazionali  del  settore». Dunque, le norme impugnate non hanno lo
scopo  di  accrescere  la «competitivita' complessiva del sistema» ma
quello  di incentivare una modalita' di trasporto rispetto alle altre
e dl sostenere l'occupazione nel settore. Si tratta, pero', di scelte
che, dopo il 2001, dovrebbero essere compiute dalle Regioni, o almeno
sviluppate   dalle   Regioni  sulla  base  di  principi  fondamentali
stabiliti dalla legislazione statale.
    Dunque,  la previsione di un intervento finanziario a sostegno di
privati   in   materia   regionale,  gestito  e  regolato  a  livello
ministeriale,  risulta  in  contrasto con gli articoli 117, 118 e 119
Cost.,  dovendo  lo  Stato  finanziare  «integralmente»  le  funzioni
regionali  e spettando alle Regioni elaborare le proprie politiche di
sostegno e svolgere le relative funzioni.
    Qualora,  poi,  in  denegata  ipotesi,  si ravvisasse un'esigenza
unitaria  a  sostegno  delle norme impugnate, esse sarebbero comunque
illegittime  sia  per  la  mancata  previsione  di  un'intesa  con le
Regioni,  per  lo  svolgimento  della  funzione amministrativa (comma
209),  sia  per  la  previsione di un regolamento ministeriale (comma
211), escluso dall'art. 117, comma 6, Cost.
    Si  noti che perfino se si trattasse - come la ricorrente Regione
non  ritiene  -  di  interventi  a  tutela  della concorrenza e della
competitivita' del sistema, rimarrebbe comunque che essi si collegano
con  ambiti  di  materia  di  competenza  regionale:  dunque  sarebbe
comunque  necessario  un rapporto di leale cooperazione, che dovrebbe
tradursi  in  strumenti  di  concertazione e di intesa, come accadeva
nella fattispecie che ha dato origine alla sentenza n. 14 del 2004.
    29.  -  Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi da 215 a
217.
    Secondo  il  comma  215  dell'art. 4,  «al  fine  di sostenere le
attivita'  dei  distretti  industriali  della  nautica  da diporto e'
istituito  nello  stato  di  previsione del Ministero dell'economia e
delle  finanze  un apposito fondo con dotazione di un milione di euro
per  l'anno  2004, un milione di euro per l'anno 2005 e un milione di
euro  per l'anno 2006». Il comma 216, precisa che «il fondo di cui al
comma   215   e'   destinato   all'assegnazione  di  contributi,  per
l'abbattimento  degli  oneri concessori, a favore delle imprese o dei
consorzi  di imprese operanti nei distretti industriali dedicati alla
nautica  da diporto, che insistono in aree del demanio fluviale o che
ospitano  in  approdo  meno cinquecento posti barca», mentre il comma
217  precisa  che  «con  decreto  del  Ministro dell'economia e delle
finanze,  da  adottare  entro  trenta giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge, sono individuate le aree di cui al comma
216 e sono definite le modalita' di assegnazione dei contributi».
    Nonostante l'intervento finanziario finalizzato al sostegno delle
«attivita'  dei  distretti  industriali della nautica da diporto» sia
presentato  con  un  involucro  che  puo'  far  pensare  ad un'azione
significativa  sul  mercato, tale da potersi giustificare, secondo le
indicazioni  fornite  dalla  sent.  14/2004, secondo «quell'accezione
dinamica»  delle  «tutela  della concorrenza», «che giustifica misure
pubbliche  volte  a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un
sufficiente   sviluppo   del   mercato   o   ad   instaurare  assetti
concorrenziali»,  la  reale  consistenza,  i contenuti e le modalita'
dell'intervento lo collocano in una prospettiva ben diversa.
    Qui,  infatti,  non  si tratta affatto di «unificare in capo allo
Stato  strumenti  di  politica  economica che attengono allo sviluppo
dell'intero   Paese;  strumenti  che,  in  definitiva,  esprimono  un
carattere  unitario  e,  interpretati  gli uni per mezzo degli altri,
risultano  tutti  finalizzati  ad  equilibrare  il  volume di risorse
finanziarie   inserite  nel  circuito  economico»;  ne'  l'intervento
statale  si giustifica «per la sua rilevanza macroeconomica», secondo
le indicazioni della citata sentenza.
    L'esiguita'  dello  stanziamento  disposto  a  carico dei bilanci
2004-2006  (un  milione  di  euro  per  esercizio)  e  la limitazione
dell'intervento ai soli «distretti industriali» dedicati alla nautica
da  diporto  che corrispondano a due requisiti molto selettivi, cioe'
insistere  «in  aree di demanio fluviale» (con l'esclusione dunque di
gran  parte  degli  insediamenti connessi alla nautica da diporto che
insistono  sul  demanio  marittimo),  ed  ospitare  in approdo almeno
cinquecento  posti  barca (e quindi con esclusione degli insediamenti
medio-piccoli),  mostrano  con chiarezza che l'intervento non rientra
affatto   in   quelle   «specifiche   misure  di  rilevante  entita»,
accessibili  «a tutti gli operatori» e di «impatto complessivo», atto
«ad  incidere  sull'equilibrio economico generale», secondo i criteri
enunciati dalla menzionata sentenza di codesta Corte.
    Al  contrario,  i  benefici  diretti  ad  abbattere  gli oneri di
concessione   costituiscono   interventi  mirati,  che  costituiscono
null'altro  che  un  privilegio per pochi operatori economici, la cui
identificazione  e'  riservata  al  Ministro  dell'economia  e  delle
finanze:  dunque,  semmai  una  alterazione  della concorrenza, e non
certo una sua tutela.
    Del   resto  se,  come  e'  stato  autorevolmente  sostenuto,  la
concorrenza  opera «come limite non solo della competenza legislativa
regionale..,  ma  anche della potesta' legislativa statale: nel senso
che il Parlamento dovra' trattare la concorrenza non come un fatto da
regolare  (magari  in modo restrittivo della sua portata), ma come un
valore  o un bene o un fine da promuovere astenendosi dalle politiche
che  indebitamente escludono o limitano la concorrenza» (G. Corso, La
tutela  della  concorrenza  come  limite  della  potesta' legislativa
(delle  regioni  e  dello  Stato),  in Dir. pubbl. 2002, 3, 981 ss.),
allora  la  «tutela  della  concorrenza»  non  solo  non  puo' essere
invocata  per  giustificare  interventi  di settore cosi' specifici e
quasi  «fotografati»,  ma  e'  anzi un parametro rispetto al quale la
disposizione  impugnata  si  dimostra  in  grave difetto. Poiche' gli
interventi   dello  Stato  nello  sviluppo  economico  sono  comunque
sottoposti  a controllo di costituzionalita' diretto a verificare che
i  loro  presupposti  non  siano manifestamente irrazionali e che gli
strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e
proporzionata  rispetto  agli  obiettivi attesi», in questo caso pare
evidente   che  i  benefici  disposti  costituiscono  un'interferenza
illegittima  in  materie  di  competenza  regionale (l'industria e il
turismo),  perche'  manca  la  «congruita' dello strumento utilizzato
rispetto   al   fine di   rendere   attivi   i  fattori  determinanti
dell'equilibrio economico generale.».
    A  cio'  si  aggiunga  che, se davvero l'intervento dello Stato a
favore di quegli indeterminati «distretti industriali» dovesse essere
giudicato  conforme ai canoni di ragionevolezza prescritti da codesta
Corte,   resterebbe  pero'  da  rilevare  che  interventi  finanziari
«speciali»  dello  Stato  in  materie  di  competenza  regionale, sia
residuale  che,  eventualmente,  concorrente,  non  possono  attuarsi
direttamente,  senza  un coinvolgimento «forte» delle Regioni stesse,
come  e' stato piu' volte ribadito dalle recenti decisioni di codesta
Corte  (cfr.  sent.  n. 370/2003,  sent.  n. 16/2004  e  n. 49/2004),
essendo  evidente  l'interferenza di questa specifica azione rispetto
alla  politica  di  sostegno  al  turismo di cui sono responsabili le
Regioni.
    30. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 236.
    Il  comma  236  autorizza  «le  fondazioni  IRCCS e gli IRCCS non
trasformati  in  fondazioni..,  a  procedere  all'alienazione di beni
immobili del proprio patrimonio al fine di ripianare eventuali debiti
pregressi  maturati  fino  al  31  ottobre  2003», stabilendo che «le
modalita'  di  attuazione  sono  autorizzate con decreto del Ministro
della  salute,  di  concerto  con  il  Ministro dell'economia e delle
finanze,  nel  rispetto della normativa generale sull'alienazione dei
beni immobili pubblici».
    Gli  istituti  di ricovero e cura a carattere scientifico operano
in  ambiti  di compenza regionale, soggetta a legisazione concorrente
statale  per  quanto  riguarda  i principi fondamentali. Si tratta di
enti  che rientrano ormai nell'orbita regionale, e che del resto sono
da sempre collegati al sistema sanitario.
    Ogni decisione sull'alienazione del patrimonio spetta dunque alle
Regioni. Il consentirlo o il vietarlo non costituisce certo principio
fondamentale  della materia, trattandosi invece di una pura scelta di
gestione  economica,  suscettibile  di influire sullo svolgimento del
servizio pubblico.
    Ulteriormente illegittima e' la previsione che affida al Ministro
un potere regolamentare in materia.
    Risultano  dunque  violati gli articoli 117, comma 3 e 6, nonche'
118, Cost.