ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 58-quater,
commi 2   e   3,   della   legge   26 luglio   1975,   n. 354  (Norme
sull'ordinamento   penitenziario   e   sull'esecuzione  delle  misure
privative  e  limitative  della  liberta),  promosso dal Tribunale di
sorveglianza  di Torino con ordinanza del 28 maggio 2002, iscritta al
n. 134  del  registro  ordinanze  2003  e  pubblicata  nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 13, 1ª serie speciale, dell'anno 2003.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 21 gennaio 2004 il giudice
relatore Guido Neppi Modona.
    Ritenuto  che  con  ordinanza  del 28 maggio 2002 (pervenuta alla
Corte   costituzionale   il   24 febbraio   2003)   il  Tribunale  di
sorveglianza  di  Torino  ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e
27,   primo   e   terzo   comma,  della  Costituzione,  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 58-quater, commi 2 e 3, della
legge  26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e
sull'esecuzione  delle  misure privative e limitative della liberta),
nella  parte  in  cui  introduce  un generale divieto di ammissione a
determinati  benefici penitenziari per i condannati nei cui confronti
e'  stata  disposta  la  revoca dell'affidamento in prova al servizio
sociale, della detenzione domiciliare e della semiliberta', prima che
siano  decorsi  tre  anni  dal  momento  in  cui  e'  stato emesso il
provvedimento di revoca;
        che il rimettente premette:
        di essere investito della richiesta di detenzione domiciliare
formulata  ai  sensi  dell'art. 47-ter, comma 1-bis, dell'ordinamento
penitenziario  da  un  detenuto  condannato  per  tentata  estorsione
commessa  nel 1997 e nei cui confronti e' stata disposta nel dicembre
del  2001 la revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale per
inosservanza delle prescrizioni imposte;
        che  nel  corso  della  detenzione  in carcere ripristinata a
seguito  della  revoca  il  condannato  «ha  tenuto  un comportamento
irreprensibile,  ha  frequentato  un programma per il controllo della
spinta  verso  sostanze stupefacenti, ha lavorato» e che la richiesta
di  detenzione  domiciliare  e'  giustificata  dalla  necessita'  «di
accudire l'anziana madre con problemi ortopedici e d'udito»;
        che    il    rimettente    rileva    che   -   alla   stregua
dell'interpretazione del comma 2 dell'art. 58-quater dell'ordinamento
penitenziario  seguita  dalla giurisprudenza di legittimita', secondo
cui il divieto triennale di concessione dei benefici va riferito alla
generalita'  dei  condannati  e non solo a quelli che hanno riportato
condanna per uno dei delitti previsti nel comma 1 dell'articolo 4-bis
(categoria  alla  quale  il  comma 1  dell'art. 58-quater  limita  la
previsione  del  divieto  di  concessione  di  benefici  in  caso  di
evasione)   -   la   domanda   del  condannato,  sebbene  nel  merito
probabilmente  «fondata»,  dovrebbe  essere  dichiarata inammissibile
essendo trascorsi solo sei mesi dalla revoca della precedente misura;
        che la Corte costituzionale, nel valutare sotto altri profili
la  legittimita' della norma censurata, avrebbe «dato per scontata la
generale applicabilita' dell'art. 58-quater [comma 2] ad ogni caso di
revoca  relativo  a qualunque esecuzione» (sentenze n. 436 del 1999 e
n. 181 del 1996);
        che  ad  avviso  del  giudice  a  quo  la  norma impugnata si
porrebbe in contrasto con il principio di proporzionalita' della pena
(artt. 3  e  27,  terzo  comma,  Cost.)  e  con  il  principio  della
personalita' della pena (art. 27, primo comma, Cost.);
        che  sotto  il  primo profilo il rimettente sottolinea che il
principio   di  proporzionalita'  della  pena  discende  direttamente
dall'art. 3  Cost.,  «poiche' a parita' di disvalore della condotta e
di gravita' della colpevolezza deve corrispondere un pari trattamento
penale»,  ma  si ricava anche dall'art. 27, terzo comma, Cost., posto
che   «una   pena  rigida,  non  proporzionale,  non  costituisce  un
trattamento  rieducativo  sia nei casi in cui risulti (per difetto di
proporzionalita) troppo lieve, sia nel caso risulti troppo gravosa»;
        che  tale principio e' stato piu' volte affermato dalla Corte
costituzionale  e  ritenuto operante anche riguardo alle modalita' di
esecuzione  della pena e che, in particolare, e' stato ribadito nella
sentenza   n. 343   del  1987,  con  la  quale  e'  stata  dichiarata
l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 47, decimo comma (trasfuso
nel  comma 11  per  effetto  della  legge  10 ottobre  1986, n. 663),
dell'ordinamento  penitenziario,  nella parte in cui non consente che
in  caso di revoca del provvedimento di ammissione all'affidamento in
prova  il  tribunale  di  sorveglianza  determini  la pena residua da
espiare,  tenendo conto della natura e della durata delle limitazioni
patite  dal  condannato  e  del  suo comportamento durante il periodo
trascorso in affidamento;
        che,  ad  avviso  del rimettente, la preclusione triennale di
accesso  ai  benefici in caso di revoca si pone in netta antitesi con
il  principio  di  proporzionalita',  secondo cui la pena deve essere
«adeguata»  e  percio'  anche «ragionevolmente flessibile», cosi' «da
potersi  adattare  alle  differenti  situazioni concrete senza creare
disparita'  di  trattamento  abnormi»,  a  causa  degli  «elementi di
irrazionalita', automaticita', casualita' ed "imprevedibilita' quanto
ad  effetti"»  che la connotano e che danno luogo a «ingiustificate e
gravi discriminazioni»;
        che  la  norma  censurata,  infatti,  da un lato introduce un
eguale  trattamento per situazioni del tutto differenti, in quanto «a
condotte  diverse  (generatrici  della revoca) segue una reazione che
sul piano della preclusione di ordine processuale a nuove concessioni
[...] e' del tutto identica», dall'altro detta una disciplina diversa
per  situazioni  identiche,  sol  che si consideri che la preclusione
incide  in  misura  differente  a  seconda della pena originariamente
inflitta   ai   condannati   anche  se  le  condotte  contrarie  alle
prescrizioni sono le medesime;
        che  il rimettente rileva inoltre che la revoca non sempre e'
imputabile   soltanto  al  condannato,  potendosi  configurare  anche
ipotesi  di  «grave  provocazione  di  terzo»,  «legittima  difesa» o
«concorso  con altri nella violazione con un ruolo marginale», con la
conseguenza   che  risulterebbe  violato  anche  il  principio  della
personalita' della pena;
        che,  quanto  alle  soluzioni  idonee a superare i denunciati
vizi  di  legittimita'  costituzionale, il rimettente vorrebbe vedere
attribuito  al  giudice  il  potere di valutare in concreto, caso per
caso,  la  sussistenza  e  la  durata  degli effetti preclusivi della
revoca;
        che  nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio
dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata;
        che,   in   particolare,  l'Avvocatura  evidenzia  che,  come
affermato  dalla  Corte  costituzionale,  il terzo comma dell'art. 27
Cost.  va  visto  nel  quadro di una «concezione polifunzionale della
pena»,  per  cui accanto alla finalita' rieducativa, che si pone come
finalita'  ultima  ma non unica della pena stessa, vengono perseguite
altre  finalita',  «quali  la  dissuasione, la prevenzione, la difesa
sociale».
    Considerato che il rimettente dubita, in riferimento agli artt. 3
e  27,  primo  e  terzo comma, della Costituzione, della legittimita'
costituzionale   dell'art. 58-quater,   commi 2   e  3,  della  legge
26 luglio   1975,  n. 354  (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e
sull'esecuzione  delle  misure privative e limitative della liberta),
nella  parte  in  cui  introduce  un generale divieto di ammissione a
determinati  benefici penitenziari per i condannati nei cui confronti
e'  stata  disposta  la  revoca dell'affidamento in prova al servizio
sociale, della detenzione domiciliare e della semiliberta', prima che
siano  decorsi  tre  anni  dal  momento  in  cui  e'  stato emesso il
provvedimento di revoca;
        che  ad avviso del rimettente la disciplina censurata si pone
in  contrasto con i principi di proporzionalita' e personalita' della
pena,  perche' la preclusione triennale alla concessione dei benefici
e'   conseguenza   automatica   della  revoca  di  una  delle  misure
alternative  prese in considerazione, quale che sia la gravita' delle
violazioni  che hanno dato origine alla revoca stessa, e in quanto la
revoca  della misura alternativa non sempre e' imputabile soltanto al
condannato;
        che,  nell'esporre  le ragioni a sostegno del contrasto della
disciplina censurata con il principio di proporzionalita' della pena,
il  giudice  a  quo  richiama  la sentenza di questa Corte n. 343 del
1987, che, movendo dal presupposto che i principi di proporzionalita'
e  di  individualizzazione  della pena operano non solo nella fase di
cognizione,   ma   anche   in   quella   esecutiva,   ha   dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 47, decimo comma (trasfuso
nel  comma 11  per  effetto  della  legge  10 ottobre  1986, n. 663),
dell'ordinamento  penitenziario nella parte in cui, in caso di revoca
del   provvedimento   di  ammissione  all'affidamento  in  prova  per
comportamento  incompatibile  con  la  prosecuzione  della prova, non
consente  al tribunale di sorveglianza di determinare la residua pena
detentiva  da  espiare,  tenuto  conto  delle  limitazioni patite dal
condannato e del suo comportamento durante l'affidamento in prova;
        che  il  richiamo  alla  sentenza  n. 343 del 1987 non appare
pertinente,  posto  che  con  tale decisione la Corte ha affermato la
diversa   esigenza  di  determinare  la  durata  della  residua  pena
detentiva  in  caso di revoca dell'affidamento in prova, in quanto la
disciplina  allora  sottoposta  a  scrutinio di costituzionalita' non
consentiva  di  tenere  in  alcun conto la restrizione della liberta'
personale  sofferta  durante il periodo trascorso in affidamento, si'
che  ne  derivava,  in  caso  di  revoca  della  misura  alternativa,
«l'irrogazione  di  un  supplemento di pena conseguente all'integrale
ripristino di quella originaria»;
        che,  nel  censurare  la  rigidita'  della durata del divieto
scaturente  dalla  revoca, il giudice a quo omette di considerare che
la preclusione triennale in esame consegue ad una revoca delle misure
alternative  che  non  e'  «automatica»,  bensi'  basata  su  di  una
valutazione  in  concreto  e caso per caso delle situazioni in cui il
comportamento   del   condannato,   contrario   alla   legge  o  alle
prescrizioni,    risulti    incompatibile    con    la   prosecuzione
dell'affidamento   in   prova  (art. 47,  comma 11,  dell'ordinamento
penitenziario)  o della detenzione domiciliare (art. 47-ter, comma 6,
dell'ordinamento  penitenziario),  ovvero  delle situazioni in cui il
soggetto   non  si  palesi  idoneo  al  trattamento  in  semiliberta'
(art. 51, comma 1, dell'ordinamento penitenziario);
        che  il  giudice  a quo pone quindi erroneamente sullo stesso
piano  i  profili  relativi ai presupposti per la revoca della misura
alternativa  e quelli concernenti gli effetti di tale revoca, come e'
dimostrato   anche   dalla  censura  concernente  la  violazione  del
principio  della  personalita'  della  pena:  l'eventuale concorso di
terzi  nel  fatto  che ha dato luogo alla revoca della misura attiene
infatti   esclusivamente   alla  valutazione  del  comportamento  del
condannato  che deve compiere il tribunale di sorveglianza chiamato a
decidere   in   relazione   alla   revoca  della  misura  alternativa
precedentemente concessa;
        che    la   questione   deve   pertanto   essere   dichiarata
manifestamente infondata.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.