IL TRIBUNALE

    Ha emesso la seguente ordinanza ex artt. 134 Cost. e 23 ss. legge
11 marzo 1953, n. 87.
    L'imputato  De Cesare Giuseppe, nato a Castellammare di Stabia il
2 febbraio 1974, e' stato rinviato a giudizio n. 393/2003 per i reati
previsti  dagli  artt. 628  cod.  pen.,  582-585,  comma  1  c.p.  in
relazione  all'art. 576 c.p. analiticamente descritti nel decreto che
dispone il giudizio, con la recidiva reiterata infraquiquennale.
    Dopo   aver  richiesto  la  sospensione  del  processo  ai  sensi
dell'art. 5 della legge n. 143/2003 egli, detenuto per questa causa e
presente  in  udienza  ha  chiesto, a mezzo del proprio difensore, di
accedere  per  tutti  i reati contestati, unificati dal vincolo della
continuazione,   al   rito   alternativo   del   cd.  «patteggiamento
allargato»,  proponendo  l'applicazione di una pena complessiva, come
ridotta  per  il  rito,  di anni due e mesi sei di reclusione ed euro
milleseicento  di  multa.  Il  pubblico  ministero  ha manifestato il
proprio consenso.
    L'imputato,   tuttavia,   come   si   evince   dal  tenore  della
contestazione  e  del casellario giudiziale e' gravato dalla recidiva
reiterata;  quindi,  non  puo' formulare richieste di applicazione su
richiesta   di   una  pena  finale  detentiva,  congiunta  alla  pena
pecuniaria,  superiore  ai  due  anni  di  reclusione. Il comma 1-bis
dell'art. 444   c.p.p.,  come  modificato  dalla  legge  n. 134/2003,
dispone,  infatti  che  «Sono esclusi dall'applicazione del comma 1 i
procedimenti  per  i  delitti  di  cui  all'art. 51,  commi  3-bis  e
3-quater,  nonche'  quelli  contro  coloro che siano stati dichiarati
delinquenti  abituali,  professionali  e  per tendenza, o recidivi ai
sensi  dell'art. 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena
superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria».
    Il  Tribunale  ritiene  che  non  sia manifestamente infondata la
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 444, comma 1-bis
c.p.p.  nella parte in cui esclude l'applicazione integrale del comma
1  dell'art. 444 c.p.p. ai procedimenti nei confronti dei recidivi ai
sensi  dell'art. 99, quarto comma codice penale, limitandola, invece,
alle richieste di pena contenute nei due anni di pena detentiva (sola
o  congiunta  a  pena  pecuniaria),  per contrasto con l'art. 3 della
Costituzione,  laddove  sancisce  il  principio  di  uguaglianza  dei
cittadini davanti alla legge, e per contrasto con l'art. 111, comma 2
ultimo  inciso  della Cost. laddove dispone che «la legge assicura la
ragionevole  durata  del  processo»,  incostituzionalita' dovuta alla
inosservanza  del  principio  di  ragionevolezza nell'esercizio della
funzione   legislativa  costantemente  sancito  dalla  giurisprudenza
costituzionale.
    Appare   evidente  la  rilevanza  della  questione  nel  presente
giudizio  posto che l'indicata esclusione soggettiva porta a ritenere
inammissibile   la   richiesta.  Considerato,  infatti,  l'inequivoca
esclusione  del  recidivo  ai  sensi  delll'art. 99,  comma 4, c.p.p.
disposta   dell'art. 444,   comma   1-bis,  c.p.p.  dall'applicazione
concordata con il pubblico ministero della pena superiore ai due anni
di  reclusione,  non  appare  in  alcun modo possibile effettuare una
diversa  interpretazione  delle  norme  che  consente di delineare un
quadro  normativo dell'istituto del patteggiamento allargato coerente
con i menzionati principi costituzionali.
    Il   procedimento   speciale   dell'applicazione  della  pena  su
richiesta  ha  piu' volte superato il vaglio di costituzionalita' con
diverse pronunce della Corte costituzionale (vedi sentenza n. 266 del
1992).  L'ambito  applicativo dell'istituto ha trovato in passato una
linea   di   demarcazione  esclusivamente  nella  quantita'  di  pena
irrogabile  in concreto, prescindendo totalmente sia dalla natura del
reato  (non essendo prevista alcuna esclusione in base al suo titolo)
sia  dalle  caratteristiche  soggettive  del  proponente, con la sola
eccezione dell'imputato minorenne.
    In  questa sede interessa principalmente la compatibilita' con le
norme  costituzionali della preclusione soggettiva di chi sia gravato
da  recidiva  reiterata  (art. 99,  comma  4, c.p.p.) nell'accesso al
patteggiamento allargato.
    Non  vi  e'  dubbio  che  spetti al legislatore regolare l'ambito
applicativo   dei   riti   alternativi   potendo   effettuare  scelte
legislative finalizzate ad ampliare o restringere lo spazio operativo
riservato  agli  stessi. Non e' stato mai seriamente messo in dubbio,
infatti,    che   fosse   legittima   l'originaria   esclusione   del
patteggiamento  per  i delitti puniti con pena detentiva superiore ai
due   anni,  dando  prevalenza  all'interesse  statale  ad  un  pieno
accertamento dei fatti-reato piu' gravi ed all'integrale applicazione
del  trattamento  sanzionatorio  applicabile  rispetto  all'interesse
pubblico  ad  una  deflazione  dei  procedimenti  penali  mediante la
rinuncia all'istruttoria dibattimentale ed al giudizio di appello.
    Altrettanto  indubbia  e', pero', la necessita' che le esclusioni
ed i divieti siano ispirati alla salvaguardia di interessi meritevoli
di   tutela   effettivamente   pregiudicati   dal  ricorso  a  questo
procedimento  a  carattere para-negoziale. Solo in quest'ultimo caso,
infatti, possono trovare giustificazione esclusioni e divieti che, da
un  lato  precludono  l'accesso  al  rito  da  parte  di  determinate
categorie  di soggetti in ragioni di qualita' giuridiche soggettive o
della qualita' della contestazione loro mossa, dall'altro impediscono
la possibilita' di definizione anticipata di procedimenti per i quali
si rivela superflua l'istruttoria dibattimentale.
    L'esame  della compatibilita' dell'esclusione soggettiva prevista
dall'attuale  art. 444, comma 2, c.p.p. con l'art. 3 e con l'art. 111
della  costituzione consiste, ad avviso del Tribunale, nel verificare
se gli elementi strutturali e gli effetti peculiari della sentenza di
patteggiamento   in   una  qualche  misura  possano  giustificare  un
trattamento   diverso  del  recidivo  che  commette  un  altro  reato
(art. 99,  comma 4, c.p.) rispetto all'imputato incensurato o gravato
da  una  recidiva,  semplice,  specifica  o infraquinquennale, ma non
reiterate. Non e' in discussione, ovviamente, quanto alla prospettata
violazione  dell'art. 3  Cost. il fatto che il rispetto del principio
di   uguaglianza   sancito  dall'art. 3  delle  Costituzione  imponga
identita'  di trattamento di situazioni uguali e consenta - o imponga
-  diversita'  di trattamento di situazioni disuguali. Cio' che e' in
verifica  e'  l'individuazione  di  un  razionale collegamento tra la
condizione  soggettiva  escludente  e  l'istituto  del patteggiamento
allargato introdotto dalla legge n. 134/2003, ovvero la ricerca della
ratio  legis  dell'esclusione  e  la valutazione della congruita' tra
mezzi e scopo.
    Nel   vagliare  le  possibili  ragioni  sottostanti  alla  scelta
legislativa  impugnata va innanzitutto osservato che l'esclusione del
recidivo   reiterato   dal   patteggiamento   allargato   non  appare
giustificata da un interesse dello Stato all'irrogazione integrale di
una  pena  congrua  secondo i parametri dettati dall'art. 133 c.p. ed
idonea  alla  rieducazione  del  condannato  (art. 27,  comma  terzo,
Cost.), da realizzarsi evitando che gli incentivi all'accesso ai riti
alternativi consistenti in riduzioni di pena, rispondenti ad esigenze
di  speditezza  e  semplificazione  del  procedimento penale, possano
pregiudicare  la funzione generalpreventiva e specialpreventiva della
pena.  Non  solo,  infatti,  chi  si  trova nelle condizioni previste
dall'art. 99,  comma 4 c.p. puo' accedere al patteggiamento ordinario
ed essere destinatario di altri riti alternativi con effetti premiali
(es.  decreto  penale  di  condanna)  relativamente a reati di minore
gravita',  ma  soprattutto puo' chiedere unilateralmente l'accesso al
rito  abbreviato  ottenendo  la  riduzione  di  un  terzo della pena,
qualsiasi  sia  la  pena  irrogabile,  conseguendo  per  altra via il
beneficio premiale delle riduzione frazionaria della pena.
    Il    legislatore,    in    sostanza,    ha    gia'    rinunciato
all'indefettibilita'   dell'applicazione  integrale  del  trattamento
sanzionatorio  introducendo in via generalizzata, per qualsiasi reato
e  qualsiasi  categoria  soggettiva  di  imputati,  un  rito  a scopo
deflattivo  (il  giudizio  abbreviato) che, tra l'altro, risulta meno
snello  rispetto al patteggiamento in quanto comporta la possibilita'
di integrazioni probatorie, consente, salvo eccezioni, l'impugnazione
per  motivi  di  merito  e  richiede  un corposo impegno valutativo e
motivazionale da parte dell'organo decidente.
    La ragione delle restrizioni della portata del patteggiamento non
puo'  neppure  essere  ricercata  altrove,  ovvero  nella volonta' di
precludere  l'accesso  dell'imputato gravato da recidiva reiterata ai
vantaggi  del  patteggiamento  ordinario  quali  la  mancanza  di  un
accertamento esplicito delle responsabilita' penale dell'imputato, la
mancata irrogazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza
- con l'eccezione della confisca -, la mancata valenza della sentenza
pronunciata  ai  sensi  dell'art. 444  c.p.p.  nei  giudizi  civili o
amministrativi,  nel  mancato  recupero  delle spese processuali, nel
sacrificio  degli  interessi  della parte civile all'accertamento del
danno  ed  al  suo  ristoro  senza  ricorrere ad un separato giudizio
civile.
    Non   vanno   assolutamente   trascurate,  infatti,  le  radicali
diversita'  tra  l'istituto  del patteggiamento tradizionale e quello
del  patteggiamento  allargato.  Mentre il primo prevede dei benefici
ulteriori rispetto al rito abbreviato - accessibile anche ai soggetti
di  cui  all'art. 99, comma 4 c.p. -, come l'estinzione del reato per
la mancata commissione di un nuovo delitto nel termine di cinque anni
o  di  una  contravvenzione  della medesima indole nel termine di due
anni  (art. 445,  comma 2, c.p.p.), la mancata irrogazione delle pene
accessorie   e  delle  misure  di  sicurezza  con  l'eccezione  della
confisca,   la   non   condannabilita'   al   pagamento  delle  spese
processuali,  il  secondo,  invece  non comporta analoghe restrizioni
effettuali:  la  sentenza di patteggiamento ad una pena detentiva (da
sola  o  congiunta  a  pena pecuniaria ragguagliata) superiore ai due
anni  applica  anche  le  pene  accessorie eventualmente previste, le
misure  di  sicurezza, nonche' condanna l'imputato al pagamento delle
spese  processuali;  soprattutto, non comporta l'estinzione del reato
condizionata   alla   mancata   recidiva   futura   (art. 445  c.p.p.
nell'attuale formulazione).
    Paradossalmente,  sembrerebbe piu' razionale una differenziazione
tra  imputati  incensurati ed imputati recidivi di segno opposto, che
comporti  una  esclusione  di  questi  ultimi, non dal patteggiamento
allargato,  ma  dai  vantaggi specifici di quello ordinario: l'uno si
traduce  in  una  mera  riduzione della pena, mentre l'altro consente
anche al recidivo di evitare le conseguenze derivanti da una sentenza
di  condanna  descritte  dall'art. 445 c.p.p., inclusa l'applicazione
delle  misure di sicurezza (cosa particolarmente discutibile nel caso
del  delinquente  abituale, professionale o per tendenza, per i quali
l'art. 216  c.p.  prevede in via generale l'applicazione della misura
di  sicurezza).  In questo senso potrebbe apparire ragionevole, e non
contrastante  con l'art. 3 Cost., una normativa che consente sia agli
imputati incensurati, o recidivi semplici, sia agli imputati recidivi
reiterati,  o  dichiarati  delinquenti  abituali, professionali o per
tendenza,  di  concordare con il pubblico ministero l'applicazione di
una  pena per reati puniti in concreto fino e cinque anni, limitando,
pero',  la  disapplicazione  delle  pene accessorie e delle misure di
sicurezze  (relativamente ai reati meno gravi) solo per i primi e non
anche per i secondi.
    Del tutto irrilevante, inoltre, per giustificare l'esclusione del
recidivo dal patteggiamento allargato, e' il pregiudizio subito dalla
parte civile, escluse dal processo penale ed obbligata ad attivare un
separato  giudizio civile, posto che per la stessa nessuna differenza
in  termini  di  effetti  processuali  ha l'avere come controparte un
incensurato o un recidivo, avendo la stessa nel procedimento a carico
dell'uno  o  dell'altro  i  medesimi  poteri  processuali e le stesse
identiche aspettative di risarcimento.
    Quanto  al  carattere  negoziale del rito del patteggiamento, nel
quale  le  parti rinunciano a verificare in dibattimento il materiale
probatorio   raccolto,   propongono   al   giudice   un  giudizio  di
comparazione  tra  circostanze  attenuanti  e circostanze aggravanti,
propongono di applicare una pena concordata e concordano la quantita'
di  riduzione  della pena applicabile per la rinuncia al dibattimento
ed  al  giudizio  di appello, non si vede come le precedenti condanne
possano   giustificare  l'inibizione  al  recidivo  (ed  al  pubblico
ministero) di tale potere pare-contrattuale, posto che in nessun modo
esse  incidono  sulla  capacita'  giuridica e naturale delle parti di
effettuare   scelte  inerenti  la  determinazione  della  pena  o  di
rinunciare ad un accertamento completo dei fatti.
    Anche sotto il profilo dell'opportunita' di attribuire alle parti
poteri  (limitatamente)  dispositivi del processo, appare ragionevole
restringere  la  possibilita' di negoziazioni preventive della pena e
di rinuncia ad un accertamento pieno delle risultanze istruttorie per
ragioni  inerenti  la  quantita'  di  pena  irrogata  (ben potendo il
legislatore  non  voler incrementare i poteri dispositivi delle parti
con  contestuale riduzione dei poteri di controllo del giudice) o, in
misura   minore,  per  la  tipologia  del  reato  (es.  un  reato  ad
accertamento  presuntivamente  complesso potrebbe rendere inopportuno
un  controllo  del  giudice  limitato  all'accertamento  negativo  ex
art. 129 c.p.p., sebbene il titolo del reato, in se' considerato, non
preclude  mai  il  patteggiamento  ordinario),  mentre non si ravvisa
alcuna  ragione  per  sottrarre  alle  parti  la  possibilita' di una
negoziazione   della  pena  in  relazione  alla  qualita'  soggettiva
dell'imputato.
    Quanto   all'imputato  minorenne,  unico  esempio  di  esclusione
soggettiva   dal   patteggiamento   (ma  non  dal  rito  abbreviato),
disciplinata  dall'art. 25  del  d.P.R.  n. 448  del  1988,  e' stata
ritenuta   dalla   Corte  costituzionale  non  irragionevole  per  la
specificita' del processo penale minorile ove il giudice e' dotato di
amplissimi  poteri, essendo previste numerose misure che, in adesione
alle  finalita'  di  recupero della personalita' del minore ancora in
evoluzione,  possono  condurre  il processo verso epiloghi diversi da
quelli propri del giudizio ordinario (perdono giudiziale, sospensione
del  processo  e  messa alla prova, sentenza di non luogo a procedere
per  irrilevanze  del fatto, esteso ambito applicativo delle sanzioni
sostitutive).   Il   patteggiamento,   precludendo  l'uso  di  questi
strumenti,  finirebbe  con  il  frustrare  le  finalita'  proprie del
processo   minorile  e  si  porrebbe  in  contrasto  con  i  principi
fondamentali  del  processo minorile (sent. Corte cost. n. 135/1995).
Appare  quasi  superfluo  aggiungere che tali esigenze peculiari sono
del  tutto  assenti  nel  processo  a carico del recidivo, ne' appare
possibile  individuarne  altre ritenute meritevoli di tutela da parte
dell'ordinamento,  posto  che  non  vi  e'  nessuna norma processuale
specifica per tale categoria di soggetti.
    Resta,  in  conclusione,  quale  unica  possibile giustificazione
della  disuguaglianze  di  trattamento  l'interesse dello Stato ad un
riconoscimento  esplicito della responsabilita' penale dell'imputato.
Non   va  tuttavia  sovrapposta  tale  esigenza  con  quello  di  uno
svolgimento  pubblico  del processo penale. A quest'ultimo argomento,
svolto  dal  Tribunale  di Roma in composizione collegiale, V Sezione
penale  (ordinanza  del 1° luglio 2003) inter alia per prospettare la
possibile  incostituzionalita'  del  patteggiamento allargato, appare
agevole replicare che anche il rito abbreviato prevede lo svolgimento
del  rito  secondo  le  forme  della camera di consiglio, sebbene non
siano previsti limiti di pena o analoghe preclusioni soggettive.
    L'interesse  ad  un  accertamento  esplicito  del fatto e del suo
collegamento  con  l'imputato,  tuttavia,  a fronte della sostanziale
equiparazione   di   tutti  gli  effetti  penali  della  sentenza  di
patteggiamento   allargato   ad   una   sentenza   di  condanna  (con
l'esclusione   indicata   della   valenza   nei   giudizi   civili  o
amministrativi),  finisce  con  l'assumere una connotazione di ordine
squisitamente  morale con valenza sociale, storica, o politica. Anche
tale interesse, quindi, puo' trovare una giustificazione, al massimo,
oltre  che  per  i  reati  di maggiore gravita' (stabilita secondo il
decisivo  criterio  della  pena  irrogabile in concreto), al piu' per
reati che, sebbene equiparati quoad poenam ad altri che consentono di
addivenire  al patteggiamento allargato, per loro natura, riguardando
fatti  di  particolare  allarme  sociale  (criminalita'  organizzata,
terrorismo  ecc.),  rendono  opportuno dal punto di vista politico il
loro  compiuto accertamento mediante un provvedimento giurisdizionale
analitico,   laddove   per   il   procedimento  che  ha  quale  unica
peculiarita'   la   qualita'   soggettiva   di   recidivo   ai  sensi
dell'art. 90, comma 4, c.p. tale interesse sembra insussistente.
    In conclusione, quindi, il legislatore potrebbe discrezionalmente
delimitare   l'ambito  applicativo  dell'istituto,  differenziando  i
poteri  di  scelta  degli  imputati in ragione della gravita' o della
tipologia  del  reato compiuto, ma non in ragione delle loro qualita'
soggettive   che   non   sembrano   in  se'  idonee  ad  imporre  una
indefettibile affermazione positiva della responsabilita'.
    Di  carattere  assolutamente  marginale  appare,  infine,  la non
inserzione della sentenza di patteggiamento allargato nei certificati
del  casellario  giudiziale  ad  uso privato e, come tale, inidonea a
giustificare  una preclusione integrale al rito (artt. 686-689, comma
2, lett. a), n. 5 c.p.p., materia attualmente regolata dagli artt. 24
e  25 del t.u. in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle
sanzioni  amministrative  dipendenti  da reato e dei relativi carichi
pendenti  introdotto  con d.P.R. n. 313/2002). Peraltro, anche la non
iscrizione  in  tale  certificato  appare  discutibile, almeno per la
sentenza  di applicazione di una pena detentiva superiore ai due anni
con  contestuale  applicazione  di  pene  accessorie  o  di misure di
sicurezza,  le  quali  dovrebbero  essere  inserite  nel  certificato
rilasciato   all'interessato  ex  art. 686,  comma  1,  n. 3  e  n. 2
(attualmente  art. 3  del  t.u.).  Anche  a voler ritenere (a) che lo
Stato  abbia  interesse ad evitare che una sentenza di patteggiamento
allargato pronunciata nei confronti di un imputato recidivo non venga
annotata  nel certificato penale su richiesta dell'interessato, (b) e
che  il  diritto  vigente  escluda  la  menzione di tale sentenza nel
certificato  penale,  mezzo  certamente piu' idoneo allo scopo appare
l'eliminazione della sentenza di patteggiamento allargato dall'elenco
delle  eccezioni  poste  alla  regola  della generale annotazione nel
certificato  di  tutte  le  iscrizioni  previste dall'art. 686 c.p.p.
(attuale  art.  3  del t.u.). Peraltro, in virtu' dell'indiscriminato
richiamo  operato  dall'art. 689,  comma  2,  lett. a),  n. 5) c.p.p.
(attuale   art. 25   t.u.)  la  non  annotazione  della  sentenza  di
patteggiamento  allargato  nel  certificato  ad  uso  privato  appare
discutibile,  posto  che  per  accedere alla soluzione interpretativa
opposta   risulta  sufficiente  attribuire  a  tale  disposizione  la
funzione  di  rinvio fisso all'art. 445 c.p.p. nella sua formulazione
anteriore  alle  modifiche  apportate  dalla legge n. 134/2003, e non
quella  di  rinvio  mobile al duplice rito attualmente regolato dagli
artt. 444 e ss.
    Le  argomentazioni  svolte  da  altra  Autorita'  giudiziaria per
affermare  la  manifesta  infondatezza dell'eccezione di legittimita'
costituzionale  sollevata  dalla  difesa  di  contrarieta' all'art. 3
della  Costituzione  dell'esclusione dal patteggiamento allargato dei
procedimenti  relativi  ai  reati  di  cui  all'art. 51,  comma 3-bis
c.p.p., non solo non appaiono estensibili al caso in esame, in quanto
poste a giustificazione dell'esclusione oggettiva per titolo di reato
e  non di quella soggettiva per la qualita' di recidivo reiterato, ma
afferiscono  tutte  a questioni inerenti il trattamento sanzionatorio
comminato  in  fase  cognitiva  o  applicato durante l'esecuzione (il
giudice  dell'udienza  preliminare  presso  il  Tribunale di Bologna,
Ufficio  - ordinanze del 10 luglio 2003 - fa riferimento a «benefici,
sanzioni  sostitutive,  misure  alternative alla detenzione, regole e
divieti   sulla   coercizione  personale»),  laddove  l'istituto  del
patteggiamento allargato non inerisce le sanzioni sostitutive, non le
misure   alternative,   non  riguarda  l'applicazione  di  misure  di
coercizione personale, ne', soprattutto, costituisce in senso proprio
un   beneficio   (come   la   sospensione  condizionale,  l'amnistia,
l'indulto,  il  perdono  giudiziale,  ecc., l'estinzione del reato in
caso  di  mancata  recidiva  successiva  prevista  dal patteggiamento
ordinario), ma un rito premiale.
    La  differenza  non  assume carattere puramente linguistico se si
considera  da  un  lato che, come in precedenza indicato, il medesimo
effetto  premiale della riduzione della pena e' raggiungibile aliunde
mediante  la richiesta (unilaterale) di rito abbreviato, senza alcuna
esclusione soggettiva, dall'altro che il patteggiamento (ordinario ed
allargato),  come  il decreto penale di condanna, costituisce un rito
azionabile anche dal pubblico ministero nell'interesse dello Stato ad
una  definizione accelerata dal procedimento penale mediante rinuncia
ad  una  frazione  di  potesta' punitiva ed all'efficacia extrapenale
(salvo  il  giudizio  di responsabilita' disciplinare) della sentenza
definitoria del giudizio penale.
    E'  proprio  sotto  quest'ultimo  profilo  che  si  palesa la non
manifesta   infondatezza   dell'illegittimita'  costituzionale  delle
esclusioni  soggettive del patteggiamento allargato per contrasto con
l'art. 111, comma secondo, ultimo inciso, della Costituzione, laddove
esse precludono la definizione rapida di numerosi procedimenti penali
senza  ricorso  alle  fasi  del  rinvio a giudizio e dell'istruttoria
dibattimentale  ed all'eventuale, ma ricorrente, giudizio di appello,
con   ricadute   di  sistema  anche  sui  tempi  di  svolgimento  dei
procedimenti  penali  per  i  quali  si palesa necessario o opportuno
l'espletamento   dell'istruttoria   dibattimentale.  Appare  corretto
ritenere,   infatti,   che   il  precetto  dell'«assicurazione  della
ragionevole  durata  del processo» non si limiti a fondare un diritto
costituzionale  del  singolo cittadino parte privata del procedimento
civile,  penale,  amministrativo,  contabile, tributario esercitatile
contro   l'introduzione  di  norme  processuali  che  comportino  una
ingiustificata  dilatazione  dello  specifico  procedimento di cui e'
egli  e'  parte, ma anche il divieto di introdurre altre disposizioni
ordinamentali,  prive di adeguata giustificazione o non supportate da
un'adeguata  predisposizione  di  mezzi,  che  abbiano  una  ricaduta
indiretta  sui  tempi  del  processo.  L'ampia  formula adoperata dal
legislatore costituzionale, sembra, per altro, introdurre un precetto
che,  in  quanto diretto ad orientare l'attivita' normativa ordinaria
avente ad oggetto il processo in tutte le sue manifestazioni (inclusa
la predisposizione di mezzi adeguati al suo svolgimento) e' destinato
a  rendere  effettiva  la  realizzazione di altri diritti ed obblighi
costituzionali  (diritto  alla tutela giurisdizionale, diritto-dovere
della  rieducazione  del condannato, tutela dei diritti fondamentali,
obbligatorieta'  dell'azione penale), che possono essere pregiudicati
dalla lentezza del processo.
    Sotto  quest'ultimo  punto di vista, quindi, le limitazioni prive
di  adeguate  giustificazioni  o  intrinsecamente  irrazionali  della
possibilita'  delle  parti  di  contribuire  attraverso  un'attivita'
deflattiva  alla  riduzione della durata complessiva dei procedimenti
penali   appaiono   in   contrasto  con  il  principio  della  durata
ragionevole   dei   processi,   soprattutto   se  si  considerano  le
peculiarita'    del    processo   penale,   caratterizzato   da   una
interdipendenza  funzionale  ed  effettuale  tra  riti  alternativi e
dibattimento  ordinario,  che vede il successo nella vita giudiziaria
dei primi incidere sulla ragionevole durata del secondo e la brevita'
o  i ritardi del dibattimento incentivare o disincentivare il ricorso
ai procedimenti alternativi.
    Appare  in conclusione quanto meno dubbia la compatibilita' delle
esclusioni  soggettive  per  chi  e'  gravato  da recidiva reiterate,
oppure  dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza
dalle  richieste  di applicazione della pena superiore a due anni sia
per  la  violazione  del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3
della  Costituzione,  senza  una effettiva ragione a fondamento della
disparita'   di   trattamento   tra   imputati   del  medesimo  reato
nell'accesso  al  rito sia per la violazione dell'ulteriore principio
della  durata  ragionevole  del processo sancito dall'art. 111, comma
secondo, della Costituzione.
    Ai   sensi   dell'art. 159   c.p.  vanno  sospesi  i  termini  di
prescrizione dei reati contestati all'imputato.