IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza. In data 7 giugno e' stato notificato a Jin Dong Bin, cittadino cinese, attuale ricorrente, decreto della Prefettura di Prato con il quale si nega la regolarizzazione del rapporto di lavoro denunciato ai fini della legge n. 222/2002 da Chen Yongfen. Il diniego e' motivato dalla circostanza che egli «risulta denunciato per un reato previsto dall'art. 381 c.p.p», ovvero per il reato di cui all'art. 588 c.p. (v. nota della Questura di Prato del 21 maggio 2003). Nell'odierna comparsa la Prefettura chiarisce che la denuncia concerne l'art. 588, comma 2 c.p. Avverso il successivo decreto di espulsione emesso lo stesso 7 giugno ed eseguito lo stesso giorno con acompagnamento alla frontiera, ha proposto ricorso Jin Dong Bin ai sensi dell'art. 13 comma 8, decreto legislativo 25 luglio 1998 e successive modifiche, sottolineando come il p.m. non abbia richiesto rinvio a giudizio al giudice per le indagini preliminari e che solo da quel momento Jin potra' essere considerato pericoloso per l'ordine pubblico e la sicurezza. La prefettura dal canto suo ha ribadito la perfetta legittimita' del provvedimento in ossequio all'art. 1, comma 8, lettera c) della legge 222/2002. In fatto si rileva come dal decreto prefettizio di diniego alla legalizzazione nulla si evinca in merito alle circostanze della denuncia: il prefetto si e' limitato ad affermare che Jin e' stato denunciato per il reato di cui all'art. 588 c.p. sulla scorta di quanto comunicatogli dalla questura che a sua volta comunica semplicemente la norma che si assume violata. In diritto si rileva come l'automatismo dell'esclusione dalla legalizzazione del rapporto di lavoro prevista dal legislatore all'art. 1, comma 8, legge 222/2002 (analogamente a quanto previsto all'art. 2, comma 9-sexies della stessa legge) induce a dubitare della legittimita' costituzionale di essa norma sia sotto il profilo della lesione del principio di non colpevolezza stabilito dall'art. 27 della Costituzione, sia sotto il profilo della irragionevolezza e della ingiustificata parificazione di casi eterogenei con conseguente lesione dell'art. 3 della Costituzione. Preliminarmente si osserva che la preclusione alla legalizzazione derivante dalla mera denuncia, deve considerarsi sussistente anche qualora, come nel caso in esame, la denuncia sia intervenuta in periodo successivo alla presentazione della dichiarazione di legalizzazione (precisamente il 2 febbraio 2003, come detto nella memoria della Prefettura). Appare infatti evidente dal tenore della norma che essa e' indirizzata alla pubblica amministrazione che deve valutare le istanze di legalizzazione dettando un presupposto da verificare al momento dell'esame della pratica: la norma persegue fini di sicurezza ed ordine pubblico, volendosi impedire la stabilizzazione sul territorio nazionale a chi, entrato clandestinamente, abbia con il suo comportamento turbato l'ordine pubblico o comunque la pubblica sicurezza. In merito al meccanismo di preclusione alla legalizzazione previsto dalla norma in esame si sottolinea: a) che la denuncia non si pone come presupposto per l'adozione di una misura cautelare. Essa determina invece sia per il lavoratore che per il datore di lavoro, una situazione negativa che non ha carattere provvisorio, ma definitivo quanto meno sotto il profilo della impossibilita' di continuare quel rapporto di lavoro. Per il cittadino straniero, inoltre, viene meno il diritto a proseguire il soggiorno in Italia, diritto che egli aveva temporaneamente acquisito a seguito della dichiarazione di emersione da parte del datore di lavoro. L'eventuale successiva assoluzione o addirittura archiviazione del procedimento non ricostituisce il rapporto di lavoro (nessun obbligo di riassunzione configurandosi a carico del datore di lavoro) ed il rientro in Italia potra' eventualmente intervenire solo a seguito di una nuova richiesta di ingresso e di permesso di soggiorno. Si ancora pertanto la perdita del diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro ed al soggiorno in Italia ad un provvedimento di polizia indipendentemente da qualsiasi verifica giudiziaria definitiva circa la sussistenza dei fatti e la colpevolezza dell'interessato. Cio' appare contrastare con la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva. In proposito vale la pena ancora di sottolineare che, secondo quanto previsto dall'art. 15 del decreto legislativo n. 286/1998, possono essere espulsi, in caso di condanna, sia pure dal giudice, stranieri condannati per taluno dei delitti previsti dagli articoli 380 e 381 c.p.p. solo se risultino socialmente pericolosi. Nella norma in esame, viceversa, non vi e' spazio discrezionale per la p.a. che, nello esaminare le istanze di legalizzazione deve limitarsi a «registrare» l'intervenuta denuncia per uno dei delitti di cui agli artt. 380 o 381 c.p.p. e negare, in detti casi, la richiesta di emersione, con conseguente automatica cessazione del rapporto di lavoro ed espulsione del lavoratore senza alcuna possibilita' di valutare la pericolosita' del soggetto. b) l'essere ancorata la preclusione non gia' ad un provvedimento giudiziario, sia pure non definitivo, ma alla mera denuncia rende particolarmente esteso ed eterogeneo il campo di applicazione della norma, potendo la preclusione intervenire non solo nei confronti di chi sara' assolto da detti reati, ma anche in confronto di soggetti che potranno eventualmente essere perseguiti per reati per i quali non sia previsto arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza. Per quanto e' dato sapere dagli atti, il reato denunciato potrebbe essere stato diversamente iscritto nel registro notizie di reato essendo le determinazioni della prefettura agganciate alla mera denuncia; c) la stessa delimitazione operata dal legislatore ai delitti per i quali, in caso di flagranza, e' consentito l'arresto obbligatorio o facoltativo contempla ipotesi che sono parificate dal legislatore nella norma in esame, ma che il codice di procedura penale diversifica ancorando l'arresto facoltativo ad un esame specifico della gravita' del fatto e della pericolosita' del soggetto. Anche sotto questo profilo si ravvisa lesione dell'art. 3 della Costituzione per essere parificati coloro che sono denunciati per reati per i quali e' consentito l'arresto facoltativo in flagranza e coloro il cui arresto non sarebbe invece consentito alla luce della disposizione prevista dal comma 4 dell'art. 381 c.p.p. Sotto i profili indicati ai punti b) e c) appare comunque leso il principio di proporzione ed adeguatezza i quali sono alla base della razionalita' che domina il principio di eguaglianza (v. sul punto le sentenze 971/1988, 40/1990, 16/1991, 454/2000, 145/2002 nonche' sent. 264/2003. Si ravvisa pertanto illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma c), in relazione agli artt. 3 e 27 della Costituzione nella parte in cui detta norma non ancora l'esclusione dalla legalizzazione ad una condanna definitiva per i delitti di cui agli artt. 380 e 381 c.p.p. nonche', subordinatamente, nella parte in cui non impone alla p.a di verificare per quali ipotesi di reato sia avvenuta l'iscrizione nel registro notizie di reato ed ancora nella parte in cui non consente alla p.a, quanto meno nella ipotesi di persona perseguita per reati per i quali l'arresto e' facoltativo, di valutare l'opportunita' del diniego alla regolarizzazione, e quindi alla prosecuzione del soggiorno e del rapporto di lavoro, in relazione alla gravita' del fatto denunciato e alla pericolosita' sociale del soggetto desunta dalla sua personalita' e dalle circostanze del fatto. Per le ragioni indicate, ritenuta la norma contenuta nell'art. 1, comma 8, lettera c), legge 9 ottobre 2002, n. 222, rilevante ai fini del decidere e le questioni di costituzionalita' prospettate non manifestamente infondate.