ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei   giudizi   di   legittimita'  costituzionale  dell'art. 204-bis,
comma 3, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice
della  strada), disposizione introdotta dall'art. 4, comma 1-septies,
del  decreto-legge  27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni
al    codice    della    strada),    aggiunto    dalla    legge    di
conversione 1° agosto   2003,  n. 214,  promossi  con  ordinanze  del
22 settembre  2003  dal giudice di pace di Mestre, del 28 agosto 2003
dal  giudice  di  pace di Anzio, del 12 settembre 2003 dal giudice di
pace  di Vietri di Potenza, del 2 ottobre 2003 dal giudice di pace di
Bari,  del  30 agosto  2003 dal giudice di pace di Montepulciano, del
20 ottobre  2003 dal giudice di pace di Bari, del 17 ottobre 2003 dal
giudice  di  pace di Recco, del 9 ottobre 2003 dal giudice di pace di
Reggio  Calabria,  del 21 ottobre 2003 dal giudice di pace di Pratola
Peligna,  del  17 ottobre  2003  dal  giudice  di  pace  di Pisa, del
16 ottobre  2003  dal  giudice di pace di Mestre e del 6 ottobre 2003
dal  giudice  di pace di Asiago, rispettivamente iscritte ai nn. 996,
997,  999,  1044, 1047, 1081, 1083, 1087, 1092, 1094, 1095 e 1110 del
registro  ordinanze  2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica   nn. 47,   49,   50,   51   e   52,  1ª  serie  speciale,
dell'anno 2003.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 10 marzo 2004 il giudice
relatore Alfonso Quaranta.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  I  Giudici  di  pace  di Mestre (r.o. n. 996 e n. 1095 del
2003),  Anzio  (r.o. n. 997 del 2003), Vietri di Potenza (r.o. n. 999
del  2003),  Bari  (r.o.  n. 1044  e n. 1081 del 2003), Montepulciano
(r.o.  n. 1047  del  2003),  Recco  (r.o.  n. 1083  del 2003), Reggio
Calabria  (r.o.  n. 1087 del 2003), Pratola Peligna (r.o. n. 1092 del
2003), Pisa (r.o. n. 1094 del 2003) ed Asiago (r.o. n. 1110 del 2003)
hanno    sollevato    questione    di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 204-bis,  comma 3,  del decreto legislativo 30 aprile 1992,
n. 285   (Nuovo   codice   della   strada),  disposizione  introdotta
dall'art. 4,   comma 1-septies,  del  decreto-legge  27  giugno 2003,
n. 151  (Modifiche  ed integrazioni al codice della strada), aggiunto
dalla legge di conversione 1° agosto 2003, n. 214.
    Premettono  i  rimettenti  che  la  norma impugnata - relativa al
giudizio    direttamente   instaurabile   avverso   il   verbale   di
contestazione  d'infrazione  alle norme sulla circolazione stradale -
fa  carico  a  chi  agisce,  «all'atto  del deposito del ricorso», di
«versare  presso  la  cancelleria  del  giudice  di  pace,  a pena di
inammissibilita'  del  ricorso, una somma pari alla meta' del massimo
edittale della sanzione inflitta dall'organo accertatore».
    1.1.  -  I  giudici  di  pace di Mestre e di Anzio, in quelle che
risultano  in ordine cronologico le prime due ordinanze relative alla
questione  in  esame  (r.o.  n. 996  e  n. 997 del 2003), deducono la
violazione unicamente degli articoli 3 e 24 della Costituzione.
    Il  primo  dei rimettenti (r.o. n. 996 del 2003) - non senza aver
sottolineato,  nel  ripercorrere in via di estrema sintesi le vicende
del  giudizio  a quo, che il ricorrente «ha provveduto, come disposto
dalla nuova normativa, al deposito giudiziario della somma» dovuta ex
lege  --  pone  preliminarmente  in  luce  come l'obbligo suddetto si
risolva  in  uno  «strumento  per ridurre drasticamente il numero dei
procedimenti»  giurisdizionali  in materia, cio' che darebbe luogo ad
una «grave disparita' di trattamento tra i cittadini», precludendo ai
non  abbienti  di  «poter  validamente proporre le proprie ragioni in
sede giudiziaria».
    Si  realizzerebbe, cosi', una violazione non soltanto dell'art. 3
della  Costituzione  (essendo  la  parita' dei cittadini davanti alla
legge  «enormemente  turbata  dall'onere  imposto  al  ricorrente non
benestante»),  ma  pure  dell'art. 24,  «considerato  che,  in queste
condizioni, i cittadini meno facoltosi» si vedrebbero «indirettamente
privare  della  possibilita'  di  tutelare  i  propri  diritti in via
giudiziaria,  con  grave  nocumento  al  principio  che  la difesa e'
diritto inviolabile».
    Parimenti,  il  giudice di pace di Anzio (r.o. n. 997 del 2003) -
nel  dedurre la violazione degli stessi articoli della Costituzione -
assume   che   la   norma   impugnata  «rappresenta  un  indubbio  ed
ingiustificato  ostacolo  per  la  tutela in sede giurisdizionale dei
diritti  del  ricorrente»  (essendo  questi,  di  fatto,  indotto  «a
desistere  dall'impugnazione»),  concretando  inoltre  «una manifesta
disparita'  di  trattamento»  tra  gli  utenti  della  strada, con il
favorire  «ingiustificatamente  coloro i quali dispongono di maggiore
agiatezza economica».
    1.2. - Piu' articolata si rivela la prospettazione del giudice di
pace  di  Vietri di Potenza (r.o. n. 999 del 2003), il quale ipotizza
il contrasto - oltre che con gli articoli 3 e 24 - anche con l'art. 2
della Costituzione.
    Tale  rimettente  eccepisce  -  in  primis  -  l'esistenza di una
(doppia)  «violazione  del  principio  di eguaglianza ex art. 3 della
Costituzione».
    La  «novella» al codice della strada avrebbe, a suo dire, «creato
di  fatto  e  riservato  sul  piano  processuale  (...)  una  diversa
posizione al ricorrente e alla Pubblica Amministrazione» (evidente in
particolar  modo  in  sede  conclusiva del giudizio, e cio' in quanto
l'Amministrazione, in caso di esito processuale a se' favorevole, «ha
immediatamente  a  disposizione  la  somma  che  le  e'  dovuta oltre
sicuramente  ad  una  parte delle spese di causa», considerato che la
sanzione  inflitta  e'  di  regola  «comminata nel minimo edittale»),
differenziando,  altresi',  «il  cittadino  abbiente  da  quello meno
abbiente»  (giacche'  soltanto  ai  primi  sarebbe  permesso di poter
esercitare la tutela dei propri diritti proponendo ricorso al giudice
ordinario).
    Tale  situazione di disparita' - che il rimettente giudica «ancor
piu'  pregnante» ove «si consideri che lo stesso legislatore, al fine
di  eliminare gli ostacoli di carattere economico tra i cittadini, ha
previsto  con  l'art. 26  della  legge  689/1981 il pagamento rateale
della  sanzione  (...) "su richiesta dell'interessato che si trovi in
condizioni  economiche  disagiate"»  - non sarebbe mitigata dal fatto
che  i  soggetti  non  abbienti  possono,  pur sempre, «presentare il
ricorso   amministrativo   (che   non  prevede  il  versamento  della
cauzione)».  Se  cosi'  fosse,  infatti, dovrebbe concludersi che «il
ricorso al giudice sia un mezzo di tutela riservato esclusivamente ai
soggetti  economicamente  agiati» (con violazione dello stesso art. 2
della  Costituzione,  atteso  che tra i diritti inviolabili dell'uomo
rientra  pure «il diritto all'eguaglianza, come valore assoluto della
persona umana e diritto fondamentale dell'individuo»).
    L'art. 204-bis  del  d.lgs. n. 285 del 1992 creerebbe, dunque, in
base  alle  condizioni economiche del ricorrente e quanto all'accesso
alla tutela giurisdizionale, un «trattamento differenziato», il quale
pero'   -   sottolinea   il  rimettente  -  «puo'  trovare  legittima
applicazione  solo ove vi sia l'indefettibile presenza di ragionevoli
motivi»,  non  ravvisabili  «nello  scopo di evitare che il cittadino
meno  abbiente  possa  ricorrere  in  sede  giurisdizionale  contro i
verbali d'infrazione al codice della strada».
    1.3.  -  Il  giudice  di  pace di Bari, proponendo argomentazioni
pressoche'  identiche  a  quelle  sopra indicate, ha dedotto - con la
prima delle due ordinanze da esso pronunciate (r.o. n. 1044 del 2003)
-  l'esistenza  di  una  violazione  degli articoli 3, 24 e 113 della
Costituzione.
    Dubita  il  rimettente  della  legittimita'  costituzionale della
norma  impugnata,  in  primo  luogo, «per difetto di ragionevolezza e
disparita'  di  trattamento»,  situazione  quest'ultima  che vedrebbe
contrapposti «il cittadino che per le sue condizioni economiche e' in
condizione  di  depositare la cauzione richiesta» e colui che, «privo
di mezzi o con scarse possibilita' economiche», si vede «preclusa» la
possibilita' di adire le vie giurisdizionali.
    Deduce,  inoltre,  il  suddetto  giudice  a  quo  la  «violazione
dell'art. 24  della Costituzione, che consente a tutti i cittadini di
agire   in   giudizio   per   la  tutela  dei  propri  diritti  senza
limitazioni»,  avanzando  il  «sospetto»  che  il  legislatore  abbia
voluto,  in  subiecta  materia, «reintrodurre la ripudiata regola del
solve et repete».
    Eccepisce,    infine,   il   contrasto   con   l'art. 113   della
Costituzione,  in quanto la norma in esame «condiziona notevolmente e
senza alcuna plausibile giustificazione la tutela giurisdizionale dei
diritti contro gli atti della pubblica amministrazione».
    I  medesimi  parametri sono invocati anche dal giudice di pace di
Mestre,  nella  seconda  delle  due ordinanze (r.o. n. 1095 del 2003)
emesse da quell'ufficio giudiziario.
    Il  rimettente assume che tale norma darebbe vita ad «un'evidente
differenza  di trattamento tra i cittadini, in particolare tra coloro
che  hanno  la  capacita'  patrimoniale per assolvere all'adempimento
imposto  e  coloro  che non hanno mezzi sufficienti per effettuare il
pagamento»,  nonche'  -  tenuto conto che la proposizione del ricorso
amministrativo  non  e' subordinata alla medesima condizione - ad una
«ingiustificata  differenza  tra i due mezzi di opposizione, rendendo
(...)  evidente che il ricorso avanti il giudice di pace diventerebbe
uno  strumento  di  tutela fruibile solo dai soggetti piu' facoltosi»
(con  violazione  anche  del  «secondo  comma  dell'articolo 3  della
Costituzione  che sancisce che e' compito della Repubblica rimuovere,
non  gia' creare, ostacoli di ordine economico e sociale che limitano
di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei cittadini»).
    Deduce,  inoltre,  la  violazione  del «diritto di difesa sancito
dagli  articoli 24 e 113 della Costituzione», non essendo la cauzione
contemplata   dalla  norma  suddetta  «in  alcun  modo  razionalmente
collegata  alla pretesa dedotta in giudizio», ne' mirando «allo scopo
di  assicurare  al  procedimento  uno  svolgimento  conforme alla sua
funzione».  Essa, per contro, appare piuttosto «introdotta al fine di
restringere  il  campo dei possibili ricorrenti avverso provvedimenti
amministrativi».
    1.4.  - Ipotizza, invece, la violazione anche dell'art. 25, primo
comma,  della  Costituzione  (oltre  che degli articoli 3 e 24, primo
comma,) il giudice di pace di Montepulciano (r.o. n. 1047 del 2003).
    Questi ritiene, difatti, che l'art. 204-bis del d.lgs. n. 285 del
1992  si ponga in contrasto «con i principi di eguaglianza di tutti i
cittadini  di  fronte  alla  legge  e  di  libero accesso alla tutela
giurisdizionale  dei  propri  diritti  davanti  al  giudice  naturale
precostituito per legge».
    Sottolinea  che  tale  norma, «nel prevedere l'obbligatorieta' di
una   cauzione   addirittura   per   poter   accedere   alla   tutela
giurisdizionale»,   darebbe   vita   ad  una  «inedita  (...)  doppia
discrasia»,  ed  esattamente - da un lato - «tra azioni esperibili in
via  giurisdizionale  e  azioni  esperibili  in  via amministrativa»,
nonche'  -  dall'altro  -  «all'interno  della stessa categoria delle
azioni di carattere giurisdizionale».
    Con  specifico  riferimento a quest'ultimo aspetto, il rimettente
pone  in  luce  come  per nessuna azione di carattere giurisdizionale
l'ordinamento preveda l'obbligo di prestare preventivamente cauzione,
atteso  che,  pur  essendo  tale istituto «ben conosciuto dalle norme
processuali», esse lo contemplano non come «sbarramento iniziale» per
l'accesso  alla tutela giurisdizionale, bensi' «solo a giudizio ormai
pendente,  e  a discrezione del giudice». Nel caso in esame, inoltre,
la  cauzione  -  salvo non volere ritenere che la sua imposizione ope
legis si giustifichi in quanto «lo Stato teme per la solvibilita' del
ricorrente»  -  contravverrebbe alla stessa natura dell'istituto, che
e'  «quella  di  un  deposito  di  somme  di  denaro a garanzia di un
determinato  comportamento  futuro», richiesto a colui che e' gravato
dalla prestazione della cauzione.
    La  sua  previsione,  quindi,  risolvendosi  in «un'inammissibile
anticipazione  della  sanzione,  perche'  al  ricorrente si chiede di
versare  subito  -  obbligatoriamente e per il solo fatto di chiedere
giustizia  - cio' che solo il giudizio di merito potra' eventualmente
accertare  essere  da  lui  dovuto»,  paleserebbe  quale sia la reale
finalita'  avuta  di mira dal legislatore, e cioe' di «scoraggiare in
maniera  ingiustificatamente  vessatoria  il diritto inalienabile del
cittadino  a  richiedere  giustizia,  e  richiederla  al  suo giudice
naturale precostituito per legge» (donde l'ipotizzata violazione pure
dell'art. 25, primo comma, della Costituzione).
    La scelta, infine, di compromettere «senza ragione il diritto dei
cittadini alla tutela giurisdizionale» - con violazione dei «principi
che  portarono  la  Corte  costituzionale,  in  anni ormai lontani, a
dichiarare costituzionalmente illegittimo l'art. 98 c.p.c. (...) e la
c.d.  clausola  del solve et repete» - sostanzierebbe l'altro profilo
di   «discrasia»   denunciato   dal  rimettente  (quello  tra  azioni
amministrative  e giurisdizionali). Una discrasia, questa, tanto piu'
grave  ove  si  consideri  che  «il  legislatore della novella ha, al
contrario, ulteriormente facilitato il ricorso al prefetto» (il quale
«puo'    essere    adito    direttamente,   mediante   una   semplice
raccomandata»),    alterando   in   tal   modo   «il   principio   di
parita/alternativita'    tra    i    due   rimedi»   e   dando   vita
«all'introduzione  de  facto  nell'ordinamento  di  un  principio  di
riserva  di  amministrazione  del  tutto  incompatibile  col  sistema
costituzionale».
    1.5.  -  Quattro  diversi  parametri, invece, sono richiamati dal
giudice di pace di Bari, nella seconda delle ordinanze sopra indicate
(r.o. n. 1081 del 2003), proveniente da tale ufficio giudiziario.
    Il  rimettente,  difatti,  ha  dedotto  che la norma impugnata si
porrebbe  in  «contrasto  con  gli  articoli 3,  24,  111 e 113 della
Costituzione».
    Premesso  che  la scelta operata dal legislatore del 2003 «sembra
volere  reintrodurre  nel  nostro  ordinamento la regola del solve et
repete,  gia'  dichiarata  incostituzionale  in  numerose  precedenti
pronunzie  della  Corte  costituzionale,  a  partire  dalla  sentenza
n. 21/1961»,  il  giudice  a quo deduce che la previsione legislativa
suddetta - in contrasto con l'art. 3, primo comma, della Costituzione
-  «potrebbe  non assicurare uguaglianza di trattamento tra colui che
e'  in  grado  di  assolvere  la cauzione preventiva e colui, che pur
potendo      astrattamente     aver     ragione     nei     confronti
dell'amministrazione,  necessariamente  soccomberebbe per non poterla
corrispondere».
    Ipotizza,  inoltre, la «violazione del diritto di difesa», atteso
che  (in  spregio  all'art. 24  della Costituzione) «il suo esercizio
sarebbe condizionato dalla maggiore o minore disponibilita' economica
del singolo».
    Assume,  infine, la violazione degli articoli 111, secondo comma,
e  113,  primo  e secondo comma, della Costituzione. L'imposizione di
«un  previo pagamento cauzionale a carico del ricorrente» - destinato
a  convertirsi  in  caso  di sua soccombenza in un «prelievo totale o
parziale  in  favore»  dell'amministrazione  - si tradurrebbe, per un
verso,  in un «privilegio» in favore di quest'ultima (con conseguente
violazione  del principio «di parita' delle parti in contraddittorio»
di    cui   all'art. 111,   secondo   comma,   della   Costituzione),
rappresentando, inoltre, «un ingiustificato ostacolo per la tutela in
sede giurisdizionale dei diritti (...) contro gli atti della pubblica
amministrazione» (in contrasto con l'art. 113, primo e secondo comma,
della Costituzione).
    1.6.  -  Sono accomunate, invece, dalla denuncia della violazione
esclusivamente  degli articoli 3 e 24 della Costituzione le ordinanze
di  rimessione  dei giudici di pace di Recco (r.o. n. 1083 del 2003),
di  Reggio  Calabria  (r.o. n. 1087 del 2003) e di Pisa (r.o. n. 1094
del 2003).
    Il  primo dei suddetti giudici rimettenti (r.o. n. 1083 del 2003)
muove dalla constatazione che «i casi di cauzione previsti dal codice
di  rito»  costituiscono  «un  numerus  clausus  legato soprattutto a
provvedimenti  di natura cautelare e non gia' alla mera presentazione
di domande giudiziali di merito», ponendo altresi' in luce «la sorte»
subita   dai   «depositi   di   soccombenza»   nel  processo  civile,
«definitivamente  abrogati  dall'art. 1  della  legge 18 ottobre 1977
n. 793»   (Abolizione  del  deposito  per  soccombenza  nel  processo
civile).
    Evidenzia,   inoltre,   l'irrazionalita'   -   «in   una  materia
caratterizzata  dalla gratuita' (...) e dalla massima semplificazione
per  le  parti»,  alla  stregua di quanto previsto dall'art. 23 della
legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) - di una
disposizione,   quale  quella  censurata,  che  «pone  a  carico  del
cittadino  un  costo che, in qualche ipotesi, puo' anche essere molto
oneroso  (...)  ed  un  adempimento, quale quello dell'apertura di un
deposito  giudiziario  presso  l'ufficio  postale (...), estremamente
complesso».
    Assume, infine, la violazione delle norme costituzionali suddette
(articoli  3  e  24 della Costituzione), giacche' l'imposizione della
cauzione,  da un lato, «ostacola l'esercizio del diritto di agire per
la tutela dei propri diritti proprio in un settore caratterizzato dal
fatto  di  non  addossare  alcun  onere  ne' economico ne' tecnico al
cittadino»,  e, dall'altro, «elimina la tutela ai non abbienti», cio'
che  renderebbe evidente come «la finalita' di questa riforma non sia
se  non quella di creare (...) un forte deterrente alla presentazione
dei ricorsi al giudice di pace».
    Il  giudice  di  pace  di Reggio Calabria (r.o. n. 1087 del 2003)
deduce che la previsione dell'art. 204-bis del d.lgs. n. 285 del 1992
lederebbe   «il  diritto  fondamentale  dell'individuo  espressamente
tutelato   dall'art. 3   della  Costituzione»,  ponendo  «i  soggetti
abbienti e non abbienti su un piano di disuguaglianza tra loro».
    Su  tali  basi,  quindi,  ipotizza  che la norma in esame sia «in
netto  contrasto  con l'art. 24 della Costituzione, il quale sancisce
che  tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti
ed interessi legittimi».
    La  violazione del combinato disposto degli articoli 3 e 24 della
Costituzione  e'  posta  alla  base  dell'ordinanza di rimessione del
giudice di pace di Pisa (r.o. n. 1094 del 2003).
    Il  rimettente  assume  che  i  principi  sanciti  da  tali norme
sarebbero  derogati ingiustificatamente dalla disposizione impugnata,
richiamando  all'uopo  la  pronuncia della Corte costituzionale n. 67
del  1960 (che dichiaro' l'illegittimita' costituzionale dell'art. 98
cod. proc. civ.).
    Deduce, infine, la violazione dei parametri suddetti anche «sotto
il  profilo  della  ragionevolezza».  Al  riguardo, evidenzia come un
trattamento   differenziato   riservato  a  situazioni  eguali  possa
«trovare  legittima  applicazione  solo  ove  vi  sia l'indefettibile
presenza   di   ragionevoli   motivi   oggettivamente   rilevabili  a
giustificazione»  dello  stesso.  In tale prospettiva, l'esistenza di
una sostanziale continuita' tra la situazione anteriore alla legge di
riforma  del  codice  della strada, e quella successiva (atteso che -
sottolinea  il  rimettente  - la possibilita' contemplata dalla legge
n. 214  del  2003  di proporre «ricorso immediato» al giudice di pace
era   gia'   stata   riconosciuta   in   virtu'  di  «interpretazione
adeguatrice»  proposta  dalla  stessa  Corte costituzionale), risulta
ingiustificatamente  alterata  «in quanto la prevista cauzione a pena
d'inammissibilita'  finisce  per  costituire  una «compressione», una
diminuzione,    di    un    diritto    di   azione   gia'   esistente
nell'ordinamento».
    1.7.   -   Ipotizzano,   conclusivamente,   la  violazione  anche
dell'art. 2  della  Costituzione,  oltre che degli articoli 3 e 24, i
giudici  di pace di Pratola Peligna (r.o. n. 1092 del 2000) ed Asiago
(r.o. n. 1110 del 2003).
    Deduce  il  primo  dei due rimettenti che «la normativa in parola
lede  il  diritto  fondamentale dell'individuo espressamente tutelato
dall'art. 3 della Costituzione» (in cio' sostanziandosi la violazione
anche  dell'art. 2  della  Carta  fondamentale),  ponendo  i soggetti
abbienti  e  non  abbienti  su  un  piano di disuguaglianza fra loro,
precludendo a questi ultimi l'accesso alla tutela giurisdizionale.
    Assume, inoltre, la violazione dell'art. 24 della Costituzione, e
cio'  in  quanto il «versamento della cauzione previsto per la tutela
dei  diritti del ricorrente nella sola sede giurisdizionale», oltre a
«rappresentare   un  ingiustificato  quanto  ingiusto  vantaggio  per
l'Autorita'  opposta»,  priverebbe  della  «possibilita'  di agire in
giudizio  per la tutela dei propri diritti» quanti «non dispongono di
una  sufficiente  agiatezza economica, in tal modo ledendo gravemente
il diritto di difesa» degli stessi.
    Verrebbe,  in tal modo, a rivivere «di fatto un'anomala figura di
imposta  solve  et  repete»,  quantunque  la stessa sia stata espunta
dall'ordinamento  «con  sentenza  del  giudice delle leggi (n. 21 del
lontano 1961)», senza peraltro dimenticare - conclude il rimettente -
che  «la  stessa  Corte  costituzionale  (sentenza  n. 67  del  1960)
dichiaro'  costituzionalmente  illegittimo  l'art. 98 del c.p.c., che
prevedeva  proprio  il potere del giudice d'imporre una cauzione alla
parte,  con  conseguente  estinzione  del giudizio in caso di mancato
versamento».
    Si  richiama a tale decisione di questa Corte anche il giudice di
pace  di  Asiago  (r.o.  n. 1110  del  2003),  il quale - sviluppando
argomentazioni  praticamente  identiche  a  quelle  gia' illustrate -
torna  a  ribadire  come  l'avvenuta  «introduzione  dell'obbligo  di
versamento  di  una  somma,  costituente  un  vero e proprio deposito
cauzionale»,   di   fatto,  «verrebbe  a  consentire  l'accesso  alla
giustizia solo ai cittadini facoltosi».
    Sussisterebbe,  pertanto,  violazione  dell'intero  art. 24 della
Costituzione,  se e' vero che - mentre i primi due commi stabiliscono
che  tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti
e   interessi   legittimi,   riconoscendo  la  difesa  quale  diritto
inviolabile  in  ogni stato e grado del procedimento - il terzo comma
garantisce  che  siano  «assicurati  ai  non  abbienti,  con appositi
istituti,   i   mezzi   per   agire  e  difendersi  davanti  ad  ogni
giurisdizione».
    2.  -  E'  intervenuto  in  tutti  i  giudizi  cosi'  promossi il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  il rigetto della
questione.
    La  difesa  erariale - sul presupposto che «il ricorso al giudice
di pace» rappresenti, in tale materia, «una soluzione alternativa (ed
in  certa  misura agevolata) rispetto al rimedio generale (ricorso al
prefetto)» - esclude l'ipotizzata disparita' di trattamento.
    Poiche',  infatti,  l'amministrazione  affronta il giudizio senza
aver  avuto  «neppure la possibilita' di una verifica approfondita» -
attraverso  l'esame  dell'autorita'  prefettizia  -  della fondatezza
della pretesa avversaria, sarebbe «ragionevole che il ricorso diretto
al  giudice  di  pace  (...) sia sottoposto dalla legge a particolari
oneri».
    La  previsione  della  cauzione,  inoltre, non costituirebbe - ad
avviso  dell'Avvocatura - neppure un meccanismo del tutto «innovativo
all'interno dell'ordinamento, che registra, nel settore penale, altre
ipotesi  similari»,  e  segnatamente «quella prevista dal primo comma
dell'art. 3-bis  della  legge  31 maggio  1965, n. 575» (Disposizioni
contro  la mafia), nonche' quelle di cui agli articoli 162 (Oblazione
nelle contravvenzioni) e 162-bis (Oblazione discrezionale) del codice
penale.
    La conclusione e', quindi, nel senso che il legislatore del 2003,
«mosso  da  un  intento  di  cautela deflativa», avrebbe «operato una
scelta   di   carattere  procedimentale»  assolutamente  ragionevole,
proponendosi  «di  differenziare  le  discipline ed i relativi rimedi
previsti  dall'ordinamento,  a  seconda che l'autore della violazione
intenda   far   valere  i  propri  diritti  di  fronte  all'autorita'
amministrativa ovvero, anticipatamente, a quella giudiziaria».

                       Considerato in diritto

    1.  -  I  giudici  di  pace  indicati in epigrafe hanno sollevato
questione     di     legittimita'    costituzionale    del    comma 3
dell'art. 204-bis  del  decreto  legislativo  30 aprile  1992, n. 285
(Nuovo  codice  della  strada),  disposizione introdotta dall'art. 4,
comma 1-septies,  del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche
ed  integrazioni  al  codice  della  strada), aggiunto dalla legge di
conversione 1° agosto 2003, n. 214.
    Oggetto  delle  loro  censure  e'  la  previsione  normativa  che
stabilisce  -  a carico di chi proponga ricorso avverso il verbale di
contestazione  d'infrazione  alle  regole  del  codice della strada -
l'onere di «versare presso la cancelleria del giudice di pace, a pena
di  inammissibilita'  del  ricorso,  una  somma  pari  alla meta' del
massimo edittale della sanzione inflitta dall'organo accertatore».
    2.  -  Elemento  comune  a  tutte  le  ordinanze di rimessione e'
l'ipotizzata  violazione  degli  articoli 3  e 24 della Costituzione,
sotto  il  profilo che l'onere in questione - pena l'inammissibilita'
del  ricorso giurisdizionale - si risolverebbe in una discriminazione
dei  soggetti  privi  di  adeguati mezzi economici, i quali, anche in
ragione  del  cospicuo  ammontare  di cui e' imposto il pagamento, si
vedono,   se   non  precludere,  quantomeno  notevolmente  ostacolare
l'accesso  alla  tutela  giurisdizionale, con conseguente pregiudizio
del loro «diritto inviolabile» di agire in giudizio.
    Ne'  ad  escludere  tale  evenienza varrebbe il rilievo che resta
ferma  per  costoro la possibilita' di proporre - senza necessita' di
alcun  preventivo  versamento,  non  contemplato in tale ipotesi - il
ricorso  all'autorita'  prefettizia  (ex art. 203 del medesimo d.lgs.
n. 285  del  1992),  giacche'  cio',  semmai, evidenzierebbe vieppiu'
l'esistenza   di  un  trattamento  discriminatorio,  trasformando  il
ricorso  al  giudice  di  pace  in  strumento a disposizione dei soli
soggetti  piu'  facoltosi,  con  violazione  anche  del secondo comma
dell'art. 3  della  Costituzione,  che  fa  carico alla Repubblica di
rimuovere,  e non gia' creare, «ostacoli» all'eguaglianza sostanziale
dei cittadini.
    Alcuni dei giudici a quibus - sempre in relazione alla violazione
dell'art. 3  della  Costituzione  -  denunciano  anche  un intrinseco
difetto  di  ragionevolezza  che  connoterebbe  la  norma  in  esame,
sottolineando   -  in  particolare  -  come  il  versamento  da  essa
contemplato  non  sia  in  alcun  modo  razionalmente  collegato alla
pretesa dedotta in giudizio, ne' assolva «allo scopo di assicurare al
procedimento  uno  svolgimento conforme alla sua funzione», apparendo
piuttosto  introdotto  «al fine di restringere il campo dei possibili
ricorrenti avverso provvedimenti amministrativi».
    La  censura  relativa alla violazione degli articoli 3 e 24 della
Costituzione e' accompagnata, poi, in talune ordinanze di rimessione,
da  altre  concernenti  gli articoli 2, 25, primo comma, 111, secondo
comma, e 113 della Carta fondamentale.
    3.  -  Le  questioni sollevate, per la loro evidente connessione,
vanno  trattate  congiuntamente,  per cui va disposta la riunione dei
relativi giudizi.
    4.  -  La  questione  sollevata dal giudice di pace di Mestre con
l'ordinanza n. 996 del 2003 e' inammissibile.
    L'ordinanza,  infatti,  da'  atto  dell'avvenuto versamento della
somma  da  parte  del  ricorrente,  di  talche'  il  dubbio  relativo
all'illegittimita'  costituzionale  della  norma  che contempla detto
versamento  - sotto il profilo della «grave disparita' di trattamento
tra i cittadini» - e' privo di rilevanza nel giudizio a quo.
    5.  -  Nel merito la questione proposta con le altre ordinanze di
rimessione e' fondata.
    5.1.  -  «Il  principio,  secondo il quale tutti possono agire in
giudizio  per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi e la
difesa e' diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento,
deve  trovare  attuazione uguale per tutti, indipendentemente da ogni
differenza  di  condizioni  personali e sociali» (cfr. sentenza n. 67
del 1960).
    Alla  luce  di  tale  principio  deve ritenersi che l'imposizione
dell'onere  economico  di  cui all'art. 204-bis del d.lgs. n. 285 del
1992 finisca con il pregiudicare l'esercizio di diritti che l'art. 24
della  Costituzione  proclama inviolabili, considerato che il mancato
versamento  comporta  un  effetto  preclusivo  dello  svolgimento del
giudizio,   incidendo  direttamente  sull'ammissibilita'  dell'azione
esperita.
    5.2.  -  Giova  rammentare  come  il  problema  - non nuovo nella
giurisprudenza   di  questa  Corte  -  della  compatibilita'  tra  il
principio   costituzionale   che   garantisce   a   tutti  la  tutela
giurisdizionale  dei  propri  diritti  e  singole norme che impongono
determinati incombenti (anche di natura economica) a carico di coloro
che  tale  tutela  richiedano,  sia  stato  risolto  alla  luce della
distinzione  fra  gli  oneri  che  sono «razionalmente collegati alla
pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno
svolgimento   meglio   conforme   alla  sua  funzione»,  da  ritenere
evidentemente   consentiti,  e  quelli  che  tendono,  invece,  «alla
soddisfazione   di   interessi  del  tutto  estranei  alle  finalita'
predette»,  i  quali  -  conducendo  al  risultato  «di  precludere o
ostacolare  gravemente  l'esperimento della tutela giurisdizionale» -
incorrono  «nella  sanzione  dell'incostituzionalita»  (cfr. sentenze
n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001).
    Orbene,  tale  seconda  evenienza  e' quella che ricorre nel caso
della  disciplina  censurata,  considerate  sia  l'entita'  economica
dell'esborso,  superiore  alla  misura  della  sanzione  generalmente
inflitta in concreto ai trasgressori, sia soprattutto le modalita' di
assolvimento  dell'onere economico de quo, destinate a tradursi in un
procedimento  macchinoso  nella fase tanto del versamento della somma
quanto della sua (eventuale) restituzione all'avente diritto.
    Sotto  altro  aspetto,  deve  osservarsi che l'imposizione in via
generalizzata - da parte della norma censurata - del suddetto onere a
carico  del  soggetto  che intenda adire le vie giudiziali, in nessun
modo  funzionale  alle  esigenze  del  processo,  si  risolve  in  un
ostacolo,  anche  per  l'ammontare  dell'esborso  pari alla meta' del
massimo   edittale   della  sanzione,  che  finisce  per  scoraggiare
l'accesso alla tutela giurisdizionale.
    Alla  luce,  dunque,  delle  considerazioni che precedono risulta
evidente la violazione dei citati parametri costituzionali, sia sotto
l'aspetto  della  lesione  del  diritto di difesa del ricorrente, sia
sotto l'aspetto della palese irragionevolezza della norma in rapporto
alle  caratteristiche  del procedimento giurisdizionale in questione,
improntato  a  «gratuita»  e  «massima semplificazione per le parti»,
secondo  quanto  stabilito dall'art. 23 della legge 24 novembre 1981,
n. 689 (Modifiche al sistema penale).
    6.   -   L'accertata  violazione  degli  articoli 3  e  24  della
Costituzione assorbe le ulteriori censure dedotte dai rimettenti.