IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 2807/2001 R. G., posta in decisione all'udienza del giorno 15 dicembre 2003 e vertente tra S.E.S. - Societa' Editrice Siciliana S.p.A., editrice del quotidiano «Gazzetta del Sud», con sede in Messina, via U. Bonino n. 15/C, part. I.V.A. 00072240831, in persona del presidente del consiglio di amministrazione e rappresentante legale pro tempore, Giovanni Morgante, rappresentato e difeso per procura in atti dagli avvocati Salvatore Ruggero Arena e Giuseppe Amendolia, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del primo, in Messina, via dei Mille n. 100, attrice, e Vendola on. Nicola, nato a Bari il 26 agosto 1958, residente a Terlizzi (Bari), via Salamone n. 35, rappresentato e difeso per procura in atti dall'avv. Ugo Colonna del foro di Torino, elettivamente domiciliato in Messina, via del Vespro n. 44, presso lo studio dell'avv. Eduardo Omero, convenuto. Fatto e diritto Con atto di citazione del 25 luglio 2001 la S.E.S., Societa' Editrice Siciliana S.p.A. con sede in Messina, editrice del quotidiano Gazzetta del Sud, conveniva in giudizio davanti a questo tribunale l'onorevole Nicola Vendola, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni morali e materiali subiti in conseguenza della diffusione ad opera del convenuto di un dossier dal titolo «L'uomo del ponte - Breve storia di Calarco e dell'ufficio stampa del Verminaio». Assumeva la societa' editrice che il dossier in questione, diffuso il 4 dicembre 2000 dall'on. Vendola nel corso di una conferenza stampa svoltasi presso la sede messinese del Partito della Rifondazione comunista, oltre ad avere contenuti gravemente diffamatori nei confronti del direttore del citato quotidiano, Nino Calarco, assumeva carattere gravemente offensivo anche nei riguardi della Gazzetta del Sud, e a sostegno di tale assunto l'atto introduttivo riportava ampi brani del documento, evidenziandone il contenuto denigratorio e la portata lesiva della reputazione dell'impresa giornalistica, amplificata dall'avvenuta pubblicazione del dossier su alcuni giornali. Aggiungeva l'attrice che il carattere diffamatorio della condotta addebitata all'onorevole Vendola, posta in essere al di fuori dell'esercizio delle funzioni di parlamentare ovvero di componente della Commissione parlamentare antimafia, imponeva un risarcimento dei danni in misura pari a L. 1.000.000.000, oltre a giustificare la richiesta di condanna alla pubblicazione del dispositivo della sentenza, oltre che sulla Gazzetta del Sud, anche su un altro quotidiano siciliano e su un quotidiano a diffusione nazionale ai fini specifici della riparazione del danno all'immagine subito dal giornale. Inizialmente il convenuto, sebbene ritualmente citato, non si costituiva in giudizio. Ammessa la prova testimoniale richiesta dall'attrice, all'udienza del 30 giugno 2003, destinata alla sua assunzione, si costituiva il convenuto, che eccepiva in via preliminare l'insindacabilita' delle opinioni espresse, invocando la garanzia assicurata ai membri del Parlamento dalla norma di cui all'art. 68 della Costituzione, cosi' come attuato dalla legge 20 giugno 2003, n. 140, e nel merito chiedeva il rigetto delle domande, evidenziando la carenza di legittimazione attiva della societa' attrice, contestando l'entita' dei danni lamentati ed invocando altresi' l'esimente del diritto di critica. Nel contrasto tra le parti il giudice istruttore procedeva all'assunzione della prova testimoniale ammessa, e quindi, precisate le conclusione, all'udienza del 22 settembre 2003 poneva la causa in decisione, assegnando i termini di legge per il deposito e lo scambio delle difese. Nelle more, con nota pervenuta il 17 novembre 2003, il Presidente della Camera dei deputati comunicava che l'assemblea nella seduta del 13 novembre 2003 aveva deliberato nel senso che i fatti per i quali pende il presente giudizio concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni ai sensi dell'art. 68 della Costituzione. La nota, a cui era allegato il testo della relazione della Giunta competente e del resoconto stenografico della seduta dell'Assemblea della Camera dei deputati, veniva trasmessa dal Presidente del tribunale allo scrivente, subentrando nella «gestione» del ruolo al precedente giudice istruttore, che, sollecitato dal Presidente, atteso che la delibera della Camera imponeva lo sbocco processuale di cui all'art. 3, comma 8, della legge n. 140 del 2003, rimetteva le parti davanti al nuovo giudice istruttore per l'adozione degli opportuni provvedimenti. All'udienza del 15 dicembre 2003, precisate nuovamente le conclusioni, questo giudice istruttore poneva la causa in decisione, assegnando alle parti per il deposito di comparsa conclusionale e di eventuali repliche i termini ridotti di cui al citato art. 3. Tutto cio' premesso, rileva questo giudice che nel caso di specie l'on. Vendola, sottoponendo direttamente alla propria Camera di appartenenza la questione dell'applicabilita' dell'art. 68, primo comma, della Costituzione ai fatti per cui e' stato convenuto in giudizio dalla S.E.S. davanti a questo tribunale, ha provocato autonomamente la deliberazione di insindacabilita', adottata dall'assemblea su conforme proposta della competente Giunta (art. 3, comma 7), e quindi, dopo la trasmissione a questo tribunale della relativa documentazione, ha invocato l'applicazione del sistema delineato dalla normativa sopravvenuta di cui ai commi 3 e 8 dell'art. 3 della legge 20 giugno 2003, n. 140. Nelle difese conclusive la societa' attrice ha contestato la delibera di insindacabilita' adottata dalla Camera dei deputati, assumendo la non riconducibilita' dei fatti addebitati all'onorevole Vendola all'area degli atti coperti dalla garanzia di cui all'art. 68 della Costituzione, ed ha conseguentemente invitato questo tribunale a sollevare conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale per ottenere l'annullamento della deliberazione. Con riferimento allo jus superveniens rappresentato dalla legge n. 140/2003 la societa' attrice ne argomenta poi la sostanziale continuita' con il dettato costituzionale, evidenziando che una o piu' estensiva interpretazione della garanzia, che accordasse l'insindacabilita' anche in caso di assenza di connessione degli atti del membro del Parlamento con la funzione parlamentare, porrebbe l'art. 3 della legge citata in contrasto con lo stesso art. 68, nonche' con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, e ne soffrirebbe anche il diritto di tutti i cittadini alla tutela giurisdizionale (art. 24 Costituzione e art. 6 Convenzione europea dei diritti dell'Uomo). La difesa del convenuto ha ribadito la propria posizione, assumendo la legittimita' della deliberazione di insindacabilita', illustrando il nesso funzionale tra l'attivita' parlamentare dell'onorevole Vendola e l'iniziativa di cui la societa' attrice sostiene il carattere diffamatorio, e argomentando, soprattutto nella memoria di replica del 5 gennaio 2004, l'infondatezza dei prospettati dubbi di costituzionalita' della legge n. 140. Tali dubbi ritiene invece questo giudice che non siano manifestamente infondati sotto svariati profili e che, attesa la certa rilevanza della questione, impongano il ricorso al giudice delle leggi, peraltro in armonia con le perplessita' circa la costituzionalita' della legge n. 140 nel suo complesso e dell'art. 3 in particolare manifestati da una parte della dottrina subito dopo l'entrata in vigore della legge. Giova precisare che nel sistema delineato dal citato art. 3, una volta intervenuta la deliberazione della Camera di appartenenza, sollecitata dallo stesso giudice che non ritenga fondata l'eccezione di parte concernente l'applicabilita' dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, oppure provocata, come nel caso di specie, dallo stesso parlamentare che abbia direttamente sottoposto alla Camera la questione dell'applicabilita' della prerogativa parlamentare (comma 7), il giudice e' tenuto a prenderne atto e, per quel che in questa sede rileva, ad adottare senza ritardo i provvedimenti di cui al comma 3 dell'art. 3 (comma 8). In ambito penale il giudice e' tenuto a provvedere in ogni stato e grado del giudizio con sentenza a norma dell'art. 129 c.p.p., applicando la causa di non punibilita', mentre in sede civile al giudice e' imposta la pronuncia di sentenza per l'adozione dei provvedimenti necessari alla definizione del processo, e cioe' l'affermazione della irresponsabilita' del parlamentare convenuto in giudizio, che si traduce necessariamente in una peculiare causa di rigetto della domanda (comma 4): soluzione la cui inevitabilita' nel caso all'esame di questo giudice giustifica ampiamente la rilevanza della questione atteso il contenuto della deliberazione concernente la condotta addebitata al convenuto onorevole Vendola. Il sistema descritto discende dal ripristino della c.d. pregiudiziale parlamentare, che era stata introdotta dai vari decreti legge attuativi dell'art. 68 della Costituzione, via via reiterati e tutti decaduti per mancata conversione tra il 1993 ed il 1996: va peraltro rivelato che il sistema delineato da questi provvedimenti, non piu' riproposti dopo l'intervento della Corte costituzionale diretto ad arrestare la deprecata prassi della reiterazione, si era completato, dopo le critiche iniziali (v. ad es. il parere del C.S.M. sul d.l. 15 novembre 1993, n. 455), con la previsione espressa dalla possibilita' del giudice di sollevare conflitto di attribuzioni ove ritenesse il deliberato della Camera lesivo della sua sfera di competenza, e tale esito, nonostante la mancata riproduzione del relativo inciso nella legge n. 140, deve considerarsi in ogni caso pienamente ammissibile anche oggi in base ai principi generali. E tuttavia cio' che appare non conforme a Costituzione non e' tanto il sistema della c.d. pregiudiziale parlamentare (impropriamente definita tale atteso che di pregiudizialita' puo' parlarsi solo nei rapporti tra diverse sedi di pronunce giurisdizionali e non con riferimento ad una valutazione che non da' vita ad un atto di natura giurisdizionale), posto che va preso atto della interpretazione secondo cui l'art. 68, primo comma, della Costituzione, attribuisce alla Camera di appartenenza il potere di valutare la condotta addebitata ad un proprio membro e di qualificarla come esercizio delle funzioni parlamentari allo scopo di inibire in ordine ad essa una difforme pronuncia giudiziale affermativa della responsabilita' (Corte costituzionale 29 dicembre 1988, n. 1150): cio' che pone problemi di compatibilita' con il dettato costituzionale e' l'inedito, a quanto consta, meccanismo di cui al comma 7 della norma piu' volte citata, che consente al membro del Parlamento di sottoporre direttamente la questione dell'insindacabilita' alla propria Camera di appartenenza, anticipando, prevenendo, o, piu' semplicemente, ignorando gli sviluppi del procedimento civile. In totale assenza del contraddittorio e' consentito al parlamentare di provocare una decisione potenzialmente preclusiva dell'ulteriore corso del giudizio instaurato nei suoi confronti, e cio' in palese contrasto con il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge ed in violazione del diritto alla tutela giurisdizionale, nell'uno e nell'altro caso senza quella giustificazione che consentirebbe di ricondurre nell'ambito della ragionevolezza il vulnus ai principi di cui agli artt. 3 e 24 della Costituzione: infatti la funzione di garanzia attribuita alla deliberazione di insindacabilita' e' gia' tutelata nel sistema in primo luogo dalla possibilita' che il giudice rilevi d'uffficio la questione, quindi dalla facolta' dell'interessato di sottoporre al giudicante l'eccezione e di provocare l'interessamento della Camera con un provvedimento dovuto che la legge qualifica espressamente non impugnabile. In particolare, nell'ambito di un giudizio civile, si consente all'interessato di sottrarsi al contradditorio, anche in via definitiva (nel caso di specie la costituzione del convenuto e' avvenuta solo immediatamente dopo l'entrata in vigore della legge n. 140), di bypassare il processo (per riprendere un'espressione dalla societa' attrice), che e' il momento fisiologico del confronto e della dialettica, concepito dal legislatore con sede naturale anche dell'affermazione della insindacabilita', e di provocare una pronuncia conclusiva e definitiva, senza alcuna possibilita' per la controparte di interloquire e di apportare quantomeno alla valutazione della Camera di appartenenza del convenuto quel contributo di conoscenza che potrebbe scaturire, ad es., dall'esame degli atti del giudizio (rispetto ai quali non sussiste per la Camera alcun obbligo di acquisizione). Tale sottrazione al suo corso normale del processo diretto al vaglio delle domande spiegate nei confronti del parlamentare, e soprattutto le modalita' con cui cio' avviene ad iniziativa dello stesso interessato (comma 7 del citato art. 3), confliggono apertamente con il principio di uguaglianza, con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, nonche' con l'attribuzione della funzione giurisdizionale ai soli giudici ordinari, e, in forza della novella costituzionale dell'art. 111 della Costituzione, anche con il diritto ad un processo caratterizzato dal contraddittorio e ad un giudice terzo ed imparziale. Appaiono sotto quest'ultimo profilo significative le decisioni di condanna dello Stato italiano recentemente adottate dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo con riferimento alla affermazione della insidacabilita' di condotte ed opinioni contenute in deliberazioni parlamentari ritenute lesive del diritto al giudizio di un tribunale indipendente ed imparziale (art. 6 della Convenzione europea). Ulteriori perplessita' il citato art. 3 suscita sotto il profilo sostanziale della delimitazione dell'ambito di applicazione dell'immunita', posto che il primo affianca agli atti «tipici», ai fini dell'estesione della prerogativa, «ogni altra attivita' di ispezione, di divulgazione, di critica e di denunzia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori dal Parlamento». La forma recepisce in tal modo la lettura estensiva propria della giurisprudenza parlamentare, e combina il criterio funzionale con quello topografico secondo una tesi affermata anche dalla Corte costituzionale: ai fini della insindacabilita' si afferma infatti che non rileva la configurazione nominalistica dell'atto compiuto dal parlamentare ovvero la sua riconducibilita' ad uno dei tipi di atti disciplinati dai regolamenti parlamenteri, ma importa la riferibilita' dell'atto allo svolgimento della funzione parlamentare, anche se attuata in forma innominata sul piano regolamentare (v. da ultimo, in tal senso, Corte costituzionale 24 giugno 2003, n. 219). E tuttavia, rispetto alla posizione piu' volte espressa dalla Corte costituzionale circa l'ambito effettivo dell'immunita' garantita dal primo comma dell'art. 68 della Costituzione, l'art. 3 della legge n. 140 omette di operare un'ulteriore necessaria delimitazione, indispensabile - ad avviso di questo giudice - per fugare ogni perplessita' in merito alla conformita' della norma al dato costituzionale. Non vi e' dubbio alcuno che, alla luce del criterio previsto, correttamente la Camera dei deputati ha affermato nel caso di specie l'insindacabilita' delle opinioni espresse nel dossier diffuso dall'on. Vendola, lato sensu riconducibili, come la proposta della compettente Giunta non manca di sottolineare, all'attivita' di denuncia politica svolta dal parlamentare nel contesto dell'azione della Commissione parlamentare antimafia di cui l'onorevole Vendola era in quel momento vicepresidente. E cio' puo' ritenersi anche a prescindere dall'esame del contenuto dei documenti prodotti dalla difesa del convenuto all'udienza del 30 giugno 2003, contestualmente alla costituzione in giudizio, ma tardivamente, posto che era stata gia' ammessa la prova testimoniale richiesta dalla societa' attrice (la cui produzione documentale soggiace a sua volta allo stesso giudizio di intempestivita', essendo intervenuta all'udienza del 15 dicembre 2003, gia' la seconda destinata alla precisazione delle conclusioni). Cio' che tuttavia caratterizza l'immunita' garantita dall'art. 68, primo comma, della Costituzione, secondo un'interpretazione costantemente affermata negli ultimi anni dalla giurisprudenza costituzionale, che eevidentemente una legge ordinaria, anchee se di definizione dell'ambito della prerogativa, non puo' misconoscere, e' la necessita' che ricorra una sostanziale corrispondenza di significati tra le dichiarazioni rese al di fuori dell'esercizio delle attivita' paralamentari tipiche svolte in Parlamento e le opinioni gia' espresse nell'ambito di queste ultime (cosi' soprattutto la Corte costituzionale 17 gennaio 200, n. 10; Corte costituzionale 17 gennaio 2000, nn. 11; piu' recentemente Corte costituzionale n. 79/2002; Corte costituzionale n. 509/2002). Senza tale necessaria delimitazione l'ampliamento del novero delle condotte coperte dallimmunita' realizzato con la legge n. 140, che include nell'ambito applicativo dell'art. 68 della Costituzione anche le opinioni meramente connesse alla funzione di parlamentare, rischia di fare venir meno lo stretto nesso funzionale tra l'espressione delle opinioni e l'esercizio delle funzioni parlamentari e di snaturare una garanzia rendendola un privilegio perrsonale, ponendo la norma ordinaria in contrasto con quella di rango costituzionale che la prima pretende di attuare. Le argomentazioni illustrate trovano puntuale riscontro nel caso all'esame di questo tribunale, giustificando anche sotto questo profilo il giudizio di rilevanza della questione, posto che un delimitazione nei termini indicati dell'area della insidancabilita' imporrebbe certamente un esito diverso della valutazione dei fatti addebitati all'on. Vendola e non potrebbe in alcun modo giustificare la deliberazione dell'Assemblea. La societa' attrice lamenta infatti il carattere gravemente diffamatorio, perche' lesivo dell'immagine e della reputazione del giornale quotidiano di cui e' editrice, di una serie di affermazioni contenute nel dossier piu' volte citato, diffuso dall'on. Vendola presso la sede messinese del suo partito, in occasione di una manifestazione politica. Negli atti parlamentari trasmessi si evidenzia che il dossier sarebbe «la proiezione e lo sviluppo dei contenuti di molteplici atti parlamentari tipici riconducibili alle funzioni parlamentari di Nichi Vendola anche con riferimento agli organi di stampa» (v. p. 4 della relazione della Giunta per le autorizzazioni, rel. Carboni). Ma di tale collegamento tra l'iniziativa dell'on. Vendola e la sua attivita' parlamentare, anche all'interno della commissione antimafia, gli atti prodotti non offrono alcuna prova convincente con riferimento particolare alla posizione del quotidiano Gazzetta del Sud. Dal testo della citata relazione della Giunta si ricava che la commissione di cui l'on. Vendola era in quel momento vicepresidente ebbe ad occuparsi del c.d. caso Messina, stilando ed approvando un documento finale oltre due anni prima dalla divulgazione del dossier. Ma dalla stessa relazione di Giunta non emerge alcun riferimento alla stampa locale, se non del tutto generico e, per cosi' dire, asettico, e senza alcun collegamento con i contenuti e con gli aspri toni che caratterizzano le specifiche accuse contenute nel dossier. E cio' puo' rilevarsi tanto con riferimento all'attivita' della Commissione antimafia chiusa dalla relazione approvata il 28 aprile 1998, quanto con riferimento alle piu' recenti iniziative parlamentari dell'onorevole Vendola, che concernono alcuni aspetti dell'inchiesta precedentemente portata a compimento, ma non appaiono in alcun modo collegati alle parti del dossier che contengono le vivaci critiche all'assetto e agli attegiamenti della stampa locale e che interessano direttamente la Gazzetta del Sud. Ne consegue per un verso la riconducibilita' delle condotte di cui si lamenta il carattere diffamatorio al disposto di cui al primo comma dell'art. 3 della legge n. 140, ma per altro verso il dubbio che, non essendo provata la corrispondenza di tali condotte ad attivita' compiute nell'esercizio specifico delle funzioni parlamentari, l'immunita' non potrebbe essere correttamente invocata sulla scorta della lettura del primo comma dell'art. 68 della Costituzione che viene costantemente avallata dalla giurisprudenza del giudice delle leggi. Della relativa questione di legittimita' deve essere pertanto investita la Corte costituzionale con la conseguente sospensione di questo processo e le relative statuizioni accessorie.