IL CONSIGLIO DI STATO

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel  ricorso in appello
proposto  dal  dott.  Mario  Guderzo,  residente in Marostica, difeso
dagli  avvocati Raffaele Versace e Fiorella Savi e domiciliato presso
di  loro  in  Roma, corso Trieste 185; contro, la dottoressa Giuliana
Ericani  (residenza  non  indicata), costituitasi in giudizio con gli
avvocati  Fabio  Lorenzoni  ed  Emilio Rosini e domiciliata presso il
primo  in  Roma,  via del Viminale, 43; e nei confronti del Comune di
Bassano  del  Grappa,  non costituito in giudizio; per l'annullamento
della sentenza 16 maggio 2000, n. 1054, notificata in data successiva
e   prossima   al   12   giugno  2000,  con  la  quale  il  Tribunale
amministrativo  regionale  del  Veneto, seconda sezione, ha annullato
gli  atti del concorso per il posto di direttore del museo del Comune
di Bassano del Grappa indetto con deliberazione della giunta comunale
di Bassano del Grappa 29 settembre 1998 n. 350.
    Visto  il  ricorso  in appello, notificato il 23 e 25 settembre e
depositato il 3 ottobre 2000;
    Visto  il controricorso della dottoressa Ericani, depositato il 3
ottobre 2000;
    Vista  la propria ordinanza 24 ottobre 2000 n. 5366, con la quale
e'  stata  respinta la domanda di sospensione dell'esecutivita' della
sentenza appellata;
    Viste le memorie presentate dalla resistente il 30 ottobre 2003 e
dall'appellante il 31 ottobre 2003;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Relatore,  all'udienza  dell'11  novembre  2003,  il  consigliere
Raffaele Carboni, e uditi altresi' gli avvocati Lorenzoni e Versace;
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

                              F a t t o

    La  dottoressa Ericani ha partecipato al concorso sopra indicato.
Dopo  la prima prova scritta, sostenuta il 20 maggio 1999 e giudicata
insufficiente,  le  e'  stata comunicata la non ammissione alle prove
successive,   ed   ella,  con  ricorso  al  Tribunale  amministrativo
regionale  del  Veneto  notificato  il  21 giugno 1999 al comune e al
dottor  Guderzo  che  nel  frattempo  aveva  vinto  il  concorso,  ha
impugnato  il  provvedimento  di  esclusione  e  la  deliberazione 23
febbraio   1999   n. 60   della  giunta  comunale,  di  nomina  della
commissione  giudicatrice  (procedimento di primo grado 1526/1999). A
sostegno  del  ricorso ha dedotto la violazione dell'art. 9, comma 2,
del  regolamento  sui  concorsi per posti di pubblico impiego emanato
con  decreto  del  Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487,
secondo  cui  almeno  un  terzo  dei  componenti delle commissioni di
concorso e' riservato alle donne, perche' nella specie la commissione
giudicatrice era composta da tre uomini.
    Il  comune,  costituitosi  in giudizio, ha eccepito la tardivita'
del  ricorso  rispetto  alla  conoscenza  del provvedimento di nomina
della  commissione  e  ha fatto presente di aver applicato il proprio
regolamento  sui  concorsi  adottato  con  deliberazione della giunta
comunale  8  luglio  1997  n. 292,  il  quale non prevede la presenza
obbligatoria di donne nelle commissioni giudicatrici.
    Con  un  secondo  ricorso,  notificato  il  19  il 21 luglio 1999
(procedimento  di  primo  grado  1886/1999)  la dottoressa Ericani ha
impugnato  il  regolamento  comunale  sui  concorsi,  deducendone  il
contrasto  con  la norma di legge che impone la presenza di donne nei
concorsi, cioe' con l'art. 61 del decreto legislativo 3 febbraio 1993
n. 29,  nel  testo sostituito dall'art. 43 del decreto legislativo 23
dicembre  1993  n. 546. Anche di questo ricorso il comune ha eccepito
la tardivita'.
    Il tribunale amministrativo regionale con la sentenza indicata in
epigrafe  ha  riunito  i  due  giudizi  e ha respinto le eccezioni di
tardivita'   dei   ricorsi.  Ha  poi  esaminato  la  questione  posta
dall'amministrazione  comunale, la quale sosteneva che il regolamento
del   1994  e'  applicabile  solo  ai  concorsi  per  posti  statali,
stabilendo  che  esso,  almeno  per  quanto  riguarda  la norma sulla
presenza  delle donne nelle commissioni, si applica invece anche agli
enti locali, ed e' di immediata applicazione ove non sussistano norme
regolamentari  dell'ente  di contenuto diverso e incompatibile con le
norme  di  quello.  Cio'  premesso,  ha respinto il ricorso contro il
regolamento  comunale,  che appunto non contiene nessuna disposizione
contraria  alla  regola della presenza obbligatoria delle donne, e ha
accolto  il  primo  dei  due  ricorsi,  annullando tutti gli atti del
concorso, stante la fondatezza del motivo di censura.
    Appella il dottor Guderzo, censurando la sentenza con due motivi.
Con  il primo motivo deduce la tardivita' dell'impugnazione dell'atto
di  nomina  della commissione giudicatrice, che sarebbe dovuto essere
impugnato  immediatamente,  e  inoltre  sostiene  che  il ricorso era
inammissibile   perche'  la  valutazione  delle  prove  e'  attivita'
discrezionale;  con il secondo motivo contesta l'applicabilita' della
normativa  sulla presenza delle donne nelle commissioni giudicatrici,
in   particolare  sostenendo  che  tali  norme,  cioe'  l'art. 9  del
regolamento  del  1984 e l'art. 61 del decreto legislativo 3 febbraio
1993 n. 29, non si applicano ai concorsi indetti dagli enti locali.
    Resiste  la  ricorrente  di  primo  grado la quale, nella memoria
presentata   il   30   ottobre   2003,  eccepisce  l'improcedibilita'
dell'appello  perche'  il  comune,  come  risulta dagli atti, ha dato
esecuzione  alla sentenza licenziando il dottor Guderzo, nominando un
nuova  commissione giudicatrice con un commissario di sesso femminile
e  ripetendo  le  operazioni  concorsuali.  In esito a tale rinnovata
procedura  e' risultata vincitrice la dottoressa Ericani, e il dottor
Guderzo ha proposto ricorso contro le operazioni concorsuali.

                            D i r i t t o

    L'eccezione  d'improcedibilita' dell'appello e' infondata: che il
comune  abbia  prestato  acquiescenza  alla  sentenza e vi abbia dato
esecuzione rinnovando il concorso non toglie che l'efficacia di tutte
queste  operazioni  sia  subordinata  al passaggio in giudicato della
sentenza  d'annullamento  degli  atti  precedenti, la quale invece e'
stata impugnata dal dottor Guderzo.
    E'   pure   infondato  il  primo  motivo  d'appello,  perche'  il
provvedimento   della  nomina  di  una  commissione  giudicatrice  di
concorso   non   e'   impugnabile  autonomamente,  non  essendo  atto
autonomamente  lesivo,  e  va  impugnato,  cosi'  come  ha  fatto  la
dottoressa  Ericani,  insieme  con la graduatoria che abbia collocato
l'interessato   in   posizione   non  favorevole.  L'altra  doglianza
contenuta  nel  primo  motivo  d'appello,  secondo cui il ricorso era
inammissibile   perche'  la  valutazione  delle  prove  e'  attivita'
discrezionale, e' un argomento non conferente.
    L'appellante  nella  memoria depositata il 31 ottobre 2000 ha poi
formulato,   con   il  conforto  di  una  pronuncia  giurisdizionale,
l'eccezione d'inammissibilita' del ricorso di primo grado, sostenendo
che,   le  norme  sulla  partecipazione  necessaria  di  donne  nelle
commissioni   giudicatrici   essendo  state  dettate  per  creare  le
condizioni  per  una effettiva partecipazione delle donne ai processi
decisionali  pubblici,  il  concorrente  non  e'  legittimato a farne
valere  la  violazione.  Il  Collegio  ritiene  infondata  anche tale
l'eccezione: il concorrente non vincitore o in posizione deteriore in
graduatoria,  che  ha interesse quindi ad impugnarla, e' ed e' sempre
stato  ritenuto  legittimato  a  far  valere  qualsiasi  vizio  della
procedura  concorsuale,  e  in particolare l'illegittima composizione
della  commissione, senza che possano aver rilievo le ragioni per cui
le  norme, delle quali si assume la violazione, prescrivono una certa
composizione  della commissione o richiedono che i commissari abbiano
certi requisiti.
    Infine  il  Collegio concorda con la sentenza impugnata sul fatto
che  la  normativa  in  questione  e'  applicabile  anche ai concorsi
pubblici  non  statali.  La disposizione che prescrive la presenza di
donne   e'  contenuta  (art. 9)  nel  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, a sua volta contenente «Regolamento
recante    norme   sull'accesso   agli   impieghi   nelle   pubbliche
amministrazioni  e  le  modalita' di svolgimento dei concorsi e delle
altre   forme  di  assunzione  nei  pubblici  impieghi»,  che  tratta
effettivamente   dei   concorsi   per   l'impiego   nelle   pubbliche
amministrazioni,   per  cui  non  c'e'  ragione  di  applicarla  solo
all'impiego  statale,  in  assenza, come il giudice di primo grado ha
gia'  rilevato, di una contraria disposizione regolamentare dell'ente
che indice il concorso; inoltre, come si vedra' meglio in seguito, la
disposizione  dell'art. 9 e' dettata in applicazione dell'art. 61 del
decreto  legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, contenente disciplina del
pubblico impiego e non solo dell'impiego statale.
    Il   Collegio   osserva   poi  che  l'art. 9,  comma  2,  seconda
proposizione,  prescrive:  «Almeno  un  terzo dei posti di componente
delle  commissioni  di  concorso,  salva  motivata impossibilita', e'
riservato  alle  donne,  in  conformita' all'art. 29 del sopra citato
decreto  legislativo». Il decreto cui la disposizione fa riferimento,
citato  nella  prima proposizione dello stesso comma 2, e' il decreto
legislativo  23 dicembre 1993 n. 546, contenente modifiche al decreto
legislativo  3  febbraio  1993  n. 29  sul pubblico impiego; e il cui
art. 43  (non  29)  ha  modificato  l'art. 61 del decreto legislativo
n. 29 del 1993 come segue:
      «1.  Le  pubbliche  amministrazioni,  al fine di garantire pari
opportunita'  tra  uomini  e  donne  per  l'accesso  al  lavoro ed il
trattamento  sul  lavoro:  a)  riservano  alle  donne, salva motivata
impossibilita',  almeno  un  terzo  dei  posti  di  componente  delle
commissioni   di   concorso,  fermo  restando  il  principio  di  cui
all'art. 36,   comma  3,  lettera  e)»  (fermo  restando,  cioe',  il
principio che componenti delle commissioni giudicatrici devono essere
esclusivamente  persone  esperte  nelle  materie  costituenti oggetto
delle  prove  concorsuali).  La  disposizione ora vigente, d'identico
contenuto, e' l'art. 57 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165.
Risulta  chiaro  che  la norma regolamentare e' puramente applicativa
della   disposizione   legislativa,   che  il  regolamento  trascrive
pressoche' testualmente.
    Il  Collegio dubita della legittimita' costituzionale della norma
legislativa citata.
    Circa  la  rilevanza della questione, il Collegio richiama quanto
detto sopra, che cioe' l'art. 9 del regolamento sui concorsi del 1994
e'  puramente  applicativo  di  una  norma  di  legge, e precisamente
dell'art. 61  del  decreto  legislativo  n. 29  del  1993  piu' volte
citato, sicche', quando venisse meno la disposizione di quest'ultimo,
la  norma regolamentare sarebbe inapplicabile, vuoi per l'inesistenza
della  norma  di legge richiamata e per il conseguente svuotamento di
contenuto   della  norma  regolamentare,  vuoi  in  presenza  di  una
giurisprudenza di questo Consiglio che ammette la disapplicazione, da
parte  del giudice amministrativo, di norme regolamentari illegittime
(quinta sezione, 19 settembre 1995 n. 1332). E l'applicabilita' della
normativa in questione, sulla presenza obbligatoria delle donne nella
commissione  giudicatrice,  contestata dall'appellante con il secondo
motivo   d'appello,   costituisce,   per  quanto  sopra  detto  circa
l'infondatezza degli altri motivi ed eccezioni formulati dalle parti,
l'unica  restante e quindi decisiva questione. Il Collegio poi non ha
dubbio  che  il motivo d'appello con cui si contesta l'applicabilita'
delle  norme  in  questione  ai  concorsi  dell'ente,  ancorche'  sia
argomentato  nel  senso  che  le  norme  sarebbero riferibili ai soli
concorsi statali, comporta comunque l'esame dell'applicabilita' delle
norme al concorso in esame e quindi, prima di tutto la verifica della
loro legittimita' costituzionale.
    Circa   la   non   manifesta  infondatezza  della  questione  con
riferimento agli articoli 3, primo comma, e 51 della Costituzione, il
Collegio  non  ha  che  da  richiamare  la sentenza 12 settembre 1995
n. 422,  con  la  quale la corte costituzionale, cui la questione era
stata  rimessa  da questo Consiglio, ha dichiarato costituzionalmente
illegittime  le  disposizioni  di legge che imponevano la presenza di
candidati  d'ambo  i sessi nelle liste elettorali. In quella sentenza
la  corte  ha  stabilito  che  gli articoli 3 e 51 della Costituzione
garantiscono   l'assoluta   uguaglianza   fra   i   due  sessi  nella
possibilita'   di   accedere   alle  cariche  elettive,  e  che  tale
uguaglianza  non  puo' avere altro significato che l'indifferenza del
sesso ai fini dell'accesso a quelle cariche, e non e' invece qualcosa
che  debba  essere  attuata mediante la positiva previsione del sesso
come  condizione  di accesso alle cariche elettive; perche' le misure
legislative,   adottate  per  eliminare  situazioni  di  inferiorita'
sociale  ed  economica, o piu' in generale per rimuovere e compensare
le  disuguaglianze  materiali  tra  gli  individui  nel godimento dei
diritti  fondamentali,  non  possono incidere sul contenuto stesso di
quei  medesimi  diritti,  rigorosamente  garantiti in egual misura ai
cittadini  in quanto tali, ne' attribuire direttamente i benefici che
dal  pieno godimento di quei diritti potrebbero derivare. Quel che la
corte   ha  stabilito  per  l'accesso  alle  cariche  elettive  vale,
naturalmente,  anche  per  l'accesso agli uffici pubblici, menzionato
nell'art. 51  della  Costituzione  insieme  con  quello  alle cariche
elettive.
    Rispetto   alle   disposizioni   allora  esaminate  dalla  corte,
l'art. 61  del  decreto  legislativo  n. 29  del  1993  presenta  due
differenze  che,  a  parere  del  Collegio, rendono a maggior ragione
applicabili i principi allora affermati.
    In  primo luogo, mentre le norme sulla «rappresentanza dei sessi»
nelle  liste  elettorali  erano  formulate  in modo neutro rispetto a
ciascuno dei sessi cioe' imponevano la presenza nelle liste sia degli
uomini  sia  delle  donne,  la  disposizione  ora  in esame impone la
presenza di donne per almeno un terzo nelle commissioni giudicatrici,
con  la conseguenza che una commissione e' legittimamente composta di
sole donne mentre e' illegittimamente composta di soli uomini; il che
appare irrazionale.
    In  secondo  luogo  il  legislatore  ha apertamente dichiarato la
finalita'  perseguita,  che e' quella «di garantire pari opportunita'
tra  uomini  e  donne  per  l'accesso al lavoro ed il trattamento sul
lavoro».  Al  Collegio  pare  evidente, dato il tenore testuale della
norma,  che la pari opportunita' cui la legge si riferisce sia quella
di conseguire il posto d'impiego, cioe' di vincere il concorso, e non
gia',  come  pure  la  norma  e' stata intesa e come la intende anche
l'appellante, quella di partecipare alle commissioni giudicatrici. Ma
se  cosi'  e',  a  parte  il  rilievo che non sembra realistico, alla
stregua  anche  della comune esperienza, affermare che attualmente le
cittadine  siano  sfavorite  nell'accesso  ai  pubblici  impieghi, il
legislatore implicitamente afferma, ed anzi postula, che i commissari
tendano  a  favorire  i  candidati  del  loro  stesso  sesso;  e tale
affermazione  e'  arbitraria  e  grave,  perche', se cosi' fosse, non
tanto  occorrerebbero  «azioni  positive»,  quanto piuttosto verrebbe
posta  in  discussione  l'efficienza  e  l'imparzialita'  di tutto il
sistema  dei  concorsi  pubblici. Se invece la disposizione va intesa
nel   senso   della  pari  opportunita'  di  ottenere  l'incarico  di
componente  di  commissione  giudicatrice,  si  espone  alla  critica
d'irrazionalita'  per  altri  versi. Innanzitutto, dato che lo stesso
decreto  legislativo, all'art. 36, comma 3 lettera «e», prevede che i
commissari siano scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti
od anche persone esterne all'amministrazione esperte della materia (e
quindi,   per   lo   piu',   appartenenti   a  determinate  categorie
professionali),  la  disparita' nella partecipazione alle commissioni
giudicatrici  potrebbe  sussistere  solo  quanto esistesse, per cosi'
dire,  a  monte,  cioe'  nell'accesso  a quelle categorie dalle quali
vengono  tratti  i  commissari;  il  che non e', o per lo meno e' del
tutto   indimostrato,   e   in   ogni   caso  il  rimedio  «a  valle»
dell'ipotetica   disparita'   sarebbe  incongruo.  In  secondo  luogo
l'interesse  pubblico,  che  e'  unicamente  quello  dell'idoneita' e
competenza dei commissari ed e' ribadito dal citato art. 36, comma 3,
lettera  e)  richiamato  dall'art. 61, verrebbe piegato all'ipotetico
interesse  dei  singoli,  sia  pure  delle persone di sesso femminile
concepite come appartenenti a una categoria, ad ottenere la carica di
componente della commissione; pare assurdo, cioe', affermare, come fa
l'art. 61,   che,   fermo  restando  il  principio  della  competenza
professionale  dei  commissari,  essi  debbono altresi' possedere una
certa  caratteristica (l'appartenenza a un sesso) in modo da favorire
la  categoria  dei  portatori  di  quella caratteristica; e l'insieme
delle  affermazioni  contenute  nell'art. 61  rende  ancor piu' arduo
comprendere  che  cos'abbia  a  vedere il sesso con la partecipazione
alle commissioni giudicatrici dei concorsi pubblici.
    Per  le  suddette  ragioni  la  questione  va  rimessa alla Corte
costituzionale,  in  applicazione  dell'art. 23  della legge 11 marzo
1953 n. 87.