LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE Ha emesso la seguente ordinanza sull'appello n. 2880/03 depositato il 15 aprile 2003 avverso la sentenza n. 243/46/2002 emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli contro Comune di San Giorgio a Cremano, proposto dal ricorrente Esposito Enrica, corso Garibaldi n. 234 - 80141 Napoli, difeso dall'avv. Enzo Di Martino e P. avv. Gennaro De Angelis, corso Garibaldi n. 246 - 80141 Napoli. Atti impugnati: avviso di liquidazione n. 89529 I.C.I. 1998; avviso di liquidazione n. 90701 I.C.I. 1998. Svolgimento del processo I contribuenti hanno proposto ricorso ad avviso di liquidazione n. 89529 e 90701 per imposta I.C.I. anno 1998 in relazione ad appartamento sito in San Giorgio a Cremano, dimostrando che il detto cespite era stato alienato nel 1997 con atto Notar Caravaglios e che della vendita era stata data tempestiva comunicazione anche al Comune di San Giorgio contestualmente alla alienazione. La Commissione tributaria provinciale sez. 46, vista la dichiarazione del Comune che la pendenza tributaria era stata definita, ha emesso sentenza n. 243/46/02 depositata il 3 maggio 2002 con la quale ha dichiarato cessata la materia del contendere compensando le spese. Il contribuente ha proposto appello a detta sentenza evidenziandone la illogicita', carenza di motivazione in relazione alle spese del giudizio e la illegitimita'. Questa Commissione dopo ampia discussione e attento esame osserva quanto segue. Motivi della decisione Non sembra dubbio che nella specie, essendo venuta meno la pretesa impositiva della autorita' finanziaria, deve trovare applicazione la disposizione di cui all'art. 46, d.lgs. n. 546/1992 che, al comma 1, prevede la estinzione del giudizio «nei casi di definizione delle pendenze tributarie e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere». Infatti nel processo tributario il legislatore ha ritenuto di ricomprendere (ponendo altresi' regolamentazione per le spese di lite) nella disciplina dell'istituto tipicamente processuale dell'estinzione del giudizio, che sia nel processo civile che in quello amministrativo consegue a situazioni di natura prettamente processuali (rinuncia agli atti del giudizio e inattivita' delle parti), oltre alle predette situazioni (artt. 44 e 45 d.lgs. n. 546/92), anche la cessazione della materia del contendere (art. 46, d.lgs. cit.). E' ben noto, infatti, che la cessazione della materia del contendere costituisce fenomeno di natura sostanziale, che consegue a fatti ed eventi verificatisi nel corso del processo ed incidenti sull'azione sostanziale in modo tale da rendere superflua la prosecuzione dello stesso. In altri termini essa solo di riflesso produce l'effetto processuale della estinzione del giudizio. La cessazione della materia del contendere, proprio per la sua natura e per i suoi effetti preculiari, e' fenomeno del tutto ignorato dal codice di procedura civile, tanto che la giurisprudenza ha elaborato il concetto di soccombenza virtuale ai fini della regolamentazione delle spese, mentre nella disciplina del procedimento amministrativo essa e' prevista e regolamentata, ma separatamente dall'istituto dell'estinzione del giudizio, nell'art. 23, ult. comma della legge n. 1034/71 (che demanda al giudice di dichiarare cessata la materia del contendere e provvedere alla regolamentazione delle spese). Piu' problematicamente si presenta, invece, nel processo tributario la questione relativa alla regolamentazione delle spese processuali. Invero la norma non pone alcuna distinzione tra le cause di cessazione della materia del contendere verificatesi in epoca antecedente o successiva all'instaurazione del processo tributario e nemmeno, per quanto rileva nella specie, da' rilievo alla stessa inesistenza originaria della materia sostanziale del contendere, ovvero della pretesa tributaria, ma ha riguardo solo all'effetto processuale, ovvero al momento in cui la parte, (ovvero nella specie l'Amministrazione finanziaria) prende atto dell'infondatezza della sua pretesa (nella specie imposizione tributaria) e, eliminato l'atto impositivo opposto, lo dichiara al giudice tributario. L'irrilevanza processuale dell'inesistenza originaria della pretesa tributaria e del momento di insorgenza delle cause di cessazione della materia del contendere congiuntamente alla compensazione normativamente disposta per le spese di lite impediscono, con tutta evidenza, al giudice tributario di fare applicazione del principio giurisprudenziale della c.d. soccombenza virtuale che consente nel processo civile, per il caso che il giudizio non sia definito con una pronuncia di merito, di effettuare una sommaria delibazione della fondatezza della domanda e conseguentemente di ripartire il carico delle spese processuali. Della legittimita' costituzionale della detta norma e' dato fondatamente di dubitare. Va innanzitutto premesso che la questione e' certamente rilevante nella specie, poiche', una volta dichiarata l'estinzione del giudizio, deve necessariamente provvedersi in ordine alla regolamentazione delle spese processuali per le quali, oltretutto, vi e' espressa domanda della contribuente che, come ad essa consentito dall'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 546/92, ha esercitato il diritto di farsi assistere da un difensore. La questione e' inoltre non manifestamente infondata poiche' la norma enunciata sembra porsi in contrasto con la nuova formulazione dell'art. 111 della Costituzione. Questo giudicante non ignora che i dubbi sulla costituzionalita' dell'art. 46/III cit. sono gia' stati piu' volte prospettati con riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione e ritenuti infondati dalla Corte costituzionale (prima con la sentenza n. 53 del 12 marzo 1998 e successivamente con le ordinanze n. 368/1998, n. 265/1999 e n. 465/2000 confermative della sentenza), ma ritiene che la nuova formulazione dell'art. 111, commi primo e secondo (come introdotti dalla legge Cost. n. 2/1999), che ha elevato al rango costituzionale i principi del giusto processo e delle condizioni di parita' delle parti nel contraddittorio, principi applicabili in ogni tipo di processo e non solo in quello penale, renda opportuno, se non necessario, un nuovo esame della questione. Giova ricordare che la norma di cui all'art. 46, comma terzo, d.lgs. n. 546/92 era stata denunciata per contrasto: a) con l'art. 3 Cost. per l'ingiustificato privilegio concesso all'Amministrazione finanziaria esentata dall'onere di sopportare le spese processuali sostenute dal contribuente in conseguenza di un negligente comportamento di essa (obbligo sancito in via generale dall'art. 15 d.lgs. cit.); b) con l'art. 24 Cost. per la limitazione della tutela giurisdizionale e la menomazione del diritto di difesa nei confronti del contribuente il quale, pur consapevole della fondatezza delle sue ragioni, potrebbe essere indotto a non adire il giudice tributario nella prospettazione di doversi sobbarcare le spese processuali da esso anticipate per il caso che l'Amministrazione finanziaria nel corso del giudizio riconosca l'insussistenza della pretesa tributaria, prospettazione constituente una remora quasi decisiva per il caso che le spese si prevedano superiori alla somma richiesta dalla A.F. La Corte aveva ritenuto infondata la denuncia osservando che: a) il principio giurisdizionale della c.d. soccombenza virtuale, valido per il processo civile, non e' applicabile al processo tributario attesa la specificita' di questo correlata al rapporto sostanziale che ne e' oggetto, rapporto attinente «alla fondamentale ed imprescindibile esigenza dello Stato di reperire i mezzi per le sue funzioni attraverso l'attivita' dell'Amministrazione finanziaria, la quale ha il potere - dovere di provvedere, con atti autoritativi, all'accertamento ed alla pronta riscossione dei tributi», la obbligatorieta' della compensazione delle spese e' prevista in ogni caso di cessazione della materia del contendere, e quindi le parti sono poste sullo stesso piano, escluso ogni privilegio per la P.A.; l'accertamento di merito, necessario per stabilire la soccombenza virtuale, comporterebbe una complicazione incompatibile con le caratteristiche di snellezza del processo tributario; b) il principio della ripartizione delle spese processuali in base al criterio della soccombenza, pur essendo di carattere generale, non e' assoluto potendo essere derogato sia dal giudice nella ricorrenza di giusti motivi (ex art. 92 c.p.c.) che per previsione normativa «in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione della regola generale sancita nel codice di rito». «Principio insuperabile e' esclusivamente quello che la parte vittoriosa non venga gravata, in tutto o in parte, delle spese di lite». Orbene le ragioni adotte a sostengo della legittimita' costituzionale dell'esclusione dal processo tributario del principio della soccombenza virtuale per il caso di estinzione del giudizio conseguente alla cessazione della materia del contendere (che notoriamente non e' altro che il riflesso processuale della rinuncia all'azione sostanziale) non sembra che possano ritenersi valide alla luce della nuova formulazione dell'art. 111 della Costituzione, quanto meno con riferimento all'ipotesi in cui l'Amministrazione finanziaria, avvedutasi dell'erroneita' della sua pretesa, ritenga di annullare, in corso di causa e in via di autotutela, l'atto impugnato e oggetto del ricorso. E' infatti ben noto che l'art. 111 della Costituzione, adeguando il sistema processuale (con riferimento a qualunque tipo di processo) al fondamentale precetto di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ha sancito in modo solenne il principio del giusto processo che deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parita'. Orbene, premesso che il principio - posto dall'art. 91 c.p.c. per il processo civile e recepito nell'art. 546/92 per il processo tributario (in ossequio alle direttive del legislatore delegante, direttive tra le quali e' quella dell'adeguamento del processo tributario alle norme del processo civile) - secondo il quale la parte soccombente e' condannata a rimborsare le spese del giudizio ha la sua ratio (secondo la piu' accreditata dottrina processualistica) nella antigiuridicita' della pregressa complessiva condotta della parte, di cui la soccombenza e' il primo degli indici rivelatori, riesce ben difficile considerare giusto, nel senso di effettivita' della tutela giurisdizionale, un sistema processuale che imponga al soggetto contribuente di accollarsi le spese anticipate per la lite nel caso che la P.A., dopo averlo costretto ad adire la via giurisdizionale, annulli o ritiri l'atto impugnato accorgendosi, solo tardivamente, della illegittimita' o infondatezza dello stesso. E' di tutta evidenza che un tale sistema processuale contrasta col fondamentale postulato di un processo che sia giusto, ovvero con la esigenza che i diritti siano integralmente tutelati, laddove la tutela e' solo parziale nel sistema di cui all'art. 46/III cit. poiche' il contribuente vede il suo diritto (nella specie a non corrispondere alcuna somma al fisco) tutelato solo nella misura corrispondente alla differenza tra il non dovuto e la somma sborsata per la lite. E' di certo condivisibile l'affermazione che «Principio insuperabile e' quello che la parte vittoriosa non venga gravata, in tutto o in parte, dalle spese di lite», ma proprio in ossequio a detto principio si ravvisa la necessita' che, anche in difetto di una pronuncia di merito, sia stabilito chi sia il soccombente virtuale sul quale far gravare le spese di lite. Non sembra possa porsi in dubbio, infatti, che nell'ambito di un processo veramente giusto sia in ogni caso necessario identificare, ai fini dell'accollo o del riparto delle spese di lite, la parte alla quale attribuire la responsabilita' del processo, ovvero quella che abbia tenuto un comportamento rilevatosi ingiusto, lasciando insoddisfatta una pretesa poi riconosciuta fondata. E' pur vero che ogni principio puo' subire eccezione per circostanze contingenti in relazione al singolo caso di specie, ma proprio per tale motivo e' riconosciuto al giudice il potere di disporre la compensazione totale o parziale delle spese processuali nella ricorrenza di giusti motivi, potere esercitabile anche nell'ambito della valutazione della soccombenza virtuale. Ne' e' da porre in dubbio che la compensazione delle spese di lite possa anche essere normativamente prevista, ma in tal caso essa dovrebbe pur sempre avere una sua giustificazione, nel rispetto del principio del giusto processo, laddove, invece, nessuna delle giustificazioni adotte sembra compatibile con il detto principio. Innanzitutto non sembra conforme al dettato costituzionale sostenere che le peculiarita' del processo tributario, correlate alla fondamentale ed imprescindibile esigenza dello Stato di reperire i mezzi per l'esercizio delle sue funzioni, possano giustificare una deroga a quello che e' uno dei principi cardine del giusto processo, ovvero la tutela integrale dei diritti del cittadino. Nemmeno, peraltro, la conformita' dell'art. 46/III cit. con l'art. 111 Cost. potrebbe essere sostenuta adducendo l'esigenza di conservazione delle peculiari caratteristiche di snellezza del processo tributario che non tollererebbero la indubbia complicazione costituita dall'accertamento di merito onde stabilire la «soccombenza virtuale». Va rilevato, infatti, che nel caso in cui (come nella specie) e' l'Amministrazione, senza alcuna richiesta del contribuente, ad annullare l'atto impositivo in sede di autotutela in tal modo ammettendo la infondatezza o illegittimita' della pretesa tributaria contestata dal contribuente, l'accertamento di merito, al fine di stabilire la soccombenza virtuale, sarebbe caratterizzato da semplicita' evidente onde nessuna complicazione potrebbe comportare alla snellezza del processo tributario. In secondo luogo non sembra che le esigenze di snellezza del processo tributario possano sacrificare fondamentale diritto del contribuente a vedere tutelati integralmente ed effettivamente i suoi diritti nell'ambito di un processo che sia veramente giusto e svolto in condizioni di parita' con l'Amministrazione finanziaria. In terzo luogo non puo' non rilevarsi che le esigenze di snellezza del processo tributario sono in stretta correlazione con quelle deflative del contenzioso tributario, esigenze, queste ultime, che sarebbero sicuramente appagate con l'applicazione del principio della soccombenza virtuale, posto che esso di certo indurrebbe l'Amministrazione finanziaria ad essere piu' attenta a non emettere provvedimenti impositivi in contrasto con la legge o supportati da scarsi elementi probatori. Inoltre la norma di cui all'art. 46/III cit., con riferimento al caso concreto prospettato, sembra in contrasto anche con il principio della parita' processuale tra le parti, poiche' mentre la Amministrazione finanziaria puo', nel corso del giudizio, annullare il suo atto ad libitum, determinando cosi' il venir meno dell'oggetto del contendere senza incorrere nella condanna alle spese, invece il contribuente non puo' fare altro che subire la condotta dell'altra parte, il che, oltretutto, concreta anche una grave remora (e quindi limitazione) per la tutela giurisdizionale contro gli atti tributari emessi infondatamente o illegittimamente. Ne', peraltro, potrebbe fondatamente ritenersi che la parita' tra le parti e' salvaguardata dalla corrispondente facolta' concessa al contribuente di far cessare la materia del contendere mediante il pagamento del tributo richiesto (ad es. nell'ipotesi che costui, solo successivamente all'instaurazione del giudizio, si avveda della erroneita' o infondatezza del suo ricorso). Invero la valutazione sulla parita' processuale delle parti deve essere effettuata con riferimento alla singola situazione processuale e non gia' mediante il confronto tra situazioni diverse, quantunque speculari. E' da ritenere pertanto che il predetto principio costituzionale dovrebbe ritenersi violato dall'art. 46/III cit. anche nell'ipotesi che sia il contribuente a provocare la cessazione della materia del contendere.