Ricorso  della  Regione Campania, in persona del presidente della
giunta  regionale pro tempore, on. Antonio Bassolino, rappresentato e
difeso,  giusta  mandato  a  margine ed in virtu' delle deliberazioni
della  giunta  regionaIe  n. 1469 del 23 luglio 2004 e n. 1597 del 20
agosto  2004,  dall'avv.  Vincenzo Baroni dell'Avvocatura regionale e
dal  prof  avv.  Vincenzo  Cocozza,  insieme  e con i quali elett. te
domicilia  in  Roma, presso l'Ufficio di Rappresentanza deIla Regione
Campania alla via Poli n. 29;

    Contro  la  Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del
Presidente  del Consiglio dei ministri pro tempore; in relazione alla
deliberazione  del Consiglio dei ministri in data 14 maggio 2004 e al
decreto  del  Presidente  del  Consiglio dei ministri 14 maggio 2004,
recante  «Determinazione  delle  quote previste dall'art. 2, comma 4,
del  decreto  legislativo  18  febbraio  2000,  n. 56  -  anno 2002»,
pubblicato  nella  Gazzetta  Ufficiale  - Serie generale n. 179 del 2
agosto 2004.

                              F a t t o

    1.  -  In  data  2 agosto 2004 e' stato pubblicato il decreto del
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  14  maggio  2004,  recante
«Determinazione  delle  quote  previste  dall'art. 2,  comma  4,  del
decreto  legislativo 18 febbraio 2000, n. 56 - anno 2002», con cui il
Governo  ha  proceduto  alla  distribuzione  delle  risorse del Fondo
perequativo nazionale senza la prevista intesa con le regioni, con un
atto illegittimo, anche per incompetenza, e sulla base di criteri che
si  rivelano  gravemente  lesivi  per  gli equilibri finanziari della
regione e contrastanti con l'art. 119, comma 3, della Costituzione.
    La  questione  si  mostra,  invero,  peculiare, avuto riguardo ai
rapporti (anche temporali) fra l'atto avente forza di legge che fonda
l'intervento  del  decreto  impugnato  e  di  cui  questo costituisce
attuazione,  il  nuovo  disegno  costituzionale  dell'autonomia  - in
particolare  quella  finanziaria  -  regionale introdotto dalla legge
cost. n. 3/2001 e il decreto medesimo.
    Ai  fini  di una piu' completa e chiara visione degli elementi di
illegittimita' e', dunque, opportuno procedere preliminarmente ad una
seppur  sintetica  ricostruzione normativa, tenendo conto dei tempi e
dei rapporti reciproci fra le fonti.
    2.  -  In data 13 maggio 1999, e' stata approvata la legge n. 133
in   materia   di   perequazione,   razionalizzazione  e  federalismo
regionale.
    L'art. 10  di  detta  legge  ha  delegato il Governo ad approvare
decreti legislativi aventi ad oggetto il finanziamento alle regioni a
statuto  ordinario  e l'adozione di meccanismi perequativi fondati su
alcuni  principi  e criteri direttivi. In particolare, il legislatore
ha  inteso  individuare  un  nuovo  sistema perequativo della finanza
pubblica,  attraverso  il  superamento  del  vecchio criterio fondato
sulla  spesa  storica e l'introduzione di un sistema di distribuzione
delle risorse basato su precisi elementi di calcolo.
    La lettera d) dell'art. 10 ha, in tale direzione; stabilito che i
relativi decreti avrebbero dovuto prevedere meccanismi perequativi in
funzione   della  capacita'  fiscale,  della  capacita'  di  recupero
dell'evasione fiscale e' dei fabbisogni sanitari.
    Lo  stesso  legislatore,  pero', ha avuto cura di porre un limite
generale   alle   nuove   modalita'  di  ripartizione  delle  risorse
finanziarie,  al fine di calibrare e governare gli effetti di maggior
rigore conseguenti all'applicazione del nuovo sistema.
    Cosi'  l'ulteriore  direttiva  del legislatore e' stata nel senso
«di  consentire a tutte le Regioni a statuto ordinario di svolgere le
proprie  funzioni e di erogare i servizi di loro competenza a livelli
essenziali  ed  uniformi  su  tutto  il territorio nazionale; tenendo
conto  delle  capacita'  fiscali  insufficienti a far conseguire tali
condizioni e della esigenza di superare gli squilibri socio-economici
territoriali» (art. 10, lett. d).
    3.  -  In  data 18 febbraio 2000, il Governo, in attuazione della
delega,   ha   approvato   il   decreto   legislativo  n. 56  recante
«Disposizioni  in materia di federalismo fiscale a norma dell'art. 10
legge 14 maggio 1999, n. 133.».
    L'art. 7  di  detto  decreto  ha, in particolare, dato attuazione
alle lett. c) e d) dell'art. 10 della legge delega ed ha disposto che
la  determinazione delle quote di cui all'art. 2, comma 4, lettera d)
(ossia  le somme da erogare a ciascuna regione da parte del Ministero
del  tesoro,  del bilancio e della programmazione economica), sarebbe
avvenuta,  non piu' sulla base della spesa storica ma, sulla base dei
diversi  criteri  della  capacita' fiscale e del fabbisogno sanitario
come  previsto dalla legge di delega, ed anche su ulteriori parametri
riferiti  alla  popolazione  residente  e  alla dimensione geografica
(pero' non previsti dal Parlamento).
    Il  comma  2  dello stesso art. 7 ha, poi, precisato che le quote
«sono  fissate in modo tale da assicurare la copertura del fabbisogno
sanitario alle Regioni con insufficiente capacita' fiscale».
    L'art. 2,  comma  4,  ha  previsto,  per  la determinazione delle
quote,  un  decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei ministri da
approvare previa intesa con le regioni.
    Successivamente,   come   e'   noto,   e'  intervenuta  la  legge
costituzionale   n. 3/2001   che,  nel  riformare  anche  l'autonomia
finanziaria  delle  Regioni, ha previsto risorse autonome, tributi ed
entrate  proprie  nonche'  compartecipazioni  al  gettito dei tributi
erariali riferibili al territorio nazionale.
    Il  novellato  art. 119 Cost. ha imposto allo Stato l'istituzione
di   un  fondo  perequativo  funzionale  ai  «territori  con,  minore
capacita' fiscale per abitante» (comma 3).
    Il   legislatore  costituzionale  ha,  pertanto,  individuato  un
preciso  parametro  con  il  quale effettuare la giusta e ragionevole
distribuzione  delle  risorse ai fini di solidarieta' interregionale.
Parametro   con  il  quale  collidono,  evidentemente,  i  diversi  e
ulteriori  criteri (quali quelli individuati dal decreto legislativo,
prima  citato)  per  la  determinazione  delle, quote del Fondo e che
compromettono  il  fine cosi' chiaramente espresso dalla disposizione
costituzionale.
    Come  si  dira'  la  specifica attuazione del decreto legislativo
effettuata  dal  d.P.C.m.  oggetto del presente conflitto conferma in
concreto tale dato.
    4.  -  Essendosi  cosi' venuta a configurare la successione delle
fonti di disciplina, le Regioni hanno rappresentato che non vi era la
possibilita' per il Governo di procedere seguendo le previsioni di un
decreto legislativo non piu' conforme a Costituzione.
    Cosi',  nella  seduta  della  Conferenza Stato-regioni in data 10
luglio  2003,  convocata  per  la necessaria intesa sui contenuti del
d.P.C.m.,  ai sensi dell'art. 2, comma 4, d.lgs. n. 56/2000, venivano
segnalate  le  perverse conseguenze della applicazione concreta degli
indicati criteri legali e si chiedeva, pertanto, un deciso intervento
di modifica da parte del Governo sia dello schema di d.P.C.m. sia, se
necessario, dello stesso decreto - «legislativo, non piu' conforme al
parametro costituzionale vigente.
    Stante  questa  esigenza  insuperabile,  non  veniva, come ovvio,
raggiunta  l'intesa,  in  attesa  delle  conseguenti  determinazioni.
Seguivano,  cosi',  contatti  informali  con  il Governo centrale che
mostrava   in   piu'  occasioni,  per  di  piu',  di  condividere  le
osservazioni   sollevate  dalle  Regioni  e  di  voler,  per  questo,
provvedere alle necessarie modifiche.
    Sennonehe',  in data 2 agosto 2004, a distanza di piu' di un anno
dalla  indicata  riunione  della Conferenza, in assenza di intesa, il
decreto  e'  stato  pubblicato  nella  sua  originaria (e contestata)
stesura, in base ai criteri del d.lgs. n. 56/2000.
    Nel  decreto  e' citata la delibera del Consiglio dei ministri in
data  14  maggio  2004  con  la quale sarebbe stata superata l'intesa
stessa.
    L'aver   proceduto   in   maniera  illegittima  ad  approvare  la
disciplina  senza intesa e senza validamente superare l'obbligo della
stessa   origina   il  presente  conflitto  di  attribuzione.  Ed  il
provvedimento,  nella sua palese illegittimita', per i suoi contenuti
finanziari  comportanti  insostenibili squilibri socio-economici e di
bilancio  ed  incidenti  fortemente  sulla capacita' della Regione di
svolgere  le  proprie funzioni e di garantire i livelli essenziali di
servizi   e  prestazioni,  lede  gravemente  la  sfera  di  autonomia
regionale  costituzionalmente  garantita.  Se  ne  chiede,  pertanto,
l'annullamento alla stregua delle seguenti considerazioni in

                            D i r i t t o

    1.  -  Violazione  dell'art.  119  cost. Violazione dell'art. 117
cost.  e della autonomia regionale. Violazione del principio di leale
cooperazione.  Violazione  e  falsa  applicazione  degli  artt. 2 e 7
d.lgs.  18  febbraio  2000,  n. 56.  Violazione  e falsa applicazione
dell'art. 3 d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281. Incompetenza.
    Come  ricordato  in  fatto, il provvedimento oggetto del presente
ricorso  applica  criteri  di  ripartizione  del Fondo perequativo in
contrasto   con   il  nuovo  sistema  introdotto  dalla  legge  cost.
n. 3/2001,  e  riferiti ad una disciplina legislativa approvata prima
della riforma costituzionale.
    La  nuova previsione costituzionale individua come unico criterio
di  ripartizione del fondo perequativo quello della capacita' fiscale
per   abitante.   Ne'   sarebbe   ammissibile   sostenere   che  tale
individuazione  di  un unico criterio come parametro, sia integrabile
da  ulteriori  elementi.  Perche', con tutta evidenza, in tal maniera
l'autonomia sarebbe vanificata.
    La  scelta  e'  stata  evidentemente dettata nella prospettiva di
equilibri  finanziari  (e  sociali)  determinati,  rispetto  ai quali
l'introduzione    di    differenti    ed   ulteriori   variabili   ne
vanificherebbero l'efficacia e la conseguente ratio normativa.
    In   altri   termini,   con   il   terzo  comma,  il  legislatore
costituzionale  non  si  e'  limitato ad individuare direttive, ma ha
compiuto precise scelte di solidarieta' sociale interregionali, in un
certo  qual modo «quantificando» a monte la compensazione dovuta alle
Regioni  in  difficolta'  economica  e  fiscale in virtu' del sistema
introdotto dal novellato art. 119, sottraendolo a politiche ordinarie
che  ne  compromettano  il punto di equilibrio individuato attraverso
l'inserimento  di  criteri  ulteriori, non riferibili alla «capacita'
fiscale.».
    Si  e',  dunque,  di  fronte  ad  una  questione  in cul vi e' un
rapporto tra le fonti del tutto peculiare.
    Si  riscontra,  infatti,  una  legge  (e  un decreto legislativo)
approvata  in vigenza di altro sistema finanziario, che e', pero', in
contrasto   (come   si   e'   visto)  con  una  norma  costituzionale
sopravvenuta.
    E'  rilevante,  ai nostri fini, il tipo di formulazione del terzo
comma dell'art 119 Cost.
    Come  detto,  questa si caratterizza per la natura immediatamente
precettiva   della   norma,   laddove   non  si  limita  ad  indicare
esclusivamente  un obiettivo di solidarieta' (dunque un programma che
necessita  di attuazione), ma ne fissa le modalita' attuative proprio
attraverso  la specificazione dei criteri su cui fondare l'intervento
statale di ridistribuzione delle risorse.
    Cio'  rende  la norma, da una parte, sufficientemente dettagliata
e,   dunque,  immediatamente  applicabile  (secondo  il  tradizionale
orientamento  della  Corte  Costituzionale); dall'altra, in diretto e
specifico contrasto con la legge ordinaria precedentemente approvata,
con la conseguenza che quest'ultima deve intendersi abrogata.
    Comunque,  ed a prescindere dalla condivisibilita' di tale ultima
conclusione,  non vi e' dubbio che e' incontestabile il diritto delle
Regioni a pretendere una attuazione conforme a Costituzione.
    Tutto   cio'   e'   di  assoluto  rilievo  per  svolgere  qualche
considerazione    sulla   rilevanza   dell'intesa   quale   passaggio
insuperabile per provvedere.
    Come  si  e'  detto,  l'art. 2  del d.lgs. n. 56/2000 prevede, al
comma  4,  che le somme da erogare a ciascuna Regione siano stabilite
con  «decreto  del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta
del   Ministro  del  tesoro,  del  bilancio  e  della  programmazione
economica,  sentito  il  Ministro  della  sanita',  d'intesa  con  la
Conferenza  permanente  per i rapporti fra lo Stato e le Regioni e le
Province autonome di Trento e Bolzano».
    Pur  con  tale  preciso  obbligo fissato in via legislativa e pur
essendovi  una  situazione  quale  quella  appena descritta, e' stato
adottato  il  decreto  del  Presidente del Consiglio dei ministri che
fissa   le   quote  in  assenza  di  intesa  (nonostante  le  precise
osservazioni da parte delle Regioni, peraltro condivise informalmente
dai  rappresentanti  del  Governo,  in  ordine alla illegittimita' ed
irragionevolezza   dei  contenuti)  e  senza  motivare  sulla  scelta
effettuata.
    Dalla   sintetica   ricostruzione   gia'   si  evincono  numerose
illegittimita':
        a)  L'art. 2  del  d.lgs.  n. 56/2000  impone l'intesa con le
regioni  e  questa  non e' stata raggiunta, e, in verita', il Governo
non  ha  mostrato  la  volonta'  di  raggiungerla;  pur essendo state
validamente rappresentate le ragioni che la impedivano.
    Codesta  ecc.ma  Corte ha gia' chiarito come l'intesa rappresenti
uno strumento essenziale per assicurare l'attuazione del principio di
leale  cooperazione.  Strumento  che  si  esplica  in  una  paritaria
codeterminazione   del  contenuto  dell'atto  sottoposto  all'intesa,
prodotto  di  un  accordo,  appunto,  e,  quindi, di una negoziazione
diretta fra il soggetto cui la decisione e' giuridicamente imputata e
quello  la  cui volonta' deve concorrere alla decisione stessa (Corte
cost. sent. nn. 21/1991; 351/1991; 116/1994).
    Vi  e',  infatti,  una  specifica  ed  insuperabile  esigenza  di
preservare  il  principio  di  leale  cooperazione, in un sistema che
porta   inevitabilmente  ad  una  sovrapposizione  di  competenze  ed
interessi  da preservare, in cui, fra l'altro, l'elemento finanziario
costituisce un dato di effettivita' per l'esercizi, delle, rispettive
attribuzioni.
    Ne  consegue che l'«intesa» e' da realizzare e ricercare sempre e
nell'effettivita'  «laddove  occorra, attraverso reiterate trattative
volte a superare le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un
accordo»  (Corte cost. sent. 27/2004), perche', diversamente, vi puo'
essere  un  declassamento dell'attivita' di codeterminazione connessa
all`intesa  in  una  mera attivita' consultiva non vincolante» (Corte
cost. sent. n. 27/2004; ed anche nn. 303/2004 e 6/2004).
    In  tal  senso  il  comportamento  descritto  del  Governo si e',
sostanzialmente,    posto    in. collisione    con   tale   principio
costituzionale, svuotandolo interamente del suo contenuto di garanzia
delle prerogative regionali.
        b)  Ancora,  l'art. 3  del  d.lgs.  281/1997,  relativo  alla
definizione   delle   attribuzioni  della  Conferenza  Stato-Regioni,
prevede  che laddove la legge imponga - come nel caso di specie - per
l'adozione  dei  provvedimenti,  l'intesa  fra  Stato  e  Regioni, il
mancato  raggiungimento  della  stessa  e'  superabile esclusivamente
attraverso  un provvedimento direttamente imputabile (sostanzialmente
e formalmente) al Consiglio dei ministri.
    Dispone,   infatti,   il   terzo   comma  che,  quando  un'intesa
espressamente prevista dalla legge non e' raggiunta «il Consiglio dei
ministri  provvede con deliberazione motivata». Viene, cioe' affidato
all'organo  collegiale l'esercizio di un potere non piu' esercitabile
da altro organo.
    Ebbene,  come  ricordato,  nonostante la mancata intesa, e' stato
adottato  un  d.P.C.m.,  ossia  un  provvedimento  del Presidente del
Consiglio  dei Ministri che, a questo punto, e' organo incompetente a
provvedere.
    Sotto  questo  profilo  il  d.P.C.m.,  richiama  la  delibera del
Consiglio dei ministri, ma non e' dato cogliere il rapporto fra i due
atti.
    E che non sia un dato meramente formale (che comunque ha tutta la
sua rilevanza) lo dimostra quanto appresso sub c);
        c)   L'art. 3   d.lgs.   n. 281/1997   impone  una  specifica
motivazione per superare l'intesa.
    C.1)  Questa  non  e'  contenuta nell'atto che provvede, ossia il
d.P.C.m. neanche per relationem.
    Il  d.P.C.m.,  invero,  fa riferimento alla delibera motivata del
Consiglio  dei ministri. Ma cio', da un lato, conferma la inidoneita'
(e  dunque  illegittimita)  del d.P.C.m., a configurarsi come «l'atto
che  provvede»  ai  sensi  dell'art. 3 d.lgs. n. 281/1997. Dall'altro
propone  ulteriore  vizio  perche' la delibera non e' stata portata a
conoscenza  delle  Regioni, ne' si e' nelle condizioni di valutare la
struttura  motivazionale  che  e' assolutamente essenziale, anche per
cogliere  la sua collocazione nell'iter procedimentale ed il rapporto
con il d.P.C.m.
    C.2)  Comunque,  alla  luce  di tutto quanto precede, il vizio di
carenza di motivazione e', per cosi' dire, in re ipsa.
    Intanto  va  con  forza  sottolineato che alla luce della riforma
costituzionale,   dei   nuovi   rapporti   Stato-Regioni,  di  quanto
chiaramente recentemente esposto da codesta ecc.ma Corte in ordine al
principio di leale cooperazione, la motivazione deve essere rigorosa,
al  fine  di  far  emergere  non solo i motivi della mancata intesa e
della  necessita' di provvedere, ma anche ogni altro elemento volto a
chiarire la scelta specifica.
    Ebbene, e nell'ordine:
        I)  Non  si puo' ritenere che le regioni abbiano ostacolato o
ritardato  l'intesa.  Nel  caso di specie le argomentate osservazioni
(condivise  informalmente  dal  Governo)  che, in sede di conferenza,
sono  state  prospettate  sulla  illegittimita'  dei  criteri,  sulla
necessita'    di    tener    conto   delle   sopravvenute   modifiche
costituzionali, sugli effetti concreti che l'applicazione dei criteri
ha  determinato,  sono  dati  incontrovertibili.  Essi dimostrano una
volonta'  regionale di dare attuazione, ma, come e' corretto, in modo
conforme a Costituzione.
        II)  Il  Governo  non  si  e'  affatto adoperato per ottenere
l'intesa  come doveva e come sarebbe stato agevole sol che si fossero
percorse strade alternative rispetto a quella originaria - contestata
dalle Regioni - e corrispondenti alle regole costituzionali.
        III)  Attraverso l'anomala utilizzazione dei «provvedimenti»,
non  si'  sono  poste  le  Regioni  interessate  nelle  condizioni di
conoscerne  l'aspetto  essenziale  della motivazione. L'obbligo della
motivazione  impone  che essa accompagni il provvedimento, perche' si
abbia  contezza  della  sua  esistenza  quale fondamento del percorso
logico  decisionale.  In  tal  senso  si  chiede  all'ecc.ma Corte di
disporre  affinche' lo Stato provveda al deposito della deliberazione
del  Consiglio  dei  ministri  in  data  14  maggio  2004, citata nel
provvedimento impugnato.
        IV) Non vi sono ragioni, visto il tempo trascorso (il decreto
legislativo  e'  del  2000,  la  Conferenza citata del 2003), per non
ricercare,  in  spirito di collaborazione, la soluzione equilibrata e
conforme alla Costituzione.
    2.  -  Violazione  dell'art.  119  Cost. Violazione dell'art. 117
Cost.  e della autonomia regionale. Violazione del principio di leale
cooperazione.
    Quanto  sopra  esposto  sulle varie fonti di disciplina consente,
poi,  di valutare il d.P.C.m., pure impugnato, direttamente alla luce
del  parametro  costituzionale e, dunque, giudicarne l'illegittimita'
in  quanto in insanabile contrasto con l'art. 119 Cost., terzo comma,
nella  parte  in  cui  non  utilizza,  ai  fini  delle  operazioni di
perequazione,  il  solo  criterio della capacita' fiscale individuato
dal parametro medesimo.
    Operazione,  questa,  resa  possibile  dalla  circostanza  che e'
ipotizzabile  l'abrogazione in parte qua della disciplina legislativa
in  quanto  la  medesima fattispecie (fondo perequativo) rinviene una
disciplina   diversa   dalla   fonte   legale   e  costituzionale.  E
quest'ultima  ha una previsione che comprende la prima, operando solo
una riduzione di disciplina.
    3. - Illegittimita' costituzionale del d.lgs. n. 56/2000, art. 7,
comma  2,  nonche'  dell'art.  10,  comma 1, lett. d) legge 13 maggio
1999, n. 133. Violazione dell'art. 119 cost. Violazione dell'art. 117
cost.  e della autonomia regionale. violazione del principio di leale
cooperazione.  Violazione  dell'art.  76  cost.  Eccesso  di  delega.
Irragionevolezza.
    Va, comunque, dedotta l'illegittimita' in via derivata, in quanto
si da' attuazione a una normativa legislativa incostituzionale.
    Laddove,   infatti,   codesta  ecc.ma  Corte  non  ritenesse  che
ricorrano  i  presupposti  per ritenere abrogate le norme legislative
nella  parte  in  cui prevedono contenuti in contrasto con l'art. 119
Cost.,  e  quest'ultimo  immediatamente applicabile come parametro di
legittimita'  per  i  provvedimenti  attuativi,  si  solleva,  in via
incidentale,  questione  di  legittimita'  costituzionale del comma 2
dell'art. n.  56/2000  e  dell'art.  10,  comma  1,  lett.  d)  della
legge-delega  n. 133/1999,  nella  parte  in  cui prevedono ulteriori
criteri  per  la  determinazione  delle  quote  da erogare a ciascuna
regione  diversi da quelli fissati dall'art. 119 Cost. e per i motivi
di contrasto gia' illustrati.
    Con  specifico  riguardo,  poi,  al  d.lgs.  n. 56/2000, vi e' da
considerare  un  ulteriore  motivo di incostituzionalita' determinato
dalla  violazione dei principi espressi dalla legge di delega. E cio'
sotto un duplice aspetto.
    In primo luogo il d.lgs. n. 56 individua come criteri perequativi
anche  «la  popolazione  residente»  e la «dimensione geografica» non
indicati  dalla legge delega che imponeva, al contrario al Governo di
attenersi  esclusivamente ai dati relativi alla «capacita' fiscale» e
al   «fabbisogno  sanitario»,  nonche'  alla  «capacita'  di  recupeo
dell'evasione fiscale.».
    Sotto  tale  aspetto,  si  rileva anche la irragionevolezza delle
ulteriori  variabili, non attinenti alla ratio di natura sociale e di
solidarieta' del legislatore delegante.
    Inoltre  il  legislatore  del '99, come ricordato, aveva posto un
limite  di  carattere  generale  nella predisposizione delle risorse,
relativo  alla necessita' che, comunque, fossero garantite a tutte le
regioni  a  statuto  ordinario  le  funzioni  ed  i  servizi  di loro
competenza  «a  livelli essenziali ed uniformi su tutto il territorio
nazionale,  tenendo conto delle capacita' fiscali insufficienti a far
conseguire tali condizioni e della esigenza di superare gli squilibri
socio-economici territoriali».
    L'incidenza  delle  perdite  subite  dalle  Regioni  con  ridotta
capacita'  fiscale,  e in particolare dalla Regione Campania, e' tale
da  compromettere  il fine posto dal legislatore come limite generale
all'intervento del Governo.
    4. - Violazione dell'art. 7, d.lgs. n. 56/2000. Irragionevolezza.
Violazione dell'art. 119 Cost.
    Il  provvedimento  non  risulta coerente con i limiti che pure il
decreto legislativo ha posto con il secondo comma dell'art. 7.
    E'  previsto,  infatti,  che,  in  ogni  caso, «le quote ... sono
fissate  in  modo  tale  da  assicurare  comunque  la  copertura  del
fabbisogno   sanitario   alle  regioni  con  insufficiente  capacita'
fiscale.».
    Invero,  la  concreta  individuazione  delle quote effettuata dal
decreto  impugnato  incide in maniera tale sugli equilibri finanziari
di  alcune  regioni (fra cui la Campania) da risultare non rispettosa
della  chiara  previsione  volta  a  moderare  gli  effetti di rigore
derivanti dalla applicazione dei criteri di cui sopra.