Ripa di Meana Carlo, consigliere regionale di minoranza dell'Umbria, rappresentato e difeso, come da delega in margine al presente atto, dall'avv. Urbano Barelli del Foro di Perugia, unitamente all'avv. Mario Sanino, presso il cui Studio legale in Roma, alla Via Parioli n. 180, elegge domicilio ricorre alla Corte costituzionale perche' sia dichiarata l'illegittimita' costituzionale, avvero la nullita' o l'inesistenza, dello Statuto della Regione Umbria, come deliberato dal Consiglio regionale dell'Umbria nelle sedute del 2 aprile e 29 luglio 2004. F a t t o 1. - La Regione Umbria ha provveduto all'approvazione del suo nuovo Statuto mediante atti che, sia in rito che in merito, sono profondamente lesivi della legalita' costituzionale: si tratta percio' di approvazione costituzionalmente illegittima, se non nulla o insistente. Le ragioni sono molteplici: ma precede e prevale su tutte la considerazione che difetta nel procedimento l'essenziale c.d. «doppia conforme» delibera (vale a dire, le «due deliberazioni successive» ai sensi dell'art. 123, secondo comma Cost.), si che in realta' non si puo' nemmeno parlare di esistenza di un'approvazione regionale dello Statuto. 2. - Nei fatti, dopo una prima deliberazione del 2 aprile 2004, il 29 luglio 2004 il Consiglio regionale dell'Umbria - con la contrarieta' dell'odierno ricorrente - ha nuovamente deliberato circa la legge sul nuovo Statuto della regione, decidendo in tale seconda seduta a stretta maggioranza assoluta (17 votanti a favore su 30 componenti) l'approvazione in questione. Questo Statuto e' stato pubblicato - ai fini notiziali - sul Bollettino ufficiale della Regione Umbria dell'11 agosto 2004. A seguito di questa approvazione, il ricorrente denuncio', tra l'altro, gli enormi vizi che ora vengono qui rappresentati con un esposto in data 13 agosto 2004 diretto alla Presidenza del Consiglio dei ministri, al Dipartimento affari giuridici e legislativi della stessa ed all'Ufficio legislativo del Ministero dell'interno. Nondimeno, il Consiglio dei ministri, esaminando lo Statuto il 3 settembre 2004 per le sue determinazioni ai sensi dell'art. 123, secondo comma, Cost., pur avendo deciso di promuovere la questione di legittimita' costituzionale, si e' poi limitato a contenere il suo ricorso - a quanto risulta - ad alcuni motivi di merito, tralasciando singolarmente, evidentemente per ragioni di mera contingenza politica, il ben piu' radicale e macroscopico vizio in procedendo e, a quanto pare, il vizio di merito concernente la figura del consigliere regionale supplente. Ora il ricorrente, affinche' in un caso di tanta enormita' la legalita' costituzionale non resti priva di effettivita' e di tutela nell'inerzia del Governo sul punto e' costretto a rivolgersi direttamente, analogamente all'amicus curiae della Corte Suprema statunitense o alla public interest action, alla Corte costituzionale perche' la legalita' costituzionale sia ripristinata. D i r i t t o A) Sulla legittimazione a ricorrere del consigliere regionale dissidente. 1. - La Costituzione non prevede espressamente, a proposito dello Statuto regionale, la legittimazione a ricorrere del consigliere regionale non consenziente. Nondimeno questa e' implicita nel sistema costituzionale medesimo. Ne sono elementi fondanti, come si vedra', la garanzia della giuridicita' della Costituzione, il principio di unita' e indivisibilita' della Repubblica, il carattere «costituzionale» degli Statuti, la connotazione del loro controllo preventivo di costituzionalita', la forma di governo a livello regionale, il rispetto del giusto procedimento costituzionale. 2. - Va subito detto che il vizio in procedendo nella formazione dello Statuto, costituito dal difetto della «doppia conforme», e' qui di importanza e rilievo tali che l'enormita' del vulnus alla Costituzione che ne deriva non puo' rimanere senza riparazione. L'acquiescenza dell'ordinamento, infatti, di fronte ad una tale illegalita' (i cui clamorosi tratti concreti sono qui esposti in seguito), con cui si vorrebbe far passare per esistente un'approvazione regionale in realta' mai venuta in essere, significherebbe ridurre la volutamente rigorosa previsione procedimentale costituzionale a mera opzione, con demolitivi effetti di precedente in ordine alla precettivita' delle norme costituzionali stesse. Numerose sono le considerazioni specifiche che conducono a ritenere che, se anche l'art. 123, secondo comma, Cost. riconosce espressamente al Governo la facolta' di promuovere la questione di legittimita' costituzionale sugli statuti regionali, nondimeno si tratta di una previsione che non e' esclusiva: anche al Consigliere regionale che non ha votato a favore spetta una simile facolta', quanto meno in via successiva rispetto al Governo. La prima considerazione e' che, diversamente opinando e racchiudendo la legittimazione a ricorrere nel solo Governo, da un lato si renderebbe il Governo stesso, con le sue valutazioni di alta o bassa opportunita' politica (che sono quelle che - come il presente caso dimostra - fatalmente regolano la decisione del Consiglio dei ministri al momento del vaglio dello Statuto regionale), arbitro esclusivo della tutela della legalita' costituzionale: che invece, per cio' che riguarda l'effettivo ordinamento delle articolazioni della Repubblica, e' legalita' necessaria e oggettiva e non «di diritto soggettivo» e sottratta alla liberta' della valutazione politica; dall'altro si priverebbe un soggetto interessato e costituzionalmente qualificato - quale appunto il consigliere regionale, che non ha votato a favore e che ha sollecitato il Governo ad impugnare - della possibilita' di sollevare una tale questione nell'interesse generale. 3. - A differenza poi che nello Stato per le funzioni costituzionali, nella Regione la rappresentanza politica costituisce l'unico titolo di investitura di funzioni di rilievo statutario. Il che, in una forma di governo a conseguente totale titolazione e responsabilita' politica come quella regionale, dove l'intera dialettica istituzionale si riassume nel rapporto maggioranza-opposizione, implica - ad evitare un'altrimenti insindacabile tirannide della maggioranza - che i membri dell'opposizione consiliare siano, almeno per cio' che riguarda lo Statuto, titolari anche di una legittimazione come quella in questione. Non v'e' infatti, nella forma di governo regionale, un potere di moderazione neutro, superiore e correttivo come quello del Presidente della Repubblica, che possa ammonire e in ultimo rinviare le leggi sospette invece di promulgarle e che bilanci cosi' l'eventuale eccesso della maggioranza assembleare: anzi, il potere di promulgazione e' assegnato allo stesso massimo esponente di quella maggioranza politica, il presidente della giunta regionale, cui certo non puo' riconoscersi un siffatto ruolo. Nulla qui, se non la giurisdizione o i controlli giuridici, realizza un sistema di checks and balances, un «potere che controlla il potere» e che arresti la naturale tendenza espansiva del potere stesso. Ma se l'ingresso alla giurisdizione viene precluso a chi, tra i soggetti regionali di rilievo costituzionale, e' portatore dell'interesse concreto al rispetto delle norme costituzionali, si finirebbe per riconoscere alla volonta' politica della maggioranza l'emancipazione assoluta dalla regola giuridica, con lesione immediabile della ragion d'essere della Costituzione stessa, che e' superiore e permanente limite giuridico alla contingenza politica. In pratica, si sancirebbe l'onnipotenza della maggioranza, dunque la negazione stessa del fondamento del costituzionalismo e la riduzione della Costituzione, riguardo a questi temi, a «costituzione nominale». Della volonta' di una siffatta onnipotenza e' documento eloquente la vicenda che muove questo ricorso: basti porre attenzione a quando, per disegno politico incurante della negazione del diritto che si andava a porre in essere, gli appena diciassette consiglieri che hanno approvato lo Statuto hanno assunto, sfidando il grottesco, che esisteva, contro la solare evidenza, la conformita' della seconda deliberazione alla prima. 4. - Non vale eccepire la possibile via del referendum confermativo. Si tratta infatti di uno strumento di consenso politico, non di riesame giuridico: quando invece, specie per il vizio in procedendo del difetto della doppia conforme, la questione non e' appunto politica, ma di garanzia dell'effettivita' giuridico-costituzionale. Il che nella specie e' ulteriormente dimostrato dalla circostanza che la questione che all'ultimo qui si pone e' quella della inesistenza, o della nullita', dello Statuto stesso. Il che certo, come il giudizio stesso di legittimita' costituzionale, non e' materia da referendum confermativo. 5. - La distinzione tra politica e diritto e' qui dirimente, perche' il tema e' esattamente quello dei limiti giuridici all'arbitrio politico. Negando una tale legittimazione, si affiderebbe al solo Governo, e alla sua valutazione politica, la decisione sull'an e sul quid della cura giuridico-costituzionale dell'interesse - che e' interesse superiore e generale - al rispetto della legalita' costituzionale. In quanto interesse generale, esso appartiene pero' allo Stato- comunita' e, per effetto del principio rappresentativo, ha come naturale titolare in primis proprio il consigliere regionale dissidente. E in quanto interesse generale, l'assenza di un organo espressamente deputato alla sua tutela per ragioni oggettive non puo' che essere compensata dalla piu' ampia legittimazione a ricorrere. La vicenda che qui occupa dimostra quanto si e' appena detto anche a livello governativo: malgrado la flagrante violazione del principio della «doppia conforme» ex art. 123, secondo comma, Cost., il Governo della Repubblica, benche' allertato anche sul punto in questione dall'esposto dell'odierno ricorrente, sembra non intenda far valere in Giustizia costituzionale il vizio in procedendo e voglia compiere, di fatto, acquiescenza rispetto ad un'inaccettabile violazione di detta norma. Violazione che offende non la sfera di competenze dello Stato (della quale il Governo e' legittimo interprete) ma quella del rispetto procedimento costituzionale: che appunto non appartiene al Governo o allo Stato-apparato, ma allo Stato-comunita'. Se ora non si riconoscesse la legittimazione a ricorrere del consigliere regionale non consenziente, circa siffatti aspetti che il Governo non intende impugnare, l'interesse al rispetto, anche in rito, della legalita' costituzionale resterebbe adespota e relegato a questione sottoposta alla sola valutazione governativa di opportunita' politica, con evidente elusione della giuridicita' della Costituzione rispetto agli Statuti regionali: quando invece la Costituzione afferma espressamente che lo Statuto deve essere «in armonia con la Costituzione» (art. 123, primo comma, Cost.). Gli Statuti regionali compongono infatti, insieme alla Costituzione, un sistema di definizione dei tratti fondamentali dell'ordinamento italiano, in cui non possono essere ammesse, per esigenze di sistematicita' che derivano dal principio superiore di unita' e indivisibilita' della Repubblica, attenuazioni o aggiramenti di tale giuridicita'. Ma il ridurre la garanzia alla sola valutazione di opportunita' politica del Governo significa privarla della sua essenziale caratteristica, data dalla possibilita' di verifica giurisdizionale per ragioni di diritto oggettivo. E per questo che contro l'inerzia in parte qua del Governo nell'impugnare uno Statuto non e' immaginabile altro rimedio che quello - che qui viene spiegato - di un'azione, dai caratteri surrogatori, suppletivi e successivi, del Consigliere regionale dissenziente. Del resto, solo se si prevede la conseguenza di un tale rimedio all'omissione governativa, si puo' affermare senza finzioni che il Governo ha il dovere di valutare giuridicamente e oggettivamente, e non solo politicamente, uno Statuto regionale. 6. - Cio' da cui non si puo' prescindere e' la posizione particolare e preminente che ha oggi uno Statuto regionale nel sistema delle fonti del diritto. Esattamente e' stato in dottrina osservato che questa fonte e' (sia per il procedimento di approvazione che per la particolarissima forza) diversa da quella di una ordinaria legge regionale (B. Caravita, La Costituzione dopo la riforma del Titolo V, Torino 2002, 53 ss.), che anzi lo Statuto e' sovraordinato alla legge regionale e assume ormai la veste di una vera e propria costituzione regionale. Realizzerebbe percio' un'inammissibile lesione della rammentata doverosa «armonia con la Costituzione» il circoscriverne la riduzione giustiziale a conformita' costituzionale ai soli ricorsi in via principale del Governo o agli eventuali futuri ricorsi incidentali. A parte la difficolta' (o, per converso, la precarieta' della fonte di diritto) insita nel rinvenire in ogni legge regionale, o peggio ancora in ogni misura non legislativa applicativa dello Statuto, una legge affetta da illegittimita' costituzionale derivata dal vizio procedimentale originario dello Statuto sulla cui base e' stata formata, e' lo stesso interesse generale alla certezza e stabilita' delle previsioni «costituzionali» (quale appunto uno Statuto regionale) a richiedere che lo strumento e il momento eminenti del vaglio di costituzionalita' siano in questo caso quelli immediati del ricorso in via principale: questo interviene infatti al momento genetico di un siffatto tipo di norma, e non in quello, eventuale e successivo (anche di molto), dell'incidente di costituzionalita'. Tanto piu' cio' vale, se si fa questione di un vizio nel procedimento di approvazione dello Statuto stesso. L'ovvia conseguenza in punto di legittimazione a ricorrere in via principale e' che va intesa in senso non esclusivo a favore del Governo e va riconosciuta anche al componente consiliare. Si collega a questa supremazia dello Statuto il fatto che il ricorso di cui all'art. 123 Cost. e' infraprocedimentale e percio' preventivo (esso va infatti proposto nei trenta giorni dalla pubblicazione ai fini notiziali, utile anche ai fini del referendum: U. De Siervo, I nuovi Statuti regionali nel sistema delle fonti, in AA.VV., Verso una nuova fase costituente delle Regioni. Problemi di interpretazione della legge costituzionale n. 1 del 1999, Milano 2001, 100 ss.; R. Tosi, Incertezze e ambiguita' nella nuova normativa statutaria, in Le Regioni, 1999, 847 ss.) e dunque precede la promulgazione, affinche' la costituzionalita' sia vagliata prima di essa, quasi come se d'ufficio. Invece l'impugnazione delle ordinarie leggi regionali, di cui all'art. 127 Cost., e successiva perche' segue la loro unica pubblicazione e dunque la loro promulgazione. Questo stesso eccezionale carattere preventivo impone che la legittimazione a ricorrere vada riconosciuta con maggiore latitudine, affinche' il vaglio preventivo di costituzionalita' possa essere il piu' ampio possibile, ad impedire che nell'ordinamento venga immesso, anche interinalmente, un testo costituzionalmente illegittimo. 7. - In realta', insomma, e' il criterio della titolarita' dell'interesse a ricorrere, in una con il rilievo costituzionale del soggetto ricorrente, che conduce ad individuare i soggetti legittimati a ricorrere avverso l'espressione di una fonte di diritto di siffatto rango e per vizi cosi' genetici e radicali. E' il caso di rammentare che, nel diritto civile, l'azione di nullita' compete a chiunque vi ha interesse (art. 1421 Cod. civ.): la ratio qui e' la stessa, perche' l'ordinamento intende consentire a tutti, purche' vi siano interessati, di contestare in giudizio un atto, qui per di piu' di importanza primaria e generale, talmente viziato; la sua reazione all'atto totalmente viziato e' infatti quella che si esprime con una pronuncia del giudice che pone nel nulla l'atto e che viene investito dalla piu' ampia platea possibile di soggetti. Se questo avviene per un atto espressivo di autonomia contrattuale, che cioe' regola solo interessi interprivati, ad assai maggior ragione deve avvenire per un atto che regola la vita pubblica di una comunita' regionale, come e' uno Statuto regionale. Cambia la giurisdizione, non cambia il modo che ha l'ordinamento per affermare la propria giuridicita'. 8. - Non solo: vi e' un ulteriore e primario interesse, proprio del consigliere regionale, che entra in questione. E' l'interesse a che al consiglio regionale siano riferiti solo gli atti che esso ha adottato nel rispetto delle norme costituzionali. Cosi' qui: il mancato perfezionamento della fattispecie procedimentale dell'art. 123, secondo comma, Cost. - malgrado gli artifici verbali circa le mere «correzioni formali», di cui si vedra' - impedisce radicalmente l'imputazione dello Statuto al Consiglio regionale e per esso alla Regione Umbria. Ed avverso un'indebita imputazione di un atto che percio' stesso e' in realta' giuridicamente inesistente, non puo' che essere riconosciuta legittimazione ad agire in capo al Consigliere regionale. L'imputazione, infatti, postula le legittimita' costituzionale del procedimento in concreto seguito e il consigliere regionale ha interesse a che non siano riconosciuti come del consiglio regionale atti che, per la mancata formazione del giusto procedimento costituzionale, non possono essere ad esso riferiti. 9. - Non avendo il Governo ne' restituito gli atti alla Regione Umbria (per mancato perfezionamento della fattispecie procedimentale dell'art. 123, secondo comma, Cost.), ne' promosso sulla mancanza della «doppia conforme» la questione di legittimita' costituzionale, la precettivita' necessaria della Costituzione impone di affermare la legittimazione a ricorrere al consigliere regionale non consenziente. Ove occorra, potra' la Corte dichiarare d'ufficio, ex art. 27 u.p. legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 31 della stessa legge come mod. dall'art. 9 legge 5 giugno 2003, n. 131, nella parte in cui non afferma la legittimazione a ricorrere del consigliere regionale che non ha votato per l'approvazione dello Statuto. B) Sul merito della prima questione: vizio in procedendo per violazione dell'art. 23 Cost. La deliberazione del 29 luglio 2004 non e' conforme a quella del 2 aprile 2004: pertanto non puo' essere idonea ad imputare al consiglio regionale dell'Umbria la volonta' di legiferare sullo Statuto. Essa avrebbe dovuto essere restituita dal Governo al Consiglio regionale, ovvero, nella misura in cui afferma il contrario, impugnata davanti alla Corte costituzionale anche a tutela della legalita' costituzionale procedimentale. Infatti, a ben vedere, non esiste qui ancora un'approvazione regionale dello Statuto. L'art. 123, secondo comma, Cost. impone che lo Statuto regionale sia approvato con legge approvata a maggioranza assoluta, con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore di due mesi. La diversita' tra le due delibere e' macroscopica. Il testo dell'art. 9 dello Statuto dell'Umbria come risultante dalla deliberazione del 2 aprile 2004 era il seguente: «Articolo 9 - Comunita' familiare 1. La regione riconosce i diritti della famiglia e adotta ogni misura idonea a favorire l'adempimento dei compiti che la Costituzione affida ad essa e tutela le varie forme di convivenza». Il testo dell'art. 9 come risultante dalla deliberazione del 29 luglio 2004 e' invece il seguente: «Articolo 9 - Famiglia. Forme di convivenza La regione riconosce i diritti della famiglia e adotta ogni misura idonea a favorire l'adempimento dei compiti che la Costituzione le affida. Tutela altresi' forme di convivenza». Come si vede, nella seconda deliberazione la rubrica originaria («Comunita' familiare») e' stata sostituita con «Famiglia. Forme di convivenza»; le parole «affida ad essa» sono sostituite da «le affida», la susseguente congiunzione «e» e' stata soppressa e l'unico comma che componeva l'articolo e' stato scomposto in due commi (singolarmente, non numerati: mentre il precedente unico comma era - secondo le note regole di formulazione dei testi legislativi 1) - numerato con il numero «1»); le parole «le varie» sono state soppresse e sostituite da «altresi». Una tale modificazione, intervenuta con la seconda deliberazione, ha evidente carattere sostanziale ed impedisce di poter ritenere realizzata la fattispecie delle «due deliberazioni successive» prevista dall'art. 123, secondo comma, Cost. Il procedimento previsto da questa norma costituzionale non si e' perfezionato, perche' non v'e' stata la c.d. doppia conforme, che deve caratterizzare le «due deliberazioni successive» adottate ad almeno due mesi di distanza. Dunque non vi e' imputabilita' al Consiglio regionale di una volonta' di legiferare davvero in ambito statutario. Una simile doppia deliberazione e' voluta dalla Costituzione - replicando il modulo della revisione costituzionale di cui all'art. 138 Cost., dove si usano le stesse parole - perche', dato il rilievo della fonte che si va ad introdurre, attraverso il ribadire una medesima volonta' la ponderazione del testo possa essere massima, l'intenzione della modificazione ben ferma e la sua motivazione persistente. Il che fa anche considerare quale enorme precedente sarebbe il tollerare qui siffatta disinvolta violazione della regola. L'oggetto delle «due deliberazioni successive» deve essere il medesimo. Diversamente, infatti, non vi e' doppia conforme e la seconda deliberazione, con cui si modifica il voluto della prima, ha il valore di una nuova prima deliberazione: per modo che occorrera' un'ulteriore deliberazione, conforme a quest'ultima, perche' la fattispecie si realizzi. E' ovvio che modifiche del testo in sede di seconda deliberazione, che non si limitino a caratterizzazioni formali ed estrinseche, ma che siano implicative di modifiche di contenuto, interrompono la conformita' e realizzano il caso che si e' appena detto. Nel caso umbro in esame, e' esattamente questo che e' avvenuto. Con la sostituzione di una rubrica semplice con una diversa e composta (da «comunita' familiare» a «Famiglia. Forme di convivenza») e con la scomposizione dell'unico comma in due commi (vale a dire, rompendo l'omogeneita' della partizione in due proposizioni normative autonome, come insegnano le regole di formulazione dei testi legislativi 2) ), con la conseguente separazione della tutela delle forme di convivenza dal riconoscimento dei diritti della famiglia, e la conseguente attribuzione di carattere aggiuntivo alla tutela della convivenza (espressa mediante l'«altresi» si e' inteso infatti venire (parzialmente) incontro alle proteste di quanti affermavano esservi nell'equiparazione ed omologazione della convivenza (c.d. coppie di fatto) alla famiglia legittima una ferita ai principi costituzionali dell'art. 29 Cost. Di piu': attraverso la soppressione del riferimento alla «varieta» delle forme di convivenza, si e' analogamente inteso venire incontro alle proteste di quanti ravvisavano nella previsione una tutela anche delle convivenze omosessuali. Il che sovverte ulteriormente l'assetto della comunita' familiare voluto dalla Costituzione, perche' - ben oltre l'ovvia liberta' di tale convivenza - da' un effetto giuridico di «tutela» non previsto e non voluto alle unioni di persone del medesimo sesso. Di tutto cio' e' dato conto dall'ampio dibattito che si e' svolto sul tema in consiglio regionale nel corso dell'iter del procedimento e dalle proteste, espresse anche pubblicamente, degli ambienti della Chiesa cattolica nei confronti dell'originario testo dell'art. 9. E' il caso di osservare - a proposito della moralita' del modo di procedere - che una tale modificazione e' il frutto non dell'approvazione degli emendamenti proposti, tutti respinti, ma di analoghe formulazioni sconcertantemente introdotte quali «correzioni formali» (sic), con un uso del tutto abusivo dell'art. 53 del Regolamento interno del Consiglio (approvato con l.r. Umbria 16 aprile 1998, n. 14) e malgrado il contrario parere di esperti legali del Consiglio regionale e quanto e' stato eccepito in sede di dibattito consiliare (cfr. verbale della seduta del Consiglio, pagina 81). Sono stati artatamente qualificati come correzioni formali veri e propri emendamenti, che per di piu' avrebbero dovuto essere dichiarati inammissibili, perche' presentati oltre il termine previsto (fissato dall'Ordine del giorno del Consiglio regionale del 20 luglio 2004 entro le «ore 12 del 22 luglio 2004») e perche' concernenti punti gia' decisi dall'assemblea. Non v'e' dubbio, se si vuole rimanere nei limiti della logica democratica, che tutto questo trascenda, e di parecchio, i limiti di un aggiustamento di forme («correzioni formali») e voglia anzi espressamente significare una incisiva modifica di sostanza. Lungi dal costituire una rettifica formale della prima, la seconda deliberazione costituisce intenzionalmente una diversa deliberazione, perche' da' volutamente, per espressa ragion politica, alla disposizione e alle sue parole un significato affatto diverso da quello originario. Vi e' stato dunque, con la seconda deliberazione, un diverso volere legislativo e non si e' realizzato quell'atto complesso, composto di due deliberazioni intrinsecamente conformi, che deve caratterizzare il procedimento costituzionalmente stabilito secondo l'inderogabile previsione dell'art. 123, secondo comma, della Costituzione. E' appena il caso di rilevare che, trattandosi di una diretta violazione della norma costituzionale (art. 123, secondo comma, Cost.), si tratta di una illegittimita' che non puo' essere relegata tra gli interna corporis del procedimento legislativo: e' infatti la Costituzione a prescrivere «direttamente ed espressamente» la doppia conforme e ogni elusione o violazione in concreto del precetto si traduce in una violazione diretta, ed in una disapplicazione, della Costituzione stessa, cioe' dell'ordinamento generale e costituzionale, non gia' dell'ordinamento interno della sola assemblea legislativa. Vi e' percio' un vizio «esterno», censurabile proprio in questa sede di legittimita' costituzionale. E' ben nota la giurisprudenza costituzionale al riguardo (cfr. Corte cost., sentt. 9 marzo 1959, n. 9 e 29 marzo 1984, n. 78). Ed e' appena il caso di sottolineare che la conformita' tra le due delibere e' questione di fatto, non di diritto: che le due deliberazioni abbiano o meno lo stesso testo e' una realta' oggettiva, non modificabile nominalisticamente e a piacimento della stessa maggioranza interessata a negarla. Quindi il consiglio regionale non ha il potere di contro il vero, qualificare tale fatto e attestare come esistente una conformita' che invece non sussiste. Se diversamente fosse, la non conformita' diverrebbe ovviamente mai sindacabile e la norma dell'art. 123, secondo comma, inutiliter data. Vi e' stata dunque, con la seconda delibera di approvazione e gli atti conseguenti, una flagrante violazione del procedimento dell'art. 123, secondo comma, Cost. Non vi e', allora, uno Statuto approvato dal consiglio regionale. C) Sul merito della seconda questione: violazione di norme costituzionali sostanziali. Violazione degli artt. 3, 121, 122, 123 e 67 Cost.; della insindacabilita' e del divieto di mandato imperativo per i consiglieri «supplenti» e della configurazione costituzionale del Consiglio regionale. Il testo deliberato il 29 luglio e' altresi' lesivo di altre previsioni costituzionali. In particolare, l'art. 66 del deliberato Statuto stabilisce: «Articolo 66 - Incompatibilita' e supplenza 1. La carica di componente della Giunta e' incompatibile con quella di Consigliere regionale. 2. Al Consigliere regionale nominato membro della Giunta subentra il primo tra i candidati non eletti nella stessa lista, secondo le modalita' stabilite dalla legge elettorale. Il subentrante dura in carica per tutto il periodo in cui il Consigliere mantiene la carica di Assessore. 3. Qualora prima della fine della legislatura il Consigliere nominato Assessore venga revocato o si dimetta dalla carica, riassume le funzioni di Consigliere con effetto dalla data di comunicazione al Consiglio regionale». Questa previsione non solo introduce una figura, il consigliere regionale supplente o subentrante, non prevista ai sensi dell'art. 122, primo comma, Cost. (che demanda alla legge statale stabilire i principi fondamentali circa le incompatibilita' dei consiglieri regionali: e una tale discendente previsione non e' stata in quella sede stabilita) e dunque viola la detta norma costituzionale, ma anche contraddice il principio, essenziale del regime rappresentativo, da cui nasce il divieto di mandato imperativo (e che trova un'espressione nell'art. 67 Cost.). Oltre infatti a determinare una moltiplicazione di spese e un deprecabile sostituirsi e confondersi di seggi, questa nuova figura comporta un'evidente violazione dell'art. 122 della Costituzione (sulle immunita' dei consiglieri regionali) e del principio costituzionale del divieto di mandato imperativo (cfr. art. 67 Cost.), immanente al regime rappresentativo (anche ove non esplicitato) ed esplicitato comunque dall'articolo 57, comma 1, dello stesso nuovo Statuto regionale dell'Umbria, a norma del quale «I Consiglieri regionali rappresentano l'intera Regione senza vincolo di mandato». La conseguenza e' anche una violazione dell'art. 3 Cost., perche' si avranno due tipi di consigliere regionale, a status differenziato, dove il consigliere del genere «supplente» avra' minori garanzie dell'ordinario: praticamente un consigliere capitis deminutus. Che questo realizzi una violazione del principio del divieto di mandato imperativo e del principio della autonomia e della liberta' del volere dell'eletto rappresentante del popoio, e della pari sua dignita' rispetto ai colleghi, di cui e' espressione, sara' evidente nel caso in cui il supplente assuma, con i suoi voti o la sua opinione, una posizione sgradita alla giunta. E' realistico infatti che il supplente, non godendo della medesima «inamovibilita» per tutto il mandato di cui gode il consigliere ordinario ed essendo invece per definizione precario per fatto altrui, sarebbe in tal caso esposto ad una revoca ad hoc, mediante apposita restituzione del supplito alla sua originaria funzione di consigliere (previa cessazione da quella di componente della giunta). Occorre considerare che il divieto di mandato imperativo e comunque l'intrinseca natura del regime rappresentativo, di cui e' un corollario e che si esprime anche attraverso la rammentata insindacabilita', comportano che il giudizio sull'operato del parlamentare, o del consigliere regionale, possa essere espresso dal solo corpo elettorale e alla fine del mandato elettorale: il che implica che non puo' essere consentita la revoca nel corso del mandato (C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, 9ª ed., Padova 1975, 461). Non basta: qui si avrebbe anche l'enorme aggravante - rispetto alla tutela della liberta' del volere dell'eletto - che la revoca verrebbe operata non gia' dal corpo elettorale, di fronte al quale egli pur sempre risponde politicamente, bensi' dall'esecutivo regionale, vale a dire dall'organo sottoposto al controllo politico del consiglio, cioe' - con evidente paradosso - dall'organo che e' politicamente responsabile davanti al consiglio e comunque sottoposto al suo controllo politico: praticamente, il controllato potrebbe rimuovere a piacimento (con una virtuale lettre de cachet) il controllore, con sconcertante alterazione del principio di equilibrio tra i poteri. Di piu': il principio rappresentativo non ammette soluzione di continuita' circa il mandato dell'eletto: o si e' rappresentanti dell'elettorato e lo si e' per tutto il mandato, o non lo si e' piu'. Invece, con la previsione in esame, il mandato stesso viene interrotto, creando un'inammissibile sospensione nel corso della legislatura e spezzando lo stesso rapporto di rappresentanza politica. Una tale deminutio capitis e' consequenziale all'aberrazione intrinseca della figura, che e' ben diversa da quella del subentrante, ad es., per elezioni suppletive, il quale gode, per il resto del mandato consiliare, della medesima inamovibilita' del consigliere ordinario. La norma si palesa incostituzionale anche sotto un altro profilo, costituito dalla violazione degli artt. 121, 122 e 123 Cost., nella parte in cui configurano la composizione del Consiglio regionale senza distinguere categorie a status differenziato di consiglieri regionali, e nel superamento dei principi fondamentali delle leggi della Repubblica in tema di incompatibilita' (come previsto, in particolare, dall'art. 122, primo comma): nessuno di quei principi fondamentali prevede infatti un siffatta incompatibilita' e, soprattutto, un tale asimmetrico rimedio per farvi fronte. Si deve infine considerare che, poiche' la giunta puo' essere di dieci componenti (art. 67, comma 2) e il Consiglio e' di trentasette (art. 42, comma 1), si puo' giungere ad un consiglio che, di fatto, e' composto da piu' di un quarto di soggetti che il corpo elettorale non ha eletto: con il che si vulnera gravemente ed oltre ogni ragionevole misura il principio rappresentativo e democratico. D) Violazione dell'art. 29, e dell'art. 117, secondo comma, lett. i) Cost. Si aggiunge a quanto sopra, per il suo valore, quanto segue, che pure forma, a quanto pare, oggetto della impugnazione governativa. La modifica dell'art. 9 di cui si e' detto, pur concretizzando una violazione del procedimento dell'art. 123, secondo comma, Cost., non riesce comunque ad emancipare il testo dall'addebito di violazione della norma sostanziale dell'art. 29 (e 30 e 31) Cost., che «riconosce i diritti della famiglia come societa' naturale fondata sul matrimonio». Vela la pena a questo proposito di menzionare alcune sconcertate reazioni che la nuova «tutela» di convivenze non basate sul matrimonio ha ingenerato. Il testo della seconda deliberazione rappresenta, a detta dell'Arcivescovo di Perugia Mons. Giuseppe Chiaretti, Presidente della Conferenza Episcopale Umbra «lo statuto delle ambiguita». In un articolo sul settimanale diocesano «La Voce» del 6 agosto 2004 (www.lavoce.it), e in un comunicato ANSA del 5 agosto 2004, egli esattamente sottolinea che «la famiglia e' stata considerata come una variabile tra tante forme di convivenza possibili, che non vogliono pero' accedere alla struttura impegnativa e pubblica del matrimonio-famiglia, ma ne esigono tutta la tutela "come se" fossero matrimonio e famiglia. Il che e' un controsenso giuridico oltre che morale, un "vulnus" arrecato alla stabilita' della famiglia, che non manchera' di pesare gravemente sul partner piu' fragile e soprattutto sui figli, e di riflesso sulla societa». Al di la' delle ben condivisibili opinioni del Presidente della Conferenza Episcopale Umbra, resta evidente a tutti, anche a quanto si riferiscono ad una accezione laica della comunita' familiare, che la previsione statutaria dell'art. 9 viola l'art. 29 (e 30 e 31) Cost., che non ammette forme di «tutela» della famiglia se non e' basata sul matrimonio, religioso o civile che sia. Il che, del resto, e' proprio l'applicazione del piu' laico dei principi, che e' quello di responsabilita', che vuole i diritti si accompagnino ai doveri: come appunto col matrimonio avviene. Ovviamente, nulla impedisce e deve impedire la convivenza delle coppie di fatto: ma proprio perche' si tratta di una scelta di liberta' dei singoli, che come non si vuole comporti vincoli e doveri, cosi' non comporta nemmeno i diritti che nascono dal matrimonio. Ma lo Statuto non si limita a riconoscere, se mai ve ne fosse bisogno, una tale liberta': con la parola «tutela» si spinge piuttosto ad impegnare la Regione ad agire attivamente a protezione della convivenza di fatto ogniqualvolta si attribuiscano al nucleo di conviventi diritti e opportunita', con l'effetto di una parificazione alla famiglia di diritto e della riduzione del matrimonio ad opzione ad effetto meramente morale ed esternamente carica solo di doveri. Con la previsione di questa «tutela» si introduce la regola del riconoscimento e della garanzia attiva di pretese analoghe o eguali a quelle che nascono dal matrimonio; il che e' contrario alla ricordata norma della Costituzione, che vuol rendere inutiliter data, e ne vanifica il presupposto. Il risultato che si vuole e' quello della equiparazione delle coppie (anche omosessuali, si noti bene) e delle famiglie di fatto e quelle di diritto. Oltre questo, vi e' da parte della regione una palese usurpazione di competenze statali, perche' la previsione in questione non rientra nelle competenze regionali: trattandosi di questione inerente l'ordinamento dello stato civile, e' infatti materia di esclusiva spettanza legislativa statale (art. 117, secondo comma, lett. i) Cost.). Per simile motivo il Governo ha poche settimane addietro impugnato lo Statuto della Regione Toscana. 1) Cfr. § 7 - Partizione interne degli articoli, di cui alle note circolari di Presidenza del Consiglio, Senato e Camera del maggio 2001, secondo cui «Il comma termina con i/punto a capo», «Tutti gli atti legislati vi sono redatti con i commi numerati», «Il comma unico di un articolo e' contrassegnato con il numero cardinale "I"» e «Ogni comma puo' suddividersi in periodi, cioe' in frasi sintatticamente complete che terminano con il punto, senza andare a capo». 2) Cfr. § 2 - Aspetti generali dell'atto legislativo, di cui alle citate circolari, secondo cui «La ripartizione delle materie all'interno dell'atto e' operata assicurando il carattere omogeneo di ciascuna partizione ivi compreso l'articolo, nonche' di ciascun comma all'interno dell'articolo».