Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 3625/2003 Reg. Gen., proposto da Severini Giuseppe, Maruotti Luigi, Volpe Carmine, Cirillo Giampiero Paolo, Carbone Luigi, Barra Caracciolo Luciano, Botto Alessandro, De Nictolis Rosanna e Lipari Marco, tutti rappresentati e difesi dall'avv. Celestino Biagini, contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato per l'annullamento: della nota della Presidenza del Consiglio dei ministri del 3 febbraio 2003 che ha respinto, previo riesame, le istanze di esecuzione presentate dagli interessati con riferimento alle decisioni del Presidente della Repubblica del 27 settembre 1999 loro relative; ove occorra, di ogni altro atto di mancata esecuzione delle suddette decisioni, e per la condanna della Presidenza del Consiglio dei ministri a corrispondere ai ricorrenti le somme indicate negli schemi trasmessi dalla segreteria generale del Consiglio di Stato in allegato alla nota n. 2383 del 26 agosto 2002, o, in alternativa, al risarcimento dei danni loro cagionati rendendosi inadempiente al dovere di dare tempestiva esecuzione alle medesime decisioni del Capo dello Stato o, in estremo subordine, perche' sia sollevato un conflitto di attribuzione nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri (art. 100, comma 3, Cost.). Visto il ricorso ed i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Amministrazione intimata; Viste le memorie presentate dalle parti a sostegno delle loro rispettive ragioni; Visti gli atti tutti di causa; Uditi alla pubblica udienza del 31 marzo 2004 il relatore ed altresi' gli avvocati Biagini e Bacosi; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: F a t t o Con il ricorso in esame, notificato in data 2 aprile 2003 e depositato il successivo giorno 9, i nominati in epigrafe esponevano: di essere vincitori dei rispettivi concorsi a consigliere di Stato; di avere a suo tempo richiesto all'Amministrazione di appartenenza di effettuare il ricalcolo dei loro trattamenti economici in applicazione della disciplina di cui all'art. 4, comma 9, della legge n. 425 del 1984 (norma che sarebbe stata in seguito abrogata dall'art. 50 della legge n. 388 del 2000); di avere in un secondo tempo proposto ricorsi straordinari avverso gli atti con i quali la Presidenza del Consiglio dei ministri aveva respinto le loro istanze; che i loro ricorsi erano stati accolti su conforme parere del Consiglio di Stato del 12 febbraio 1998 con decisioni del Presidente della Repubblica in data 27 settembre 1999, le quali avevano dichiarato l'obbligo dell'Amministrazione di determinare i trattamenti economici dei ricorrenti in applicazione della norma gia' detta, tenendo conto del superiore trattamento spettante ai colleghi che li seguivano nel ruolo dei consiglieri di Stato (con decorrenza dalle date in cui si erano verificati i relativi presupposti), ed altresi' l'obbligo di pagare le differenze retributive arretrate con la rivalutazione monetaria e gli interessi legali; che la Presidenza del Consiglio aveva, tuttavia, omesso di dare seguito a tali decisioni, limitandosi ad emanare, in data 13 luglio 2000, degli atti che davano una «parzialissima» esecuzione a quattro soltanto di esse; che gli interessati avevano proposto, allora, un ricorso per l'esecuzione del giudicato, il quale, pur avendo trovato accoglimento da parte del Consiglio di Stato, era pero' conclusivamente sfociato in una sentenza di annullamento della decisione da questo adottata da parte della suprema Corte di cassazione per difetto di giurisdizione; che, infine, dietro impulso di ulteriori istanze di esecuzione avanzate da parte degli stessi interessati la Presidenza del Consiglio aveva emesso la nota del 3 febbraio 2003 in epigrafe (dopo che la segreteria generale del Consiglio di Stato le aveva trasmesso, con la nota n. 2383/2002, gli schemi aggiornati dei rispettivi decreti individuali), con la quale aveva respinto le nuove richieste degli istanti opponendo loro il disposto dell'art. 50, comma 4, della legge 388 del 2000. Tanto premesso, i ricorrenti con il presente gravame impugnavano tale nota della Presidenza del Consiglio del 3 febbraio 2003 domandando la condanna dell'Amministrazione a corrispondere loro le somme indicate negli schemi trasmessi dagli uffici del Consiglio di Stato con la nota n. 2383/2002, o, in alternativa, al risarcimento dei danni loro cagionati mediante l'inadempimento del dovere di dare tempestiva esecuzione alle suddette decisioni del Presidente della Repubblica; in estremo subordine, veniva richiesto che fosse sollevato un conflitto di attribuzione nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri ai sensi dell'alt. 100, comma 3, Cost. A fondamento del ricorso venivano articolati motivi cosi' rubricati: 1) violazione dell'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, degli artt. 15 e 8 del d.lgs. n. 1199 del 1971, nonche' dell'alt. 2909 cod. civ., dell'art. 395, n. 5 cod. proc. civ. e dell'art. 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; 2) violazione dell'alt. 50, ultima parte del comma 4, legge cit.; 3) questioni di costituzionalita'; 4) difetto di motivazione in relazione alla domanda di risarcimento dei danni; violazione dell'art. 1218 cod. civ.; domanda di liquidazione; 5) istanza di proposizione di conflitto di attribuzione. L'Amministrazione intimata si costituiva in giudizio per il tramite dell'Avvocatura generale dello Stato eccependo l'inammissibilita' del ricorso sia a causa della sua proposizione in forma collettiva, sia per l'inoppugnabilita' dei dd.p.c.m. del 13 luglio 2000; del ricorso veniva altresi' dedotta, in ogni casa, l'infondatezza nel merito. Gli interessati controdeducevano alle obiezioni avversarie ed approfondivano le proprie tesi con due successive memorie e conclusive nate, insistendo per l'accoglimento del ricorso. Alla pubblica udienza del 31 marzo 2004 la causa e' stata trattenuta in decisione. D i r i t t o 1. L'oggetto sostanziale della controversia si identifica nella pretesa degli interessati di ottenere, da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri, la piena esecuzione dei decreti del Presidente della Repubblica del 27 settembre 1999 che, in accoglimento dei loro pregressi ricorsi straordinari, hanno dichiarato l'obbligo dell'Amministrazione di determinare i trattamenti economici di loro pertinenza alla stregua dell'art. 4, comma 9, della legge n. 425 del 1984, tenendo conto del superiore trattamento spettante ai colleghi che li seguivano nel ruolo dei consiglieri di Stato, ed accertato l'ulteriore suo obbligo di pagare loro le differenze retributive arretrate con gli accessori di legge. Allo stesso fine dell'esecuzione delle predette decisioni giustiziali gli interessati hanno in precedenza gia' esperito un ricorso per l'esecuzione del giudicato. Questo, peraltro, pur avendo trovato accoglimento da parte del Consiglio di Stato (IV, n. 6695 del 15 dicembre 2000), ha poi dato adito ad una sentenza di annullamento della relativa pronuncia ad opera della suprema Corte di cassazione per difetto di giurisdizione (SS.UU. civili, n. 15978 del 18 dicembre 2001). 2. Il tribunale deve preliminarmente intrattenersi sulle eccezioni in rito opposte dall'Avvocatura generale dello Stato. 2.a. Questa ha eccepito in primo luogo l'inammissibilita' del ricorso in ragione del suo esperimento in forma collettiva, traendo spunto dalla diversita' ed autonomia delle posizioni individuali dei singoli ricorrenti. E' pero' agevole replicare che l'atto introduttivo del presente giudizio non solo mira ad ottenere l'esecuzione di un provvedimento unitario, la nota della Presidenza del Consiglio dei ministri del 3 febbraio 2003 che ha respinto, e proprio cumulativamente, le ultime istanze di esecuzione presentate dagli interessati. Non soltanto, quindi, non e' ravvisabile tra questi ultimi alcuna possibilita' di conflitto di interessi, ma le rispettive domande giudiziali, che importano la soluzione di identiche questioni, sono avvinte da una piena comunanza sostanziale di petitum e causa petendi. Il che e' quanto basta, per pacifica giurisprudenza (cfr. ad es. C.d.S., IV, n. 146, dell'11 febbraio 1999), per ritenere ammissibile, pur in presenza di posizioni individuali autonome e scindibili, la proposizione di un ricorso in forma collettiva. 2.b. La difesa erariale fa derivare l'inammissibilita' del ricorso, inoltre, dall'assunto dell'intervenuta consolidazione dei decreti del 13 luglio 2000 con i quali la Presidenza del Consiglio aveva inteso conformarsi alle decisioni di accoglimento - secondo i ricorrenti cosi' attuate, peraltro, solo in minima parte - dei ricorsi straordinari in questione. Ad avviso dell'Avvocatura i detti decreti avrebbero dovuto formare materia di un immediato ricorso impugnatorio in sede ordinaria o straordinaria, in mancanza del quale - gli interessati, come si e' detto in narrativa, hanno proposto all'epoca un semplice ricorso per l'ottemperanza al giudicato - le loro statuizioni sarebbero diventate definitive ed incontestabili. Neppure questa eccezione puo' essere condivisa. Tanto i precedenti ricorsi straordinari, con le decisioni che li hanno accolti, quanto questo gravame giurisdizionale, riguardano la materia del trattamento retributivo, ambito nel quale l'Amministrazione non dispone, secondo la disciplina positiva, di poteri autoritativi di sorta (ma esistono soltanto - e quando, naturalmente, ne sussistano i presupposti - diritti e correlativi obblighi, e comunque atti amministrativi di natura solo paritetica). Cio' posto, appare evidente come gli interessati, mediante le decisioni del Capo dello Stato del 27 settembre 1999, si siano visti riconoscere nella detta materia delle posizioni di diritto soggettivo, che la Presidenza del Consiglio con i suoi atti del 13 luglio 2000 non aveva il potere di ridefinire autoritativamente e quindi, in tesi, di degradare. Di qui la conclusione obbligata dell'insussistenza dell'onere, ipotizzato dalla difesa dell'Amministrazione, di un'immediata impugnazione dei decreti del 13 luglio 2000, trattandosi di atti sprovvisti di indole imperativa. Non senza dire, infine, che comunque la nota del 3 febbraio 2003 in epigrafe ha operato un riesame dell'oggetto di tali precedenti determinazioni, come risulta, oltre che dal suo testo letterale, dall'analisi da essa recata della nuova normativa intervenuta in materia, ed infine dalla circostanza dell'essere stata esperita un'apposita nuova istruttoria sulla spesa. Sicche' i termini per ricorrere sarebbero stati, in ogni caso, riaperti. Anche questa seconda eccezione, pertanto, si rivela per ogni verso priva di consistenza. 2.c. La difesa dell'Amministrazione assume poi che non esisterebbe un effettivo interesse dei sunnominati al ricorso, in quanto, anche in ipotesi di annullamento dei decreti della Presidenza del Consiglio del 3 febbraio 2003 e del 13 luglio 2000, per determinare il trattamento economico di pertinenza dei ricorrenti sarebbe inevitabile fare i conti con il comma 4 dell'art. 50 della legge n. 388 del 2000, che da parte sua vanificherebbe anche i pur limitati vantaggi fin qui ricavati da taluni degli interessati in sede di esecuzione delle precedenti decisioni giustiziali. Appare pero' evidente come l'eccezione non tenga in alcun conto il dato per cui gli autori del presente ricorso mirano proprio a sottrarsi alla sfera di operativita' di quest'ultima norma, vuoi a livello interpretativo, vuoi attraverso l'auspicato intervento della Corte costituzionale. Onde anche questa eccezione si manifesta priva di pregio. 2.d. Deve essere fatto infine notare, per completezza, che la circostanza che gli interessati abbiano scelto, in origine, di fare valere le proprie ragioni attraverso la via del ricorso straordinario non inibiva loro la possibilita' di adire in seguito un organo giurisdizionale, quale il tribunale, al fine di ottenere la compiuta esecuzione delle favorevoli decisioni ottenute in quella prima sede. La giurisprudenza non mostra incertezze sulla cogenza della decisione emessa sul ricorso straordinario per la p.a., ravvisando a carico di questa l'obbligo di darvi esecuzione (v. ad es. c.d.s., V, n. 577 del 5 ottobre 1987; IV, n. 1302 del 16 ottobre 1998 e n. 5393 del 22 settembre 2003): e da questo presupposto fa derivare il corollario che l'amministrato, allo scopo di far valere la pretesa alla puntuale esecuzione della pronuncia giustiziale, puo' avvalersi - in particolare - dello strumento dell'impugnativa del silenzio-rifiuto formatosi sulla diffida a provvedere, ovvero della diretta impugnazione dell'atto emesso dall'Amministrazione che si presenti elusivo o palesemente in contrasto con la decisione presidenziale (Tribunale amministrativo regionale Lazio, II, n. 215 del 14 gennaio 2004; Tribunale amministrativo regionale Puglia, Bari, II, n. 217 del 28 febbraio 1997; Tribunale amministrativo regionale Sicilia, Catania, II, n. 1606 del 16 ottobre 2003). Con il che, dunque, la giurisprudenza esclude che a chi persegua l'esecuzione di una decisione giustiziale l'accesso alla tutela giurisdizionale vera e propria possa essere negato opponendogli il canone dell'electa una via non datur recursus ad alteram, indirizzo in armonia con la tradizionale acquisizione per cui il principio di alternativita' fra ricorso giurisdizionale e ricorso straordinario, dato il suo carattere limitativo dell'esercizio del diritto di azione, non e' suscettibile di applicazione analogica, ma opera nel solo caso, contemplato dagli artt. 8, comma 2, del d.P.R. n. 1199 del 1971, e 20, comma 3, della legge n. 1034/1971, di impugnative aventi ad oggetto il medesimo atto (cfr. ad es. c.d.s., A.P., n. 5 del 15 marzo 1989). 3. Rispetto al merito della causa riveste valore centrale la previsione dell'art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 23 dicembre 2000 (la legge finanziaria per l'anno 2001). La norma, il cui disposto e' stato richiamato a base dell'impugnata nota reiettiva delle istanze dei ricorrenti, nella parte di interesse recita: «Il nono comma dell'art. 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, e perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorita' giurisdizionali comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data suindicata. In ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti». Ora, ad avviso del tribunale correttamente la Presidenza del Consiglio dei ministri ha ritenuto che questa norma si opponesse all'accoglimento delle richieste di parte («Considerato che l'art. 50, comma 4, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, ha interpretato retroattivamente l'art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, nel senso che esso va considerato abrogato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992; Considerato che il medesimo art. 50, ultima parte del comma 4, ha disposto che sono venuti meno gli effetti degli atti e delle decisioni giurisdizionali rese in applicazione dell'art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, senza eccettuare le decisioni del Presidente della Repubblica di accoglimento di ricorsi straordinari ...»). 3.a. Con il ricorso in esame e' stato sostenuto il contrario, prospettando la tesi che la nuova norma riguarderebbe i ricorrenti soltanto de futuro ed entro ben ristretti limiti: vale a dire che essa sarebbe applicabile loro solo nel senso che, qualora dopo la data del 1° gennaio 2001 si verificasse la nomina di un Consigliere di Stato avente uno stipendio maggiore, il trattamento economico di essi ricorrenti non potrebbe comunque piu' giovarsene. A sostegno della loro tesi gli interessati hanno addotto l'avvenuta formazione, sulle decisioni del Capo dello Stato da loro ottenute, di una situazione di «giudicato amministrativo sostanziale», e si sono richiamati ai principi generali sui rapporti tra cosa giudicata e leggi successive retroattive (svolgendo argomenti che troveranno specifica considerazione infra, al n. 4, dove si dira' della dubbia compatibilita' della norma sopravvenuta con i principi costituzionali) e al canone dell'interpretazione secundum constitutionem. A loro avviso l'amministrazione avrebbe dato un'interpretazione errata allo jus superveniens. Cio' in quanto una misura eccezionale, quale la cancellazione ope legis degli effetti prodotti da decisioni del Capo dello Stato ormai immutabili, avrebbe dovuto essere necessariamente prevista in maniera chiara ed espressa, non potendo in mancanza di tanto essere ascritto al legislatore un intento che verrebbe a trovarsi in conflitto con la Carta. In ricorso sono stati inoltre richiamati i lavori preparatori della Camera dei deputati e del Senato. Nel corso della discussione del disegno di legge, si e' detto, era stata prospettata la possibilita' che la nuova norma venisse intesa nel senso di incidere su posizioni individuali come quelle degli attuali ricorrenti: e proprio in senso contrario ad una simile eventualita' si era espresso al Senato il Ministro della funzione pubblica (annunciando una modifica del testo, che peraltro non consta essere stata apportata), e la Camera aveva approvato l'ordine del giorno n. 38 del 22 dicembre 2000 impegnando il Governo a dare applicazione alla norma nel senso di fare salve le decisioni irrevocabili gia' formatesi. 3.b. Come si e' premesso, tuttavia, l'interpretazione proposta dalla parte ricorrente non puo' essere accolta. La norma del cui significato si tratta, infatti, non solo non enuncia la salvezza che nel ricorso viene rivendicata, ma lascia chiaramente intendere di non volerla riconoscere ne' osservare. Come viene ricordato anche nell'atto introduttivo, il canone dell'interpretazione conforme a Costituzione puo' trovare applicazione soltanto ove il testo letterale di un precetto renda praticabile una pluralita' di percorsi ermeneutici. Ma e' proprio questo presupposto a fare difetto nel caso concreto, poiche' la norma in discussione mostra un testo che e' incompatibile con la lettura che ne viene proposta dai ricorrenti, e con ogni altra interpretazione che si differenzi da quella da loro avversata. E questa circostanza esclude altresi' che possa attribuirsi rilievo alle suesposte indicazioni dei lavori preparatori, le quali non possono che risultare recessive al cospetto di un testo letterale che da loro diverga, come e' il caso di quello in esame (cfr. Cass. civ., I, n. 2230 del 27 febbraio 1995; III, n. 3550 del 21 maggio 1988; Sez. lavoro, n. 3276 dell'8 giugno 1979). A conforto, invero, dell'interpretazione data dalla Presidenza del Consiglio con la sua ultima nota, stanno in particolare i seguenti elementi: il binomio «i provvedimenti e le decisioni», il quale compare nel penultimo periodo del citato nono comma e si trova anche ribadito nell'ultimo; la precisazione legislativa per cui la prevista perdita di efficacia vale per gli uni e per le altre, per il solo fatto di essere stati «comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data suindicata»; infine, e soprattutto, la prescrizione conclusiva per cui «in ogni caso» dai titoli indicati non potranno sortire pagamenti. E cio' e' quanto basta per convincersi dell'impraticabilita' dell'itinerario ermeneutico patrocinato dai ricorrenti. 3.c. La norma indicata, pertanto, vanificando le decisioni giustiziali che sono state rese a suo tempo in favore dei ricorrenti, con la propria portata interdittiva impedisce alle pretese di parte di avere un qualsiasi corso. E con cio' preclude al Tribunale di accedere al problema di merito che gli stessi interessati vorrebbero vedere in questa sede risolto, il quale richiederebbe di accertare la correttezza e completezza dell'esecuzione fin qui data alle decisioni del Capo dello Stato del 27 settembre 1999. 4. Questa norma presta pero' il fianco ai dubbi di costituzionalita' avanzati con il terzo motivo del ricorso con riferimento agli artt. 3, 24, 100, 103 e 113 della Carta, con la conseguenza che le relative questioni dovranno essere sottoposte al vaglio della Corte costituzionale. Da parte dei ricorrenti si assume che il legislatore, incorrendo in un eccesso di potere, avrebbe inammissibilmente inciso su decisioni ormai immutabili ed irrevocabili emesse dal Capo dello Stato in regime di alternativita' rispetto al ricorso giurisdizionale, le quali avevano accertato l'avvenuta lesione di diritti soggettivi. Premesso, infatti, che non e' consentito al legislatore travolgere dei giudicati, viene dedotto che sarebbe propria delle predette decisioni una forza e funzione equivalente a quella delle vere e proprie sentenze, e che comunque sarebbe irragionevole un trattamento differenziato, sul punto, dei due tipi di titoli, come pure dei soggetti che li abbiano ottenuti. 4.a. La base di partenza del ragionamento che occorre svolgere consiste, quindi, in cio', che la giurisprudenza costituzionale e' attestata nel senso che la portata retroattiva delle norme di interpretazione autentica incontra, tra i diversi limiti, «quello della tutela dell'affidamento legittimamente posto sulla certezza dell'ordinamento giuridico, e quello del rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (cio' che vieta di intervenire per annullare gli effetti del giudicato o di incidere intenzionalmente su concrete fattispecie sub judice)» C. cost., n. 525 del 22 novembre 2000. La Corte ha invero censurato anche di recente gli interventi legislativi con i quali, oltre a crearsi una regola astratta operando sul piano delle fonti, vengono investite anche delle sentenze gia' passate in giudicato, con il risultato di precludere la loro esecuzione, ed ha ravvisato nell'incidenza della nuova norma su situazioni coperte da giudicato una lesione dei principi che governano i rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, oltre che delle disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (n. 374 del 27 settembre 2000; cfr. anche, ad es., la n. 15 del 19 gennaio 1995). Alla stregua della giurisprudenza costituzionale sembra, dunque, corretto dire che lo jus superveniens non possa travolgere delle situazioni regolate da giudicato. Anche l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, del resto, ha avuto modo di osservare che il contenuto precettivo del giudicato amministrativo, come di quello civile, costituisce un modo di essere necessario e non piu' mutabile della realta' giuridica, ormai definitivamente cristallizzato nella pronunzia giurisdizionale (anche se questa avesse per avventura travisato le norme da applicare al caso concreto). La garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi di cui agli artt. 24 e 113 della Carta non riguarda, infatti, il solo diritto di adire il giudice, ma comprende anche e soprattutto il diritto di ottenere da questi una statuizione definitiva ed immutabile (l'unica realmente satisfattiva della pretesa azionata in giudizio). E' stato pertanto concluso che «l'immutabilita' del giudicato non puo' cedere di fronte a norme sopravvenute aventi efficacia retroattiva», giacche' diversamente «sarebbe consentito al legislatore vanificare in ogni momento la funzione propria della Magistratura (...) rendendo aleatoria ... quella tutela giurisdizionale che costituisce un fondamentale diritto assicurato al singolo dalla Costituzione, tutela che non puo' dirsi tale se non e' completa (artt. 24 e 113 Cost.) e indipendente dalla ingerenza di ogni altro potere (artt. 101 e 104 Cost.)» (c.d.s., A.P., n. 4 del 21 febbraio 1994). 4.b. Ebbene, la condizione giuridica del provvedimento decisorio di un ricorso straordinario, pur non presentandosi identica a quella propria della sentenza, e' comunque ampiamente suscettibile, per i significativi tratti di affinita' esistenti tra loro, di esserle raffrontata. Esistono, infatti, molteplici elementi deponenti nel senso che il Capo dello Stato, allorche' con la decisione di sua competenza aderisca al parere reso nel procedimento dal Consiglio di Stato, cooperi all'esplicazione di una funzione essenzialmente giurisdizionale, limitandosi ad un ruolo formale di esternazione del relativo decisum tecnico. E' pur vero, poi, che l'autorita' di vertice non e' vincolata in modo assoluto ad uniformarsi al parere rimessole dal Consiglio di Stato, e potrebbe quindi, in teoria, risolvere la controversia anche secondo criteri diversi da quelli consistenti nella pura e semplice applicazione delle norme di diritto (come ha ricordato anche la S.C. con la sentenza n. 15978/2001 cit.). Cio', tuttavia, altro non pare significare se non che, negli eccezionali casi in cui questo avvenga (tra i quali non rientra quello corrente), la soluzione della controversia troverebbe allora definizione, attraverso la sottoposizione della fattispecie al Consiglio dei ministri, mediante l'esplicazione della funzione di alta amministrazione, la quale puo' innestarsi nel procedimento in discorso - ed e' questa la peculiarita' che la materia possiede - facendo deviare il suo corso dagli ordinari binari pienamente giuridici e para-giurisdizionali sui quali esso e' comunque per regola strutturalmente e funzionalmente impiantato, sottraendogli cosi', in tali soli casi, la sua normale natura. Non e' casuale che la decisione giustiziale conforme al parere non sia mai stata ritenuta impugnabile con un ulteriore ricorso al Capo dello Stato o con un normale gravame giurisdizionale (potendo esserne denunziati, come e' noto, solo gli eventuali vizi formali o procedurali), ne' mai ne sia stata ammessa la revoca (c.d.s., IV, n. 6695 del 15 dicembre 2000). Vanno considerati, in particolare, gli artt. 8, 10 e specialmente 15 del d.lgs. n. 1199 del 1971, l'ultimo dei quali stabilisce che i decreti del Presidente della Repubblica di decisione dei ricorsi straordinari possono essere impugnati per revocazione nei casi previsti dall'art. 395 cod. proc. civ.: articoli che, assimilando sotto molteplici e qualificanti aspetti la funzione giustiziale a quella giurisdizionale, hanno fatto dire ai ricorrenti non senza elementi di ragione che gli effetti sostanziali delle decisioni in discorso sono equivalenti a quelli del giudicato amministrativo. Viene comunemente ricordato (cfr. c.d.s., I, par. n. 3319 del 6 dicembre 1995), infatti, che il ricorso straordinario, rimedio alternativo e parallelo a quello giurisdizionale, e' soggetto ad identiche condizioni di proponibilita' (salva la diversa lunghezza del termine per ricorrere e la differente posizione rispetto alla regola del previo esaurimento dei ricorsi amministrativi interni), e somministra una tutela del tutto analoga per petitum e causa petendi; la relativa decisione e' inoltre pronunziata in termini di stretto diritto, esclusa ogni valutazione discrezionale dell'interesse pubblico; la decisione finale, formalmente emessa con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro competente per materia, si basa sul parere del Consiglio di Stato, dal quale e' possibile discostarsi solo sottoponendo la questione al Consiglio dei ministri; il Consiglio di Stato, infine, e' un organo imparziale, e la sua indipendenza e' garantita dalla Costituzione (anche perche' lo stesso e' titolare, contemporaneamente, di funzioni anche formalmente giurisdizionali). Con questi dati strutturali concorre poi quello, che appare fondamentale, inerente al profilo funzionale dell'istituto giustiziale. Il ricorso straordinario, pur perseguendo anche lo scopo tradizionale di permettere un controllo finale sulla legittimita' di un atto in un contesto ancora in un certo qual senso interno all'Amministrazione, sembra senz'altro trovare la sua ragione d'essere e finalita' preminente, oggi, nella protezione degli interessi degli amministrati, come si e' reso particolarmente evidente a seguito dell'intervento dell'art. 3, comma 4, della legge n. 205 del 2000, sulla tutela cautelare («Nell'ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica puo' essere concessa, a richiesta del ricorrente, ove siano allegati danni gravi e irreparabili derivanti dall'esecuzione dell'atto, la sospensione dell'atto medesimo»). La funzione che l'ordinamento affida al ricorso straordinario e' quindi essenzialmente la medesima, votata alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi individuali, cui assolve, alternativamente e fungibilmente, il ricorso giurisdizionale amministrativo. Come e' stato recentemente detto, «...essendo il rimedio in questione preordinato al valore della tutela delle situazioni soggettive contemplate dall'art. 24 Cost., il principio di non piena aderenza al risultato (peraltro imposto da quel precetto fondamentale) finirebbe per tradursi in una sostanziale negazione della premessa, relegando l'ambito di applicazione del ricorso straordinario in una specie di zona grigia, nella quale, in definitiva, non sarebbe sempre garantita la piena tutela di situazioni soggettive» (c.d.s., II, n. 2759/02 del 12 marzo 2003). Il ricorso straordinario, dunque, ai fini di causa sembra poter essere reputato un rimedio anche funzionalmente simile al ricorso giurisdizionale. Cio' posto, il tribunale non puo' che prendere atto, naturalmente, della statuizione della Corte regolatrice che ha escluso, proprio in uno stadio precedente della stessa vicenda oggetto di controversia, l'esperibilita' del giudizio di ottemperanza (ss.uu. civili, n. 15978 del 18 dicembre 2001). Questa conclusione, se nega che l'esecuzione delle decisioni del Capo dello Stato possa giovarsi di un simile mezzo (di cui la giurisprudenza amministrativa ammette peraltro l'utilizzabilita' anche per i lodi arbitrali), non pare pero' suscettibile di incidere sugli effetti che la legge riconnette alle stesse decisioni, la cui efficacia sostanziale e la cui funzione istituzionale sopravvivono impregiudicate al disconoscimento della praticabilita' della procedura di cui all'art. 27 n. 4 T.U. n. 1054 del 26 giugno 1924. E se le sezioni unite, nell'occasione, agli specifici fini del giudizio di loro competenza hanno escluso la rilevanza della divisio tra le decisioni rese - praeter legem - su controversie devolute alla giurisdizione ordinaria (decisioni che sono reputate disapplicabili) e quelle, invece, emesse in regime di alternativita' rispetto alla giurisdizione amministrativa, il Tribunale non puo' fare a meno di notare che la caratteristica che il legislatore ha impresso al ricorso straordinario, conformemente connotandolo, e' proprio quella dell'alternativita' alla via giudiziaria amministrativa. Ed e' la vigenza del regime di alternativita' che comporta che le relative decisioni giustiziali non siano sindacabili ne' modificabili dal giudice amministrativo (ne' da qualsiasi altro giudice od autorita): non e' difatti consentito riaprire una controversia gia' chiusa, nel senso che, una volta che il ricorso straordinario, sul conforme parere del Consiglio di Stato, sia stato definito, e' precluso ogni riesame in sede giurisdizionale della questione cosi' decisa (cfr. c.d.s., IV, nn. 6502 del 7 dicembre 2000 e 800 del 20 giugno 1996; VI, nn. 601 del 17 aprile 1997, 437 del 14 dicembre 1976 e 883 del 27 ottobre 1952; nel senso della definitivita' ed irrevocabilita' delle decisioni dei ricorsi straordinari, nonche' del parallelismo esistente con i ricorsi giurisdizionali, v. anche c.d.s., A.P., n. 26 del 30 dicembre 1954). «La decisione puo' essere modificata solo per correzione di errore materiale o nei casi eccezionali di revocazione, secondo le stesse regole dettate per le sentenze civili non suscettibili di impugnazione; salvi questi casi eccezionali, non puo' essere modificata o revocata dalla stessa autorita' che l'ha emessa, ne' ad istanza delle parti ne' d'ufficio» (c.d.s., I, n. 3319 del 6 dicembre 1995). Ed il principio dell'irretrattabilita' della decisione e' stato gia' affermato anche dinanzi a norme di interpretazione autentica (c.d.s., III, n. 221 del 25 ottobre 1994). La decisione del ricorso straordinario ha, dunque, la funzione di definire immutabilmente la lite in regime di alternativita' nel segno, come si e' detto, della difesa delle posizioni soggettive individuali meritevoli di tutela ex artt. 24 e 113 Cost. Ne' sembra poter essere trascurato il fatto che nel corso del procedimento promosso dal ricorso straordinario puo' essere anche sollevata una pregiudiziale comunitaria ai sensi dell'art. 177 del Trattato (Corte di Giustizia C.E., 16 ottobre 1997, cause da C-69/96 a C-79/96), avendo la Corte del Lussemburgo riconosciuto che il Consiglio di Stato, quando emette il parere di sua competenza nelle fattispecie in discorso, costituisce una giurisdizione ai sensi della norma appena citata, per ragioni che discendono dalla sua posizione di indipendenza, dall'obbligatorieta' della sua pronuncia e dall'esistenza di un contraddittorio all'interno della relativa procedura. Almeno secondo la prassi giustiziale, inoltre, si ritiene che nella medesima sede possa essere sollevato anche un incidente di costituzionalita' (c.d.s., I, n. 650/96 del 19 maggio 1999 e n. 4210/02 del 4 novembre 2003; II, n. 534/01 del 27 marzo 2002 e n. 2898/02 del 26 marzo 2003; C.G.A., n. 448/2001 del 2003). La Corte di cassazione, infine, occupandosi della materia delle cause di ineleggibilita', ha avuto modo di chiarire che il dato preclusivo della pendenza della lite ricorre non soltanto quando la lite stessa si sia formalizzata in una controversia giudiziaria in senso stretto (dinanzi ad un giudice civile o amministrativo), ma anche ove sia pendente un procedimento in sede amministrativa contenziosa quale un ricorso straordinario, poiche' anche in tal caso sussiste una contrapposizione tra parti nell'ambito di un apposito procedimento instaurato al fine di risolvere una controversia tra p.a. e privato ricorrente, tenuto conto in particolare del principio di alternativita' che connota i rapporti tra il ricorso straordinario ed il ricorso giurisdizionale amministrativo (Cass. civile, I, n. 2262 del 15 aprile 1982). Sicche' anche da questa particolare angolazione le due sedi sono state assimilate. In conclusione, pur in presenza di una doppia veste, giurisdizionale ed amministrativa, della procedura in esame, da quanto esposto si desume che la natura giurisdizionale immanente nei profili contenutistici, funzionali e relazionali dell'istituto, nonche' nei suoi effetti determinanti, al pari di quelli delle sentenze, per l'assetto di interessi che ne forma oggetto, dovrebbe prevalere sulla sua forma amministrativa. Pertanto, la incisione retroattiva di una nuova norma di legge su una decisione definitiva si puo' presentare lesiva delle garanzie costituzionali. E questo non solo in via diretta, e cioe' in forza della plausibile assimilabilita' del ricorso straordinario e della decisione giustiziale al ricorso e alla decisione giurisdizionale, ma anche per l'incompatibilita' di un intervento legislativo siffatto con la funzione del ricorso straordinario, che dopo l'avvento della legge n. 205/2000 sulla materia cautelare sembra dover essere identificata senza meno, alla stessa stregua della finalita' della giurisdizione, nella tutela dei diritti e degli interessi legittimi. La tutela delle posizioni degli amministrati, infatti, e' perseguita nel diritto vivente, ed assegnata dall'ordinamento positivo, oltre che al ricorso giurisdizionale amministrativo, anche al ricorso straordinario: sicche' le limitazioni che pregiudicano l'effettivita' di quest'ultimo sembrano tradursi nello stesso tempo in lesioni del valore costituzionale di cui agli artt. 24 e 113 Cost. (oltre a presentarsi prive di giustificazione razionale anche sotto il profilo della parita' di trattamento). Del resto, in un'altra fattispecie in cui pure assumeva rilievo una norma legislativa (allora, regionale) che veniva ad incidere su una decisione di accoglimento di un ricorso straordinario al Capo dello Stato, caducandone sostanzialmente gli effetti, e' gia' accaduto che sia stata sollevata in proposito una questione di legittimita' costituzionale (Tribunale amministrativo regionale Umbria, ordinanza del 13 aprile 1994), sulla notazione che «... la singolare natura del detto rimedio giustiziale, l'alternativita' con l'impugnativa giurisdizionale, l'inserimento del ricorso medesimo nel quadro degli strumenti di tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi nei confronti della P.A. e dei suoi atti orientano a ritenere sussistente, nella specie, la violazione delle norme costituzionali poste a tutela dell'esercizio del diritto inviolabile alla difesa che, seppure riferibili direttamente alla sede giurisdizionale, appaiono parimenti applicabili alle correlate sedi giustiziali. E tutela non vi e' se il rapporto giuridico affermato nella naturale sede contenziosa non perviene poi, per intervento normativo retroattivo, a svolgere il proprio contenuto satisfattorio dell'interesse sostanziale azionato». E la Corte, nel pronunziarsi al riguardo, senza dire alcunche' che potesse suonare come una smentita di una simile impostazione, ha respinto la questione allora postale motivando sulla base di elementi ad essa estrinseci (la circostanza che la legge interpretativa oggetto di scrutinio fosse anteriore, e non successiva, all'accoglimento del ricorso straordinario de quo, e quella che la decisione giustiziale era stata determinata da ragioni estranee alla controversa interpretazione della norma di base) (C. cost., n. 376 del 25 luglio 1995). Ne' puo' tacersi, infine, che, anche a volere ipoteticamente prescindere da ogni parallelismo tra ricorsi straordinari e ricorsi giurisdizionali, l'incisione retroattiva di una nuova norma di legge su una decisione giustiziale definitiva presenta comunque, per le ragioni esposte, profili di incompatibilita' anche rispetto alla funzione costituzionale del Consiglio di Stato (art. 100, comma 1) di assicurare «la tutela della giustizia nell'amministrazione». 4.c. Per quanto precede, si profilano non manifestamente infondate le questioni sollevate dai ricorrenti in ordine alla legittimita' costituzionale dell'art. 50, comma 4, penultimo ed ultimo periodo, della legge n. 388 del 23 dicembre 2000, nella parte in cui tale norma, esplicitando la portata retroattiva dell'abrogazione da essa contemplata, prevede che questa possa travolgere anche posizioni individuali gia' riconosciute mediante sentenze o decisioni di ricorsi straordinari che erano ormai divenute definitive, per conflitto con gli artt. 3, 24, 100, 103 e 113 della Carta. Quanto alla rilevanza di tali questioni rispetto al giudizio in corso, la stessa emerge da quanto illustrato in precedenza, allorche' e' stato evidenziato che la norma della cui costituzionalita' si dubita imporrebbe senz'altro la reiezione del presente ricorso, laddove una sua caducazione - limitata, si intende, al profilo sollevato - potrebbe condurre il giudizio, all'esito dell'accertamento sostanziale non piu' precluso, anche ad una conclusione opposta. Le questioni delineate nel paragrafo precedente vanno pertanto sottoposte al vaglio della Corte costituzionale, ed il presente giudizio conseguentemente sospeso in attesa della loro decisione.