ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 34 del decreto
legislativo  28 agosto  2000,  n. 274  (Disposizioni sulla competenza
penale  del  giudice  di  pace,  a norma dell'articolo 14 della legge
24 novembre  1999, n. 468) e dell'art. 17, comma 1, lettera f), della
legge  24 novembre  1999,  n. 468  (Modifiche  alla legge 21 novembre
1991,  n. 374,  recante  istituzione  del  giudice di pace. Delega al
Governo  in  materia  di  competenza  penale  del  giudice  di pace e
modifica  dell'art. 593 del codice di procedura penale), promosso con
ordinanza  del  6 marzo 2003 dal Tribunale di Torino nel procedimento
penale  a  carico  di L.G., iscritta al n. 308 del registro ordinanze
2003  e  pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 22,
1ª serie speciale, dell'anno 2003.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 27 ottobre 2004 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che  con l'ordinanza in epigrafe il Tribunale di Torino
ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale:
    a)  dell'art. 34  del  decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274
(Disposizioni  sulla  competenza  penale del giudice di pace, a norma
dell'articolo 14  della legge 24 novembre 1999, n. 468), che prevede,
per  i  reati  di  competenza del giudice di pace, l'esclusione della
procedibilita'  nei  casi  di  particolare  tenuita'  del  fatto, per
contrasto con l'art. 76 della Costituzione;
    b)  dell'art. 17,  comma 1,  lettera f),  della legge 24 novembre
1999,  n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante
istituzione  del  giudice  di  pace.  Delega al Governo in materia di
competenza  penale  del  giudice di pace e modifica dell'art. 593 del
codice  di  procedura  penale)  e  dell'art. 34 del d.lgs. n. 274 del
2000,  per  contrasto  con  gli artt. 25, secondo comma, 101, secondo
comma, e 112 della Costituzione;
        che  il  giudice  a  quo  - investito del processo penale nei
confronti  di persona imputata del reato di lesioni colpose aggravate
dalla   violazione  di  norme  sulla  disciplina  della  circolazione
stradale  (art. 590,  primo  e  terzo comma, cod. pen.), processo nel
quale  la  persona offesa querelante si era costituita parte civile -
premette,  in  punto  di  fatto,  che,  alla stregua delle risultanze
dibattimentali,  il reato oggetto di giudizio aveva prodotto un danno
di  particolare  tenuita', attesa la modestia delle lesioni cagionate
alla   vittima;   che   il   fatto   appariva,  altresi',  di  natura
«occasionale»; che il grado della colpa (ove la si ritenesse provata)
risultava  minimo;  che  sussistevano,  infine,  esigenze  di  lavoro
dell'imputato,  suscettibili  di  venir  pregiudicate  dall'ulteriore
corso del procedimento;
        che  ricorrerebbero,  pertanto,  tutte  le  condizioni per la
pronuncia  di  una sentenza che dichiari di non doversi procedere per
la «particolare tenuita' del fatto», ai sensi dell'art. 34 del d.lgs.
n. 274   del   2000:   disposizione,  questa,  che,  dettata  per  il
procedimento  penale  davanti  al giudice di pace, e' applicabile, in
forza  dell'art. 63  del  medesimo  decreto legislativo, anche quando
reati  di  competenza  di  detto  giudice  (quale  quello oggetto del
procedimento a quo) vengano giudicati da giudici diversi;
        che  ad  avviso  del  rimettente, tuttavia, il citato art. 34
violerebbe  l'art. 76  Cost., risultando viziato da eccesso di delega
in  rapporto  al  criterio  direttivo  di  cui  all'art. 17, comma 1,
lettera f),    della   legge   n. 468   del   1999,   che   prevedeva
l'introduzione, per i reati attribuiti alla competenza del giudice di
pace,  «di  un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di
particolare  tenuita'  del  fatto e di occasionalita' della condotta,
quando  l'ulteriore  corso  del  procedimento  puo'  pregiudicare  le
esigenze  di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona
sottoposta ad indagini o dell'imputato»;
        che la norma di delega doveva ritenersi finalizzata, infatti,
unicamente  alla previsione, da parte del legislatore delegato, di un
rito  semplificato,  e  non gia' di una rinuncia pura e semplice alla
potesta'  punitiva dello Stato: e cio' sia per il significato assunto
nell'uso comune e nella prassi giudiziaria dalla formula «definizione
del   procedimento»;   sia  per  l'argomento  di  ordine  sistematico
ricavabile  dalla  circostanza  che  la  legge  n. 468  del  1999 non
prevedeva  la possibilita' di definire il processo davanti al giudice
di pace tramite riti alternativi, come invece avviene per il processo
ordinario;
        che  il  giudice  a  quo  riconosce, peraltro, che l'opinione
prevalente  e'  nel  senso  che  il  criterio  direttivo in questione
evocasse  uno strumento deflattivo basato proprio sulla rinuncia alla
potesta'  punitiva  statale:  prospettiva  nella  quale,  tuttavia  -
risultando la delega legislativa, in ipotesi, correttamente attuata -
non  solo  l'art. 34  del d.lgs. n. 274 del 2000, ma anche l'art. 17,
comma 1,  lettera f), della legge n. 468 del 1999, che ne costituisce
la   base,  si  esporrebbero  ad  ulteriori  e  distinte  censure  di
costituzionalita';
        che  le  norme  impugnate  violerebbero,  in  particolare,  i
principi  di  stretta legalita', soggezione del giudice soltanto alla
legge ed obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale (artt. 25,
secondo   comma,   101,  secondo  comma,  e  112  Cost.),  in  quanto
demanderebbero al giudice di stabilire, caso per caso, se l'esercizio
dell'azione  penale,  pur in presenza di un fatto tipico - come tale,
«per  definizione»  lesivo  dell'interesse  tutelato  - sia nondimeno
«ingiustificato» rispetto a quest'ultimo, sulla base di indici (quali
l'esiguita' del danno o del pericolo, l'occasionalita' del fatto e il
grado della colpevolezza) «meramente apparenti» ed «insuscettibili di
... un'applicazione pratica che non sfoci nell'arbitrio»;
        che, infatti, quanto all'«esiguita' del danno o del pericolo»
-  premesso  come  nel  nostro sistema l'esercizio dell'azione penale
resti  in  via generale precluso, in base all'art. 49, secondo comma,
cod.  pen.,  solo  quando  il  danno o il pericolo siano radicalmente
assenti,  mentre  la  loro  particolare  lievita' rileva solo ai fini
dell'eventuale  attenuazione  della  pena - il rimettente assume che,
nell'ipotesi  in  esame, verrebbe affidata al giudice una valutazione
«concettualmente ed operativamente impossibile», se non in termini di
mero  arbitrio,  in  virtu'  della  quale  la  modestia  del danno si
trasformerebbe inconcepibilmente in assenza di danno;
        che,  d'altro  canto,  il  requisito dell'«occasionalita' del
fatto»   -   prestandosi   ad   una  pluralita'  di  diverse  opzioni
interpretative - risulterebbe non sufficientemente determinato, tanto
piu'  in rapporto alla funzione, attribuitagli dalle norme impugnate,
di  discriminare  cio' che e' penalmente rilevante da cio' che non lo
e';
        che  quanto,  ancora,  alla  condizione relativa al «grado di
colpevolezza» - evocativa, secondo il rimettente, dell'intensita' del
dolo  o del grado della colpa - varrebbe parimenti il rilievo per cui
dolo  e  colpa  o  sussistono,  ancorche'  poco  intensi,  ed  allora
l'esercizio     dell'azione    penale    non    potrebbe    ritenersi
«ingiustificato»;   ovvero   non  sussistono,  ed  allora  l'imputato
dovrebbe  essere assolto «perche' il fatto non costituisce reato»; in
nessun  modo il giudice potrebbe invece compiere «da solo», senza una
«precisa  guida  normativa», quel «salto» che porta a trasformare una
colpa lieve in assenza di colpa;
        che  il  giudice  a  quo  ricorda,  infine,  di  aver gia' in
precedenza   sollevato,   nel  medesimo  giudizio,  le  questioni  di
costituzionalita'  dianzi  esposte:  questioni  che,  nell'occasione,
erano  state  peraltro  dichiarate  manifestamente  inammissibili  da
questa  Corte  con  ordinanza  n. 34  del  2003,  in  quanto proposte
unitamente  ad  altri  profili  di  incostituzionalita',  che avevano
finito per rendere contraddittorio il quesito;
        che  -  omessi ora tali ultimi profili - il rimettente rileva
come  il  permanere  dei  dubbi  di legittimita' costituzionale renda
doveroso adire nuovamente la Corte;
        che  nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  quale ha chiesto che le
questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
    Considerato  che  il  Tribunale  di  Torino  sottopone nuovamente
all'esame di questa Corte, nell'ambito del medesimo procedimento, due
delle  quattro  questioni  di  legittimita' costituzionale - inerenti
all'istituto  dell'esclusione  della  procedibilita'  per particolare
tenuita'  del  fatto,  riguardo ai reati di competenza del giudice di
pace  -  gia'  dichiarate  manifestamente inammissibili con ordinanza
n. 34 del 2003;
        che,  per costante giurisprudenza di questa Corte, al giudice
a  quo  non  e'  precluso  sollevare  una  seconda  volta la medesima
questione  nel  corso  dello  stesso grado del giudizio, allorche' la
Corte  abbia  emesso una pronuncia a carattere non decisorio, fondata
su  motivi rimuovibili dal giudice a quo, poiche' tale iniziativa non
contrasta col disposto dell'ultimo comma dell'art. 137 Cost., in tema
di  non  impugnabilita'  delle  decisioni della Corte stessa (cfr., a
contrario,  ex plurimis, sentenza n. 12 del 1998; ordinanze n. 63 del
2003  e n. 87 del 2000): cio', peraltro, alla ovvia condizione che il
giudice  a  quo  abbia  eliminato il vizio che in precedenza impediva
l'esame nel merito della questione (cfr. sentenza n. 433 del 1995);
        che,  nella  specie  -  riproponendo  solo  due delle quattro
questioni  precedentemente  sollevate (ossia unicamente quelle intese
ad  espungere  l'istituto  denunciato  dall'ordinamento;  e non anche
quelle   volte   a   rimuovere   talune  condizioni  di  operativita'
dell'istituto  stesso,  col  risultato  di  dilatarne  l'ambito) - il
giudice  rimettente  ha  eliminato  il  motivo  di  inammissibilita',
rilevato nella citata ordinanza n. 34 del 2003, inerente al carattere
complessivamente contraddittorio del quesito;
        che  nella  medesima  ordinanza, tuttavia, questa Corte aveva
ulteriormente  evidenziato  come  le  due  questioni  oggi riproposte
apparissero  comunque irrilevanti nel giudizio a quo, in quanto - per
affermazione  dello  stesso  giudice  rimettente  -  l'applicabilita'
dell'istituto  in  discorso  risultava nel caso concreto preclusa, ai
sensi   dell'art. 34,   comma 3,   del   d.lgs.   n. 274   del  2000,
dall'opposizione per facta concludentia della persona offesa;
        che  l'odierna  ordinanza  di rimessione - nell'affermare che
ricorrerebbero,  viceversa,  nella  specie tutte le condizioni per la
declaratoria    di   esclusione   della   procedibilita'   -   omette
completamente  di  prendere  in  esame  il  requisito  della  mancata
opposizione della persona offesa;
        che   le   questioni  debbono  essere  dichiarate,  pertanto,
manifestamente inammissibili.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.