ha pronunciato la seguente Ordinanza nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 85, 88, 89 e 90 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 13 febbraio 2003 dal Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Fabriano, nel procedimento penale a carico di P.A., iscritta al n. 433 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, 1ª serie speciale, dell'anno 2003. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 13 ottobre 2004 il giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che con l'ordinanza in epigrafe - emessa nel corso di un processo penale nei confronti di persona imputata dei reati di omicidio colposo aggravato (art. 589, primo, secondo e terzo comma, del codice penale) e di guida in stato di ebbrezza (art. 186, commi 1 e 2, del codice della strada) - il Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Fabriano, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale degli artt. 85, 88, 89 e 90 del codice penale; che l'ordinanza premette che dalla documentazione acquisita era emerso che l'imputato, nel periodo successivo all'incidente stradale oggetto di giudizio, aveva manifestato disturbi psichici per i quali era stato sottoposto a cura presso strutture pubbliche, anche a titolo di trattamento sanitario obbligatorio; che occorrerebbe pertanto accertare, tramite perizia, se la malattia mentale da cui l'imputato - alla stregua di detta documentazione - risultava affetto sussistesse gia' al momento del fatto, ai fini dell'eventuale esclusione dell'imputabilita'; che sarebbe tuttavia pregiudiziale, rispetto all'ammissione della perizia psichiatrica, il problema di come il concetto di malattia mentale vada utilizzato nel diritto positivo; che, al riguardo, il rimettente osserva come la giurisprudenza dominante identifichi l'infermita' di mente - che per gli artt. 88 e 89 cod. pen. esclude o diminuisce l'imputabilita' - in una patologia clinicamente accertata, a «base organica», limitando quindi, di regola, le infermita' rilevanti alle sole psicosi, con esclusione, invece, delle c.d. nevrosi; che le correnti affermazioni giurisprudenziali poggerebbero, peraltro, su presupposti scientifici corrispondenti alle tesi correnti all'epoca di redazione del codice penale, ma largamente superati dalle piu' recenti acquisizioni della scienza psichiatrica; che, in particolare, la distinzione fra malattia mentale «in senso proprio», incidente sull'imputabilita', e «disturbi della personalita', nevrosi» e simili - viceversa ininfluenti - riecheggerebbe una dicotomia ormai «desueta» nella scienza psichiatrica, quale quella che contrappone la malattia «a base biologica» alla malattia «a base funzionale»; che dovrebbe ritenersi ormai acclarato, infatti - alla stregua delle odierne risultanze delle neuroscienze e della biomedicina - che la complessita' dell'organismo vivente e' tale «che immaginare una mente ad un piano superiore ed un corpo confinato nel sottoscala e' un'ipotesi del tutto infruttuosa»: onde sarebbe inesatto negare «in partenza» la qualifica di malattia mentale al disturbo della personalita'; che sarebbe, altresi', emblematica della difficolta' di conciliare i correnti enunciati giurisprudenziali con la moderna scienza psichiatrica, l'affermazione, fatta dalla giurisprudenza di legittimita', secondo cui la sindrome ansioso-depressiva non esclude o diminuisce l'imputabilita', in quanto non «associabile ad alcuna entita' nosologica»; che tale affermazione rievocherebbe la nota distinzione fra tre diversi «modelli» di malattia mentale: il «paradigma medico o nosografico», elaborato agli inizi del novecento, che identifica il malato di mente nella persona affetta da una specifica malattia fisica del sistema nervoso centrale, accertabile alla stregua di criteri di classificazione trasposti in «tavole nosografiche»; il «paradigma psicologico», improntato alla valorizzazione dell'«universo interiore dell'individuo»; ed il «paradigma sociologico», che riconduce la malattia di mente agli influssi dell'ambiente o della societa'; che, pero', il secondo ed il terzo paradigma sarebbero privi di validita' sul piano scientifico, dato che i loro apporti si sottraggono ad una verifica sperimentale; invece, il primo paradigma - posto effettivamente a base della disciplina positiva dal legislatore del 1930, in quanto espressivo della migliore scienza psichiatrica del tempo - apparterrebbe ormai alla «storia della scienza»; che attualmente, difatti, la scienza psichiatrica si baserebbe su sistemi di classificazione di tipo pragmatico, il cui tratto saliente e' rappresentato dalla costante revisione dei dati e delle classificazioni, a testimonianza del carattere «ateorico» di queste ultime; che darebbe adito a perplessita' ancora maggiori il disposto dell'art. 90 cod. pen., in forza del quale gli stati emotivi o passionali non escludono ne' diminuiscono l'imputabilita': norma, questa, che, variamente interpretata in giurisprudenza e in dottrina, poggerebbe su una nozione - quella, appunto, di «stati emotivi o passionali» - in realta' del tutto inutilizzabile, in quanto tratta dal vocabolario di certa criminologia e psichiatria di fine ottocento e di inizio del novecento, che prendeva a sua volta forma «piu' dai momenti topici del romanzo popolare che da una terminologia scientifica»; che, in conclusione, la base scientifica su cui si fondano le norme impugnate, con le dominanti elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali ad esse relative, risulterebbe «incontrovertibilmente erronea»; o raggiungerebbe, comunque, un livello di indeterminatezza tale da non consentire in alcun modo un'interpretazione ed un'applicazione razionali da parte del giudice; che le norme in questione si porrebbero pertanto in contrasto con il principio di ragionevolezza, di cui all'art. 3 Cost., oltre che con l'art. 111 Cost., in quanto impedirebbero la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, il cui iter logico risulterebbe irrimediabilmente inficiato dall'incongruita' della nozione di infermita' mentale comunemente utilizzata; che l'eliminazione del complesso delle disposizioni impugnate - all'apparenza basilari - non provocherebbe, d'altra parte, scompensi nel sistema penale; che, trattandosi di strumenti normativi sostanzialmente inservibili, nessun guasto potrebbe derivare dalla loro caduta; comunque, le esigenze ad essi sottese - in particolare, quanto al collegamento della responsabilita' penale alla capacita' dell'uomo di scegliere tra valore e disvalore - troverebbero gia' adeguata risposta nell'art. 42 cod. pen.: avendo, invero, lo stesso legislatore del 1930 segnalato che mentre l'art. 85 cod. pen. regola la generica capacita' di agire in campo penale, l'art. 42 cod. pen. prevede l'effettiva volonta' del fatto concreto, per cui si tratterebbe di «due posizioni diverse della volonta» (la prima «al momento della possibilita», la seconda «nel momento della sua attuazione»); che nel giudizio di costituzionalita' e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata. Considerato che il Tribunale rimettente dubita della legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., degli artt. 85, 88, 89 e 90 del codice penale, assumendo che le norme impugnate poggerebbero, quanto alla nozione di infermita' mentale, su una base scientifica incontrovertibilmente erronea o, comunque, talmente indeterminata da non consentire al giudice un'interpretazione ed un'applicazione razionali; che - a prescindere da ogni altro rilievo, segnatamente quanto alla circostanza, dedotta dall'Avvocatura dello Stato, che la pronuncia ablativa «a tutto campo» invocata dal giudice a quo si traduce in un intervento «di sistema», i cui effetti si estenderebbero al di la' della stessa disciplina dell'infermita' di mente (la definizione dell'imputabilita', offerta dall'art. 85 cod. pen., costituisce infatti la base della regolamentazione di ulteriori categorie di soggetti totalmente o parzialmente «irresponsabili», a cominciare dai minori) - e' dirimente la considerazione che il rimettente, per sua stessa affermazione, formula il quesito di costituzionalita' prima ancora di aver accertato se l'imputato fosse concretamente affetto, al momento del fatto, da un qualche disturbo mentale: e - piu' in particolare - prima ancora di aver stabilito se l'imputato fosse affetto da un tipo di disturbo a fronte del quale venga effettivamente in rilievo la razionalita' del vigente trattamento penalistico del vizio di mente, nei termini denunciati; che la rilevanza della questione nel giudizio a quo risulta, dunque, puramente ipotetica ed eventuale: essa rimarrebbe difatti esclusa non soltanto qualora si acclarasse che al momento del fatto l'imputato non aveva ancora manifestato disturbi psichici di sorta; ma anche qualora, all'opposto, venisse accertata una patologia mentale indiscutibilmente riconducibile al novero delle infermita' che, de iure condito, escludono o diminuiscono l'imputabilita'; che la doglianza che fonda il quesito e', difatti, nella sostanza, una doglianza di inadeguatezza «per difetto» della vigente disciplina: il rimettente non contesta, cioe', che sia corretto sottrarre a responsabilita' penale il soggetto affetto dalle piu' conclamate forme di patologia mentale, ma reputa piuttosto ingiustificata la radicale esclusione dal novero delle infermita' rilevanti - sancita, a suo avviso, dai correnti indirizzi giurisprudenziali in materia - di altri tipi di disturbo, quali le nevrosi e i disturbi della personalita'; che dalla narrazione contenuta nell'ordinanza di rimessione emerge, peraltro, come in data successiva ai fatti oggetto di giudizio l'imputato abbia manifestato disturbi (anche) a carattere psicotico: e lo stesso giudice a quo non esita del resto ad affermare che, alla stregua della documentazione acquisita, «l'imputato, nel periodo successivo al tragico incidente, era malato di mente»; che la questione deve essere dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.