Ha  pronunciato la seguente ordinanza nei confronti di Berlusconi
Silvio  nato  a Milano il 29 settembre 1936 imputato del reato di cui
agli artt. 595 c.p., 13 e 21 legge 8 febbraio 1948, n. 47 e 30, legge
6  agosto  1999,  n. 223,  per  «avere  rilasciato,  nel  corso della
trasmissione  radiofonica  "radio  Anch'io"  andata  in  onda  il  30
novembre   1999,   dichiarazioni   che   qui   si   devono  intendere
integralmente  riportate,  con  le quale si offendeva, anche mediante
l'attribuzione   di   fatti  determinati,  la  reputazione  di  Carlo
Caracciolo  di  Castagneto, in proprio e nella qualita' di presidente
del  consiglio  di  amministrazione della "Gruppo Editoriale Espresso
s.p.a." di cui fa parte il quotidiano "La Repubblica", affermando tra
l'altro:  "dispiace  che  naturalmente  tutti  i  giornali  che hanno
barattato,  parlo  esplicitamente  della `Repubblica', che anche oggi
continua  a  intervenire  modificando  le  cose,  che hanno barattato
l'impunita' del loro editore offrendosi a questo partito dei giudici,
dei  giudici giacobini, come la gazzetta giustizialista che ha sempre
sostenuto le loro posizioni, continuino a non raccontare cio' che gli
italiani, invece, che sono saggi, sanno"».

                           Fatto e diritto

    Con  sentenza  emessa  in data 11 aprile 2001 il g.u.p. presso il
Tribunale  di  Roma  dichiarava  non  luogo a procedere nei confronti
dell'on. Silvio   Berlusconi  in  ordine  al  reato  di  diffamazione
specificato   in   epigrafe,   ritenendo   nella  specie  applicabile
l'esimente  di  cui  all'art. 68  della Costituzione. Il g.u.p., dopo
aver    analizzato   alcuni   episodi   e   circostanze,   concludeva
sostanzialmente   che   l'on. Berlusconi,  nella  dedotta  intervista
radiofonica,  si  era  limitato ad esternare «opinioni che gia', e da
tempo,  formavano oggetto di doglianze espresse in molteplici atti di
sindacato ispettivo, in Parlamento, da esponenti del suo partito e di
quella   opposizione  parlamentare  che  lo  riconosce  come  proprio
leader».
    Avverso  tale  sentenza  proponeva  ritualmente  appello  il p.m.
deducendo  la  mancanza,  nella  specie,  del  «nesso funzionale» tra
l'opinione espressa nell'intervista e l'attivita' parlamentare, posto
che:
        prima  della indicata trasmissione radiofonica, in alcun atto
proprio della funzione parlamentare, «nessuno aveva mai sostenuto che
vi  fossero  dei  giudici  che  avevano  barattato  l'impunita' degli
editori  de  La  Repubblica  in  cambio  di  appoggio giornalistico»,
ancorche',  come  rilevato  dal  g.u.p.  fossero  state presentate in
precedenza  numerose  interrogazioni  parlamentari denuncianti «l'uso
asseritamente  deviato  dell'amministrazione  della  giustizia  ed  i
rapporti anomali fra stampa e magistratura ovvero l'uso asseritamente
politico  dell'azione  penale  e della custodia cautelare da parte di
taluni uffici giudiziari»;
        l'interrogazione  parlamentare  presentata dall'on. Maiolo di
Forza  Italia,  in  cui  poteva  riscontrarsi  «una qual comunanza di
argomenti»  con  le  dichiarazioni diffamatorie in questione, essendo
successiva  alla  trasmissione  radiofonica,  non  poteva  valere  da
scusante ex post.
    Il  p.m.  chiedeva,  pertanto,  il  rinvio  a  giudizio  dell'on.
Berlusconi in ordine al reato ascrittogli.
    Nelle more del giudizio di appello il Presidente della Camera dei
deputati  faceva  pervenire  copia  della deliberazione del 17 aprile
2002   di   approvazione   della   proposta   della   giunta  per  le
autorizzazioni   a   procedere  di  insindacabilita'  della  condotta
dell'on.  Berlusconi,  «nel senso che i fatti per i quali e' in corso
il  procedimento  concernono  opinioni  espresse  da  un  membro  del
Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni».
    La giunta per le autorizzazioni, nella relazione che accompagnava
la   proposta   approvata   dall'assemblea,   condividendo  la  linea
argomentativa  del  g.u.p., riteneva che le parole attribuite all'on.
Berlusconi «rientrano nel contesto di polemica politica assai accesa,
involgente i temi del rapporto tra politica e magistratura, da sempre
terreno    di    dibattito    politico-parlamentare    e   di   aspra
contrapposizione   tra   esponenti  dei  partiti»;  esprimeva  quindi
l'opinione   che   l'intervista  dell'on.  Berlusconi  «debba  essere
ricollegata   al  suo  ruolo  di  capo  dell'opposizione  politica  e
parlamentare» ...costituendo... «espressione di un diritto di critica
di  un  membro della Camera in ordine a questioni di indubbio rilievo
pubblico,  nel  quadro  di  quelle  attivita'  che possono senz'altro
definirsi prodromiche e conseguenti agli atti tipici del mandato.».
    Ritiene  la  Corte, in esito all'odierna udienza camerale, che la
Camera    dei    deputati,   deliberando   l'insindacabilita'   delle
dichiarazioni rese dall'on. Berlusconi, abbia erroneamente esercitato
il   proprio   potere   di   valutazione  in  ordine  al  presupposto
rappresentato  dal necessario collegamento tra le opinioni espresse e
la   funzione  parlamentare.  Tale  situazione  induce,  per  la  sua
risoluzione,  a  sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello
Stato;  al  fine dell'annullamento della deliberazione della Camera e
per poter decidere nel merito delle imputazioni mosse.
    Com'e'  noto,  secondo  la  piu'  recente  ed  ormai  consolidata
giurisprudenza  della  Corte  costituzionale,  perche'  possa trovare
applicazione  l'esimente  di  cui all'art. 68 Cost. (posta a presidio
dell'autonomia   del  Parlamento  e  non  a  privilegio  del  singolo
parlamentare) non e' sufficiente che le opinioni espresse fuori della
sede  parlamentare  siano  genericamente inerenti all'esercizio delle
funzioni,  ne'  basta  la  semplice  comunanza  di  argomenti  ovvero
l'identita'  del  «contesto»  politico  tra  quelle  dichiarazioni  e
l'espletamento  di  atti  tipici  della  funzione parlamentare, ma e'
necessaria    una   identificabilita'   della   dichiarazione   quale
espressione di attivita' parlamentare (e non genericamente politica).
Con   la   conseguenza   che   gli  atti  svolti  extra  moenia  sono
insindacabili  solo  qualora abbiano una «corrispondenza sostanziale»
di contenuto con atti parlamentari tipici e siano riproduttivi di una
opinione  precedentemente  (ovvero  contestualmente) espressa in sede
parlamentare  (tra  le tante, sentenze nn. 10 e 11 del 2000; 76 e 289
del 2001; 51 e 52 del 2002).
    La  questione  dei «rapporti anomali» tra magistratura-politica e
stampa,  o  del  preteso  uso deviato e politico dell'amministrazione
della  giustizia,  e'  materia  che  appare troppo vasta e indefinita
perche'  si  possa  sostenere  che  le  dichiarazioni diffamatorie in
questione  siano  giustificate  in quanto inserite in una corrente di
pensiero  politico  ovvero  in una denuncia politica gia' avanzata da
tempo.  Tale  questione  costituisce,  certo,  il quadro entro cui si
inscrive  la  esternazione  in  esame,  che  indubbiamente  ha natura
politica per la veste ed il ruolo dell'on. Berlusconi, all'epoca capo
dell'opposizione, per la natura stessa degli argomenti trattati e per
il filone di pensiero che presuppone, ma, come correttamente rilevato
dal p.m. e dalla parte civile, cio' che qui rileva e' che non risulta
che  in  precedenza l'on. Berlusconi (o alcun altro parlamentare), in
occasione  della  tipica  attivita'  parlamentare, abbia mai espresso
l'opinione  che  La  Repubblica  (unitamente ad altri giornali) abbia
barattato  l'impunita'  del  suo  editore  offrendosi  al partito dei
giudici giacobini.
    La  enunciazione di un siffatto sostanziale accordo criminoso tra
quel  giornale  e  settori della magistratura (l'adozione concordata,
cioe',  di  provvedimenti  giudiziari  favorevoli  a  La Repubblica),
peraltro  priva  di ogni specificazione, non risulta abbia precedenti
specifici  negli  atti  parlamentari.  Non  sembra,  infatti, possano
considerarsi  specifici  i precedenti indicati dal g.u.p., richiamati
nella deliberazione della Camera dei deputati del 17 aprile 2002, (in
particolare: le denunce politiche presentate in Parlamento, a partire
dal  96,  da  numerosi  deputati  di  Forza  Italia sull'uso politico
dell'azione  penale e della custodia in carcere; la denuncia, in sede
di  sindacato  ispettivo, di un parlamentare di Forza Italia che, nel
luglio  del  98,  aveva  addebitato  ad  un determinato magistrato di
avere,  proprio  dalle  colonne  de  La Repubblica, «rivolto critiche
molto  aspre di carattere politico all'opposizione parlamentare ed ai
suoi esponenti»; e la denuncia, peraltro successiva alla trasmissione
radiofonica, in sede di sindacato ispettivo, di un altro parlamentare
di  Forza  Italia  che,  nel  novembre  del 2000, aveva, tra l'altro,
lamentato   che  «una  limitata  schiera  di  protagonisti  determina
correnti  d'opinione  che  finiscono  per  influenzare  la politica e
talvolta  perfino  le  decisioni  giudiziarie»),  poiche',  ancorche'
genericamente  riferibili  alla  questione dei «rapporti anomali» tra
magistratura,  politica  e  stampa,  di  indubbio  rilievo pubblico e
terreno  di  polemiche  politiche, tali precedenti non presentano una
corrispondenza  sostanziale  di  contenuto  e di significato rispetto
alla   precisa   dichiarazione  diffamatoria  indicata  nel  capo  di
imputazione.
    Diversamente   opinando,   si   dovrebbe   accettare  l'incongrua
conseguenza  di dover ritenere sempre giustificata, ex art. 68 Cost.,
qualunque  accusa di accordo criminoso di natura politica rivolta nei
confronti  di  qualunque  giornalista  (o  direttore  di  giornale  o
editore)  e  qualunque magistrato. Basterebbe sostenere, da parte del
parlamentare,  che  si tratti genericamente di «rapporti anomali» nel
senso  sopra  specificato,  senza  la necessita' che vi sia stata una
precedente   specifica   assunzione  di  responsabilita'  nella  sede
istituzionale propria con possibilita' di controllo parlamentare.
    Quanto  alla  interrogazione presentata da alcuni parlamentari di
Forza  Italia in data 20 gennaio 2000, in cui puo' riscontrarsi, «una
qual  comunanza  di  argomenti»  con  le  opinioni  espresse dall'on.
Berlusconi  nella  trasmissione radiofonica del 30 novembre 1999, non
puo'   non   condividersi  il  rilievo  che  tale  atto  parlamentare
(peraltro,  a firma di deputati diversi dall'on. Berlusconi ancorche'
della stessa parte politica), in quanto successivo alla esternazione,
non possa dispiegare efficacia scriminante. Come rilevato dalla parte
civile,   si   tratta  di  un  principio  gia'  sancito  dalla  Corte
costituzionale con la sentenza n. 289/1998.
    Del  resto,  e'  principio  riconosciuto  nell'ordinamento che le
cause  di  giustificazione  (tra  le  quali e' da annoverare sotto il
profilo sostanziale la non perseguibilita' ex art. 68 Cost.), perche'
abbiano   efficacia   scriminante,   devono   esistere   prima  della
verificazione dell'evento lesivo.
    Non  ignora questa Corte che un certo orientamento della Corte di
cassazione,   efficacemente   richiamato  dalla  difesa,  ponendo  il
problema del rapporto e della necessaria comunicazione fra membri del
Parlamento  e  cittadini, individua nella comunicazione, oltre che un
vero   e  proprio  dovere  del  rappresentante  eletto,  un  elemento
essenziale   della   funzione  parlamentare,  per  modo  che  sarebbe
«difficile  negare  che  i momenti di incontro parlamentare-cittadini
debbano  essere considerati strettamente connessi all'esercizio delle
funzioni   parlamentari»   dovendosi   quindi   «riconoscere  che  il
collegamento  tra manifestazioni del pensiero e funzione parlamentare
non  puo'  dipendere  da  criteri meramente formali» (in particolare,
sent.    30.1/3.5.02,    n. 16195,   sez. V;   n. 2174/99,   sez. V.;
21.4/8.7.99, n. 8742, sez. V).
    Tuttavia, questa Corte osserva che:
        proprio  perche'  naturale  e  necessaria proiezione, nonche'
alimento,  dell'attivita'  istituzionale,  la  comunicazione non puo'
confondersi  con  l'aggressione all'altrui reputazione al di fuori di
ogni controllo, anche parlamentare;
        la   comunicazione  e'  elemento  strutturale  del  reato  di
diffamazione.  Appare quindi necessario un giusto bilanciamento degli
interessi   in  gioco,  individuando  il  confine  della  liceita'  -
diversamente  indistinguibile - anche con criteri formali, a garanzia
di  tutti e per non dover riconoscere una sostanziale e generalizzata
irresponsabilita';
    Deve  quindi ritenersi che la Camera dei deputati, votando per la
insindacabilita'  della  dichiarazione  in  questione,  abbia violato
l'art.  68,  primo  comma,  della Costituzione, e leso in tal modo le
attribuzioni dell'autorita' giudiziaria ricorrente.