IL TRIBUNALE

    Decidendo  in ordine alla richiesta di archiviazione avanzata dal
p.m.  per  essere  il reato estinto ai sensi dell'art. 15 della legge
n. 289/2002; letti gli atti, ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Il  presente  procedimento  ha  ad oggetto reati tributari di cui
agli articoli 81 cpv.c.p., 4 comma 1, lettera f), legge n. 516/1982 e
4  d.lgs. n. 74/2000 (stante la continuita' normativa sussistente tra
le fattispecie disciplinate dalle norme indicate) commessi negli anni
tra   il  1997  ed  il  2000,  e  quindi  (anche  per  effetto  della
continuazione)  non  ancora  prescritti;  la notizia di reato risulta
apparentemente  fondata,  in  esito  alle ispezioni contabili ed agli
accertamenti  eseguiti dalla Guardia di Finanza presso l'azienda, con
rinvenimento  di  contabilita'  occulta  da  cui  si  e'  ricavata la
effettiva   entita'   dei  ricavi  conseguiti  e  non  esposti  nelle
dichiarazioni  tributarie  della  ditta, della quale l'indagato e' ed
era  all'epoca  dei  fatti  il legale rappresentante; in relazione al
suddetto  reato  continuato  non  si  ravvisano  pertanto  allo stato
elementi  utili  all'archiviazione  per infondatezza della notizia di
reato,  ed  il  p.m.  invero  chiede l'archiviazione avendo l'Agenzia
delle  entrate  segnalato  che la societa' in oggetto ha definito gli
illeciti  oggetto  del processo verbale di constatazione (coincidenti
con  quanto  oggetto  del  presente  procedimento  penale)  ai  sensi
dell'art. 15  della  legge  n. 289/2002; norma che infatti prevede la
sanatoria  (ad  istanza  dell'interessato  e  dietro pagamento di una
somma   costituente   una   percentuale,   prefissata   dalla  norma,
dell'imposta   dovuta),   dei   reati   tributari   di  dichiarazione
fraudolenta, mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti  (art. 2 d.lgs. n. 74/2000), di dichiarazione fraudolenta
mediante  altri  artifizi  (art. 3 medesimo d.lgs.), di dichiarazione
infedele  (art. 4), di omessa dichiarazione (art. 5), di occultamento
o  distruzione  di  documenti contabili (art. 10), se commessi - come
appunto  e' nel caso in oggetto - in riferimento a periodi di imposta
per  i  quali,  alla data di entrata in vigore della legge, non erano
ancora scaduti i termini per il ricorso.
    Poiche'  il  reato oggetto del procedimento e' rientrante appunto
tra  quelli  che  l'art. 15 della suddetta legge n. 289/2002 consente
vengano estinti per effetto del descritto meccanismo condonatorio, ed
avendo  la  competente  amministrazione  finanziaria  attestato che i
versamenti eseguiti dall'indagato sono conformi alla previsione della
norma, questo giudice e' chiamato a fare applicazione della normativa
indicata   ai   fini   della   propria   decisione   in  ordine  alla
archiviabilita'  o  giudice, alla stregua degli elementi considerati,
puo' essere disposta solo per effetto del disposto del citato art. 15
del d.lgs. n. 289/2003.
    In  realta', a parere di questo giudicante, si pone una questione
relativa alla legittimita' costituzionale, per evidente contrasto con
gli  artt. 3,  53  e 79 della Costituzione, delle leggi di condono, o
sanatoria  che  dir  si  voglia,  in  materia  tributaria  e  penale;
questione  che  deve  essere  seriamente  affrontata,  stante l'abuso
dell'istituto  negli  ultimi  anni, atteso che il «condono» di cui al
predetto  d.lgs.  n. 289/2002, originariamente previsto per i periodi
di  imposta  in  relazione  ai  quali, alla data del 31 ottobre 2002,
fosse   gia'   scaduto   il   termine   per  la  presentazione  delle
dichiarazioni  redditi  ed  iva, e' stato esteso - giusta la espressa
previsione  di  cui  all'art. 44  della  legge n. 350/2003 - anche al
periodo  fiscale  in  corso  al  31  dicembre  2002,  per il quale le
dichiarazioni  siano  state  presentate  entro il 31 ottobre 2003: di
talche',   per   la   prima  volta  nella  storia  della  Repubblica,
l'efficacia  di  un  condono  fiscale  e' stata estesa anche all'anno
fiscale  in  corso  all'atto  della  sua emanazione, e cioe' all'anno
immediatamente  successivo  a quello cui era originariamente limitata
la  sua originaria vigenza, cosi ingenerando nel contribuente l'ovvia
aspettativa  del  ricorso  a  condoni  anche  per  gli  anni  fiscali
immediatamente  successivi  ed  ancora in corso: con grave danno alla
certezza  del diritto ed alle ragioni fiscali dello Stato, oggetto di
tutela  diretta,  sia  pure  implicita,  ad  opera dell'art. 53 della
Costituzione.
    Analoga   -   ma   ovviamente  non  coincidente  -  questione  di
illegittimita'  costituzionale  e'  gia'  stata  sollevata  da questo
giudice  in  altri  procedimenti  con  riferimento  al  c.d.  condono
edilizio  disciplinato dalla leggen. 326/2003, per ritenuto contrasto
con  gli articoli 3 e 79 della Costituzione, con ordinanze depositate
in  data  5 dicembre  2003; e la Corte costituzionale con l'ordinanza
n. 197  del 24-28 giugno 2004, ha disposto la restituzione degli atti
a questo giudice, ritenendo di avere operato una modifica sostanziale
della  disciplina  impugnata con l'emanazione, in quelle stesse date,
della   sentenza   n. 196/2004,  che  aveva  dichiarato  la  parziale
illegittimita'  costituzionale  dell'art. 32 della legge n. 326/2003;
di talche, a giudizio della Corte, si poneva il problema di «un nuovo
esame  dei  termini delle questioni e della loro perdurante rilevanza
nei giudizi a quibus.
    Osserva  il giudicante che la Corte, con la sentenza n. 196/2004,
non  ha  vagliato le specifiche censure che questo giudice (sulle cui
ordinanze  di rimessione quella sentenza peraltro non decideva) aveva
mosso  alla  legittimita'  in se' delle leggi di condono o sanatoria,
avendo la Corte osservato che, nel sollevare la questione, le (altre)
autorita'  rimettenti  non  avevano  svolto argomentazioni diverse da
quella  gia'  confutate  dalla Corte con proprie precedenti sentenze,
alle quali pertanto riteneva di doversi uniformare.
    Ritiene  questo  giudice di avere invece ulteriori argomentazioni
da   sottoporre   al  vaglio  della  Corte,  e  tali  che  dovrebbero
verosimilmente  indurla  a  rivedere le sue pur argomentate pregresse
decisioni  in  ordine  a compatibilita' costituzionale delle leggi di
condono con effetti estintivi del reato.
    Preliminarmente  e'  da  osservarsi che la legge n. 289/2003, pur
prevedendo  agli  artt. 8,  9  e  15 un procedimento di sanatoria cui
consegne  la  «esclusione  della  punibilita'  ad  ogni effetto», non
appare  introdurre  ex  post e con effetto solo retroattivo una nuova
scriminante, ne' altra atipica causa di non punibilita' operante solo
per  il passato (nelle quali ipotesi, la norma si porrebbe senz'altro
in  evidente contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui esclude
la  possibilita' di ricorrere ad una procedura di «liceizzazione» del
fatto  anche  a  coloro che non hanno gia' commesso il reato), ma, di
fatto, una evidente causa di estinzione del reato.
    Tanto  premesso, puo' quindi passarsi all'esame particolareggiato
delle   rilevabili   cause  di  illegittimita'  costituzionale  della
normativa indicata.
            Il contrasto con l'art. 79 della Costituzione
    Va  quindi  prima  di  tutto  ricordato,  quanto al contrasto con
l'art. 79  comma  1  della  Costituzione,  che  tale  norma affida la
potesta'  di  estinguere i reati con atto legislativo solo alla legge
di amnistia, che deve essere approvata con la maggioranza qualificata
di 2/3 dei membri di ciascuna Camera. Tale puntualizzazione appare di
tutto  rilievo, atteso che la previsione di un procedimento estintivo
di  tutti  i  reati di una determinata specie gia' commessi entro una
data   prefissata,   subordinata  al  pagamento  di  somme  ed  altri
comportamenti del reo, altro non e' che un'amnistia condizionata come
disciplinata  dall'art. 151  comma  4  c.p.,  a prescindere dal nomen
iuris  («condono», «sanatoria» et similia), prescelto dal legislatore
e   che   non   puo'  valere  a  mascherare  l'effettiva  natura  del
provvedimento   emanato.   Infatti,  opinare  diversamente  significa
accettare  la  frustrazione  delle garanzie e dei vincoli posti dalla
Costituzione in relazione all'oggetto, allo scopo ed alla funzione di
quei provvedimenti che - come quelli che, dichiarando l'estinzione di
determinati  gia' commessi reati, sono disciplinati nelle forme della
legge   di  amnistia  -  appaiono  dotati  di  particolare  rilevanza
costituzionale (operando sulla eguaglianza dei cittadini davanti alla
legge  penale),  sicche' non a caso la legge fondamentale dello Stato
li   disciplina   operando  una  attenta,  ragionata  e  non  casuale
ripartizione  di  competenze  tra i poteri dello Stato e, nell'ambito
delle  attribuzioni dello stesso potere, prevede altresi' procedure e
limiti per l'esercizio dello stesso.
    Va quindi ricordato che analoghe questioni di incostituzionalita'
per   violazione   dell'art. 79   Cost.,  sollevate  in  relazione  a
precedenti  leggi  di  «condono»,  furono  ritenute non fondate dalla
Corte    costituzionale,    che    escluse   -   anche   in   ragione
dell'eccezionalita' dell'istituto - che le leggi di condono potessero
essere  equiparate  ad  amnistie condizionate, anche in ragione della
complessita' delle fattispecie di sanatoria; cio', tuttavia, in forza
di   argomentazioni   che,   a   distanza  di  tempo,  ed  alla  luce
dell'esperienza  maturatasi in questi anni in ordine all'uso ed abuso
degli  strumenti  di  condono  e  sanatoria,  appaiono  meritevoli di
riconsiderazione, almeno in relazione al caso in oggetto, atteso che:
        a)   e'  proprio  dell'amnistia  c.d.  «condizionata»  vedere
l'effetto  estintivo  del  reato promanare non gia' in via diretta ed
immediata dal provvedimento di clemenza, ma dall'adempimento da parte
dell'interessato  di  obblighi  od  oneri  specificati  dal  suddetto
provvedimento  di  clemenza,  oltre che dal verificarsi di condizioni
eventualmente  esterne  alla  volonta'  dello interessato: sicche' la
circostanza  che l'effetto estintivo previsto dalla legge n. 289/2002
consegua  ad una fattispecie talora complessa (ex artt. 8 e 9 essendo
necessario  anche  la presentazione di una dichiarazione integrativa,
ed  eventualmente  una  regolarizzazione  delle  scritture contabili,
oltre  al versamento di una somma di danaro generalmente - ma non nel
caso  di  cui  all'art. 9  - commisurata all'imposta evasa), peraltro
tutta  consistente  di  obblighi  il  cui adempimento e' rimesso alla
volonta'  dell'imputato, appare attagliarsi perfettamente alla figura
dell'amnistia  condizionata;  non  a caso, si osserva, in un'epoca in
cui  le forme costituzionali erano forse oggetto di maggior rispetto,
analoghi  effetti  di  estinzione di reati tributari (e per altro con
ampiezza  ben  inferiore  a  quanto  previto dalla legge n. 289/2002)
furono  perseguiti  con  la  legge  delega  di amnistia e successivo,
d.P.R.   n. 23/1992;  e'  per  tale  complesso  di  ragioni  che  non
convincono,    ed    appaiono    superate   dall'effetto   dell'abuso
dell'istituto  nel  giro  di  un  decennio, le diverse argomentazioni
proprie  di  Corte  cost.  n. 369/1988  e  n. 427/1995,  che comunque
sembravano  poggiare  sul  rilievo  dell'eccezionalita' dell'istituto
eccezionalita'  negata  appunto  dall'abuso  dell'istituto  e  su cui
comunque, ampiamente si dira' oltre, per negarne la sussistenza); ne'
puo'  diversamente  opinarsi  in forza della circostanza che la legge
n. 289/2002  non  estingua  i  reati  in  relazione ai quali sia gia'
intervenuta  una  sentenza  di condanna anche solo in primo grado, in
quanto tanto non priva detta legge delle caratteristiche fondamentali
proprie della legge di amnistia, atteso che tale peculiare disciplina
attiene allo specifico atteggiarsi della condizione (presentazione di
dichiarazione  integrativa  e  pagamento  di  una  somma  prima della
conoscenza  formale  della  richiesta  di  rinvio  a giudizio) al cui
verificarsi   gli   effetti   del   provvedimento  di  clemenza  sono
assoggettati;
        b)  in  ogni  caso, quand'anche volesse ritenersi, reiterando
l'insegnamento  di  cui alle due pronunzie della Corte costituzionale
citate  da  ultimo,  che  la  complessita' (peraltro eventuale) della
fattispecie  estintiva delineata dalle procedure di cui agli artt. 8,
9   e   15  della  legge  n. 289/2002  mal  si  attagli  alla  figura
dell'amnistia   condizionata,   non   puo'   comunque  non  dubitarsi
fortemente   della   legittimita'   costituzionale  di  provvedimenti
legislativi   aventi   effetti   estintivi   del   reato  ma  diversi
dall'amnistia,  atteso  che  quello  di  emanare quest'ultima (con un
procedimento  particolarmente  garantito dalla necessaria sussistenza
del  voto  positivo  della  maggioranza  dei  2/3  dei  componenti di
ciascuna delle Camere su ogni articolo oltre che sul testo finale) e'
l'unico potere che la Carta costituzionale assegni al Parlamento come
strumento  ed  espressione  di una potesta' assolutamente eccezionale
(di  talche'  e'  lo stesso insegnamento della Corte costituzionale a
ricordare  che  presupposti  legittimanti  devono  esserne situazioni
particolari)  di  paralisi  dell'azione  penale, che l'art. 112 Cost.
vuole  obbligatoria  e, secondo il comune insegnamento della dottrina
costituzionale, irretrattabile;
        b-bis)   invero,   anche   l'esegesi   storica   della  carta
Costituzionale   conduce   allo   stesso   risultato  interpretativo:
nell'impianto originario, il potere di emanare amnistia era assegnato
al  Presidente  della  Repubblica,  sia  pure  su legge di delega del
Parlamento:  legge,  tuttavia,  che  costituiva in capo al Presidente
della  Repubblica  un  potere,  e  non  gia'  un  obbligo (di emanare
l'amnistia);  potere,  a  sua  volta, che era assegnato al Capo dello
Stato  perche',  nella  sua  veste  di  garante  «super partes» delle
istituzioni e della Costituzione, valutasse l'opportunita' di emanare
un  provvedimento  di amnistia, che la Costituzione evidentemente non
voleva   assegnato   all'arbitrio   delle   contingenti   maggioranze
politiche,  stante  l'ovvio  ed  evidente  pericolo  di  abusi  della
maggioranza   e   della   realizzazione  di  privilegi  di  esenzione
dall'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  e quindi in violazione di
tale  ultimo  principio,  dalla  Costituzione  istituito  a garantire
l'effettivita'  del  principio di eguaglianza dei cittadini anche nel
processo penale.
    Nell'impianto  successivo  alla  modifica  apportata  dalla Legge
costituzionale  n. 1/1992, all'emanazione dell'amnistia e' necessaria
una  legge  votata  con  maggioranza  altamente  qualificata (2/3 dei
componenti  di  ciascuna  Camera,  per  ogni  articolo  e  sul  testo
complessivo),  al  fine precipuo di realizzare quella stessa garanzia
la  cui  tutela  era  prima  affidata al Presidente della Repubblica,
atteso  che  -  sottratto il relativo potere a quest'ultimo (anche al
fine  di  accentuarne  la  deresponsabilizzazione politica) - solo il
concorso  di  maggioranze  altamente  qualificate, statisticamente di
gran  lunga  eccedenti  quelle  proprie delle maggioranze di governo,
poteva garantire da quel pericolo di abusi cui gia' si e' accennato.
        b-ter)  ne consegue che, come premesso, le leggi di «condono»
o  «sanatoria»,  in  cui  l'effetto  estintivo  della responsabilita'
penale  per  fatti  gia'  commessi  e  collegato  all'adempimento  di
condizioni  od  obblighi  da  parte  dell'imputato,  sia o meno detto
adempimento sottoposto a controllo da parte di organi amministrativi,
sono senz'altro costituzionalmente illegittime se non adottate con le
maggioranza  qualificate  di  cui  all'art. 79 Cost.: infatti, se non
costituiscono  provvedimenti  di  amnistia condizionata «mascherata»,
senz'altro  si  pongono  oltre  i  limiti  dei poteri assegnati dalla
Costituzione  al  Parlamento,  e  sono  perta  o comunque illegittimi
costituzionalmente.
    A   prescinersi   dal  nomen  iuris  attribuibile  agli  istituti
estintivi  disciplinati  dagli  artt. 8,  9  e  15 della n. 289/2002,
questi   appaiono  comunque  costituzionalmente  illegittimi:  se  e'
un'amnistia, e' in concreto incostituzionale perche' deliberata senza
la maggioranza qualificata imposta dall'art. 79, comma 1 Cost. se non
e  un  provvedimento  di  amnistia  mascherata,  e'  incostituzionale
perche'  la  Costituzione  appare  aver  volutamente  e  scientemente
previsto  solo l'amnistia - in forza del suo particolare procedimento
deliberativo,  prima rimesso ad un potere del capo dello Stato pur se
su   delega   del   Parlamento,  poi  ad  una  maggioranza  altamente
qualificata  come  unico  strumento per paralizzare per via normativa
l'esercizio    dell'azione    penale    e   derogare   al   principio
dell'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge penale.
       Il contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione
    (Principio  di  eguaglianza  dei  cittadini  davanti alla legge e
principio  della doverosita' del concorso alla spesa pubblica secondo
la propria capacita' contributiva).
    Effetto  principe  di ogni legge di condono o sanatoria, ed anche
delle  leggi  di  amnistia,  e'  quello  di operare una disparita' di
trattamento  tra i cittadini: sia perche' coloro che hanno violato la
legge  vengono trattati come coloro che non l'hanno violata (ed anzi,
talora,  addirittura  meglio,  come e' nel caso in oggetto, in cui il
reo  inadempiente  tributario  si  libera  delle conseguenze penali e
tributarie  della sua violazione pagando una somma non corrispondente
alla sua obbligazione tributaria ed anzi sensibilmente inferiore alla
stessa);  sia  perche',  tra  cittadini entrambi contravventori della
legge, alcuni beneficiano del provvedimento di clemenza, altri no (ad
esempio,  in dipendenza del tempus commissi delicti, o del titolo del
reato loro ascrivibile e non ricompreso - pur eventualmente a parita'
di pena edittale - tra quelli oggetto del provvedimento di clemenza).
    E'  per  tale  ragione  che,  anche con riferimento alle leggi di
amnistia,  la  Corte  costituzionale  ha  nel passato rilevato che le
stesse  debbano giustificarsi in relazione a circostanza particolari,
nelle quali possa trovarsi ragionevole fondamento della previsione di
una  simile disparita' di trattamento; e la previsione costituzionale
di  maggioranze  altamente  qualificate  (addirittura  piu'  ampie di
quelle  necessarie  per  una  legge  di  riforma  costituzionale) per
l'emanazione  della legge di amnistia sembra assolvere in buona parte
alla stessa esigenza.
    Nel  caso  di  leggi  di  condono o sanatoria che, come quella in
oggetto,   sono   state   adottate   senza  le  maggioranze  previste
dall'art. 79   della   Costituzione   l'effetto   di   disparita'  di
trattamento  diviene  di  assoluta  evidenza;  e  cio' tanto piu' con
riferimento   proprio   alla   specifica   normativa  prevista  dagli
articoli 15 e 9 della legge n. 289/2002, come meglio oltre si dira'.
    Va subito sgombrato il campo da ogni possibile equivoco in ordine
alla  pretesa assimilabilita' dei condoni all'istituto dell'oblazione
disciplinato  dagli  artt. 162  e  162-bis della codice penale, dalla
quale  sia  l'amnistia che il provvedimento di condono tributario, al
di  la'  dei  nomina  iuris  scelti dal legislatore, profondamente si
differenziano.  Infatti,  l'oblazione  e'  un mezzo di estinzione del
reato previsto dal legislatore in via ordinaria, generale ed astratta
per  tutti  i  reati,  generalmente  ancora  da commettere e non gia'
commessi,  rientranti  in  una determinata tipologia (contravvenzioni
punite  con  pena  pecuniaria,  da  sola  o  in  alternativa a quella
detentiva), che li caratterizza come reati di ridotta gravita', per i
quali  e'  gia'  in  via  ordinaria prevista la pena pecuniaria, come
unica   pena  o  come  alternativa  alla  pena  detentiva;  l'effetto
estintivo  del  reato  e'  ricollegato al pagamento di una somma che,
essendo  una  quota  rilevante  del  massimo  della  pena  pecuniaria
prevista  per tali reati (tant'e' che non e' prevista oblazione per i
reati  per  i  quali  la  pena  da irrogarsi abbia natura detentiva),
assolve  nel  concreto  alle  finalita' proprie della condanna a pena
pecuniaria,  e non appare pertanto porsi in violazione con i principi
di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge penale.
    Rileva pertanto che, invece, sia l'amnistia (condizionata o meno)
che  il  condono  tributario disciplinato dalle norme richiamate sono
rivolti   solo  a  reati  gia'  commessi  prima  dell'emanazione  del
provvedimento  estintivo, essendo peraltro il c.d. «condono» connesso
al  pagamento  di  somme che non costituiscono quota parte della pena
prevista per i reati «condonabili» (ordinariamente, ed in particolare
nel  caso  in  oggetto, puniti solo con pena detentiva e non gia' con
pena  detentiva) sicche', anche per tal via, il suddetto «condono» si
presta  ad  assurgere  a  lesione  del principio di eguaglianza tra i
cittadini  (tra quelli che hanno rispettato la legge e quelli che non
l'hanno  rispettata,  e tra quelli che sono stati condannati con pena
di  legge  e  quelli  che, magari per la maggior capacita' di rendere
difficoltoso  l'accertamento  della  loro responsabilita', ancora non
sono  stati  condannati  a  pena  di  legge,  e mai lo saranno grazie
proprio  al  «condono»):  principio  di  eguaglianza  peraltro che la
stessa  legge  di  amnistia  rispetta  -  in  quel  che appare essere
l'insegnamento  della Corte costituzionale - ove ancorata ad eventi e
situazioni  eccezionali,  mentre  l'attuale  legge  di condono sembra
essere  ancorata  solo ad una eccezionale difficolta' (apparentemente
politica,   piu'   che   oggettiva)   di  reperire  altrimenti  fonti
finanziarie sufficienti a coprire le spese dello Stato.
    Da ultimo, va osservato che - che quel poi piu' specificamente e'
proprio del procedimento di cui all'art. 15 della legge n. 289/2002 -
nemmeno appare invocable il precedente (ove mai dal mancato sindacato
di una norma ordinaria possa farsi derivare la legittimita' o meno di
altra  norma)  apparentemente  costituito dal d.lgs. n. 218/1997, che
egualmente  estingueva  i  reati  laddove  il  contribuente  aderisse
all'accertamento  eseguito  dall'ufficio finanziario: ed invero, tale
ultimo  istituto  non  solo aveva effetti istintivi della punibilita'
estremamente  piu'  limitati  di  quelli propri legge n. 289/2002 (in
pratica,  estingueva  solo le contravvenzioni di cui all'art. 1 della
legge  n. 516/1982),  ma  inoltre  non si poneva in contrasto con gli
artt. 3 e 53 Cost., a differenza di quanto invece accade nel caso del
procedimento di cui all'art. 15 della legge n. 289/2002; infatti, nel
caso di accertamento con adesione, il contribuente pagava pressocche'
integralmente  le  maggiori  imposte  dovute, e godeva dell'esenzione
solo parzialedalle sanzioni pecuniarie previste in via tributaria per
le violazioni contestate, sicche' il principio di eguaglianza davanti
alla legge, anche tributaria, era sostanzialmente rispettato; invece,
nell'ipotesi   di   cui   all'art. 15  della  legge  n. 289/2001,  il
contribuente  infedele  e' esonerato da ogni sanzione, ed e' tenuto a
versa   e  una  percentuale  (al  massimo  del  35%)  della  maggiore
accertata.
    Concludendo,   la  disciplina  di  cui  all'art. 15  della  legge
n. 289/2002  (nonche'  di  cui  all'art. 8  della  legge,  secondo un
meccanismo  che  con accenti di ancor maggior gravita' si ravvisa nel
procedimento  di  cui  all'art. 9  della  stessa legge: norme che qui
tuttavia  non  vengono  in immediato rilievo, se non per segnalare la
filosofia  di  fondo  di  un  provvedimento  normativo  di  manifesta
incostituzionalita),  realizza  con  tutta evidenza un trattamento di
ingiustificato  ed  iniquo  favore  (estinzione della responsabilita'
penale e dell'obbligazione tributaria mediante pagamento di una quota
-  compresa  tra  il  30 ed il 35% delle maggiori imposte dovute - di
detta  obbligazione)  nei  confronti  del  cittadino  e  contribuente
disonesto rispetto al contribuente corretto e fedele, con conseguente
manifesta  violazione  degli  artt. 3  e  53  della Costituzione, che
predicano l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge in generale,
a  quella  tributaria in particolare, e non ammettono pertanto che il
cittadino  infedele  possa  ricevere un trattamento di maggior favore
rispetto  al  cittadino  fedele,  atteso che e' insegnamento costante
della  Corte  cotituzionale  che  ogni disparita' di trattamento deve
rinvenire  una  ragionevole  giustificazione,  e la commissione di un
illecito  (penale  e/o tributario) non puo' evidentemente assurgere a
giustificazione  di  un  privilegio  o  comunque di un trattamento di
favore proprio in materia penale e fiscale.
             Violazione dell'art. 54 della Costituzione
    Va  inoltre  osservato  che, pur espressamente sancendo lo stesso
art. 54  della  Costituzione che tutti i cittadini hanno il dovere di
osservare  la Costituzione e le leggi, la legge di condono tributario
si pone invece a premio (come appena osservato) di chi la legge abbia
violato,  ed  addirittura a disincentivazione del cittadino onesto al
rispetto  per il futuro delle norme di legge: cosi' ravvisando questo
giudice  nella  normativa  di condono una violazione anche del citato
art. 54 della Costituzione.
      Confutazione della ricorrenza di casi di «eccezionalita»
    La  stessa  Corte costituzionale, peraltro, come si accennava, ha
sempre  strettamente  collegato  la legittimita' costituzionale delle
leggi  di  condono  alla  ricorrenza  di  situazioni particolari ed a
carattere   eccezionale,   che,   uniche,   avrebbero  assicurato  la
legittimita'   costituzionali  dileggi  estintive  della  punibilita'
penale  e  non  aventi  le  caratteristiche  delle leggi di amnistia;
premesso   che  da  cio'  si  evince  che  secondo  la  stessa  Corte
costituzionale,  pertanto,  le  leggi di sanatoria e condono non sono
ordinariamente  legittime  costituzionalmente,  ma possono diventarlo
solo  in  dipendenza  di  situazioni  eccezionali,  e  riservando  al
successivo  sviluppo  di questa ordinanza alcune doverose riflessioni
sulla  dignita'  costituzionale della categoria della «eccezionalita»
quale  ipotesi di deroga ai principi costituzionali, vale la pena qui
richiamare  -  perche'  espressive  di principi che, mutatis mutandis
(sostituendo,  ad  es.,  le  parole  «condono  tributario  a «condono
edilizio»,  «evasione fiscale» a «abusivismo edilizio»; ªtutela delle
ragioni   fiscali   dello   Stato  e  del  principio  di  obbligo  di
partecipazione  secondo  la propria capacita' contributiva» a «tutela
del  paesaggio»),  appaiono  validi  anche  nel  caso in oggetto - le
parole  che  ancora  con  la citata sentenza n. 196/2004, la Corte ha
pronunziato,  affermando  che:  «Questa  Corte, nella gia' richiamata
giurisprudenza  in  tema  di condono edilizio, ha piu' volte messo in
evidenza  che  fondamento  giustificativo  di  questa legislazione e'
stata  la  necessita'  di «chiudere un passato illegale» in attesa di
poter  infine  giungere  ad  una repressione efficace dell'abusivismo
edilizio,  pur se non sono state estranee a simili legislazioni anche
ragioni  contingenti  e  straordinarie di natura finanziaria» (tra le
altre,  cfr.  sentenze  n. 256 del 1996, n. 427 del 1995 e n. 369 del
1988, nonche' ordinanza n. 174 del 2002).
    Cio' a giustificazione di un provvedimento normativo senza dubbio
eccezionale  e  straordinario,  che deve trovare la propria ratio sia
nella  persistenza  del  fenomeno  dell'abusivismo,  con  conseguente
esigenza  di  recupero  della  legalita''; sia nella imputabilita' di
tale  fenomeno  di  abusivismo  almeno  in parte, proprio alla scarsa
incisivita'  e  tempestivita' dell'azione di controllo del territorio
da parte degli enti locali e delle regioni» (cfr. sentenza n. 256 del
1996 e, analogamente, sentenze n. 302 del 1996 e n. 270 del 1996).
    Su  questo  piano,  non  puo' negarsi che la legislazione statale
negli   ultimi   anni  sia  profondamente  mutata,  prevedendo  ormai
strumenti preventivi e repressivi adeguati, e che abbia trovato anche
una  sua  relativa  stabilizzazione  nel  recente  testo  unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia adottato
con  d.P.R.  n. 380  del  2001  (non  a caso, il comma 2 dello stesso
art. 32  impugnato si riferisce appunto - seppur con norma contestata
dalle  ricorrenti ed alla quale si fara' riferimento oltre - a questo
testo  unico  come  ad una fonte idonea a creare discontinuita' nella
stessa legittimazione ad adottare un condono edilizio).
    Al  tempo stesso, non poche realta' comunali e regionali sembrano
aver  assunto linee di politica amministrativa e legislativa coerenti
con  un'azione di contrasto dell `abusivismo edilizio, anche se certo
non in modo omogeneo in tutto il territorio nazionale.
    In   realta',   la  giurisprudenza  di  questa  Corte  ha  sempre
considerato   ogni   condono  edilizio,  che  incide  -  come  si  e'
ripetutamente  sottolineato  -  sulla  sanzionabilita' penale e sulla
stessa   certezza   del  diritto,  nonche'  sulla  tutela  di  valori
essenziali come il paesaggio e l'equilibrato sviluppo del territorio,
solo   come   un  istituto  «a  carattere  contingente  e  del  tutto
eccezionale»  (in  tale senso, ad esempio, sentenze n. 427 del 1995 e
n. 416  del  1995), ammissibile solo «negli stretti limiti consentiti
dal  sistema  costituzionale»  (sentenza n. 369 del 1988), dovendo in
altre   parole   «trovare   giustificazione   in   un   principio  di
ragionevolezza» (sentenza n. 427 del 1995).
    Pertanto   questa   Corte,   specie   dinanzi   alla  sostanziale
reiterazione  -  tramite  l'art. 39 della legge n. 724 del 1994 - del
condono  edilizio  degli anni ottanta, piu' volte ha ammonito che non
avrebbe   superato  il  vaglio  di  costituzionalita'  una  ulteriore
reiterazione  sostanziale della preesistente legislazione del condono
(fra  le  molte,  cfr.  sentenze  n. 427  del 1995 e n. 416 del 1995,
nonche' ordinanze n. 174 del 2002, n. 45 del 2001 e n. 395 del 1996).
    Tali   affermazioni,  tuttavia,  non  implicano  l'illegittimita'
costituzionale  di  ogni  tipo di condono edilizio straordinario, mai
affermata da questa Corte.
    Piuttosto,  occorre  uno  stretto  esame di costituzionalita' del
testo  legislativo  che preveda un nuovo condono edilizio, al fine di
individuare   un   ragionevole   fondamento,   nonche'   elementi  di
discontinuita'  rispetto  ai  precedenti  condoni edilizi, in modo da
evitare  l'obiezione  secondo  cui  si sarebbe in realta' prodotto un
vero   e   proprio   ordinamento   legislativo   stabile,  diverso  e
contrapposto  a quello ordinario, della cui gestione per di piu' sono
in larga parte titolari soggetti istituzionali diversi dallo Stato.
    Sottoponendo l'art. 32 oggetto del presente giudizio all'esame se
sussista una giustificazione del condono, rileva il comma 2 di questo
articolo,  il  quale  esprime  -  seppure  con  linguaggio  in  parte
improprio  -  l'opportunita'  che  si  preveda  ancora  una  volta un
intervento   straordinario  di  condono  edilizio  nelle  contingenze
particolari  della  recente  entrata  in vigore del testo unico delle
disposizioni  in  materia  edilizia  (che  - tra l'altro - disciplina
analiticamente  la vigilanza sull'attivita' urbanistico-edilizia e le
relative  responsabilita' e sanzioni), nonche' dell'entrata in vigore
del  nuovo  Titolo  V  della  seconda  Parte  della Costituzione, che
consolida ulteriormente nelle regioni e negli enti locali la politica
di gestione del territorio».
    Orbene deve assolutamente rilevarsi che, se senz'altro l'evasione
fiscale  e'  un  fenomeno radicato e quindi perdurante nella societa'
italiana,  comunque  non  appare  giustificarsi il ricorso al condono
fiscale,  una volta che il n. 74/2000 ha gia' profondamente ristretto
le ipotesi di reati tributari, limitandone il numero e subordinandone
in  genere  la  rilevanza  al  superamento  di elevatissime soglie di
punibilita';  infine, il condono in oggetto non appare segnare alcuna
discontinuita' con i precedenti condoni, atteso che non ne restringe,
ma semmai amplia, l'ambito e l'oggetto, prevedendo la «condonabilita»
anche  di  reati  che  -  come  quelli  di cui all'art. 4 della legge
n. 516/1982,  ora artt. 2, 3, e 10 del d.lgs. n. 74/2000 - sono stati
sempre tradizionalmente tenuti fuori dall'ambito dei provvedimenti di
clemenza.
    Alla  stregua  delle  considerazioni  svolte,  appare  del  tutto
conseguente  ritenere  quindi l'illegittimita' costituzionale, in via
di principio, delle leggi di «sanatoria» o «condono», e senz'altro di
quella  che  qui  interessa,  in  quanto la Costituzione - si ritiene
necessario  ripeterlo  -  e'  chiara  nel  riservare  alla  legge  di
amnistia,  col  suo particolare procedimento deliberativo (previsto a
garanzia  del  principio  di  eguaglianza  dei cittadini davanti alla
legge  penale  e per sottrarre detto principio alla disponibilita' ed
alle  scelte di maggioranze contingenti), la possibilita' di produrre
effetti estintivi del reato gia' commesso.
    Ne',  a  parere  di questo giudice, appare possibile affermare in
via  di principio che detti effetti estintivi possano essere connessi
a  differenti  fonti e procedimenti normativi (appunto, le leggi c.d.
di  «sanatoria»  o  «condono»),  in  dipendenza da pretese ragioni di
eccezionalita»;  perche'  invero, anche laddove la suddetta categoria
della   «eccezionalita»,   quale   ipotesi   di  deroga  ai  principi
costituzionali,   possa   essere   intesa  come  dotata  di  dignita'
costituzionale,   e'  dalla  natura  stessa  della  Costituzione  che
discende l'impossibilita' che, nel vigente assetto costituzionale, vi
sia  posto  per  leggi  di «condono» o sanatoria» che abbiano effetti
estintivi  dell'illecito  penale,  fuori  dei casi disciplinati nelle
legittime forme delle leggi di amnistia.
    Al  fine  di  meglio  motivare tali esiti ermeneutici, non appare
inutile  ripercorrere  alcune  nozioni  in  ordine  alla natura della
Costituzione  della  Repubblica  italiana, pur se senz'altro ben note
alla Corte.
    Come  e'  noto,  la  Costituzione  e' la legge fondamentale dello
Stato: cio' non solo nel senso che si pone al vertice della gerarchia
delle  fonti  ma, prima di tutto, nel senso che la stessa e' la legge
fondante  dello  Stato, nella sua veste di patto sociale che assicura
la pacifica convivenza dei portatori di opposti interessi: e' infatti
in  forza  di  detto  patto  sociale  che  i convenuti concordano nel
sottomettersi  al  principio  di  maggioranza,  e  cioe'  di  vedersi
vincolati  dalle  scelte  da  quest'ultima  operate,  in quanto dette
scelte comunque non potranno incidere - se non in casi particolari, e
con maggioranze talmente qualificate da manifestare oggettivamente la
necessita' della modifica per il bene comune - sul nucleo fondante di
quel  patto sociale, e sui diritti e le altre situazioni personali di
cui detto patto proclama la (almeno tendenziale) inviolabilita'.
    Con  la  Costituzione,  pertanto,  si  stabilisce  un  nucleo  di
principi e valori comuni di cui si afferma l'assoluta rilevanza e che
pertanto  si  vogliono sottratti all'eventuale strapotere o dittatura
della  maggioranza,  la  quale  ultima  e  normalmente  contingente e
transeunte; per tal verso, la Costituzione delinea pertanto l'anima e
l'identita' di fondo di una nazione (e la ragion d'essere dello Stato
che  ne e' ente strumentale), che persiste nel tempo a prescindere da
quelle che siano le maggioranze contingenti.
    Ne   consegue  l'assoluta  delicatezza  del  tema  delle  deroghe
all'assetto  costituzionale  motivate  da «ragioni di eccezionalita»:
deroghe  che la Costituzione non ammette ne' in alcuna forma prevede,
e  che  pertanto  appare  assolutamente  rischioso  ricavare  in  via
interpretativa da un vuoto normativo che non offre agganci, se non la
condivisa  considerazione che, nell'ambito dei valori costituzionali,
e'  ravvisabile  una  sorta di «gerarchia», taluni principi apparendo
piu'  importanti  - per la piu' immediata e diretta pertinenza con la
tutela della persona - degli altri, pur tutti apparendo indefettibili
perche' oggetto di previsione costituzionale; il che, tuttavia, si e'
sempre ritenuto giustificare al piu' una compressione - nella ricerca
di  un equilibrio tra esigenze eventualmente contrapposte ma tutte di
rilievo costituzionale - del rispetto di un principio costituzionale,
ove  assolutamente necessaria ad assicurare la tutela di un principio
di rango «sovraordinato»: e non gia' la sia pure momentanea negazione
del   rispetto  del  principio  «subordinato».  Anzi,  vale  la  pena
ricordare  come  con  la  citata sentenza n. 196/2004 la stessa Corte
costituzionale  ha  espressamente  affermato  che la «primarieta» non
legittima  un  primato assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei
valori  costituzionali,  ma  origina  la  necessita' che essi debbano
sempre  essere  presi  in  considerazione  nei concreti bilanciamenti
operati  dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni;
in  altri termini, la «primarieta» degli interessi che assurgono alla
qualifica   di   «valori   costituzionali»  non  puo'  che  implicare
l'esigenza  di  una  compiuta  ed  esplicita rappresentazione di tali
interessi  nei  processi decisionali all'interno dei quali si esprime
la discrezionalita' delle scelte politiche o amministrative».
    Appare  quindi  senz'altro  legittimo  che  una  legge ordinaria,
chiamata  a  disciplinare  una  materia  in  cui vengano in conflitto
beni-interessi  entrambi  oggetto  di  tutela  costituzionale,  possa
operare  un contemperamento di detti interessi ricercando il punto di
equilibrio  tra gli stessi nella ponderazione comparata della diversa
rilevanza  ed  importanza  gerarchica  dei  principi  coinvolti (come
ricorda  la  stessa sentenza n. 196/2004 della Corte costituzionale);
ma  non  che  -  a  tutela  di  un  principio  costituzionale - in un
determinato  ambito  o  in una determinata materia un altro principio
costituzionale, di rango asseritamente inferiore, venga sacrificato o
compresso drasticamente sino a svuotarlo sostanzialmente di tutela, e
cioe'  si «deroghi» a detto principio: e cio' perche' la Costituzione
e'  comunque  quella  legge fondamentale che nella sua unitarieta' (e
quindi, in tutte le sue parti) delinea l'assetto di fondo dello Stato
che  la  comunita' nazionale ha deciso di darsi come condizione della
sua  pacifica  esistenza  e  della  legittimazione  della istituzioni
statuali, e non ammette pertanto lesioni nemmeno parziali.
    Tra  i  principi  piu'  importanti, e forse il piu' importante in
assoluto (come svelato anche dalla sua collocazione quasi in apertura
della Carta costituzionale), appare senz'altro essere il principio di
eguaglianza  dei  cittadini  davanti  alla legge, senza del quale non
appare  nemmeno  predicabile  la  nozione  di costituzione come patto
sociale,  perche' un patto e' equo, ed e' tale, solo se stipulato tra
eguali:  e  l'intera  Costituzione  appare  ispirata dal principio di
eguaglianza  ed  equita', quali fondamenta dello Stato democratico di
diritto.
    Per  tal  verso,  si  usa  talora dire che la Costituzione appare
quindi  assimilabile  ad  un  trattato o contratto: con la differenza
che,  nei  trattati,  gli  Stati  si  riservano clausole di recesso o
sospensione    dell'applicazione    degli   stessi,   in   situazioni
particolari,  a  tutela  dell'interesse  nazionale,  cosi'  come  nei
contratti ad ogni parte spetta il diritto di chiederne la risoluzione
per  inadempimento  dell'altra  parte;  mentre,  nell'attuale assetto
costituzionale,  la  tutela  dell'eventuale  «contraente  debole»  (e
cioe',   la   contingente   minoranza)   dagli  eventuali  abusi  del
«contraente»  di maggioranza, non riposa altro che nella indipendenza
ed   imparzialita'  dei  suoi  giudici,  ed  in  primis  della  Corte
costituzionale,  chiamati  a  valutare  la correttezza costituzionale
dell'operato della maggioranza.
    Diversamente  da  quanto  la  stessa  Corte  ha  ritenuto  con la
sentenza  n. 196/2004  in tema di reati edilizi, non puo' nel caso in
oggetto ritenersi che la tutela dei diritti dei cittadini al rispetto
dei  principi  «primari»  possa  essere  rinvenuta in altre forme; se
infatti,  quanto  al rispetto degli artt. 117, 118, 119 (e, in parte,
9) Cost., va condivisa l'osservazione che «il doveroso riconoscimento
alla  legislazione  regionale di un ruolo specificativo - all'interno
delle scelte riservate al legislatore nazionale - delle norme in tema
di  condono  contribuisce senza dubbio a rafforzare la piu' attenta e
specifica considerazione di quegli interessi pubblici, come la tutela
dell'ambiente  e  del  paesaggio,  che sono - per loro natura, i piu'
esposti  a  rischio di compromissione da parte delle legislazioni sui
condoni  edilizi»,  e'  peraltro  del  tutto  evidente  come manchino
istituzioni  ulteriori  legittimate  a  farsi  titolari - e quindi ad
assurgere  al  ruolo  di interlocutori del Governo o del Parlamento -
dell'interesse al rispetto del principio di cui all'art. 3 Cost. e di
quelli che ne sono corollari attuativi in tema di eguaglianza davanti
alla  legge  penale  e  tributaria:  l'unica  via  aperta  e'  quella
dell'eccezione  di  incostituzionalita'  rimessa  al  giudice,  e del
sindacato   della   Corte  costituzionale  su  detta  eccezione,  con
pronunzia    abrogativa    della    norma    eventualmente   ritenuta
incostituzionale per violazione dei principi «primari».
    Ritornando quindi al tema della possibilita' o meno di fondare su
situazioni  di  «eccezionalita»  le  eventuali  deroghe  ai  principi
costituzionali, e ricordato come l'unico appiglio all'accoglimento di
tale  tesi possa rinvenirsi nella ipotetica gerarchia ravvisabile tra
i  valori costituzionali (di talche' potrebbe al piu' - ammesso e non
concesso  che  ai  principi  costituzionali  si  possa  «derogare»  -
ipotizzarsi  la  possibilita'  di  derogare  ad  un principio solo se
assolutamente  necessario  a  tutelarne  uno  di  rango  maggiore), e
richiamate  le  considerazioni  appena  svolte  in ordine alla natura
della  Costituzione  come  patto sociale di garanzia contro gli abusi
della  maggioranza,  e  la conseguente assoluta necessita' di evitare
che  tali  abusi  possano  essere perpetrati dietro lo schermo di una
pretesa  situazione  di  eccezionalita',  ritiene questo giudice che,
anche   a   volersi  ammettere  la  possibilita'  che  situazioni  di
eccezionalita'  possano giustificare una deroga (nel senso anzidetto)
ai  principi  costituzionali, non possano non trarsene le conseguenze
che seguono:
        1)  non  sono  suscettibili  di deroga - se non a garanzia di
altri  principi  di  rango ancora superiore (ad es. la intangibilita'
della  vita o salute umana), e sempre che il sacrificio sia contenuto
nei  limiti dell'assolutamente indispensabile - i principi rientranti
tra    quelli   all'apice   della   scala   gerarchica   dei   valori
costituzionali,  posto  che  e'  a  tutela di questi ultimi principi,
semmai, che puo' ipotizzarsi la possibilita' di una deroga a principi
di  rango  inferiore;  tra  i  principi  di  vertice, in primo luogo,
occorre  evidenziare quello di eguaglianza dei cittadini davanti alla
legge   e   quelli   che   (come   quello   dell'obbligatorieta'   ed
irretrattabilita'  dell'azione penale, che pongono tutti cittadini in
posizione di parita' avanti alla legge penale; quelli sulla capacita'
contributiva,  che detta parita' realizzano avanti alle leggi fiscali
e tributarie) ne sono i corollari.
        2)  in  un  sistema  di  Costituzione rigida, quale e' quello
vigente,  le  deroghe  (nel  senso  di  sia pure parziale negazione o
disapplicazione   di   un   principio   costituzionale),  quand'anche
ipotizzabili,  devono  comunque  essere  limitate ai casi di assoluta
eccezionalita';   questi   ultimi   devono  essere  tali  in  maniera
assolutamente  oggettiva,  indiscutibile,  e  non  gia'  in  forza di
valutazioni politiche o prospettazioni di parte (anche perche' queste
sfuggirebbero  al  sindacato  della  Corte  costituzionale, giusta il
disposto  dell'art. 28  della  legge n. 87/1953: sicche' affermare il
contrario   legittimerebbe   la   possibilita'  di  violazioni  anche
gravissime  della  Costituzione  in  forza di contingenti valutazioni
politiche),   e   tantomeno   possono  pertanto  consistere  in  mere
situazioni  di difficolta' cui si sarebbe potuto ovviare attraverso i
normali strumenti normativi;
        3)  la  deroga (nel senso suddetto) a principi costituzionali
di  rango  subordinato  a quello che si intende tutelare deve infatti
presentarsi  come  assolutamente necessaria, e la situazione non puo'
essere  intesa  come  «eccezionale»  se  diversamente  evitabile;  la
«deroga»   deve   quindi  essere  l'unica  via  percorribile  per  la
salvaguardia  di  un principio costituzionale di valore assolutamente
essenziale;
        4)  non  possono pertanto essere ritenuti casi di assoluta ed
oggettiva  eccezionalita' nemmeno quelli che potevano essere previsti
e  cui  si  poteva ovviare per tempo in via ordinaria e con strumenti
costituzionalmente  corretti  perche'  rispettosi di tutti i principi
costituzionali;
        5)  non  e'  quindi eccezionale nemmeno quella situazione che
sia  stata dolosamente o con colpa grave realizzata da scelte operate
da  chi  all'eccezionalita'  intenda far ricorso a giustificazione di
deroghe  ai principi costituzionali, altrimenti si aprirebbe il varco
ad  abusi incontrollabili della maggioranza, che potrebbe artatamente
creare  situazioni  di eccezionalita' per giustificare le piu' odiose
violazioni dei principi costituzionali.
    Specialmente  l'ultimo  dei  punti  affrontati, potendo involgere
accertamenti  ed  apprezzamenti  che  agevolmente  puo'  apparire che
sconfinino  nell'ambito delle valutazioni politiche, svela appieno la
estrema  delicatezza  (almeno dal punto di vista della sindacabilita'
per  via  giudiziaria) delle questioni attinenti alla possibilita' di
derogare ai principi costituzionali per ragioni di eccezionalita'; ma
non e' tanto su questo (pur se rilevante), quanto sui punti 1, 2, 3 e
4    che   occorre   ed   e'   sufficiente   appuntare   l'attenzione
dell'interprete  nel  valutare  la  legittimita' costituzionale delle
leggi  di  condono o sanatoria, e cioe' di quelle leggi che producono
effetti  estintivi  del reato senza assumere le forme garantite delle
leggi  di  amnistia  (che, come gia' si e' osservato, sono adottabili
solo  con  maggioranze  estremamente  qualificate, a garanzia appunto
dagli  abusi della maggioranza contingente; cosi' come, per la stessa
ragione,  originariamente  l'emanazione del provvedimento di amnistia
era   affidato   al   Presidente   della   Repubblica,  cui  spettava
l'insindacabile    valutazione    in    ordine    alla   opportunita'
costituzionale  di  dar  corso  o  meno alla legge delega di amnistia
emanata dalla maggioranza parlamentare).
    Quanto  al  punto  1)  come  peraltro gia' accennato, le leggi di
condono  e di sanatoria ledono il principio di eguaglianza, in quanto
derogano  al  principio  della  parita'  dei cittadini di fronte alla
legge penale, non solo sottoponendo taluni a pena (che per i reati di
cui  all'art. 4  della  legge  n. 516/1982  che  qui  interessano, e'
congiuntamente pecuniaria e detentiva; solo detentiva per il reato di
cui  all'art. 2  del d.lgs. n. 74/2000) ed altri no (in quanto tenuti
solo a versare somme per lo piu' assolutamente irrisori e senza altri
effetti  penali),  ma anche premiando il cittadino disonesto rispetto
quello  onesto,  estinguendo  non solo il debito penale del primo, ma
garantendogli  anche  la  conservazione  di un bene di rilevantissima
importanza,  che  si vieta invece (si pensi alla spesso ingente quota
dei  propri  redditi,  che  si sottrae all'imposizione; si pensi alle
costruzioni  in  violazione degli strumenti urbanistici, realizzabili
solo  in  forza  della  predetta  sanatoria di un abuso) al cittadino
onesto:  dalla  consumazione  di  un  illecito, si permette cosi' che
venga  a discendere una situazione di maggior favore normativo per il
cittadino disonesto che per il cittadino onesto; il tutto, quindi, in
termini  di  estrema  ed  eccezionale  ingiustizia  per disparita' di
trattamento:  e  per  tale  ragione,  le  leggi  di  condono appaiono
direttamente lesive di principi costituzionali di rango assolutamente
primario.
    Quanto ai punti 2), 3) e 4) (che si trattano unitariamente stante
la  loro  strettissima interdipendenza logica), occorre rilevare come
tale  lesione  sia stata realizzata al di fuori dei casi di oggettiva
eccezionalita',  e  senza necessita': in realta', le leggi di condono
(quelle  di  condono  tributario  come  quelle  di  condono edilizio)
risultano  oggettivamente  essere  state  il  frutto di una scelta di
politica  economica e finanziaria non necessaria se non nell'ottica -
eminentemente politica, e cioe' svincolata dalla necessita' oggettiva
- di finanziare l'attivita' statale senza ricorrere alla leva fiscale
(quale alternativa a quei «tagli strutturali» della spesa pubblica la
cui  necessita'  era  stata  piu'  volte  rimarcata dalle istituzioni
economiche   internazionali,  ma  che  oggettivamente  era  difficile
realizzare  in  tempi brevi), ed in assenza peraltro di situazioni di
disequilibrio  finanziario  di carattere eccezionale e non altrimenti
affrontabili.
    Memore della necessita' (propria sia di questo giudice, che della
Corte costituzionale in forza del gia' richiamato art. 28 della legge
n. 87/1953)  di  non  fondare  la  propria  decisione  su valutazioni
politiche  anziche'  sui fatti, questo giudicante deve in primo luogo
evidenziare  come  il senso della norma sia di vietare che il giudice
decida  in  forza non gia' dell'applicazione della legge (ordinaria o
costituzionale), ma in forza di proprie personali scelte di valori od
opinioni: la legge, pertanto, deve essere oggetto (come peraltro ogni
res  judicanda)  di  uno  scrutinio  al quale saranno estranee sia le
personali   convinzioni   del   giudice,   sia  ragioni  di  politica
contingente, che pertanto ne' dovranno condurre ad una conclusione di
incostituzionalita',  ne'  salvare  dall'abrogazione  la norma che si
ponga in contrasto con la Costituzione.
    Questo  giudice  e' poi tenuto ad osservare come quanto qui si va
ad  esporre  non  consta  di valutazioni, ma di mero rilievo di fatti
della  cronaca  parlamentare  degli  ultimi anni, di cui i mass media
hanno  dato  diffusa  notizia, e da cui si evince come i vari condoni
(fiscali,  edilizi,  ecc.)  siano  stati  lo  strumento prescelto per
perseguire l'equilibrio di bilancio nell'ambito dei c.d. parametri di
Maastricht  senza intervenire ne' sul lato della leva fiscale, ne' su
quello  strutturale della spesa, una volta che gli ordinari strumenti
finanziari  a  legislazione  vigente si erano rivelati insufficienti,
per  essere  stata  la  crescita economica - e quindi l'ammontare del
gettito  fiscale  -  inferiore  alle  previsioni  del governo, che la
cronaca  permette  di  rilevare  erano  state  sempre  state ritenute
eccezionalmente ottimistiche dalle istituzioni internazionali, al cui
parere  imparziale  ci  si  e'  adeguati  sempre  con grande ritardo,
peraltro  allorche'  anche  le  stime  piu' pessimistiche erano ormai
superate, per essere state le stesse ulteriormente riviste al ribasso
dai   suddetti   organismi   internazionali.   La  riprova  e'  nella
notevolissima  entita'  della manovra finanziaria da approvarsi (che,
su  indicazione  del  nuovo ministro competente, il DPEF approvato ha
stimato  in  circa 24 miliardi di euro) per rientrare nell'equilibrio
di  bilancio: cifra il cui importo, attesane l'entita' ragguardevole,
non  e'  di  certo  maturato  tutto  ad  un  tratto,  come  si evince
esaustivamente  non  solo  dall'entita'  dello  sbilancio,  ma  anche
dall'avallo   che   a  tale  ricostruzione  e'  peraltro  offerto  da
autorevolissimi  esponenti  della  maggioranza  (si  segnala  ad  es.
l'intervista  rilasciata  dall'on. Bondi  e  pubblicata  dal Corriere
della  Sera  in  data 4 luglio 2004, a pag. 6, ove si e' testualmente
ammesso  che  sin  dal  2002  sarebbe  occorso essere piu' sinceri ed
ammettere   che   le   stime   di  crescita  erano  irrealisticamente
ottimistiche).
    Quanto  si  e' sin qui esposto, pertanto, permette di evidenziare
come  la  «deroga»  ai  principi  di  cui  agli  artt. 3  e  53 della
Costituzione  sia  stata  realizzata per far fronte ad una situazione
economico-finanziaria  delle  casse  dello  Stato, che avrebbe potuto
essere   agevolmente   diversamente  risolta  senza  compromettere  i
suddetti  principi  costituzionali,  semplicemente agendo per tempo e
sulla  base  di  stime  veritiere con la leva fiscale e tenendo sotto
controllo la spesa pubblica; la situazione di difficolta' finanziaria
che  ha  portato  alla  dichiarata  necessita'  di  una manovra di 24
miliardi  di  euro  (ingente, ma neanche questa di per se' valevole a
definire  come «eccezionale» la presente situazione) non solo sarebbe
anch'essa  affrontabile  per  vie ordinarie (lo Stato italiano ha nel
passato  non  remoto  varato  manovre  anche piu' consistenti), ma di
certo non puo' essere definita eccezionale, se sono corretti - come a
questo  giudicante  pare - i «paletti» logici e normativi da porsi al
concetto  di  eccezionalita',  elencati  ai  numeri  1,  2, 3 e 4 che
precedono.
    A  ben  vedere,  di  veramente  eccezionale  nella situazione che
interessa  appare  esservi  solo  il grado di violazione dei principi
costituzionali  coinvolti  ed  il  trattamento di privilegio e favore
assicurato al reo: con le leggi di condono tributario, si e' prevista
la possibilita' di sanare le conseguenze di gravi violazioni fiscali,
e  le  connesse responsabilita' penali ed amministrative, mediante il
pagamento   di   somme   assolutamente  risibili  e  costituenti  una
percentuale ridottissima dell'originaria obbligazione tributaria.