IL TRIBUNALE Ha pronunziato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 166/2003 a carico di: 1) Cerreoni Pasquale nato a Messina il 22 dicembre 1961 res. a Cupra Marittima via Kennedy n. 41, difeso dall'avv. Serena Romandini del Foro; 2) Apis Giuseppe nato a Potenza Picena il 30 marzo 1943 res. a Cessapalombo - contrada Coldiele n. 15, domiciliato a Vivitanova Marche S.P. Maceratese n. 15, difeso dall'avv. Sotero Adani del Foro di Macerata, di fiducia imputati di reati di cui agli artt. 110 c.p. 216, comma 1, n. 2, 222, 223, regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. Premesso in fatto che, a seguito di indagini svolte in relazione al fallimento della societa' «Global Foods» con sede in Cupra Marittima, la locale Procura procedeva penalmente nei confronti di Scotti Francesco, Cerreoni Pasquale Primo e Apis Giuseppe, per rispondere, in concorso tra loro, del reato di bancarotta fraudolenta documentale (ed il Cerreoni anche del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale); che, all'udienza preliminare, Scotti Francesco chiedeva di essere giudicato con le forme del giudizio abbreviato; che, all'esito del ricordato rito alternativo, lo Scotti veniva assolto, per non aver commesso il fatto, con sentenza 16 aprile 2003 del g.u.p. in sede, divenuta irrevocabile il 28 giugno 2003; che, con decreto in data 6 febbraio 2003, lo stesso g.u.p. rinviava al giudizio di questo tribunale i coimputati Cerreoni ed Apis; che il p.m. indicava, nella lista di cui all'art. 468 c.p.p., Scotti Francesco, per deporre in ordine alla specifica responsabilita' degli odierni imputati; che all'odierna udienza fissata per l'escussione di Scotti Francesco quale testimone assistito ex art. 197-bis c.p.p., il tribunale sollevava d'ufficio le questioni di illegittimita' costituzionale per violazione dell'art. 3, primo comma della Costituzione - dei commi 3 e 6 dell'art. 197-bis c.p.p., nella parte in cui, rispettivamente, prevedono come obbligatoria l'assistenza di un difensore, e l'applicazione della regola probatoria di cui all'art. 192, comma 3 c.p.p. (anche) con riferimento all'imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato, nei cui confronti e' stata pronunziata sentenza irrevocabile di assoluzione. Motivi Rilevanza della questione Le questioni sono entrambe rilevanti nel giudizio in quanto, in caso di accoglimento, non si dovrebbe invitare il teste a nominare un difensore di fiducia e, in difetto, nominargliene uno di ufficio (comma 3) - con l'obbligo per lo stesso teste di corrispondere l'onorario per detta imposta assistenza - e, per altro verso (comma 6), le dichiarazioni accusatorie rese dallo stesso potrebbero essere valutate alla stregua di qualsiasi altro elemento di prova e, dunque, ritenute idonee, una volta superato il vaglio di credibilita' intrinseca, a fondare l'affermazione di responsabilita' degli imputati pur in assenza di altri elementi di prova (che, nel caso di specie, quanto meno con riferimento alla posizione dell'Apis fanno difetto). Non manifesta infondatezza della questione Va ricordato, anzitutto, che la Consulta ha avuto modo di occuparsi della compatibilita' costituzionale dell'art. 197-bis, comma 6 c.p.p., dichiarando con ordinanza pronunziata l'8 luglio 2004 (depositata il 22 luglio) la manifesta infondatezza della questione sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Novara. In quell'occasione peraltro, la disposizione in questione era stata censurata con riferimento alle dichiarazioni rese quale «testimone assistito» ai sensi dell'art. 197-bis, comma 1, cod. proc. pen., da persona originariamente coimputata del medesimo reato, nei cui confronti era stata pronunciata sentenza irrevocabile di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. E' opportuno ripercorrere la trama argomentativa della ricordata ordinanza. La normativa censurata esprime - si legge nella motivazione - la strategia di fondo che ha ispirato il legislatore della legge 1° marzo 2001, n. 63: strategia consistente nell'enucleare una serie di figure di «dichiaranti» nel processo penale in base ai diversi «stati di relazione» rispetto ai fatti oggetto del procedimento, secondo una graduazione che, partendo dalla situazione di assoluta indifferenza propria del teste ordinario, giunge fino alla forma «estrema» di coinvolgimento, rappresentata dal concorso del dichiarante nel medesimo reato. Ai vari «stati di relazione» corrisponde quindi una articolata scansione normativa di figure soggettive, di modalita' di dichiarazione e di effetti del dichiarato. Cio' premesso, secondo il Giudice delle leggi, «la circostanza che nei confronti dell'imputato in un procedimento connesso o di reato collegato ex art. 371, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di "patteggiamento", vale a differenziare la posizione del soggetto considerato rispetto a quella degli imputati in un procedimento connesso o di reato collegato ancora in attesa di giudizio definitivo: giustificando, cosi', la scelta legislativa di permettere l'audizione del soggetto stesso in veste di testimone, con correlata restrizione (nei limiti normativamente previsti) del diritto al silenzio» ma tale circostanza non basta ancora a "ripristinare" alla stregua di una ragionevole valutazione del legislatore, la condizione di assoluta indifferenza rispetto alla vicenda oggetto di giudizio che e' propria del teste ordinario». Tali principi non sembrano poter trovare applicazione al caso in esame, in cui l'estraneita' dell'imputato e' stata accertata in modo irrevocabile e, quindi, lo stato di relazione rispetto ai fatti oggetto del procedimento si trova agli antipodi rispetto alla forma «estrema» di coinvolgimento, rappresentata dal concorso del dichiarante nel medesimo reato e deve essere, almeno giuridicamente, assimilata alla situazione di indifferenza del teste ordinario. Non si comprende, invero, per quale ragione le dichiarazioni testimoniali di un soggetto (gia' coimputato o imputato per reati connessi o collegati nei cui confronti sia intervenuta sentenza irrevocabile di assoluzione con la formula piu' ampia debbano essere considerate, per effetto di una presunzione legislativa assoluta, meno «attendibili» di quelle di un qualsiasi altro «normale» testimone e parificate a quelle della persona di cui all'art. 210 c.p.p. Sembra quasi che l'essere stati (ingiustamente: dato l'esito del giudizio) perseguiti penalmente, faccia residuare anche nei confronti del soggetto di cui sia stata riconosciuta l'assoluta estraneita' ai fatti, un marchio (infamante) indelebile. Tale disciplina e' gravida di implicazioni non solo di natura «morale», ma soprattutto - per quel che qui rileva - giuridica. Cosi', solo a titolo di esempio, le dichiarazioni di colui che risulti, all'esito del giudizio, totalmente estraneo al reato ipotizzato a suo carico, essendo stato «trascinato in giudizio» solo a seguito di altrui condotta calunniosa, non saranno (piu) di per se' sufficienti a fondare una sentenza di condanna nei confronti del calunniatore, con ricadute anche sull'azione civile proposta dalla vittima. Senza considerare che per effetto di tale previsione una persona che ha subito un processo, affrontandone tutti i costi, ed e' stata dichiarata «non colpevole» dovra' procacciarsi (e pagarsi) un difensore anche per testimoniare. Paradossalmente la disciplina del c.d. giusto processo che ha esteso gli ambiti della testimonianza e limitato l'area del silenzio, ha reso la deposizione dell'imputato (di reato connesso o collegato) assolto con sentenza passata in giudicato, sotto il profilo della valenza del mezzo di prova, deteriore rispetto a quella previgente (in base alla quale il prosciolto con sentenza irrevocabile assumeva a tutti gli effetti la qualifica di testimone «comune», le cui dichiarazioni non erano assoggettate alla corroboration: cfr. art. 197 lett. a) c.p.p. nella previgente formulazione). Si ritiene che detta disciplina determini un vulnus del principio di uguaglianza ed esprima un esercizio irragionevole della discrezionalita' che al legislatore compete nella conformazione degli istituti processuali, laddove parifica la posizione dell'imputato in procedimento connesso o di reato collegato assolto con sentenza irrevocabile alla persona di cui all'art. 210 c.p.p. - e, per converso, la diversifica profondamente da quella del testimone ordinario, anche se vittima del reato o prossimo congiunto delle parti in causa - sotto il profilo dell'obbligo dell'assistenza difensiva e sotto il profilo della semiplena probatio delle rispettive dichiarazioni. Il 210cista e' obbligatoriamente assistito dal difensore ed e' considerato suspectus incapace a testimoniare in quanto non solo non ha definito la propria posizione e risulta invischiato nel reato per cui si procede, ma non ha ne' l'obbligo di rispondere, ne' quello di dire la verita'. Ripugna invece al senso comune, oltre che alla coscienza giuridica, che una persona giudicata innocente (senza possibilita' di prova contraria, non essendo prevista revisione in pejus) rimanga vittima di un meccanismo processuale irrazionale, per effetto del quale: e' considerato teste suspectus, si presume che possa mentire, in considerazione dei suoi trascorsi giudiziari; cio' nonostante lo si obbliga incondizionatamente a deporre e ad essere assistito da un difensore; le sue dichiarazioni hanno una valenza probatoria identica a quella della persona di cui all'art. 210 c.p.p., incapace a testimoniare assoggettate alla restrizione della corroboration e quindi prive di autarchica valenza probatoria. In tal modo si sovrappongono e confondono la sfera della limitata capacita' testimoniale con quella dell'attendibilita' in concreto, che attiene al principio del libero convincimento del giudice. Anche la persona offesa dal reato, i prossimi congiunti dell'imputato o della vittima, il «collega» di (altri) cento reati, espressione dello stesso substrato criminale dell'imputato possono porre seri problemi di attendibilita'. Ma rispetto ad essi nessuno si e' mai sognato di sostenere una capitis deminutio testimoniale. Va rilevato, infine, che il «corpo» di garanzie delineato dallo stesso art. 197-bis al comma 5 appaiono persino superflue con riferimento al caso in esame e rappresentano, in ogni caso, cautela piu' che sufficiente per escludere qualsiasi limitazione di capacita' testimoniale in capo all'assolto. Esse sembrano legate al fatto storico della vissuta esperienza processuale (cosi' come la facolta' attribuita ad alcuni testi dall'art. 199 c.p.p. e' connessa al rapporto - non processuale ma di parentela, affinita' o coniugio ecc. - del teste con l'imputato) e non sembrano elementi essenziali per connotare una figura nettamente differenziata rispetto al testimone ordinario.