IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA

    Premesso  che  Farage  Aziz  nato  in  Marocco il 5 gennaio 1967,
detenuto  nella Casa circondariale di Napoli, Poggioreale, condannato
con  sentenza del 24 maggio 2001 del Tribunale di Napoli alla pena di
anni  4 e mesi 8 per rapina aggravata ed altro, presentava istanza di
liberazione anticipata in relazione ai semestri di pena gia' espiati;
    Rilevato  che  con riferimento ai semestri dal 31 gennaio 2001 al
31 luglio   2002  la  istanza  del  Farage  non  pare  meritevole  di
accoglimento in quanto ripetutamente incorso in sanzioni disciplinari
di  rilevante  gravita',  comprovanti  la  mancanza di partecipazione
all'opera  di  rieducazione  sociale  pur operata nei suoi confronti,
assumendo,  altresi',  anche  atteggiamenti  minacciosi ed aggressivi
verso la Polizia penitenziaria;
    Considerato  che  nel  caso  di  specie deve essere valutata, con
probabili  esiti  negativi,  la istanza di liberazione anticipata per
comportamento  non  rispondente ai presupposti e requisiti prescritti
dall'istituto della liberazione anticipata;

                            O s s e r v a

    L'articolo  69-bis, introdotto dall'articolo 1, punto 2, legge 19
dicembre   2002,  n. 277,  prevede  la  emissione  di  una  ordinanza
«adottata  in  camera di consiglio senza la presenza delle parti, che
e'  notificata  senza  ritardo ai soggetti indicati nell'articolo 127
c.p.p.».
    La  necessita' della giurisdizionalizzazione del procedimento, e'
fatta  salva,  ai sensi del secondo comma dell'articolo 69-bis, dalla
preventiva  richiesta  di parere al pubblico ministero, nonche' dalla
previsione di un minimo di tempo di attesa da parte del magistrato di
sorveglianza,   quantificato   in  giorni  15,  lasciando  inalterata
comunque  la  possibilita'  di  decisione  anche  senza l'intervenuto
parere.  Le parti fino a questo momento non compaiono sulla scena del
procedimento  se  non nella previsione dell'obbligo di notifica senza
ritardo dell'ordinanza adottata.
    Ci si ricorda, infine, della loro presenza, prevedendo al comma 3
la    possibilita'    del   «reclamo»   da   parte   del   difensore,
dell'interessato  e  del p.m. al tribunale di sorveglianza competente
per   territorio,  nel  termine  perentorio  di  dieci  giorni  dalla
notificazione dell'ordinanza.
    Questo   il   dettato   del   novello  articolo  69-bis,  di  cui
all'articolo  1,  punto  2,  del nuovo testo approvato. Stilato sulla
falsariga  della  proposta  di  legge  2154-C,  l'attuale  articolato
ricorre  al rito proceduralmente definito de plano in cui il giudice,
monocratico  o  collegiale, adotta il provvedimento definitivo, senza
che le parti siano presenti.
    In  tema  di  esecuzione  penale  tale  procedimento  e' previsto
dall'articolo  666,  comma  7,  c.p.p.,  articolo  680, 3 c.p.p., 667
c.p.p.,  nonche', in ambito penitenziario, dagli articoli 30, 30-ter,
51-bis, 51-ter, 52, 53, 53-bis, 69, commi 5 e 7, legge n. 354/1975.
    Al  di  la'  delle disposizioni normative, e dei richiami stricto
iure  il  rito  de plano risulta adottato, per prassi procedurale, in
camera   di  consiglio,  solo  nel  caso  in  cui  la  decisione  sia
assolutamente  esente  da  danni  per entrambe le parti del processo.
Nell'ambito  del  processo  penale, quindi, la previsione del rito de
plano  continua  ad  esistere  per  casi,  che esulano da valutazioni
incidenti   il   merito   della   istanza   presentata,  e  risultano
strettamente  ed  esclusivamente  connessi  a  situazioni procedurali
attinenti a pure formalita' del processo.
    Nell'ordinamento  penitenziario la procedura de plano resiste nei
casi  in  cui  l'attivita'  del magistrato di sorveglianza continua a
conservare  quel  carattere  misto,  a  mezzo  tra  amministrativo  e
giurisdizionale, che trova la sua scaturigine nella originaria figura
di magistrato di sorveglianza ai sensi della legge n. 354/1975, prima
versione.   Nella  prassi  operativa,  inoltre,  la  magistratura  di
sorveglianza    ricorre    alla   procedura   de   plano,   in   sede
giurisdizionale,  per  snellire il carico del ruolo di udienza, e per
giungere  a  rapida  soluzione  nel  caso  in  cui  la situazione sia
perfettamente  e  completamente  positiva e tale da non causare alcun
danno  ne'  all'interessato,  autore  dell'istanza,  ne'  allo Stato,
titolare della esecuzione penale.
    In  verita'  la  legittimita'  dei provvedimenti de plano o delle
determinazioni  in  se'  suscettibili  di dar luogo a contraddittorio
differito  o  eventuale  e'  stata  piu'  volte affermata dalla Corte
costituzionale,  tra le altre sentenza n. 422/1999, in cui dichiarava
non  fondata  la eccezione di incostituzionalita' sollevata da questo
tribunale  per  l'art. 656,  comma 10,  c.p.p.,  nella  parte  in cui
prescriveva   al   tribunale  di  sorveglianza  di  provvedere  senza
formalita'  all'eventuale  applicazione  della detenzione domiciliare
nei confronti del condannato gia' agli arresti domiciliari, in quanto
decisione  adottata  de  plano in contrasto con l'affermato principio
costituzionale della giurisdizionalizzazione della esecuzione penale.
    La  Corte  costituzionale con sentenza n. 422/1999 dichiarava non
fondata  l'eccezione,  ribadendo  la  legittimita' costituzionale del
procedimento  de  plano  ormai  riconosciuta  sia  in dottrina che in
giurisprudenza,   per   la  garanzia  del  contraddittorio  differito
eventuale   e   sottolineava  come  la  sentenza  n. 3005/1999  della
Cassazione  aveva  avuto  modo  di  puntualizzare che la procedura de
plano  andava  adottata solo nei casi di concedibilita' della misura,
giacche'  in  caso  contrario,  doveva essere seguita la procedura ex
articoli  678  e  666 c.p.p. Quasi come atto dovuto, interveniva dopo
tre   anni,   nel  2001,  il  legislatore  che,  sulla  scorta  della
interpretazione    risolutiva    giurisprudenziale,    provvedeva   a
rettificare   il  dettato  normativo,  eliminando  il  richiamo  alla
procedura de plano e ripristinando il rito ordinario.
    L'articolo  10  della  legge  n. 4/2001  introduce, pertanto, una
modifica  del  comma  10  dell'articolo 656 c.p.p., che, riformulato,
testualmente  cita:  «  ...  e  trasmette  gli  atti senza ritardo al
tribunale di sorveglianza perche' provveda all'eventuale applicazione
di una delle misure alternative di cui al comma 5».
    Si  ritorna  al  procedimento  camerale  ordinario ai sensi degli
articoli 666  e  678  c.p.p.,  in  linea con la finalita' prioritaria
della giurisdizionalizzazione della fase della esecuzione della pena,
di cui agli articoli 96, 97 e segg. della legge-delega n. 81/1987 per
il nuovo codice di procedura penale.
    Oggi  con  la  legge  n. 277/2002  il  legislatore  reimmette nel
circuito  penitenziario  un procedimento camerale non allineato e non
giurisdizionalizzato.
    In  particolare,  appare  evidente che il nuovo rito disposto dal
comma  2  dell'art. 69-bis  non  offre le medesime garanzie difensive
predisposte  del  procedimento  generale  dalla  disciplina,  che  ha
indiscussa  natura  giurisdizionale,  si  svolge  con le garanzie del
contraddittorio  e  si  conclude  con  un  provvedimento  soggetto ad
impugnazione.
    Gia' la Corte costituzionale nella sentenza n. 188/1990 ricordava
che   l'oggetto  principale  nei  giudizi  innanzi  il  tribunale  di
sorveglianza  riguarda  la  modifica e l'estinzione di una situazione
afflittiva  cui  il  soggetto  e'  sottoposto  in  esecuzione  di una
condanna a pena detentiva. E' diretto pertanto a modificare lo status
del  soggetto  consentendogli  di  riacquistare  quote di liberta' in
rapporto ai gradi di rieducazione raggiunti.
    Sono  previste  e assicurate garanzie giurisdizionali, l'invito a
presentarsi,  la  nomina  del difensore di ufficio, qualora non venga
nominato  il  difensore  di fiducia, la notificazione dell'avviso del
giorno della trattazione della causa, l'udienza con il rito camerale,
cui   l'interessato  ha  il  diritto  di  intervenire  personalmente,
assistito  dal  difensore  e  presentare  documentazione e concorrere
all'acquisizione delle prove.
    Il  nuovo  rito camerale si svolge de plano, il magistrato emette
ordinanza  senza convocazione delle parti, richiede parere al p.m. ma
puo'  decidere anche senza parere, decorsi 15 giorni dalla richiesta;
solo  successivamente  all'emissione  del  provvedimento, si provvede
alle  notifiche all'interessato, difensore, di fiducia o, in mancanza
di ufficio, e comunicazione a1 p.m.
    Avverso  l'ordinanza  e' previsto reclamo innanzi al tribunale di
sorveglianza,   che   si  pronunzia  secondo  il  rito  camerale,  ex
articoli 666 e 678 c.p.p.
    Il  magistrato  di  sorveglianza  che  ha emesso il provvedimento
impugnato    non    partecipa    all'udienza,   come   dal   richiamo
all'art. 30-bis l.p. del comma 4 dell'art. 69-bis.
    Soffermiamoci un attimo sulle differenze tra i due procedimenti.
    In  linea  di  massima  il  procedimento generale di sorveglianza
tende  al  riacquisto di quote di liberta' da parte dell'interessato,
quindi  tendenzialmente predisposto per la emissione di provvedimenti
a   favore.   Il   nuovo  procedimento,  anch'esso  predisposto  come
l'ordinario,   per   l'emissione   di   provvedimenti  a  favore  del
richiedente,  potrebbe,  come nel caso in oggetto all'udienza odierna
solversi    con   un   provvedimento   contrario   alle   aspettative
dell'istante.
    Resta  la  valutazione  del  fatto  che l'eventuale provvedimento
negativo,  pur  non  comportando un'oggettiva modifica in peius dello
stato  personale  del  detenuto, ha incidenza diretta sulla quantita'
della  pena  ancora da espiare e finisce con il ricadere direttamente
sulla  ammissibilita'  alle  misure  alternative se non proprio sulla
auspicata  scarcerazione  del  soggetto,  nel caso di fine pena ormai
prossimo.
    Secondariamente,  il  procedimento  di  sorveglianza  generale si
configura  come  un  procedimento  sul  detenuto,  mentre  invece  il
procedimento   per  la  decisione  sulla  liberazione  anticipata  e'
innanzitutto  un  procedimento  sul  fatto,  cioe'  sui comportamenti
tenuti dal soggetto durante la detenzione, molto piu' simile, quindi,
al procedimento di cognizione.
    E  proprio  in questo caso, il soggetto da sottoporre al giudizio
si  vede limitato l'esercizio del proprio diritto di difesa, tutelato
dall'art. 24, secondo comma, Costituzione.
    A  tal  fine,  non puo' essere sufficiente la possibilita' di far
valere le proprie ragioni successivamente alla decisione, nel reclamo
innanzi  al  tribunale  di  sorveglianza,  il  famoso contraddittorio
differito. Come escludere la possibilita' che nel corso dell'udienza,
cui   non   e'   potuto  intervenire,  l'interessato  avrebbe  potuto
dimostrare e far valere le sue motivazioni?
    La sua non prevista e non ammessa partecipazione al processo, nel
caso  in  cui  il  soggetto  si pone come l'unica persona in grado di
conoscere  la concreta situazione accaduta equivale in punto di fatto
e di diritto ad una denegata giustizia.
    E  se  il  detenuto  con  quella  concessione  della  liberazione
anticipata  avrebbe  terminato  l'espiazione  della  pena?  Il futuro
reclamo   innanzi   al  tribunale  di  sorveglianza  non  potra'  mai
sostituire la denegata giustizia del momento.
    Non  e'  prevista  neppure la presentazione di «memorie» da parte
dell'interessato,  argomento  che  pur  fu ritenuto utile nel lontano
1990  per  dichiarare non fondata la eccezione di incostituzionalita'
sollevata   dal   tribunale  di  sorveglianza  di  Napoli  in  ordine
all'art. 14-ter l.p. (sentenza n. 188/1990 Corte cost.).
    Oggi  dopo  tanti  anni c'e' un altro argomento che interviene ad
adiuvandum.
    Richiamiamo  l'excursus  giuridico  dell'art. 236,  comma 2 disp.
att.  c.p.p.,  nella  parte  in  cui  faceva salve tutte le procedure
previste dalla disposizioni non contenute nel capo 2-bis del titolo 2
della  legge  penitenziaria.  Cio'  vive  fino  a quando con sentenza
n. 53/1993  la  Corte  costituzionale  non interviene a dichiarare la
illegittimita'  costituzionale dell'articolo 236, comma 2, disp. att.
c.p.p.,  dell'articolo 14-ter, commi 1, 2 e 3 e articolo 30-bis l.p.,
nella parte in cui non consentono l'applicazione degli articoli 666 e
678  c.p.p.  anche  ai  procedimenti non espressamente richiamati nel
capo 2-bis del titolo 2 della l.p.
    Preliminare   ed  assorbente  rispetto  a  tutte  le  prospettate
violazioni  dei  precetti  costituzionali,  dichiara  la  Corte nella
sentenza n. 53 del 1993, e' la verifica di compatibilita' tra il rito
ex  art. l4-ter ed il punto 96, art. 2, della legge di delegazione 16
febbraio   1987,   n. 81   che,  nella  fase  della  esecuzione,  con
riferimento ai provvedimenti concernenti le pene, impone «garanzie di
giurisdizionalita»,     consistenti     nella     «necessita'     del
contraddittorio» e «nell'impugnabilita' dei provvedimenti».
    Finalita'   del  legislatore  delegante  e'  quindi  il  rispetto
integrale - e senza possibilita' di distinzioni tra le diverse misure
-  delle garanzie costituzionali del diritto di difesa e della tutela
della  liberta'  personale  anche nella fase esecutiva della pena, in
coerenza  con  il progetto rieducativo che questa sottende, nel porsi
non piu' soltanto come giusta, ma anche utile.
    Ne  consegue  che  la  regola  processuale non puo' difettare dei
requisiti,    posti   come   necessari,   della   vocatio   in   ius,
dell'appagamento    integrale   dell'esigenza   di   contraddittorio,
dell'impugnabilita' del provvedimento.
    Le  conclusioni raggiunte nella sentenza n. 188/1990, infatti, si
rapportavano  al  previgente regime, ne' avrebbero potuto tener conto
del   nuovo  modulo  procedimentale  che  l'art. 666  del  codice  di
procedura  penale  ha  tracciato  per  il processo di esecuzione, che
l'art. 678  -  nel  richiamare  questa  norma - ha altresi' esteso al
tribunale  di  sorveglianza,  ma che l'art. 236 delle disposizioni di
attuazione  non  ha  reso  applicabile  in  subiecta  materia,  senza
peraltro alcuna ragionevole spiegazione.
    Nella  successiva  sentenza  n. 53/1993,  post  nuovo  codice  di
procedura  penale,  la  Corte  precisa  che nel consentire la vigenza
ulteriore   del  procedimento  ex  art. 14-ter  per  il  reclamo  dei
provvedimenti  che  imputano  a  detenzione  il  periodo di permesso,
procedimento  chiaramente  non  in  linea  con  le disposizioni degli
articoli 666  e  678  c.p.p.,  l'art. 236 si pone in contrasto con le
indicazioni  nascenti  dal  punto  96  e  segg.  della  legge  delega
n. 81/1987  e  realizzate nel nuovo processo di sorveglianza, onde ne
va dichiarata l'illegittimita' costituzionale per eccesso di delega.
    Sulle  medesime  tematiche  ritorna  la  Corte  con  la  sentenza
n. 26/1999,  in  cui  dichiara la illegittimita' costituzionale degli
articoli  35  e 69 legge n. 354/197 nella parte in cui non consentono
la   tutela   giurisdizionale   nei   confronti   degli   atti  della
amministrazione  penitenziaria  lesivi dei diritti di coloro che sono
sottoposti  a  restrizione  della  liberta'  personale,  «... valendo
pienamente  la  riserva  di  giurisdizione prevista dall'articolo 13,
comma 2, Costituzione (sentenza n. 349/1993).
    Il  nuovo  codice di procedura penale (articolo 678, in relazione
all'articolo  666)  ha  configurato  il  procedimento  applicativo in
termini sicuramente giurisdizionali, affidandolo alla magistratura di
sorveglianza,  presso  la  quale le posizioni soggettive di quanti si
trovino  a  subire una pena limitativa della liberta' possono trovare
adeguata protezione».
    La Corte costituzionale dimostra di aver abbandonato l'originario
indirizzo  che,  facendo  leva  sul  carattere esecutivo delle misure
prese  nell'ambito  del  «trattamento»  penale  -  secondo le matrici
storiche  dell'ordinamento penitenziario in cui e' stata collocata la
magistratura di sorveglianza -, insisteva sulla natura amministrativa
tanto  delle  misure  stesse  quanto  delle  eventuali  garanzie  che
l'ordinamento penitenziario avesse previsto (fase che dalla ordinanza
n. 87  del 1978, attraverso la sentenza n. 103 del 1984 e l'ordinanza
n. 166 del 1984, giunge fino alla ordinanza n. 77 del 1986).
    La  giurisprudenza  costituzionale  si  e' arricchita, rendendosi
piu'  duttile, attraverso l'accoglimento della distinzione, elaborata
dalla giurisprudenza di legittimita', tra provvedimenti relativi alle
modalita'  dell'esecuzione della pena negli istituti a cio' destinati
-  attratti  nell'area  della  amministrazione  e  dei soli rimedi di
indole  amministrativa  -  e provvedimenti riguardanti la misura e la
qualita'   della   pena,   e  spesso  attinenti  a  momenti  di  vita
extracarceraria,  attratti invece nell'area della giurisdizione, alla
stregua  della  riserva costituzionale di giurisdizione (oltre che di
legge)  vigente  in materia (in proposito, sentenze nn. 349 e 410 del
1993; 227 del 1995).
    Ed  infatti,  la  stessa  Corte,  chiamata  a  pronunciarsi sulla
legittimita' costituzionale del potere amministrativo di sospensione,
per  ragioni  particolari  di  ordine  e sicurezza, dell'applicazione
delle  normali  regole  di trattamento dei detenuti e degli internati
(art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario), con le sentenze nn. 349
e  410  del 1993, 351 del 1996 e 376 del 1997, ha negato rilievo alla
suddetta  distinzione  tra  i  diversi  provvedimenti, sulla base del
riconoscimento  che anche in situazioni di restrizione della liberta'
personale,  sussistono  diritti  che l'ordinamento giuridico protegge
indipendentemente dai caratteri della ipotizzabile lesione.
    Con  la  sentenza  n. 212 del 1997, l'esigenza costituzionale del
riconoscimento  di  un  diritto  d'azione  in  un procedimento avente
caratteri  giurisdizionali  si afferma indipendentemente dalla natura
dell'atto  produttivo  della  lesione,  individuandosi  la sede della
tutela  nella  magistratura  di sorveglianza, magistratura alla quale
spetta,    secondo    l'ordinamento    penitenziario   vigente,   una
tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti e
degli  internati.  Una  garanzia  - e' stato altresi' precisato - che
comporta  il  vaglio  di legittimita' pieno non solo del rispetto dei
presupposti  legislativi  dettati  all'amministrazione per l'adozione
delle   misure,   ma   anche  dei  loro  contenuti,  con  particolare
riferimento  all'incidenza su non comprimibili diritti dei detenuti e
degli  internati,  la  cui  garanzia  rientra  percio',  nel  sistema
attuale, nella giurisdizione del giudice ordinario.
    Oggi,  con il nuovo art. 69-bis l.p. come modificato dall'art. 1,
punto  2  della legge n. 277/2002 ritorna prepotentemente nel sistema
penitenziario  un  rito  procedurale,  che  vede  l'emissione  di una
ordinanza  da  parte del magistrato di sorveglianza adottata senza la
presenza  delle  parti,  alle  quali  solo successivamente sara' data
comunicazione  o  notificazione,  ex  art. 127  c.p.p., o ancor piu',
anche  in assenza del parere del pubblico ministero, se non pervenuto
nei termini di legge prescritti.
    Che  tutto  questo  possa  realizzarsi con un rito procedurale de
plano   appare  contrario  non  solo  allo  spirito  del  legislatore
costituente,  ma  ancor  piu'  a quello del legislatore delegante del
codice  di  procedura  penale  del  1998,  che  tende  alla  completa
giurisdizionalizzazione della fase procedurale della esecuzione della
pena.
    In  presenza delle pronunzie della Corte costituzionale del 1993,
n. 53  e  da  ultima  del  1999,  n. 26,  per non richiamare tutte le
pronunzie in tema di giurisdizionalizzazione del procedimento avverso
l'applicazione  del  regime differenziato con decreto ministeriale ex
art. 41-bis l.p., il novello dettato normativo sembra far precipitare
la  fase  della  esecuzione  della  pena ai tempi in cui prevaleva in
assoluto   la  visione  amministrativistica  della  fase  finale  del
procedimento  penale  e  la  figura  del  magistrato  di sorveglianza
cominciava appena a dare segni di aneliti vitali.
    Ne'  vale  richiamare  la  eventualita'  del contraddittorio, pur
riconosciuta  alle  parti innanzi il tribunale di sorveglianza con la
prevista possibilita' di futuro reclamo.
    La  incidenza  della  pronunzia del magistrato di sorveglianza in
sede  di  rito  de  plano  e'  di  immediata  ricaduta  sullo  status
libertatis  e  nel  caso negativa, come nella circostanza in oggetto,
incide  direttamente  incidente  sulla  durata della carcerazione del
soggetto, se non sulla immediata scarcerazione; in tal caso, a niente
puo'   giovare   il  futuro  contraddittorio  innanzi  il  tribunale,
procedimento  che  nasce  gia'  predestinato  ad intervenire in tempi
assolutamente non brevi.
    Al  di  la'  della  violazione  del  diritto  di  difesa  e delle
considerazioni  procedurali  ad  esso  attinenti, del resto gia' piu'
volte  sottolineate  e fatte proprie dalla Corte costituzionale nelle
sue   pronunzie,   resta   da  considerare  che  la  gia'  dichiarata
illegittimita'   costituzionale  dell'art. 236,  comma  2,  disp.att.
c.p.p.,   nella  parte  in  cui  lasciava  sopravvivere  procedimenti
discordanti  con  il  dettato  degli  articoli 666  e 678 c.p.p., non
consente  la  legittimita'  della  novella  procedura,  priva di quei
requisiti e connotazioni di cui agli stessi articoli 666 e 678 c.p.p.
    In  breve,  la auspicata giurisdizionalizzazione della esecuzione
della pena non sembra consentire la legittima validita' normativa del
novello   art. 69-bis  l.p.,  nella  parte  in  cui  non  prevede  lo
svolgimento  del  procedimento  innanzi al magistrato di sorveglianza
per  la  concessione  della  liberazione  anticipata nel rispetto dei
canoni  processual-costituzionali  di  cui  agli  articoli 666  e 678
c.p.p.
    Letto il parere del p.m.