IL TRIBUNALE A scioglimento della riserva, ha emanato la seguente ordinanza. Rilevato che la presente causa e' stata introdotta dalla ditta Ritorcitura Valsessera di Gianfranco Cortese nei confronti della Escavazione Effetre di R. e S. Filisetti & C. S.n.c. con atto di citazione notificato in data 3 aprile 2003; che in tale atto l'attrice, premesso che la convenuta nella primavera del 2001 ha effettuato su incarico della stessa attrice lavori di sistemazione del terreno e di una scogliera situati nei pressi di un capannone nella zona industriale di Pray Biellese, via Noveis, ma che tali lavori sono stati mal eseguiti (in particolare, il piano di campagna avrebbe assunto una pendenza contraria a quanto previsto, ovvero verso lo stabilimento anziche' verso il lato a monte), ha chiesto la condanna della convenuta al pagamento della somma di Euro 34.955,29, oltre accessori, o di quella maggiore o minore accertanda in corso di causa; che con comparsa depositata in data 18 giugno 2003 si e' costituita la convenuta chiedendo il rigetto della domanda attorea e, in via preliminare, la declaratoria della nullita' della citazione per difetto dei requisiti di cui all'art. 163, terzo comma, nn. 3 e 4 c.p.c.; che con provvedimento del 25 giugno 2003 il g.i. ha rigettato tale eccezione rilevando la completezza della domanda in quanto comprensiva di tutti gli elementi essenziali fra cui la richiesta di risarcimento dei danni consequenziali ai vizi lamentati; che con memoria del 14 aprile 2004 la convenuta, preso atto che, anche in base all'ordinanza di cui sopra, la domanda avversaria deve qualificarsi quale richiesta di risarcimento dei danni, ha rilevato che tale domanda era gia' stata precedentemente proposta dall'attrice nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo pendente fra le stesse parti avanti al Tribunale di Biella (R.G. n. 667/2002) e ha formulato domanda di declaratoria di litispendenza; che effettivamente, come emerge dall'esame degli atti introduttivi di tale causa prodotti dalle parti (docc. 1 e 2 fasc. conv.), con citazione notificata in data 10 maggio 2002 la Ritorcitura Valsessera ha instaurato una causa di opposizione contro il decreto ingiuntivo emanato dal Tribunale di Biella in data 5 aprile 2002 su richiesta della Effetre e con lo stesso atto di opposizione, inoltre, la Ritorcitura Valsessera ha svolto la seguente domanda riconvenzionale: «Condannarsi la ditta opposta al risarcimento dei danni patiti dalla Ritorcitura Valsessera per l'inconveniente denunciato, danni non quantificabili ma da accertarsi in corso di causa» (cfr. doc. 1 fasc. conv.); che, come si evince facilmente dal tenore dell'atto di opposizione, tale riconvenzione riguarda gli stessi fatti della presente causa, atteso che concerne i lavori eseguiti da Effetre per conto della Ritorcitura Valsessera presso il cantiere di Pray Biellese nel corso del 2001 e che il vizio oggetto delle doglianze di quest'ultima (e posto a base della richiesta risarcitoria) e' ancora una volta l'asserito errore nel livellamento del «piano di campagna» che avrebbe assunto pendenza verso lo stabilimento anziche' verso il lato a monte; che da quanto sopra esposto si ricava che entrambe le cause hanno ad oggetto la domanda svolta da Ritorcitura Valsessera nei confronti di Effetre avente ad oggetto il risarcimento dei danni relativi ai vizi (ed in particolare alla errata inclinazione del piano di campagna) sussistenti nell'opera compiuta da quest'ultima; che e' a tal proposito irrilevante la differente posizione assunta da Ritorcitura Valsessera nei due processi in questione (ovvero attrice sic et simpliciter nella presente causa e sostanziale convenuta nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo), atteso che relativamente ad una domanda riconvenzionale il convenuto (in senso sostanziale e/o formale) deve essere considerato, a tutti gli effetti, attore; che anche sotto il profilo del quantum l'oggetto delle due domande formulate da Ritorcitura Valsessera nei due giudizi - contrariamente a quanto sostenuto dalla stessa parte - e' il medesimo, atteso che nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo quest'ultima ha chiesto la condanna di Effetre al pagamento dei «danni non quantificabili ma da accertarsi in corso di causa» mentre nella presente causa ha chiesto la condanna al pagamento della somma di Euro 34.955,29 «o di quell'altra maggiore o minore somma in causa emergenda»; da cio' si evince, quindi, che in entrambi i casi la domanda riguarda il risarcimento dei danni nella misura da accertarsi in corso di causa e che la quantificazione operata nella presente causa ha mero valore indicativo e non limitativo del quantum (come comprovato dalla espressa richiesta anche della condanna al pagamento della «somma maggiore»); che, pertanto, stante l'identita' di parti, petitum e causa petendi le due domande considerate rientrano nella nozione di «stessa causa» di cui agli artt. 39, primo comma, e 273 c.p.c.; che in base alla vigente normativa, atteso che le due cause in questione pendono davanti a due magistrati dello stesso tribunale, l'eccezione di litispendenza sollevata da parte convenuta dovrebbe essere rigettata dovendo invece farsi luogo alla riunione dei procedimenti nelle forme di cui all'art. 273, secondo comma, c.p.c.; Tanto premesso in linea di fatto e con riferimento alla rilevanza della questione, il tribunale ritiene di sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 273 c.p.c. e dell'art. 39 c.p.c. - nella parte in cui non prevede che la litispendenza debba essere pronunciata anche quando i procedimenti relativi alla stessa causa pendono avanti allo stesso giudice (inteso quale ufficio giudiziario) - per i seguenti M o t i v i 1) Sull'illegittimita' dell'art. 273 c.p.c. Il vigente codice di rito impone farsi luogo alla riunione tra i procedimenti quando essi hanno ad oggetto identiche cause le quali pendono avanti ad uno stesso giudice (sia avanti allo stesso magistrato - art. 273, primo comma, c.p.c. - sia avanti a due magistrati dello stesso ufficio - art. 273, secondo comma, c.p.c. -) mentre tutt'altra soluzione e' prevista quando, nella medesima situazione, le cause pendono avanti a due giudici appartenenti a diversi uffici (art. 39, primo comma, c.p.c.). In tale caso, infatti, il giudice successivamente adito definisce il giudizio pronunciando sentenza declaratoria della litispendenza, con la conseguenza che tale causa si esaurisce e le parti (salva l'impugnazione mediante il regolamento di competenza ai sensi dell'art. 42 c.p.c.) potranno far valere i propri diritti solo nel diverso ed autonomo procedimento (cfr. Cass. 20 dicembre 1985, n. 6558). Nessun rilievo puo' essere in tal caso attribuito al fatto che l'art. 39, primo comma, c.p.c. prevede che, contestualmente alla sentenza dichiarativa della litispendenza, il giudice «dispone con ordinanza la cancellazione della causa dal ruolo»: tale ordinanza deve essere intesa come «una (inutile e pleonastica) componente della sentenza» (cfr. ibidem) la quale, secondo i principi generali, definisce il giudizio non generando, pertanto, alcuna situazione di quiescenza (incompatibile con la pronuncia di litispendenza; cfr. Cass. 30 novembre 1967, n. 2853) e non consentendo la prosecuzione del processo attraverso la riassunzione. Sotto il profilo considerato, dunque, l'appartenenza del giudice successivamente adito allo stesso o ad un diverso tribunale rispetto a quello della prima causa determina effetti diametralmente opposti: nel primo caso il processo instaurato per ultimo (il quale, identico al primo, deve considerarsi un vero e proprio «duplicato» di esso) prosegue previa riunione, nel secondo caso e' definito con sentenza e si esaurisce. Tale regime appare del tutto irragionevole e ad avviso del tribunale le norme sopra menzionate devono considerarsi illegittime per contrasto con gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost. poiche', nel caso in cui due cause identiche pendano avanti allo stesso giudice, determinano la prosecuzione (previa riunione) del procedimento instaurato successivamente (e cioe' del mero «duplicato») anziche' prevederne la definizione. In merito a cio' si osserva che, reggendosi il processo civile su un sistema rigido di preclusioni processuali (le principali fra le quali sono costituite dagli artt. 163 e 183, quinto comma, c.p.c. con riferimento alle domande - e, per quanto riguarda la riconvenzione, dall'art. 167, secondo comma, c.p.c. - ; dall'art. 180, secondo comma, c.p.c. con riferimento alle eccezioni non rilevabili d'ufficio; dall'art. 183 c.p.c. con riferimento alle allegazioni e dall'art. 184 c.p.c. con riferimento alla produzione documentale e alle istanze istruttorie relative alle prove costituende), la piu' recente di due cause identiche costituisce in realta' una entita' insuscettibile di svolgere alcun effetto, posto che altrimenti svuoterebbe di significato l'intera struttura processuale consentendo un banale aggiramento di ogni barriera preclusiva eventualmente verificatasi nel precedente giudizio e determinando una grave lesione del diritto di difesa della parte a favore della quale fossero maturate le suddette preclusioni (per inciso si sottolinea che proprio nella fattispecie in questione si e' verificato il - dichiarato - tentativo dell'attrice di aggirare, tramite l'introduzione di una causa costituente un mero «duplicato» di altra precedentemente instaurata, il verificarsi delle preclusioni ivi maturate, atteso che tale parte ha affermato che «Come ben potra' vedere l'Ill.mo Giudicante la Ritorcitura Valsessera non ha poi svolto nella causa precedente, tuttora pendente (...), una specifica istruttoria volta ad ottenere il risarcimento degli ipotetici danni aggiungendo poi che «La presente causa deve intendersi in realta' causa autonoma e distinta laddove sono stati indicati, e verranno ulteriormente indicati, mezzi di prova specifici, situazioni, testimonianze e fatti, con documentazione (...)»; cfr. pagg. 1 e 2 della memoria 14 maggio 2004). In altre parole, la causa successivamente instaurata ad altra identica e' in ogni caso del tutto inutile in quanto se nella prima sono gia' maturate, a carico di una parte, alcune preclusioni le relative facolta' processuali non sono «recuperabili» se non tramite l'applicazione degli istituti a tale scopo previsti (art. 184-bis c.p.c.) all'interno del processo anteriore (mentre naturalmente, se non si fosse verificata alcuna preclusione nel processo primigenio, la situazione non presenterebbe alcun problema poiche' la parte interessata potrebbe - e dovrebbe, nel senso che avrebbe l'onere di - esercitare le relative facolta' in seno al processo in questione). Tale assunto trova una puntuale conferma nell'attuale formulazione dell'art. 39, primo comma, c.p.c. con riferimento a cause pendenti avanti a giudici diversi: il legislatore, infatti, prendendo atto della totale assenza di effetti della causa instaurata successivamente ad altra identica, ne impedisce la prosecuzione, imponendo al giudice da ultimo adito, una volta dimostrata l'identita' delle cause, di pronunciare sentenza definitoria del giudizio. E' del tutto evidente, a tal proposito, che la radicale «eliminazione» del «doppione» processuale sarebbe senza senso qualora esso fosse idoneo a svolgere anche un minimo effetto di qualsiasi tipo. Tutt'altre considerazioni devono, invece, farsi per quanto riguarda la regola dettata dall'art. 273 c.p.c. con riferimento a due cause pendenti davanti allo stesso giudice: in questo caso la causa successiva, ancorche' inutile (il rapporto tra i due procedimenti in questione e' infatti il medesimo sopra descritto, posto che a tal fine l'appartenenza del giudice ad un ufficio piuttosto che ad un altro e' del tutto ininfluente), deve essere riunita alla prima e quindi prosegue inevitabilmente sino alla conclusione di essa. In tal modo l'impianto del codice di rito da' luogo ad una disparita' di soluzioni contrastante con l'art. 3 Cost., essendo irragionevole che un processo privo di effetti (una sorta di «inutile zavorra») sia destinato ad una rapida e definitiva conclusione solo nel caso in cui i due giudici aditi appartengano a diversi uffici, e debba invece inefficacemente protrarsi (e sino alla definizione delle cause riunite, quindi anche per piu' gradi) qualora i due giudici aditi appartengano allo stesso ufficio. Il regime attualmente vigente costituisce, quindi, una illogica eccezione al principio di diritto processuale generale (e codificato nel codice di procedura civile all'art. 187) secondo cui il giudice, una volta constatata la sussistenza di una questione pregiudiziale che rende la causa insuscettibile di giungere ad una decisione sul merito, puo' e deve adottare strumenti di rapida definizione del giudizio emettendo una pronuncia sul rito. Per lo stesso motivo la prosecuzione, previa riunione, della causa dettata dall'art. 273 c.p.c. viola anche il principio costituzionale della ragionevole durata dei processi di cui all'art. 111, secondo comma, Cost., in quanto la protrazione di una causa insuscettibile di svolgere alcun effetto non e' giustificata da alcun motivo. 2) Sull'illegittimita' dell'art. 39 c.p.c. Si rende ora necessario individuare la disciplina applicabile ove fosse dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 273 c.p.c. di cui al par. precedente. In base a quanto sopra esposto appare evidente che l'unica soluzione possibile (poiche' coerente sia con i dettami costituzionali sia con i principi generali del processo; cfr. par. prec.) deve essere quella di consentire al giudice adito successivamente di pronunciare sentenza definitoria della causa. E tale pronuncia sul rito non puo' essere costituita che dalla declaratoria di litispendenza, istituto previsto dal legislatore proprio per il caso di sussistenza di due cause identiche. Tuttavia, come sopra gia' evidenziato, l'art. 39, primo comma, c.p.c. limita espressamente l'applicabilita' di tale istituto al caso in cui la stessa causa sia proposta avanti a «giudici diversi», espressione che, come chiarito dalla costante giurisprudenza (sia di merito che di legittimita), si riferisce a giudici appartenenti a diversi uffici giudiziari rendendo cosi' tale disposizione inapplicabile quando i giudizi pendano avanti a giudici dello stesso tribunale. Ne consegue che, una volta esclusa (per effetto della eventuale dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 273 c.p.c. da parte della Corte adita) la via della prosecuzione, previa riunione, del «duplicato» processuale, non sussisterebbe nell'ordinamento altra norma utilizzabile per addivenire alla pronuncia sul rito in questione (ovvero la litispendenza), atteso che la regola di cui all'art. 39, primo comma, c.p.c., stante l'espressa limitazione ivi enunciata, non potrebbe estendersi oltre i casi in essa considerati. Per tale motivo, pertanto, si ritiene che anche l'art. 39, primo comma, c.p.c. sia costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost. (per le medesime ragioni enunciate nel par. precedente) ove non prevede che il giudice pronunci la litispendenza anche nel caso in cui le due cause identiche pendano avanti allo stesso giudice (ovvero ove si tratti di due magistrati appartenenti allo stesso ufficio). In conclusione, posto le vigenti norme non consentono in alcun modo di emettere la pronuncia di litispendenza richiesta da parte convenuta, mentre impongono (quale unica pronuncia possibile) di disporre la riunione fra le cause, con l'effetto di far proseguire un processo inidoneo a svolgere alcun effetto, si rende necessario sollevare la questione di costituzionalita' nei termini sopra specificati.