IL GIUDICE DI PACE Letti gli atti del procedimento penale recante n. 104410/2003 R.G.N.R. Mod. 21-bis e n. 270/2003 R.G.Dib. a carico di Festinese Vincenzo, nato a Napoli il 12 luglio 1942, imputato dei reati p. e p. dagli artt. 81 cpv., 594, 612, 582 c.p. in danno di Barbato Alfonso; Udite le conclusioni delle parti, in particolare la richiesta di condanna dell'imputato formulata dal p.m. di udienza; Letto l'art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274/2000; Letto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; All'esito della camera di consiglio ha pronunziato la seguente ordinanza. F a t t o Con atti di querela del 6 febbraio 2003 e del 9 febbraio 2003 Barbato Alfonso esponeva che, mentre procedeva a lavori di ristrutturazione della propria abitazione ubicata in Napoli al Vico Cangiani n. 203, era stato piu' volte importunato da Festinese Vincenzo, abitante nello stesso stabile, e precisamente nell'appartamento sottostante al suo, giacche' i lavori recavano disturbo alla moglie del Festinese, malata di cancro in fase terminale. Il querelante esponeva che il Festinese lo aveva ingiuriato, minacciato e colpito con una bottiglia di plastica ricolma d'acqua, provocandogli lesioni al viso, guaribili in giorni dieci, come da referto n. 2014 del 6 febbraio 2003, rilasciato dalla A.S.L. Napoli 1 - Presidio ospedaliero Vecchio Pellegrini. Su autorizzazione del p.m. presso la Procura di Napoli, la p.g. provvedeva a citare a giudizio l'imputato dinanzi a questo giudice di pace per l'udienza del 24 luglio 2003. Il giudicante intende evidenziare che il querelante non si e' costituito parte civile, ed ha di fatto abbandonato il giudizio, come spesso accade nei processi innanzi al giudice di pace per i reati perseguibili a querela. Tali comportamenti delle parti offese causano gravi difficolta' all'Ufficio giudicante, in quanto nella fase processuale non costituiscono remissione tacita di querela (art. 152 c.p.). E' emerso, intanto, dall'istruttoria dibattimentale che la moglie dell'imputato effettivamente e' deceduta poco tempo dopo, come del resto riferito dallo stesso querelante nell'istanza di punizione, e che inutilmente, durante l'esecuzione dei lavori, il Festinese aveva invitato il Barbato ad evitare rumori eccessivi, che la moglie malata non riusciva a sopportare. Ogni tentativo di mediazione tra le parti per indurle ad una conciliazione non e' risultato piu' possibile, neppure ricorrendo all'accompagnamento coattivo della parte offesa, in quanto la stessa e' risultata sloggiata all'indirizzo anagrafico, e non piu' rintracciabile. D i r i t t o Ripugna alla coscienza di questo giudice pronunziare una condanna per i reati contestati all'imputato, il quale ebbe ad agire in una particolare situazione psicologica, turbato dalle gravi condizioni di salute della moglie. Indubbiamente l'art. 52 d.lgs. n. 274/2000, con la concessione delle circostanze attenuanti generiche e con l'applicazione dell'art. 81 cpv. c.p., consentirebbe al giudicante di applicare una pena pecuniaria contenuta nel minimo, ma tratterebbesi pur sempre di pena criminale, ingiustamente stigmatizzante un soggetto, che ha agito nelle particolarissime condizioni sopra descritte. Ritiene il giudicante che la soluzione definitoria equa, nel caso di specie, sia costituita da sentenza di non luogo a procedere per particolare tenuita' del fatto ex art. 34, d.lgs. n. 274/2000. In effetti, il fatto sussiste in pieno nella sua materialita', ma sussistono altresi' le caratteristiche tipiche dell'istituto: 1) il danno risulta tenue: la lesione del bene giuridico protetto (l'integrita' della persona) risulta molto limitata, in quanto il soggetto passivo del reato ha riportato lesioni guarite nel decimo giorno; 2) il grado della colpevolezza risulta esiguo: trattasi, nella specie, di dolo d'impeto, nato dall'ingiusto rifiuto altrui di eseguire i lavori in forma meno rumorosa, e determinato altresi' dall'affectio coniugalis; 3) l'occasionalita' del comportamento; 4) il pregiudizio derivante dalla condanna penale, sia pure a mera pena pecuniaria, alla vita di relazione di un cittadino dalla condotta normale. Purtroppo questo giudice e' impossibilitato a pronunziare sentenza ex art. 34, d.lgs. n. 274/2000 in quanto il legislatore ha subordinato tale possibilita', nella fase del giudizio, al duplice consenso della persona offesa e dell'imputato. Va immediatamente evidenziato la diversa disciplina che, senza giustificazione, il legislatore ha previsto nel corso delle indagini preliminari (art. 34, comma 2, d.lgs. n. 274/2000), e nella fase dibattimentale (art. 34, comma 3). Nel corso delle indagini preliminari il giudice di pace circondariale in funzione di g.i.p., pronunzia decreto di archiviazione quando «non risulta un interesse della parte offesa alla prosecuzione del procedimento». Giova ricordare che l'art. 34, d.lgs. n. 274/2000 deriva dall'art. 27, d.P.R. n. 448/1988, testo che disciplina il processo a carico degli imputati minorenni. Nel processo minorile fu introdotta questa formula definitoria, mutuata dall'ordinamento penale dei Paesi del cosiddetto ex socialismo reale, di indubbia natura sostanzialistica, in quanto considera violazione di legge non il fatto commesso che integra nella realta' la fattispecie criminosa astrattamente prevista dalla norma (nulla poena sine lege) ma il fatto che, concretamente, abbia arrecato danno (nulla poena sine periculo sociali). L'istituto ha offerto ottima prova nel processo minorile (ove si prescinda dalla sentenza della Corte costituzionale n. 250/1991 che ne dichiaro' l'illegittimita' per eccesso di delega, consentendo, in tal modo, la reintroduzione della irrilevanza del fatto con la legge n. 123/1992), di talche' con la legge n. 479/1999 (c.d. Carotti) il Governo proponeva di introdurre l'istituto anche nel processo ordinario a carico degli imputati maggiorenni, in caso di pena detentiva non superiore nel massimo a 3 anni. Stralciata dal testo definitivo, l'istituto e' stato poi recepito nel processo penale dinanzi al giudice di pace all'art. 34, del d.lgs. n. 274/2000. La disciplina prevista per l'applicazione dell'istituto nel corso delle indagini preliminari e' speculare all'art. 27, d.P.R n. 448/1988, disciplinante il processo minorile, ed e' in linea con la fondamentale sentenza n. 88/1991 della Corte costituzionale. Nel rito minorile il g.i.p., nel corso di udienza camerale, alla quale possono partecipare, se vi hanno interesse, l'indagato minorenne, gli esercenti la potesta' sullo stesso, il difensore, il p.m. e la parte offesa - ove il minore sottoposto alle indagini non rifiuti il beneficio, richiedendo il giudizio per ottenere una formula pienamente liberatoria, e ove la persona offesa non dimostri la diversa portata, in termini di rilevanza del danno, del fatto per cui si procede - pronunzia sentenza di N.L.P. per irrilevanza del fatto in conformita' alla richiesta del p.m. Analogamente, nel procedimento dinanzi al giudice di pace, nel corso delle indagini preliminari, il g.i.p. pronunzia decreto di archiviazione, su richiesta del p.m., ove l'imputato non richieda il giudizio e la persona offesa dichiari di non essere piu' interessata alla celebrazione dello stesso. Va rilevato che in entrambi i casi, rappresentando sia l'art. 27, d.P.R. n. 448/1988 che l'art. 34, d.lgs. n. 274/2000 formule che dichiarano l'estinzione del reato, senza esclusione della penale responsabilita', ma con rinunzia all'esercizio dell'azione penale per il disvalore minimo del fatto commesso, la parte offesa potra' legittimamente agire per il riconoscimento dei suoi interessi civili, nel primo caso contro gli esercenti la potesta' sul minore, nel secondo contro il maggiorenne autore del reato. I principi stabiliti dalla fondamentale sentenza n. 88/1991 della Corte costituzionale, che afferma che «azione penale obbligatoria non significa consequenzialita' automatica tra notizia di reato e processo ne' dovere del p.m. di iniziare il processo per qualsiasi notitia criminis [giacche] limite implicito alla stessa obbligatorieta' razionalmente intesa e' che il processo non debba essere instaurato quando si palesi oggettivamente superfluo» risultano rispettati in entrambi i casi, in quanto il controllo sulla richiesta del p.m. di pronunzia di N.L.P. e' operato dal giudice terzo nel contraddittorio tra tutte le parti. Quando l'azione penale e' stata esercitata, il comma 3, dell'art. 34, d.lgs. n. 274/2000 stabilisce che «la particolare tenuita' del fatto puo' essere dichiarata con sentenza solo se l'imputato e la parte offesa non si oppongono». Prima facie la norma sembra riferirsi ad un momento determinato del processo dinanzi al giudice di pace, quello costituito dall'udienza di comparizione (art. 29, d.lgs. n. 274/2000), nel corso della quale il giudice, prima dell'apertura del dibattimento, promuove la conciliazione tra le parti. Pur nella necessaria semplicita' del modulo processuale adottato dal legislatore, sarebbe stato opportuno che lo stesso avesse separato il momento rappresentato dall'udienza di comparizione da quello successivo del dibattimento, in quanto, pur essendo ex lege inutilizzabili le dichiarazioni rese dalle parti in questa fase, il giudice meno accorto e prudente puo' essere condizionato negativamente dal comportamento delle stesse. In effetti, l'udienza di comparizione richiama - in potenza o in embrione - l'udienza preliminare del processo ordinario. Il legislatore avrebbe potuto affidare piu' accortamente al g.i.p. tale fase, con il passaggio degli atti al giudice del dibattimento per l'ulteriore corso, in caso di mancata conciliazione tra le parti. L'interpretazione razionale sembra dunque rapportare la disposizione del terzo comma dell'art. 34 al momento conciliativo, nel corso del quale la volonta' delle parti private e' decisiva (non a caso non viene citata la posizione del p.m.). Tuttavia dalla Relazione del Governo al d.lgs. n. 274/2004 emerge chiaramente che il legislatore delegato ha considerato l'istituto previsto dall'art. 34 come una condizione di procedibilita': «Dopo l'esercizio dell'azione penale la declaratoria di improcedibilita' e' subordinata all'esistenza della "non opposizione" della persona offesa e dell'imputato. La non opposizione della persona offesa costituisce il pendant del suo interesse ad ottenere una sentenza, che non puo' certo essere estromesso una volta che vi sia stato l'esercizio dell'azione penale. Quanto alla posizione dell'imputato, si e' previsto che egli possa opporsi e conseguentemente rinunziare alla causa di improcedibilita', in vista di un esito piu' favorevole nel merito» (cfr. Relazione, par. 6). E' quindi certo che, dopo il rinvio a giudizio, il mancato consenso delle parti private e' ostativo alla definizione ex art. 34, e che, per di piu', il consenso delle stesse non puo' essere desunto per acta concludentia, come nella fase delle indagini preliminari, ma deve essere manifestato in forma espressa. Il legislatore, nel subordinare la pronunzia della sentenza dibattimentale ex art. 34 d.lgs. n. 274/2000 al consenso dell'imputato e della parte offesa, ha violato numerosi principi costituzionali e nel considerare l'istituto disciplinato dall'art. 34, d.lgs. n. 274/2000 come condizione di procedibilita', ha operato una scelta inficiata dalla irragionevolezza. Sulla base di tale scelta, l'art. 34, d.lgs. n. 274/2000 viene ad aggiungersi, ex art. 345, comma secondo c.p.p., alle quattro condizioni di procedibilita' previste dal codice di rito (querela artt. 336 - 340, istanza di procedimento art. 341, richiesta di procedimento art. 342, autorizzazione a procedere artt. 343 - 344). A seguito di tale scelta legislativa, l'istituto introdotto dall'art. 34, d.lgs. n. 274/2000 finisce per diventare un inutile doppione dell'istituto della remissione di querela, per cui alcuni giudici di pace, nell'impossibilita' pratica di applicare l'irrilevanza ai reati perseguibili a querela, hanno finito per decidere in base a tale norma processi avente ad oggetto reati, quali la guida in stato di ebbrezza (art. 186 c.d.s.) o la mancata osservanza dell'obbligo di fermarsi (art. 189 c.d.s.), che sono condotte che mettono in pericolo la pubblica incolumita', e non certo di particolare tenuita', causando la giusta reazione del legislatore, che con le leggi nn. 75/2003 e 214/2003 ha riattribuito tali fattispecie alla competenza del Tribunale in composizione monocratica. In realta' l'istituto previsto dall'art. 34, d.lgs. n. 274/2000 non e' di natura processuale, ma di natura sostanziale; costituisce una formula definitoria autonoma, dichiarativa dell'estinzione del reato, o, come preferisce parte della dottrina, di estinzione della punibilita', con rinunzia da parte dello Stato ad esercitare lo ius puniendi e ad assoggettare il colpevole alla pena. La natura sostanzialistica dell'istituto emerge con evidenza nel processo a carico di imputati minorenni, nel quale, dopo l'esercizio dell'azione penale, sia nella fase dell'udienza preliminare (ex art. 32, d.P.R. n. 448/1988, cosi' come modificato dall'art. 22, legge n. 63/2001) che all'esito del giudizio abbreviato o del dibattimento (Corte cost. sent. n. 149/2003 o dell'appello, la pronunzia e' svincolata del consenso di tutte le parti. Per di piu' l'art. 27, d.P.R. n. 448/1988 e' applicabile ad una serie di reati molto vasta, laddove ex art. 4, d.lgs. n. 274/2000 sono definibili con la formula della particolare tenuita' del fatto solo le limitate fattispecie devolute alla competenza del giudice di pace. L'avere disciplinato l'istituto di cui all'art. 34, d.lgs. n. 274/2000 come condizione di procedibilita' comporta le seguenti violazioni dei principi costituzionali: 1) Violazione dell'art. 101 Cost., il quale stabilisce che il giudice e' soggetto soltanto alla legge. Non e' possibile, pertanto, sottoporre la decisione del giudice al consenso delle parti. Il giudice e' la «bouche de la loi», e' chiamato ad applicare la legge secondo scienza e coscienza, deve poterla interpretare nella massima estensione possibile, attribuendo alle espressioni il significato nella loro massima espansione e ricorrendo all'analogia ove ammessa dall'ordinamento. Irrazionale e' la pretesa del legislatore di subordinare al consenso dell'imputato o della parte offesa, dopo l'apertura del dibattimento, la pronunzia definitoria ex art. 34, d.lgs. n. 274/2000; il giudice deve poterla liberamente applicare, se ritiene che, in base all'emergenza processuale, tale formula sia la piu' adatta e proporzionata alla definizione del fatto concreto, in sintesi, cioe', che essa realizzi l'equita' in senso lato. Non puo' essere attribuito all'imputato, una volta aperto il procedimento, il potere di opporsi alla definizione ritenuta idonea dal giudice, giacche' la stessa deve essere liberamente adottata all'esito del processo (tale potere, nella convinzione di ottenere una soluzione piu' favorevole, puo' essere espresso solo in via preliminare, con la rinunzia, ad esempio, all'applicazione degli istituti dell'amnistia o della prescrizione). L'imputato all'esito, ove ritenga la decisione a lui sfavorevole, ha solo il diritto di impugnazione. Analogamente appare irrazionale la scelta di subordinare la decisione al consenso della parte offesa. Nel corso del processo e' irrazionale la richiesta di consenso, giacche' la parte offesa o la parte civile nel processo penale hanno la mera pretesa civilistica al risarcimento del danno, e, di conseguenza, un interesse mediato all'affermazione della penale responsabilita' del prevenuto. Tali parti non hanno, tuttavia, il diritto di determinare la definizione; d'altronde la sentenza di N.L.P. per particolare tenuita' del fatto, come tutte le sentenze che dichiarano l'estinzione del reato (ad esempio, amnistia, prescrizione, perdono giudiziale, remissione di querele, morte del reo ...), non sono preclusive all'esercizio dell'azione di risarcimento del danno. Ne' puo' essere richiamato il potere concesso alla persona offesa di rimettere la querela, in qualunque stato del processo, con il solo limite della irrevocabilita' della sentenza, e dell'imputato di accettare la remissione: i reati perseguibili a querela costituiscono un numerus clausus per scelta del legislatore. In tali casi la persona offesa deve solo decidere se rimuovere o meno una condizione di procedibilita' dell'azione penale, e l'imputato se accettare la remissione: le parti operano solo una valutazione di opportunita', sulla base dei loro interessi. L'attuale disciplina dell'art. 34, comma terzo, d.lgs. n. 274/2000 demanda in modo abnorme alla parte offesa la valutazione della fatto-reato, che puo' essere operata solo dal giudicante, e pone in capo all'imputato un abnorme veto rispetto alla decisione del giudice. E' evidente che tale disciplina abbisogna di un intervento correttivo che, riportando a natura sostanzialistica l'istituto dell'art. 34, da un lato eviti di riprodurre il meccanismo della querela, dall'altro ne consenta l'applicazione in modo equo e sulla base del libero convincimento del giudicante. D'altronde la decisione del giudice non e' mai condizionata nel nostro ordinamento, neppure nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 444 c.p.p.) in quanto, fatto salvo il potere di controllo sulla qualificazione giuridica del fatto, sul calcolo della pena e sulla comparazione delle circostanze, restano ferme le possibilita' di rigetto della richiesta, da un lato ex art. 129 c.p.p., o dall'altro perche' la pena non appare congrua. Che il giudice debba essere libero nelle sue determinazioni e' stato gia' statuito dalla sentenza n. 4/1992 della Corte costituzionale, la quale, investita del giudizio di legittimita' dell'art. 291, comma 1-bis c.p.p. (successivamente abrogato) che vincolava il g.i.p., nella scelta delle misure cautelari, a quella indicata in via esclusiva dal p.m., affermo' la legittimita' di tale norma, in quanto rimaneva al giudice la possibilita' alternativa di rimettere in liberta' l'imputato. Il consenso delle parti viola, inoltre il principio del libero convincimento, che caratterizza il processo penale. Mentre nel processo civile sono ammissibili limiti alla prova (art. 2731 c.c.) o presunzioni o decisioni vincolate, ad esempio, all'esito del giuramento decisorio (art. 233 c.p.c.), nel processo penale il giudice deve poter valutare, secondo il libero convincimento, le prove, con una discrezionalita' che e' vincolata solo, in caso di affermazione di penale responsabilita', dagli artt. 133 e 133-bis c.p., quanto alla specie e all'entita' della pena. 2) Violazione dell'art. 76 Cost. per eccesso di delega. La norma in questione viola anche l'art. 76 della Cost., perche' la legge 24 novembre 1999, n. 468 - Delega ai Governo in materia di competenza penale dei giudice pace, all'art. 17; - Procedimento penale davanti al giudice di pace, lett. f), dispone testualmente: «introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuita' del fatto e di occasionalita' della condotta, quando l'ulteriore corso del procedimento puo' pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato». La norma non contiene alcun riferimento al consenso delle parti, che, al contrario il legislatore delegato ha inteso irrazionalmente introdurre. L'irrazionalita' della disposizione emerge anche dal confronto con l'art 35, d.lgs. n. 274/2000, che consente al giudice di pace di dichiarare estinto il reato a seguito di tenuta di condotte riparatorie, che egli puo' valutare congrue, indipendentemente dalla richiesta e dal consenso delle parti. 3) Violazione dell'art. 3 Cost. E' evidente la disparita' di trattamento tra imputati maggiorenni e imputati minorenni con conseguente violazione dell'art. 3 Cost., in quanto, come sopra menzionato, nel processo a carico di imputati minorenni l'art. 27 costituisce una formula definitoria svincolata sia dal consenso della parte pubblica, che della persona offesa, la quale, pur non potendo costituirsi parte civile, puo' tuttavia essere presente per l'esercizio dei poteri di cui all'art. 90 c.p.p., deducendo elementi di prova che escludano il minimo disvalore del fatto commesso, e dell'imputato, il quale, ove non ritenga giusta tale formula definitoria, puo' proporre impugnazione. Pur considerando che il favor minoris e' un principio fondamentale del nostro ordinamento, e di rango costituzionale, non e' possibile ammettere una disparita' di trattamento di tale portata a sfavore dell'imputato maggiorenne, che vede subordinata la decisione del giudicante al consenso della persona offesa. 4) Violazione dell'art. 24 Cost. Sia i poteri della difesa della persona offesa - o della parte civile, che quelli della difesa dell'imputato vengono ad essere delimitati da reciproci consensi, quasi non si trattasse di processo penale tendente all'accertamento della verita' sul fatto-reato, ma di un contenzioso civilistico da definire sulla base di accordi transattivi. 5) Violazione dell'art. 111 Cost., in quanto la terzieta' del giudice viene condizionata dalla necessita' del consenso delle parti; terzieta' significa, al contrario, indipendenza dalle parti e discrezionalita' delle decisioni, sia pure nei limiti sopra indicati (artt. 133 e 133-bis c.p.p.). 6) Violazione dell'art. 27 Cost., in quanto il giudice di pace, nel caso di mancato consenso, nel giudicare un fatto che, pur sussistendo nella sua materialita', ha tuttavia arrecato un minimo danno, non puo' che pronunziare sentenza di condanna, sia pure a pena pecunaria, violando cosi' il principio della meritevolezza e della proporzione della pena, che sono i presupposti essenziali perche' la stessa possa svolgere la sua funzione educativa e non rilevi, al contrario, un boomerang che spinga per reazione il soggetto, che si percepisce ingiustamente condannato, ad ulteriori violazioni delle norme.