IL GIUDICE DI PACE

    Letti  gli  atti  del  procedimento penale recante n. 104410/2003
R.G.N.R.  Mod.  21-bis  e  n. 270/2003 R.G.Dib. a carico di Festinese
Vincenzo, nato a Napoli il 12 luglio 1942, imputato dei reati p. e p.
dagli artt. 81 cpv., 594, 612, 582 c.p. in danno di Barbato Alfonso;
    Udite  le conclusioni delle parti, in particolare la richiesta di
condanna dell'imputato formulata dal p.m. di udienza;
    Letto l'art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274/2000;
    Letto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
    All'esito  della  camera  di consiglio ha pronunziato la seguente
ordinanza.

                              F a t t o

    Con  atti  di  querela  del 6 febbraio 2003 e del 9 febbraio 2003
Barbato   Alfonso   esponeva   che,  mentre  procedeva  a  lavori  di
ristrutturazione  della  propria abitazione ubicata in Napoli al Vico
Cangiani  n. 203,  era  stato  piu'  volte  importunato  da Festinese
Vincenzo,    abitante    nello   stesso   stabile,   e   precisamente
nell'appartamento  sottostante  al  suo,  giacche'  i lavori recavano
disturbo  alla  moglie  del  Festinese,  malata  di  cancro  in  fase
terminale.
    Il  querelante  esponeva  che  il  Festinese lo aveva ingiuriato,
minacciato  e  colpito con una bottiglia di plastica ricolma d'acqua,
provocandogli  lesioni  al  viso,  guaribili in giorni dieci, come da
referto n. 2014 del 6 febbraio 2003, rilasciato dalla A.S.L. Napoli 1
- Presidio ospedaliero Vecchio Pellegrini.
    Su  autorizzazione  del p.m. presso la Procura di Napoli, la p.g.
provvedeva a citare a giudizio l'imputato dinanzi a questo giudice di
pace per l'udienza del 24 luglio 2003.
    Il  giudicante  intende  evidenziare  che il querelante non si e'
costituito parte civile, ed ha di fatto abbandonato il giudizio, come
spesso  accade  nei  processi  innanzi al giudice di pace per i reati
perseguibili a querela.
    Tali  comportamenti  delle parti offese causano gravi difficolta'
all'Ufficio   giudicante,   in  quanto  nella  fase  processuale  non
costituiscono remissione tacita di querela (art. 152 c.p.).
    E' emerso, intanto, dall'istruttoria dibattimentale che la moglie
dell'imputato  effettivamente  e'  deceduta poco tempo dopo, come del
resto  riferito  dallo stesso querelante nell'istanza di punizione, e
che  inutilmente, durante l'esecuzione dei lavori, il Festinese aveva
invitato il Barbato ad evitare rumori eccessivi, che la moglie malata
non riusciva a sopportare.
    Ogni  tentativo  di  mediazione  tra  le parti per indurle ad una
conciliazione  non  e'  risultato  piu' possibile, neppure ricorrendo
all'accompagnamento  coattivo della parte offesa, in quanto la stessa
e'   risultata   sloggiata   all'indirizzo  anagrafico,  e  non  piu'
rintracciabile.

                            D i r i t t o

    Ripugna alla coscienza di questo giudice pronunziare una condanna
per  i  reati  contestati all'imputato, il quale ebbe ad agire in una
particolare situazione psicologica, turbato dalle gravi condizioni di
salute della moglie.
    Indubbiamente  l'art. 52  d.lgs.  n. 274/2000, con la concessione
delle   circostanze   attenuanti   generiche   e  con  l'applicazione
dell'art. 81  cpv. c.p., consentirebbe al giudicante di applicare una
pena  pecuniaria contenuta nel minimo, ma tratterebbesi pur sempre di
pena  criminale,  ingiustamente  stigmatizzante  un  soggetto, che ha
agito nelle particolarissime condizioni sopra descritte.
    Ritiene il giudicante che la soluzione definitoria equa, nel caso
di  specie,  sia  costituita da sentenza di non luogo a procedere per
particolare tenuita' del fatto ex art. 34, d.lgs. n. 274/2000.
    In effetti, il fatto sussiste in pieno nella sua materialita', ma
sussistono altresi' le caratteristiche tipiche dell'istituto:
        1) il  danno  risulta  tenue:  la  lesione del bene giuridico
protetto  (l'integrita'  della  persona)  risulta  molto limitata, in
quanto il soggetto passivo del reato ha riportato lesioni guarite nel
decimo giorno;
        2) il  grado  della  colpevolezza  risulta  esiguo: trattasi,
nella  specie, di dolo d'impeto, nato dall'ingiusto rifiuto altrui di
eseguire  i  lavori  in  forma  meno rumorosa, e determinato altresi'
dall'affectio coniugalis;
        3) l'occasionalita' del comportamento;
        4) il pregiudizio derivante dalla condanna penale, sia pure a
mera  pena  pecuniaria,  alla vita di relazione di un cittadino dalla
condotta normale.
    Purtroppo   questo   giudice  e'  impossibilitato  a  pronunziare
sentenza  ex  art. 34, d.lgs. n. 274/2000 in quanto il legislatore ha
subordinato  tale  possibilita',  nella fase del giudizio, al duplice
consenso della persona offesa e dell'imputato.
    Va  immediatamente  evidenziato  la diversa disciplina che, senza
giustificazione,  il legislatore ha previsto nel corso delle indagini
preliminari  (art. 34,  comma  2,  d.lgs.  n. 274/2000), e nella fase
dibattimentale (art. 34, comma 3).
    Nel   corso   delle  indagini  preliminari  il  giudice  di  pace
circondariale   in   funzione   di   g.i.p.,   pronunzia  decreto  di
archiviazione  quando  «non  risulta  un interesse della parte offesa
alla prosecuzione del procedimento».
    Giova   ricordare   che   l'art. 34,  d.lgs.  n. 274/2000  deriva
dall'art.  27, d.P.R. n. 448/1988, testo che disciplina il processo a
carico degli imputati minorenni.
    Nel  processo  minorile fu introdotta questa formula definitoria,
mutuata   dall'ordinamento   penale   dei  Paesi  del  cosiddetto  ex
socialismo  reale,  di  indubbia  natura  sostanzialistica, in quanto
considera violazione di legge non il fatto commesso che integra nella
realta'  la  fattispecie criminosa astrattamente prevista dalla norma
(nulla  poena  sine  lege)  ma  il  fatto  che,  concretamente, abbia
arrecato danno (nulla poena sine periculo sociali).
    L'istituto  ha offerto ottima prova nel processo minorile (ove si
prescinda  dalla  sentenza della Corte costituzionale n. 250/1991 che
ne  dichiaro' l'illegittimita' per eccesso di delega, consentendo, in
tal  modo, la reintroduzione della irrilevanza del fatto con la legge
n. 123/1992),  di  talche' con la legge n. 479/1999 (c.d. Carotti) il
Governo   proponeva  di  introdurre  l'istituto  anche  nel  processo
ordinario  a  carico  degli  imputati  maggiorenni,  in  caso di pena
detentiva non superiore nel massimo a 3 anni.
    Stralciata dal testo definitivo, l'istituto e' stato poi recepito
nel  processo  penale  dinanzi  al  giudice  di pace all'art. 34, del
d.lgs. n. 274/2000.
    La disciplina prevista per l'applicazione dell'istituto nel corso
delle   indagini   preliminari   e'   speculare   all'art. 27,  d.P.R
n. 448/1988,  disciplinante  il processo minorile, ed e' in linea con
la fondamentale sentenza n. 88/1991 della Corte costituzionale.
    Nel  rito minorile il g.i.p., nel corso di udienza camerale, alla
quale   possono   partecipare,  se  vi  hanno  interesse,  l'indagato
minorenne,  gli  esercenti la potesta' sullo stesso, il difensore, il
p.m.  e  la parte offesa - ove il minore sottoposto alle indagini non
rifiuti  il  beneficio,  richiedendo  il  giudizio  per  ottenere una
formula  pienamente liberatoria, e ove la persona offesa non dimostri
la  diversa portata, in termini di rilevanza del danno, del fatto per
cui  si  procede  -  pronunzia sentenza di N.L.P. per irrilevanza del
fatto in conformita' alla richiesta del p.m.
    Analogamente,  nel  procedimento  dinanzi al giudice di pace, nel
corso  delle  indagini  preliminari,  il  g.i.p. pronunzia decreto di
archiviazione,  su richiesta del p.m., ove l'imputato non richieda il
giudizio  e la persona offesa dichiari di non essere piu' interessata
alla celebrazione dello stesso.
    Va rilevato che in entrambi i casi, rappresentando sia l'art. 27,
d.P.R.  n. 448/1988  che  l'art. 34,  d.lgs.  n. 274/2000 formule che
dichiarano  l'estinzione  del  reato,  senza  esclusione della penale
responsabilita', ma con rinunzia all'esercizio dell'azione penale per
il  disvalore  minimo  del  fatto  commesso,  la  parte offesa potra'
legittimamente agire per il riconoscimento dei suoi interessi civili,
nel  primo  caso  contro  gli  esercenti  la potesta' sul minore, nel
secondo contro il maggiorenne autore del reato.
    I principi stabiliti dalla fondamentale sentenza n. 88/1991 della
Corte costituzionale, che afferma che «azione penale obbligatoria non
significa   consequenzialita'  automatica  tra  notizia  di  reato  e
processo  ne'  dovere  del p.m. di iniziare il processo per qualsiasi
notitia    criminis    [giacche]   limite   implicito   alla   stessa
obbligatorieta'  razionalmente  intesa  e'  che il processo non debba
essere   instaurato   quando   si  palesi  oggettivamente  superfluo»
risultano rispettati in entrambi i casi, in quanto il controllo sulla
richiesta  del  p.m.  di  pronunzia  di N.L.P. e' operato dal giudice
terzo nel contraddittorio tra tutte le parti.
    Quando l'azione penale e' stata esercitata, il comma 3, dell'art.
34,  d.lgs.  n. 274/2000  stabilisce che «la particolare tenuita' del
fatto  puo'  essere  dichiarata  con sentenza solo se l'imputato e la
parte offesa non si oppongono».
    Prima  facie  la norma sembra riferirsi ad un momento determinato
del   processo   dinanzi   al  giudice  di  pace,  quello  costituito
dall'udienza di comparizione (art. 29, d.lgs. n. 274/2000), nel corso
della   quale  il  giudice,  prima  dell'apertura  del  dibattimento,
promuove la conciliazione tra le parti.
    Pur  nella necessaria semplicita' del modulo processuale adottato
dal  legislatore,  sarebbe  stato  opportuno  che  lo  stesso  avesse
separato  il  momento  rappresentato  dall'udienza di comparizione da
quello  successivo  del  dibattimento, in quanto, pur essendo ex lege
inutilizzabili  le  dichiarazioni rese dalle parti in questa fase, il
giudice   meno   accorto   e   prudente   puo'   essere  condizionato
negativamente dal comportamento delle stesse.
    In  effetti, l'udienza di comparizione richiama - in potenza o in
embrione - l'udienza preliminare del processo ordinario.
    Il  legislatore  avrebbe  potuto  affidare  piu'  accortamente al
g.i.p.  tale  fase,  con  il  passaggio  degli  atti  al  giudice del
dibattimento  per l'ulteriore corso, in caso di mancata conciliazione
tra le parti.
    L'interpretazione   razionale   sembra   dunque   rapportare   la
disposizione  del  terzo  comma dell'art. 34 al momento conciliativo,
nel  corso del quale la volonta' delle parti private e' decisiva (non
a caso non viene citata la posizione del p.m.).
    Tuttavia dalla Relazione del Governo al d.lgs. n. 274/2004 emerge
chiaramente  che  il  legislatore  delegato ha considerato l'istituto
previsto  dall'art. 34  come  una condizione di procedibilita': «Dopo
l'esercizio dell'azione penale la declaratoria di improcedibilita' e'
subordinata  all'esistenza  della  "non  opposizione"  della  persona
offesa  e  dell'imputato.  La  non  opposizione  della persona offesa
costituisce  il  pendant  del suo interesse ad ottenere una sentenza,
che  non  puo'  certo  essere  estromesso  una volta che vi sia stato
l'esercizio dell'azione penale.
    Quanto  alla  posizione  dell'imputato,  si  e' previsto che egli
possa   opporsi   e   conseguentemente   rinunziare   alla  causa  di
improcedibilita',  in  vista  di un esito piu' favorevole nel merito»
(cfr. Relazione, par. 6).
    E'  quindi  certo  che,  dopo  il  rinvio  a giudizio, il mancato
consenso delle parti private e' ostativo alla definizione ex art. 34,
e  che, per di piu', il consenso delle stesse non puo' essere desunto
per acta concludentia, come nella fase delle indagini preliminari, ma
deve essere manifestato in forma espressa.
    Il  legislatore,  nel  subordinare  la  pronunzia  della sentenza
dibattimentale    ex   art. 34   d.lgs.   n. 274/2000   al   consenso
dell'imputato  e  della  parte  offesa,  ha violato numerosi principi
costituzionali    e    nel    considerare   l'istituto   disciplinato
dall'art. 34,  d.lgs.  n. 274/2000 come condizione di procedibilita',
ha operato una scelta inficiata dalla irragionevolezza.
    Sulla base di tale scelta, l'art. 34, d.lgs. n. 274/2000 viene ad
aggiungersi,   ex   art. 345,  comma  secondo  c.p.p.,  alle  quattro
condizioni  di  procedibilita'  previste  dal codice di rito (querela
artt.  336  -  340,  istanza  di  procedimento art. 341, richiesta di
procedimento art. 342, autorizzazione a procedere artt. 343 - 344).
    A  seguito  di  tale  scelta  legislativa,  l'istituto introdotto
dall'art. 34,  d.lgs.  n. 274/2000  finisce  per diventare un inutile
doppione  dell'istituto  della  remissione di querela, per cui alcuni
giudici   di   pace,   nell'impossibilita'   pratica   di   applicare
l'irrilevanza  ai  reati  perseguibili  a  querela,  hanno finito per
decidere in base a tale norma processi avente ad oggetto reati, quali
la  guida  in  stato  di  ebbrezza  (art. 186  c.d.s.)  o  la mancata
osservanza  dell'obbligo  di  fermarsi  (art. 189  c.d.s.),  che sono
condotte che mettono in pericolo la pubblica incolumita', e non certo
di particolare tenuita', causando la giusta reazione del legislatore,
che  con  le  leggi  nn.  75/2003  e  214/2003  ha  riattribuito tali
fattispecie   alla   competenza   del   Tribunale   in   composizione
monocratica.
    In  realta'  l'istituto previsto dall'art. 34, d.lgs. n. 274/2000
non  e'  di natura processuale, ma di natura sostanziale; costituisce
una  formula  definitoria  autonoma, dichiarativa dell'estinzione del
reato,  o,  come preferisce parte della dottrina, di estinzione della
punibilita',  con  rinunzia da parte dello Stato ad esercitare lo ius
puniendi e ad assoggettare il colpevole alla pena.
    La  natura sostanzialistica dell'istituto emerge con evidenza nel
processo  a carico di imputati minorenni, nel quale, dopo l'esercizio
dell'azione  penale,  sia  nella  fase  dell'udienza  preliminare (ex
art. 32,  d.P.R.  n. 448/1988,  cosi'  come  modificato dall'art. 22,
legge  n. 63/2001)  che  all'esito  del  giudizio  abbreviato  o  del
dibattimento  (Corte  cost.  sent.  n. 149/2003  o  dell'appello,  la
pronunzia e' svincolata del consenso di tutte le parti.
    Per  di  piu' l'art. 27, d.P.R. n. 448/1988 e' applicabile ad una
serie  di  reati  molto  vasta, laddove ex art. 4, d.lgs. n. 274/2000
sono  definibili  con la formula della particolare tenuita' del fatto
solo  le limitate fattispecie devolute alla competenza del giudice di
pace.
    L'avere   disciplinato  l'istituto  di  cui  all'art. 34,  d.lgs.
n. 274/2000  come  condizione  di procedibilita' comporta le seguenti
violazioni dei principi costituzionali:
        1) Violazione dell'art. 101 Cost., il quale stabilisce che il
giudice e' soggetto soltanto alla legge.
    Non  e'  possibile, pertanto, sottoporre la decisione del giudice
al consenso delle parti.
    Il  giudice e' la «bouche de la loi», e' chiamato ad applicare la
legge  secondo  scienza  e coscienza, deve poterla interpretare nella
massima   estensione   possibile,  attribuendo  alle  espressioni  il
significato  nella  loro massima espansione e ricorrendo all'analogia
ove ammessa dall'ordinamento.
    Irrazionale  e'  la  pretesa  del  legislatore  di subordinare al
consenso  dell'imputato  o  della  parte  offesa, dopo l'apertura del
dibattimento,   la   pronunzia   definitoria   ex   art.  34,  d.lgs.
n. 274/2000;  il  giudice  deve  poterla  liberamente  applicare,  se
ritiene  che,  in base all'emergenza processuale, tale formula sia la
piu'  adatta  e proporzionata alla definizione del fatto concreto, in
sintesi, cioe', che essa realizzi l'equita' in senso lato.
    Non  puo'  essere  attribuito  all'imputato,  una volta aperto il
procedimento,  il  potere di opporsi alla definizione ritenuta idonea
dal  giudice,  giacche'  la  stessa  deve essere liberamente adottata
all'esito  del  processo  (tale potere, nella convinzione di ottenere
una  soluzione  piu'  favorevole,  puo'  essere  espresso solo in via
preliminare,  con  la  rinunzia,  ad  esempio, all'applicazione degli
istituti dell'amnistia o della prescrizione).
    L'imputato all'esito, ove ritenga la decisione a lui sfavorevole,
ha solo il diritto di impugnazione.
    Analogamente  appare  irrazionale  la  scelta  di  subordinare la
decisione al consenso della parte offesa.
    Nel  corso  del processo e' irrazionale la richiesta di consenso,
giacche'  la parte offesa o la parte civile nel processo penale hanno
la  mera  pretesa  civilistica  al  risarcimento  del  danno,  e,  di
conseguenza,  un  interesse  mediato  all'affermazione  della  penale
responsabilita'  del  prevenuto.  Tali  parti non hanno, tuttavia, il
diritto  di  determinare  la  definizione;  d'altronde la sentenza di
N.L.P. per particolare tenuita' del fatto, come tutte le sentenze che
dichiarano    l'estinzione   del   reato   (ad   esempio,   amnistia,
prescrizione,  perdono  giudiziale,  remissione di querele, morte del
reo   ...),   non   sono   preclusive  all'esercizio  dell'azione  di
risarcimento del danno.
      Ne'  puo'  essere  richiamato  il  potere concesso alla persona
offesa  di rimettere la querela, in qualunque stato del processo, con
il  solo limite della irrevocabilita' della sentenza, e dell'imputato
di   accettare   la   remissione:  i  reati  perseguibili  a  querela
costituiscono un numerus clausus per scelta del legislatore.
    In  tali casi la persona offesa deve solo decidere se rimuovere o
meno   una   condizione   di  procedibilita'  dell'azione  penale,  e
l'imputato  se  accettare  la  remissione:  le parti operano solo una
valutazione di opportunita', sulla base dei loro interessi.
    L'attuale    disciplina   dell'art. 34,   comma   terzo,   d.lgs.
n. 274/2000  demanda in modo abnorme alla parte offesa la valutazione
della  fatto-reato,  che  puo'  essere operata solo dal giudicante, e
pone in capo all'imputato un abnorme veto rispetto alla decisione del
giudice.
    E'  evidente  che  tale  disciplina  abbisogna  di  un intervento
correttivo  che,  riportando  a  natura  sostanzialistica  l'istituto
dell'art. 34,  da  un  lato  eviti  di riprodurre il meccanismo della
querela,  dall'altro  ne consenta l'applicazione in modo equo e sulla
base del libero convincimento del giudicante.
    D'altronde  la  decisione del giudice non e' mai condizionata nel
nostro  ordinamento,  neppure  nel caso di applicazione della pena su
richiesta  delle  parti  (art. 444  c.p.p.) in quanto, fatto salvo il
potere  di  controllo  sulla  qualificazione giuridica del fatto, sul
calcolo  della  pena  e sulla comparazione delle circostanze, restano
ferme  le  possibilita'  di  rigetto  della  richiesta, da un lato ex
art. 129 c.p.p., o dall'altro perche' la pena non appare congrua.
    Che  il  giudice  debba essere libero nelle sue determinazioni e'
stato   gia'   statuito   dalla   sentenza   n. 4/1992   della  Corte
costituzionale,  la  quale,  investita  del  giudizio di legittimita'
dell'art. 291,  comma  1-bis  c.p.p.  (successivamente  abrogato) che
vincolava  il  g.i.p.,  nella scelta delle misure cautelari, a quella
indicata  in via esclusiva dal p.m., affermo' la legittimita' di tale
norma,  in  quanto rimaneva al giudice la possibilita' alternativa di
rimettere in liberta' l'imputato.
    Il  consenso  delle  parti viola, inoltre il principio del libero
convincimento, che caratterizza il processo penale.
    Mentre  nel  processo  civile  sono ammissibili limiti alla prova
(art. 2731  c.c.)  o  presunzioni  o decisioni vincolate, ad esempio,
all'esito  del  giuramento  decisorio (art. 233 c.p.c.), nel processo
penale   il   giudice   deve   poter   valutare,  secondo  il  libero
convincimento,  le  prove,  con una discrezionalita' che e' vincolata
solo,  in caso di affermazione di penale responsabilita', dagli artt.
133 e 133-bis c.p., quanto alla specie e all'entita' della pena.
        2) Violazione dell'art. 76 Cost. per eccesso di delega.
    La  norma in questione viola anche l'art. 76 della Cost., perche'
la  legge  24 novembre 1999, n. 468 - Delega ai Governo in materia di
competenza  penale  dei  giudice  pace,  all'art. 17;  - Procedimento
penale  davanti  al  giudice di pace, lett. f), dispone testualmente:
«introduzione  di  un  meccanismo di definizione del procedimento nei
casi  di  particolare  tenuita'  del  fatto e di occasionalita' della
condotta, quando l'ulteriore corso del procedimento puo' pregiudicare
le  esigenze  di  lavoro,  di  studio,  di famiglia o di salute della
persona sottoposta ad indagini o dell'imputato».
    La  norma non contiene alcun riferimento al consenso delle parti,
che,  al  contrario il legislatore delegato ha inteso irrazionalmente
introdurre.
    L'irrazionalita'  della  disposizione  emerge anche dal confronto
con  l'art 35, d.lgs. n. 274/2000, che consente al giudice di pace di
dichiarare   estinto  il  reato  a  seguito  di  tenuta  di  condotte
riparatorie,  che egli puo' valutare congrue, indipendentemente dalla
richiesta e dal consenso delle parti.
        3) Violazione dell'art. 3 Cost.
    E' evidente la disparita' di trattamento tra imputati maggiorenni
e imputati minorenni con conseguente violazione dell'art. 3 Cost., in
quanto,  come  sopra  menzionato,  nel  processo a carico di imputati
minorenni  l'art. 27  costituisce  una formula definitoria svincolata
sia  dal  consenso della parte pubblica, che della persona offesa, la
quale, pur non potendo costituirsi parte civile, puo' tuttavia essere
presente  per  l'esercizio  dei  poteri  di  cui  all'art. 90 c.p.p.,
deducendo  elementi  di  prova  che escludano il minimo disvalore del
fatto  commesso,  e  dell'imputato,  il quale, ove non ritenga giusta
tale formula definitoria, puo' proporre impugnazione.
    Pur   considerando   che   il   favor  minoris  e'  un  principio
fondamentale  del  nostro ordinamento, e di rango costituzionale, non
e'  possibile ammettere una disparita' di trattamento di tale portata
a   sfavore   dell'imputato  maggiorenne,  che  vede  subordinata  la
decisione del giudicante al consenso della persona offesa.
        4) Violazione dell'art. 24 Cost.
    Sia  i  poteri  della difesa della persona offesa - o della parte
civile,  che  quelli  della  difesa  dell'imputato  vengono ad essere
delimitati  da reciproci consensi, quasi non si trattasse di processo
penale tendente all'accertamento della verita' sul fatto-reato, ma di
un   contenzioso  civilistico  da  definire  sulla  base  di  accordi
transattivi.
        5) Violazione dell'art. 111 Cost., in quanto la terzieta' del
giudice viene condizionata dalla necessita' del consenso delle parti;
terzieta'   significa,  al  contrario,  indipendenza  dalle  parti  e
discrezionalita'  delle decisioni, sia pure nei limiti sopra indicati
(artt. 133 e 133-bis c.p.p.).
        6)  Violazione  dell'art. 27  Cost.,  in quanto il giudice di
pace,  nel  caso di mancato consenso, nel giudicare un fatto che, pur
sussistendo  nella  sua  materialita', ha tuttavia arrecato un minimo
danno, non puo' che pronunziare sentenza di condanna, sia pure a pena
pecunaria,  violando  cosi'  il principio della meritevolezza e della
proporzione  della pena, che sono i presupposti essenziali perche' la
stessa  possa  svolgere  la  sua  funzione educativa e non rilevi, al
contrario,  un  boomerang che spinga per reazione il soggetto, che si
percepisce  ingiustamente  condannato,  ad ulteriori violazioni delle
norme.