ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 188 del decreto
legislativo   28 luglio   1989,   n. 271  (Norme  di  attuazione,  di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), promosso
con  ordinanza  del  9 dicembre  2003  dal  giudice  per  le indagini
preliminari  del  Tribunale  di Milano nel procedimento di esecuzione
nei confronti di G.P., iscritta al n. 560 del registro ordinanze 2004
e  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica n. 25, 1ª
serie speciale, dell'anno 2004.
    Udito  nella  camera  di consiglio del 26 gennaio 2005 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che  il  giudice  delle  indagini preliminari presso il
Tribunale  di  Milano,  con  ordinanza  emessa il 9 dicembre 2003, ha
sollevato,  in relazione all'art. 3, primo comma, della Costituzione,
questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 188 del decreto
legislativo   28 luglio   1989,   n. 271  (Norme  di  attuazione,  di
coordinamento  e  transitorie  del codice di procedura penale) «nella
parte in cui non indica in complessivi anni cinque di reclusione o di
arresto  il  limite  non  superabile  di pena in caso di applicazione
della disciplina del reato continuato nella fase dell'esecuzione»;
        che  il  rimettente  -  chiamato  a  delibare,  quale giudice
dell'esecuzione,  la  richiesta  di  un condannato per l'applicazione
della  disciplina  della  continuazione  in  relazione  a due diverse
sentenze,  entrambe pronunciate a norma dell'art. 444 cod. proc. pen.
e  con  le  quali  sono  state  applicate  pene  detentive  in misura
complessivamente  pari  ad anni tre e mesi sei di reclusione - rileva
che,  in  forza  del citato art. 188 delle disposizioni di attuazione
del  codice  di  procedura  penale,  l'applicazione in sede esecutiva
dell'istituto  della  continuazione  e'  sempre  subordinata, tra gli
altri, al presupposto che non venga superato il limite di pena di due
anni di reclusione o di arresto, soli o congiunti a pena pecuniaria;
        che    la   giustificazione   di   tale   limite   risiedeva,
essenzialmente, nella complementarieta' logica rispetto alla generale
disciplina   del  «patteggiamento»,  quale  originariamente  prevista
dall'art. 444  cod.  proc.  pen.,  caratterizzata,  inizialmente,  da
analogo limite per la pena applicabile su richiesta delle parti;
        che,   tuttavia,  tale  complementarieta'  -  necessaria  per
evitare  che  il  condannato,  in  sede  esecutiva,  potesse ottenere
trattamenti  sanzionatori  piu' favorevoli di quelli fruibili in sede
di  cognizione  con  il  ricorso al citato rito speciale - era venuta
meno a seguito della modificazione del primo comma dell'art. 444 cod.
proc.  pen., operata con l'art. 1 della legge 12 giugno 2003, n. 134:
modificazione  che  ha  reso  possibile  l'applicazione  di  una pena
detentiva,  su  richiesta  delle  parti,  non  piu' fino ad un limite
massimo  di  due  anni  - come in origine - ma di cinque anni, soli o
congiunti a pena pecuniaria;
        che,  nondimeno,  la  novella  legislativa  suddetta  non  ha
modificato  il testo dell'art. 188 disp. att. cod. proc. pen., con la
conseguenza  che  risulta invariato il limite massimo di due anni per
la  pena  detentiva da applicare, nella fase dell'esecuzione, in caso
del ricorso alla disciplina del reato continuato;
        che, secondo il giudice a quo, tale disomogeneita' si traduce
in  un  «oggettivo  trattamento discriminatorio» tra chi, imputato di
piu' fatti di reato, puo' ottenere, nella fase del giudizio di merito
mediante  la  disciplina  del reato continuato, l'applicazione di una
pena   detentiva   fino   a  cinque  anni;  e  chi,  invece,  ottiene
l'applicazione  della  medesima  disciplina sulla continuazione nella
fase  del  procedimento  di  esecuzione,  dove  continua  a vigere il
diverso  -  e  sensibilmente inferiore - limite di pena detentiva dei
due anni;
        che  tale  diversita' di trattamento - essendo conseguenza di
situazioni  estrinseche  e  casuali,  non  ascrivibili  alla condotta
dell'imputato  -  sarebbe  idonea  a  recare  vulnus  al principio di
eguaglianza,   con   violazione   dell'art. 3,   primo  comma,  della
Costituzione.
    Considerato che, successivamente alla pronuncia dell'ordinanza di
rimessione,  l'art. 1  della  legge  2 agosto  2004, n. 205 (Modifica
dell'articolo 188  delle  norme  di  attuazione,  di  coordinamento e
transitorie  del  codice  di  procedura  penale,  di  cui  al decreto
legislativo   28 luglio   1989,  n. 271)  ha  modificato,  nel  senso
auspicato del rimettente, la norma censurata;
        che,  infatti, a seguito della novella, l'art. 188 disp. att.
cod.  proc.  pen.  prevede  ora  che,  nel  caso  di piu' sentenze di
applicazione  della  pena  su  richiesta  delle parti, pronunciate in
procedimenti distinti contro la stessa persona, questa ed il pubblico
ministero  possono chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione
della  disciplina del concorso formale o del reato continuato, quando
concordano  sull'entita'  della  sanzione  sostitutiva  o della pena:
sempre che quest'ultima non superi complessivamente cinque anni, soli
o  congiunti  a  pena pecuniaria, ovvero due anni, soli o congiunti a
pena  pecuniaria, nei casi previsti nel comma 1-bis dell'art. 444 del
codice;
        che,   pertanto,   si  impone  il  riesame  della  perdurante
rilevanza  della  questione da parte del rimettente, al quale compete
valutare  l'applicabilita'  dello  jus  superveniens alla fattispecie
sottoposta al suo esame.