IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunziato la seguente ordinanza sul ricorso n. reg. gen. 2538/2002, proposto dalla dott.ssa Giovanna Moggi, rappresentata e difesa dagli avv. Giuseppe Alibrandi e Roberto Righi, e selettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, via Calducci n. 4; Contro il Ministero della giustizia in persona del Ministro pro tempore rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato presso la cui sede, in Roma, via dei Portoghesi n. 12, e' ex lege domiciliato; il Consiglio superiore della magistratura in persona del legale rappresentante pro tempore, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato; la Presidenza del Consiglio dei ministri in persona del Presidente in carica, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato, per l'annullamento, previa sospensione: del decreto del 6 luglio 2001 del Ministro della giustizia, con il quale la ricorrente e' stata dichiarata decaduta per causa di sopravvenuta incompatibilita' - ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. c-bis della legge n. 374/1991 come modificato dall'art. 6 della legge n. 468/1999 - dall'incarico di giudice di pace presso l'Ufficio del giudice di pace di Pistoia; della conforme deliberazione del 14 giugno 2001 del Consiglio superiore della magistratura; ove occorra, della circolare del 19 gennaio 2000 del Consiglio superiore della magistratura relativa alle incompatibilita' dei giudici di pace; dell'art. 17, comma 9, del d.P.R. 10 giugno 2000 n. 198, nella parte in cui non prevede che il termine per l'avvio del procedimento (volto alla pronunzia della decadenza) decorra dalla conoscenza, da parte dell'amministrazione, della situazione di incompatibilita'; e nella parte in cui non prevede che entro il termine annuale ivi stabilito (a pena di estinzione) per la conclusione del procedimento, debba intervenire anche la notificazione all'interessato del provvedimento. Visti gli atti depositati dalla ricorrente; Visti gli atti di costituzione in giudizio e la memoria delle amministrazioni resistenti; Visti gli atti tutti della causa; Designato relatore il consigliere avv. Carlo Modica; Udito, alla pubblica udienza del 28 aprile 2004, F. Paoletti su delega dell'avv. R. Righi; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: F a t t o Con ricorso notificato il 19 febbraio 2002 e depositato il 6 marzo 2002, la dott.ssa Giovanna Moggi impugna i provvedimenti indicati in epigrafe, esponendo quanto segue. Nel 1995 la ricorrente veniva nominata giudice di pace. Nel 1999 entrava in vigore la legge n. 468/1999 che (con l'art. 6) ha modificato l'art. 8 della legge n. 374/1991, introducendo nuove cause di incompatibilita' pei i giudici di pace. In particolare, il «nuovo» art. 8 della legge n.374/1991 stabilisce che non possono esercitare le funzioni di giudice di pace «coloro che svolgono attivita' professionale per imprese di assicurazione o banche oppure hanno il coniuge, convivente, parenti fino al secondo grado o affini entro il primo grado che svolgono abitualmente tale attivita». L'art. 24 della legge n. 468/1999 cit., ha poi accordato ai giudici di pace che alla data della sua entrata in vigore (avvenuta il 21 dicembre 1999) fossero gia' in servizio, il termine di sessanta giorni (decorrenti dalla predetta data) per rimuovere le sopravvenute situazioni di incompatibilita'. Alla fine del primo quadriennio dalla nomina a giudice di pace ed al fine di ottenerne la conferma (a seguito del prescritto giudizio di idoneita), con nota del 10 gennaio 2000 la ricorrente rappresentava al competente Consiglio giudiziario che i suoi due figli svolgevano entrambi attivita' professionale di «agente assicurativo» per conto della Compagnia «RAS» e si impegnava «ad astenersi da tutte le cause in cui sia parte la predetta compagnia». Successivamente, il 14 febbraio 2000 la ricorrente trasmetteva al Consiglio superiore della magistratura una nota nella quale chiedeva di essere confermata nell'incarico di giudice di pace ed assegnata - proprio al fine di evitare situazioni di incompatibilita' eventualmente scaturenti dall'attivita' professionale svolta dai figli - alla trattazione delle sole cause di opposizione alle ordinanze-ingiunzioni. In data 15 marzo 2000 l'Assemblea plenaria del C.S.M., previa acquisizione del giudizio di idoneita' espresso dal Consiglio giudiziario, la confermava nell'incarico. Senonche' in data 8 agosto 2000 la Commissione per i magistrati onorari presso il C.S.M. comunicava alla ricorrente di aver avviato il procedimento volto alla «eventuale declaratoria di decadenza dall'ufficio di giudice di pace ai sensi dell'art. 9 della legge 21 novembre 1991 n. 374 e succ. mod. per motivi di incompatibilita' ex art. 8, comma 1, lett. c-bis, della stessa legge, a seguito della dichiarazione da Lei resa in data 10 gennaio 2000, non risultando ... l'avvenuta rimozione delle suddette cause di incompatibilita». A seguito di tale contestazione, con nota del 14 agosto 2000 la ricorrente trasmetteva al C.S.M. le proprie controdeduzioni, nelle quali faceva rilevare - tra l'altro - che inspiegabilmente la causa di incompatibilita' a cagione della quale rischiava di essere dichiarata decaduta dalle funzioni, non era prevista anche per i magistrati ordinari. Lamentando, pertanto, che una interpretazione puramente letterale dell'art. 8 cit. ne avrebbe evidenziato la illegittimita' costituzionale (risultando vietato ai giudici di pace cio' che invece e' consentito ai magistrati ordinari), la ricorrente proponeva una interpretazione piu' flessibile, e sistematicamente piu' logica, della norma in questione. In particolare la ricorrente sosteneva (e sostiene): che «l'agente di assicurazione non ha alcun interesse economico alla gestione della societa' assicuratrice se non con riguardo esclusivo alla stipula delle polizze» e che, conseguentemente, in caso di lite fra assicurato e compagnia assicuratrice l'agente non e' direttamente e personalmente interessato, ragion per cui e' statisticamente molto raro (se non addirittura impossibile) che un giudice di pace che abbia un congiunto agente assicurativo si trovi effettivamente in situazione di incompatibilita' (che gli impedisca di giudicare serenamente) nelle cause insorte fra la compagnia assicuratrice (della quale il detto congiunto sia agente) e l'assicurato; che l'unico caso in cui puo' sorgere conflitto fra l'agente e l'assicurato e' quello della mancata riscossione del premio; e che in tali casi la garanzia dell'imparzialita' del giudizio (per l'ipotesi in cui il giudice di pace abbia «legami» con l'agente) e' assicurata dall'istituto dell'«astensione» (e dalla normativa che lo regola); e che pertanto con l'art. 8 cit. il legislatore non ha inteso riferirsi anche agli agenti di assicurazione. Il 29 marzo 2001 il Consiglio giudiziario di Firenze udiva personalmente la ricorrente, la quale dichiarava di non aver rimosso la causa di incompatibilita'; e insisteva nella sua tesi interpretativa sostenendo ancora la non sussistenza di alcun conflitto di interesse. Ma l'interpretazione proposta non ha convinto il Consiglio giudiziario che ha proposto l'adozione del provvedimento di decadenza; ne' il C.S.M. che con la deliberazione del 14 giugno 2001 ha accolto la proposta. Infine con il decreto ministeriale del 5 luglio 2001 la ricorrente e' stata definitivamente dichiarata decaduta dall'ufficio e dalle funzioni di giudice di pace. Impugnato il predetto provvedimento e gli atti ad esso connessi, la ricorrente lamenta: 1) violazione degli artt. 2, 3 e 97 della Costituzione; violazione dei principii desumibili dagli artt. 1, 2 e 29 della legge 7 agosto 1990 n. 241; degli artt. 8 e 9 della legge 21 novembre 1991 n. 374 (nel testo modificato dagli artt. 6 e 7 della legge 24 novembre 1999 n. 468) e degli artt. 17 e 19 del d.P.R. 10 giugno 2000 n. 198, nonche' eccesso di potere per violazione del giusto procedimento; 2) ulteriore violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione; violazione degli artt. 102, 106, 107 e 108 della Costituzione; ulteriore violazione dell'art. 8 della legge 21 novembre 1991 n. 374 (nel testo modificato dagli artt. 6 e 7 della legge 24 novembre 1999 n. 468) anche in relazione all'art. 1903 del codice civile; nonche' illegittimita' derivata del provvedimento impugnato dalla illegittimita' costituzionale dell'art. 8, comma 1 lett. c-bis della legge 21 novembre 1991 n. 374 (nel testo introdotto con l'art. 6 della legge 24 novembre 1999 n. 468), per contrasto con gli artt. 3, 97, 102, 106, 107 e 108 della Costituzione. Ritualmente costituitasi con fascicolo depositato il 22 marzo 2002, l'amministrazione si e' opposta all'accoglimento del ricorso. Con ordinanza n. 1769 del 27 marzo 2002 di questo Tribunale amministrativo regionale, l'istanza cautelare avanzata dalla ricorrente e' stata respinta. All'udienza del 28 aprile 2004, uditi i difensori delle parti, i quali hanno insistito nelle rispettive richieste, deduzioni ed eccezioni, la causa e' stata posta in decisione. D i r i t t o 1. - La questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla difesa della ricorrente appare rilevante ai fini della decisione e non manifestamente infondata per le ragioni che si passa ad esporre. 1.1. - Con il primo profilo di doglianza di cui al secondo motivo di gravame del ricorso in epigrafe - motivo che va esaminato con precedenza, atteso il suo carattere pregiudiziale ed assorbente - la ricorrente lamenta, innanzitutto, la violazione - per erronea applicazione - dell'art. 8, comma 1 lett. c-bis, della legge 21 novembre 1991 n. 374 (nel testo introdotto con l'art. 6 della legge 24 novembre 1999 n. 468), deducendo: che di regola gli agenti di assicurazione non vengono a trovarsi in situazione di conflitto con terzi a causa dell'attivita' svolta; e cio' in quanto non hanno alcun diretto interesse economico nella gestione dei sinistri, e non hanno comunque la rappresentanza legale della Compagnia nel caso di contenzioso cagionato da sinistri; che, dunque, nel precludere l'assunzione delle funzioni di giudice di pace a «coloro che svolgono attivita' professionale per imprese di assicurazione» o che abbiano congiunti che svolgano abitualmente tale attivita', l'art. 8, comma 1, lett. c-bis della legge n. 374/1991 non ha certamente inteso riferirsi anche agli «agenti di assicurazione»; e che pertanto l'amministrazione ha errato nel ritenere che essa (ricorrente) fosse in situazione di assoluta incompatibilita' all'esercizio della funzione di giudice di pace a causa dell'attivita' di agenti di assicurazione svolta dai figli. La doglianza non merita accoglimento. Essa si fonda sul presupposto errato che nell'esercizio delle sue funzioni e della sua attivita', l'agente di assicurazione non entri in conflitto con terzi; e che non abbia un interesse economico congiunto o comunque convergente con quello della compagnia da cui riceve il mandato (e nel cui nome agisce). Vero e', invece, l'esatto contrario; e cioe' che nell'esercizio della sua attivita' e nella sua qualita' di mandatario, l'agente puo' entrare in conflitto e trovarsi in lite giudiziaria con gli assicurati (proprio in ragione del rapporto contrattuale che con essi si instaura); e che, quand'anche non sia parte formale in giudizio, egli ha tutto l'interesse a che il contenzioso instaurato dagli assicurati si risolva favorevolmente per la compagnia assicurativa. 1.2. - Con il secondo profilo di doglianza di cui al secondo motivo di gravame la ricorrente lamenta la illegittimita' derivata del provvedimento impugnato (decreto ministeriale di pronunzia della decadenza, per incompatibilita', dall'ufficio e dalle funzioni di giudice di pace) dalla illegittimita' costituzionale dell'art. 8, comma 1, lett. c-bis, della legge 21 novembre 1991 n. 374 (nel testo introdotto con l'art. 6 della legge 24 novembre 1999 n. 468), per contrasto con gli artt. 3, 97, 102, 106, 107 e 108 della Costituzione, deducendo: che mentre per gli avvocati che svolgano anche funzioni di giudice di pace (d'ora innanzi, per comodita' espositiva, denominati «giudici di pace - avvocati» la contestata norma ha previsto la possibilita' di richiedere il trasferimento ad altra sede (evitando cosi' la pronunzia di decadenza dall'ufficio), la stessa facolta' non e' stata accordata ai giudici di pace che non svolgono la professione forense (d'ora innanzi, per comodita' espositiva, denominati «giudici di pace "semplici"») ma che vengano parimenti a trovarsi - a cagione del concomitante svolgimento di un'altra attivita' a carattere professionale - in posizione di sopravvenuta incompatibilita'; che mentre per i giudici di pace «semplici» che vengano a trovarsi in situazione di incompatibilita' a cagione della circostanza che coniuge, convivente, parenti entro il secondo o affini entro il primo grado (d'ora in poi, per comodita' espositiva, denominati semplicemente «congiunti») esercitano nel circondario la professione forense, la contestata norma ha previsto la facolta' di astenersi dal giudizio (facolta' che li pone «al riparo» dalla pronunzia di decadenza); identica facolta' non e' stata accordata ai colleghi - anch'essi giudici di pace «semplici» - che si trovino in posizione di incompatibilita' a cagione della circostanza che i loro «congiunti» esercitano una professione diversa da quella legale (nella specie: agente assicurativo); e che tali differenze di trattamento, non giustificandosi sul piano della ragionevolezza, violano l'art. 3 della Costituzione e contrastano con il principio di eguaglianza ivi predicato. 1.2.1. - La «rilevanza» della sollevata questione di legittimita' costituzionale ai fini della decisione della causa introdotta dal ricorso in esame, appare - per il profilo in esame - evidente. Se, infatti, l'art. 8 fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo, ne conseguirebbe «automaticamente» la «illegittimita' derivata» del provvedimento impugnato che e' stato adottato proprio in applicazione della suddetta norma. 1.2.2. - La questione appare, inoltre, «non manifestamente infondata» per le seguenti ragioni. L'art. 8 in esame ha previsto che i «giudici di pace - avvocati» che (per effetto delle innovazioni previste dalla stessa norma) vengano a trovarsi in posizione di sopravvenuta incompatibilita' in ragione del potenziale conflitto d'interesse scaturente proprio dalla contestuale posizione di giudice e di avvocato, possano chiedere il trasferimento presso altro ufficio per continuare a svolgere entrambe le funzioni. In tal caso, l'esercizio della predetta facolta' (id est la pura e semplice proposizione della istanza di trasferimento) costituisce «rimozione della causa di incompatibilita» e preclude l'avvio del procedimento volto alla pronuncia della «decadenza». Analoga facolta' non e' stata accordata, pero', anche ai giudici di pace «semplici» che per il medesimo titolo (l'entrata in vigore della nuova legge) vengano a trovarsi in analoga posizione di incompatibilita' (per conflitto di interesse), a causa dell'esercizio da parte loro, o di «congiunti», di professioni diverse da quella forense. E' questa, dunque, la prima disparita' di trattamento, fra «giudici di pace - avvocati» e «Giudici di pace "semplici"», che viene in evidenza. V'e' inoltre un'altra disparita' da mettere in luce; forse meno evidente ma che introduce una discriminazione ulteriore, addirittura in seno alla categoria dei «giudici di pace "semplici"». Il «sistema» delineato dal combinato disposto dell'art. 8 e dell'art. 10 della legge n. 374/1991 (cosi' come novellato dalla legge n. 468/1999) prevede per i giudici di pace «semplici» (id est: «i giudici non avvocati») che vengano a trovarsi in situazione di incompatibilita' a cagione della circostanza che loro coniuge, convivente, parenti entro il secondo grado o affini entro il primo grado (d'ora innanzi denominati «congiunti») esercitano nel circondario la professione forense, la facolta' di astenersi di volta in volta dallo specifico giudizio che li vede coinvolti; facolta' che li pone al riparo dalla pronunzia di decadenza. Ancora una volta, pero', analoga facolta' non e' stata accordata ai colleghi - anch'essi giudici di pace «semplici» - che si trovino in posizione di incompatibilita' a cagione della circostanza che i loro «congiunti» esercitano nel circondario una professione diversa da quella legale (ad esempio, come nel caso specie, quella di agente assicurativo). Il che significa: che il «giudice di pace - avvocato» o il «giudice di pace "semplice"» che abbiano un «congiunto» avvocato, hanno la facolta' di astenersi allorquando si trovino in situazione di conflitto di interesse; ma che la stessa facolta' non e' stata riconosciuta a chi pur essendo parimenti giudice di pace non abbia la ventura di svolgere contestualmente la professione forense, o di essere «congiunto» di un soggetto che la svolga; e che pertanto il predetto - meno impegnato - giudice di pace deve dimettersi dalla carica giurisdizionale, ovvero rimuovere «in radice» la situazione di incompatibilita', evidentemente «convincendo» il proprio «congiunto» a cambiare professione (non essendo previsto il trasferimento del giudice di pace ad altro ufficio giudiziario; ne' essendo sufficiente che il suo «congiunto» cambi sede); e cio' a pena di essere dichiarato decaduto. In conclusione, non appare revocabile in dubbio: che il sistema normativo descritto abbia accordato un trattamento di miglior favore agli avvocati e comunque ai giudici di pace - avvocati, rispetto a quello riservato agli altri professionisti, o ai giudici di pace «semplici» o «congiunti» con professionisti non esercenti la professione forense (o, il che esprime il medesimo concetto, non congiunti con avvocati); che tale trattamento non trova alcuna giustificazione sul piano della ragionevolezza, non essendo comprensibile la ragione per la quale situazioni sostanzialmente eguali (di incompatibilita' per conflitto d'interesse, talvolta potenziale talaltra effettivo) siano state trattate in maniera cosi' diversa; e si' penalizzante esclusivamente per alcuni fra piu' soggetti appartenenti ad una unica categoria (trattasi - infatti - sempre e comunque di giudici di pace, nell'un caso svolgenti anche la professione di avvocato o «congiunti» di soggetti che la svolgono; e nell'altro caso non svolgenti tale professione o non congiunti di soggetti che la svolgano). Ma v'e' di piu'. Il riconoscimento del predetto trattamento di favore appare intrinsecamente contraddittorio con la ratio della stessa norma che lo ha introdotto, oltrecche' - come gia' visto - ingiustificabile sul piano della ragionevolezza. La ratio della introduzione delle nuove (e piu' rigide) ipotesi di incompatibilita' all'esercizio di funzioni giurisdizionali (nella specie: all'esercizio delle funzioni di giudice di pace) riposa, infatti, nella esigenza di garantire (agli utenti dell'ordinamento giustiziale) che i giudicanti mantengano - e siano comunque obbligatoriamente e manifestamente posti nelle piu' obiettive e migliori condizioni per farlo - il massimo del distacco e della serenita' d'animo nell'espletamento dei loro compiti; e cio' in modo da assicurare la necessaria e prescritta equidistanza dalle parti e, in ultima analisi, la imparzialita' di giudizio alla quale ogni Ordinamento aspira. Se cosi' e', come indubitabilmente appare, e' evidente che nell'ambito del «corpo» dei giudici di pace, i soggetti maggiormente «esposti» - anche dal punto di vista statistico - alla obiettiva possibilita' di trovarsi ad esercitare le funzioni giudicanti in condizioni di conflitto d'interesse con una delle parti, sono proprio gli avvocati. E cio', beninteso, non gia' (o non tanto) per tendenza psicologica, ma per fisiologiche ragioni intrinsecamente connesse alle funzioni ed all'attivita' ordinariamente svolte, consistenti nella quotidiana e diffusa assunzione a titolo di prestazione professionale - e dunque in forza di mandato o procura, e verso corrispettivo di onorario - della difesa e della tutela in giudizio degli interessi patrocinati; interessi che possono spaziare in ambiti settoriali molto estesi, e che possono venire a contrastare, o a coincidere, con quelli di parti processuali coinvolte nelle cause in cui essi stessi - i predetti «giudici-avvocati» - devono giudicare. Sicche' la salvaguardia loro accordata anche e proprio in sede di svolgimento di funzioni giudicanti non appare agevolmente giustificabile, se non in un quadro ordinamentale ispirato all'esigenza del minimo sacrificio delle opportunita' professionali dei congiunti dei giudici di pace e di questi stessi. Ora, in tale contesto, del tutto irragionevole ed ingiustificata risulta la maggior rigidita' riservata - invece - agli «altri» giudici di pace (i cc.dd. giudici di pace «semplici»), i quali: non svolgono contestualmente funzioni ed attivita' di giudice e di avvocato; non hanno accesso ad aule giudiziarie se non per l'esercizio di funzioni giudicanti; hanno meno probabilita' statistica di trovarsi in situazione di conflitto d'interesse con una parte processuale, rispetto a quanto puo' accadere ai colleghi coinvolti nell'esercizio della professione forense o i cui congiunti esercitino tale professione; sono, in definitiva, meno «esposti», a pressioni esterne o interne (id est: psicologiche) percepibili o inconsce; e dunque appaiono tendenzialmente in grado di assicurare, quantomeno a livello di probabilita', maggiori garanzie di indipendenza e di serenita' di giudizio - anche laddove siano «congiunti» (come nel caso dedotto in giudizio) di soggetti esercenti professioni diverse (nella specie: agente assicurativo) da quella forense - rispetto ai colleghi avvocati. 1.3. - Con il terzo profilo di doglianza di cui al secondo motivo di gravame, la ricorrente deduce che in forza del sistema normativo vigente (scaturente dall'art. 8, comma 1, lett. c-bis legge 21 novembre 1991 n. 374 come novellata dall'art. 6 legge 24 novembre 1999 n. 468, applicabile ai giudici di pace, e dagli artt. 16 e 17 del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, applicabili ai magistrati ordinari): una identica situazione viene considerata causa di incompatibilita' per i giudici di pace, e non - invece - per i magistrati ordinari; che tale disparita' di trattamento, a fronte di situazioni eguali, non si giustifica sul piano della ragionevolezza; e che pertanto la norma in esame (l'art. 8 cit.) e' costituzionalmente illegittima anche per questo aspetto. 1.3.1. - La «rilevanza» della sollevata questione di legittimita' costituzionale ai fini della decisione della causa introdotta dal ricorso in esame, e' - ancora una volta, ed anche per il profilo adesso in esame - evidente; e si basa sulla medesima considerazione gia' svolta nel capo 1.1.1. Infatti, se l'art. 8 fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo anche solamente per questo secondo profilo di censura, ne conseguirebbe «automaticamente» la «illegittimita' derivata» del provvedimento impugnato, il quale - come si e' detto - e' stato adottato proprio in applicazione della suddetta norma. 1.3.2. - La questione appare, altresi', «non manifestamente infondata». Ed invero: mentre ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. c-bis, legge 21 novembre 1991 n. 374 come novelleto dall'art. 6 legge 24 novembre 1999 n. 468, i giudici di parte che abbiano coniuge, convivente, parenti fino al secondo grado o affini entro il primo grado (d'ora innanzi denominati, tout court, «congiunti») che svolgono attivita' professionale per imprese di assicurazione o banche, sono considerati «incompatibili» con l'esercizio delle funzioni giurisdizionali; identica soluzione, a fronte della medesima situazione, non e' prevista per i magistrati ordinari dalle norme dell'ordinamento giudiziario. Ne consegue che se la ricorrente fosse stata un magistrato ordinario, la circostanza che due suoi figli svolgono attivita' di agenti di assicurazione (ed uno nella stessa circoscrizione dell'ufficio giudiziario presso cui lei e' applicata), sarebbe stata considerata irrilevante e non avrebbe determinato alcuna situazione di incompatibilita'. Il che e' ingiustificato e irrazionale. Non appare dunque revocabile in dubbio: che il sistema normativo descritto abbia accordato un trattamento deteriore ai giudici di pace rispetto ai magistrati ordinari; e che tale trattamento non trova alcuna giustificazione sul piano della ragionevolezza, non essendo comprensibile la ragione per la quale situazioni sostanzialmente eguali (di incompatibilita' per potenziale conflitto d'interesse) siano state trattate in maniera cosi' diversa; e si' penalizzante esclusivamente per alcuni soltanto fra piu' soggetti appartenenti ad una unica categoria (trattasi - infatti - sempre e comunque di giudici, svolgenti la funzione giurisdizionale e sottoposti ai medesimi doveri fondamentali). Il riconoscimento del predetto trattamento di favore appare, inoltre, intrinsecamente contraddittorio con la ratio della stessa norma che lo ha introdotto; e cio' per ragioni analoghe a quelle esposte nel capo 1.1.2. Se, infatti, la ratio delle norme introduttive di ipotesi di incompatibilita' all'esercizio di funzioni giudicanti riposa - com'e' indubitabile - nella esigenza di garantire agli utenti dell'ordinamento giustiziale che i giudicanti mantengano - e siano comunque obbligatoriamente e manifestamente posti nelle piu' obiettive e migliori condizioni per farlo - il massimo del distacco e della serenita' d'animo nell'espletamento dei loro compiti (in modo da assicurare la necessaria e prescritta equidistanza dalle parti e, in ultima analisi, la imparzialita' di giudizio), non appare agevole comprendere la ragione per cui tale esigenza sia stata ritenuta sussistente solamente nella cause soggette alla giurisdizione dei giudici di pace. A meno che la norma in esame non abbia dato per presupposto che i giudici di pace: siano «per naturale tendenza» inclini a subire influenze (si noti: con la sola eccezione proprio di quelli che svolgono la professione forense; il che e' ulteriormente contraddittorio e certamente improbabile per quanto precedentemente osservato); ovvero, abbiano un tasso di resistenza alle influenze (e dunque una soglia di indipendenza e/o di imparzialita) nettamente inferiore rispetto ai giudici ordinari; o, quantomeno, siano obiettivamente piu' «esposti» rispetto agli altri giudici - per la natura o per il numero delle cause trattate - a trovarsi in situazioni conflittuali, per motivi d'interesse, con una delle parti del giudizio. Ma, fermo restando che una presupposizione di tal genere evidenzierebbe una situazione che giammai potrebbe essere considerata fisiologica (anziche' patologica) e costituzionalmente accettabile, l'interpretazione della norma volta a valorizzare la tesi della «differenza ontologica» fra i due ordini (rectius sed non recte: fra le due «categorie») di giudici non sembra obiettivamente e ragionevolmente sostenibile, non ravvisandosi alcuna logica ed obiettiva ragione per ritenere che il sistema concorsuale di accesso alla magistratura ordinaria, cosi' come del resto quello per l'accesso alle altre magistrature (amministrativa, contabile, militare, tributaria etc.), offra maggiori garanzie di selezionare soggetti non solo forniti di piu' vagliata preparazione ma altresi' muniti di maggiori doti di indipendenza rispetto ai giudici di pace. La disparita' a danno di questi ultimi appare pertanto lesiva del principio di eguaglianza fissato dall'art. 3 della Costituzione, in quanto per i giudici pace e' stato previsto un corpus di «prerogative di status» differente rispetto a quella accordato - anche di fronte a situazioni sostanzialmente eguali - agli altri giudici della Repubblica. E cio' nonostante abbiano tutti il medesimo status magistratuale. 1.3.3. - Non manifestamente infondata appare altresi' la denuncia di contrasto con il disposto degli artt. 102, primo comma, e 107, primo e terzo comma, della Costituzione, in quanto tali norme disegnano un sistema nel quale i giudici si differenziano solamente per le funzioni e non anche per la dignita' della carica e dunque per le prerogative di status accordabili. E poiche' il sistema introdotto dal legislatore per i giudici di pace - quanto a prerogative di astensione ed a cause di decadenza - e' differente e notevolmente deteriore rispetto a quello che regola lo status degli altri giudici, ancora una volta il dettato costituzionale non sembra sia stato rispettato. 2. - In conclusione, non appare dunque giustificabile - sotto il profilo della ragionevolezza - il trattamento di disfavore riservato ai giudici di pace che non siano anche avvocati (o che non abbiano «congiunti» avvocati); ed allo stesso modo non appare giustificabile il trattamento deteriore riservato ai giudici di pace rispetto ai magistrati di carriera. Tali disparita' contrastano con il disposto e con i principi posti dagli artt. 3, 102, 107 (primo e terzo comma) della Costituzione. 2 Per tali ragioni va sollevata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8, comma 1, lett. c-bis della legge 21 novembre 1991, n. 374 nel testo novellato dall'art. 6 della legge 24 novembre 1999, n. 468 per contrasto con gli artt. 3, 102, 107 (primo e terzo comma) della Costituzione (o comunque per contrasto della predetta norma di legge anche con una sola delle citate norme costituzionali). Va disposta, pertanto, la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, con conseguente sospensione del giudizio ai sensi dell'art. 21 della legge 11 marzo 1953 n. 87, per la relativa pronuncia sulla legittimita' costituzionale della indicata norma.