IL TRIBUNALE Pronunciando sull'appello proposto ai sensi dell'art. 322-bis c.p.p. dalla Procura della Repubblica avverso l'ordinanza di data 8 febbraio 2005 resa dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Venezia, che nega sussistere le condizioni legittimanti la convalida del sequestro preventivo di un carico di 6.149 tonnellate di «rottami ferrosi», operato in via d'urgenza il 25 gennaio u.s. in ambito portuale; e che, comunque, nega l'emissione di autonomo decreto di sequestro preventivo (321, comma 3-bis, c.p.p.), Osserva quanto segue Il 25 gennaio u.s. operatori della locale Capitaneria di Porto hanno proceduto in via d'urgenza al sequestro preventivo di una fornitura di 6.149 tonnellate di rottami ferrosi, oggetto di spedizione transfrontaliera (dalla Russia), destinata al trasporto e a alla successiva consegna ad una acciaieria cremonese tramite la mediazione di Giorgio Lorenzato, amministratore di «Multiservice S.r.l.». Alla persona di Giorgio Lorenzato e' stato percio' riferito di avere esercitato senza titolo attivita' di «recupero», o, comunque, di «gestione» di rifiuti non pericolosi, ai sensi dell'art. 51, comma primo, lettera A) del d.lgs. n. 22/1997. 1. - Motivazione dell' ordinanza a tenore della quale il g.i.p. di Venezia nega sussistere le condizioni legittimanti. La convalida del sequestro preventivo, e, comunque, l'emissione di autonomo decreto di sequestro preventivo. Nel ritenere insussistenti le condizioni legittimanti la convalida dell'iniziativa di p.g. e, comunque, nel negare il sequestro preventivo, il giudice di prime cure chiarisce di non ritenere applicabili nel caso di specie le disposizioni di fonte comunitaria in materia di gestione di rifiuti, stando l'operativita' di una disciplina normativa nazionale di segno opposto, specificamente concernente i «rottami ferrosi», derogatoria della nozione di «rifiuto» dettata dallart. 1 della recepita Direttiva 91/156/CEE [art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito con legge 8 agosto 2002, n. 178, norma di «interpretazione autentica» della definizione di cui all'art. 6, lettera a) del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22; disposizione espressamente richiamata, da ultimo, dall'art. 1, comma 25, 26, 27, 28 e 29, legge 15 dicembre 2004, n. 308 che, in materia di rottami, rende disposizioni immediatamente applicabili]. Il giudice di prime cure osserva che, pure dopo la pubblicazione della sentenza C/457 di data 11 novembre 2004 resa dalla Corte di Giustizia delle Comunita' europee (di cui si dira) e, comunque, dopo la pubblicazione della legge-delega per l'ambiente 15 dicembre 2004, n. 308, la perdurante contraddittorieta' del quadro di riferimento normativo concernente la circolazione di rottami ferrosi pone seri problemi di intelligibilita' della norma agendi, con implicazioni notevoli sul piano della ignoranza inevitabile della legge penale, e, quindi, sul piano della stessa configurabilita' del reato contravvenzionale. Il giudice di prime cure osserva che l'assunto del p.m. riguardante la qualificazione dei materiali ferrosi come «rifiuti», risulta essere fondato sulla sentenza C/457 di data 11 novembre 2004, resa di recente dalla Corte di Giustizia della Comunita' europea, giacche' solo in base ad essa si giunge a qualificare come rifiuto anche il bene suscettibile di valutazione economica, privo di potenzialita' offensive per l'ambiente e destinato al riutilizzo nell'ambito di un procedimento produttivo altro da quello di provenienza. E pero' pure osserva che alla pronuncia della Corte di Giustizia di data 11 novembre 2004, segue, a far data dall'11 gennaio 2005, l'entrata in vigore della legge 15 dicembre 2004, n. 308, che, nel rendere norme immediatamente precettive [art. 1, comma 25, 26, 27, 28 e 29], non solo attribuisce a detti rottami ferrosi la qualifica di «materie prime secondarie» (cosi' da escludere che essi possano essere ricondotti alla definizione comunitaria di «rifiuto»), ma mantiene espressamente «fermo» il disposto dell'art. 14 del convertito decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 [norma recante «interpretazione autentica» della preesistente norma interna-recettiva della definizione di fonte comunitaria, dichiarata non conforme al diritto comunitario da detta sentenza della Corte di Giustizia]. Donde l'ignoranza inevitabile - dal punto di vista esterno - della «norma agendi» e della legge penale (art. 5 c.p. come modificato dalla sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale). Il giudice di prime cure osserva che la considerazione dell'excursus normativo risulta essere utile per correttamente inquadrare la questione dell' «immediata applicabilita» della sentenza Corte di Giustizia comunitaria al caso di specie. Egli sottolinea che e' la stessa parte motiva della sentenza 11 novembre 2004 (1/2.29) a significare che una direttiva non puo' avere l'effetto, di per se' e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilita' penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni. Donde la necessita' di ritenere che eguale limite incontri la sentenza interpretativa della Corte di Giustizia, stante la natura sua di mero accertamento rispetto ai contenuti dell'atto normativo comunitario di riferimento. Sicche', essendo incontestabile che al momento dell'avvio del procedimento penale che ne occupa [e, percio', il 25 gennaio 2005], la situazione normativa aveva gia' subito radicale mutamento [per essere entrata in vigore la disposizione di legge che espressamente esclude i rottami ferrosi dal catalogo dei «rifiuti»], cosi' da rendere priva di rilevanza penale la condotta del Lorenzato, egli conclude nel senso che, qualora si ritenesse applicabile la sentenza interpretativa del giudice comunitario, verrebbero a porsi i presupposti per l'affermazione di responsabilita' penale con riferimento a fatti che - stando al nuovo dato normativo - in nessun modo possono essere sussunti a fattispecie penalmente rilevante per l'ordinamento interno, neppure in virtu' della piu' ardita delle interpretazioni estensive. Concludendo, il giudice di prime cure osserva che, solo per effetto del riconoscimento di efficacia immediata della disposizione comunitaria, si verrebbe a considerare reato una condotta cui il diritto interno inequivocabilmente nega - con una disposizione sopravvenuta ad hoc - rilevanza penale. Donde il rigetto delle richieste di convalida e di sequestro preventivo in premessa indicare. 2. - Motivi di appello proposti dal p.m. avverso tale diniego. Nel proporre appello avverso tale diniego, ripercorso l'excursus normativo di cui si e' detto, il pubblico ministero evidenzia che la sentenza C/457 di data 11 novembre 2004 resa dalla Corte di Giustizia comunitaria impone la «disapplicazione» della norma interna contrastante, essendo evidente che la disposizione sopravvenuta alla pubblicazione della pronuncia suddetta, ripropone la qualificazione disdetta, tal quale. Quanto all'antinomia tra il principio di diritto affermato dalla sentenza dalla Corte di Giustizia comunitaria (che rende si' autentica interpretazione della direttiva 75/442/CEE) e l'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29 della successiva legge delega per l'ambiente 15 dicembre 2004, n. 308), il pubblico ministro osserva che mentre detta sentenza afferma che i rottami metallici devono conservare la qualifica di «rifiuti» finche' non risultino essere effettivamente riciclati in prodotti siderurgici [e, percio', finche' non costituiscano i prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati], la legge/italiana di qualche giorno successiva afferma l'esatto contrario, [la' dove pone che tali rottami sono sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti, se rispondenti alla definizione introdotta dalle nominate disposizioni di diritto interno contrastanti, di «materia prima secondaria» per attivita' siderurgiche e metallurgiche, purche' abbiano certe caratteristiche merceologiche e siano destinate in modo oggettivo ed effettivo al reimpiego nei menzionati cicli produttivi]. In diritto il pubblico ministero evidenzia che, ancorche' la Corte di Giustizia comunitaria abbia offerto al giudice nazionale tutti gli elementi interpretativi necessari per dirimere l'accertata antinomia, sussistendo nel caso di specie le condizioni legittimanti la «disapplicazione» dell' art. 14 del convertito decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 e dell'art. 1, commi 25-29 della legge 15 dicembre 2004, n. 308, del tutto erroneamente il giudice di prime cure non giunge a considerare - certo, incidentalmente - tamquam non esset la norma di diritto interno contrastante. Inoltre il pubblico ministero puntualizza che il contrasto tra la sentenza della Corte di Giustizia comunitaria e la norme interne (anteriori e successive all'accertamento della stessa), potrebbe dirsi risolto, in quanto, le disposizioni tutte che qualificano i rottami metallici come «materie prime secondarie», non solo contraddicono l'interpretazione di «rifiuto» dichiarata conforme al diritto comunitario da detta Corte di Giustizia, ma anche urtano il regolamento CEE n. 259/1993 relativo ai «trasporti transfrontalieri di rifiuti» [la' dove nel caso concreto si verte in materia di trasporti transfrontalieri], fonte normativa obbligatoria in tutti i suoi elementi costitutivi e immediatamente applicabile in ciascuno degli Stati membri, che, espressamente richiama la definizione di matrice comunitaria disattesa, tanto dall'art. 14 del convertito decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, che dalla legge 15 dicembre 2004, n. 308 [art. 1 commi 25, 26, 27, 28 e 29]. Sicche', ribadita la necessita' di applicazione immediata, diretta e prevalente, nell'ordinamento interno dei principi fissati [meno che da direttive non autoapplicative], da direttive positivamente recepite, da regolamenti comunitari (Corte cost. ord. n. 144/1990) e da sentenza della Corte di Giustizia comunitaria (Corte Cost., sentenza n. 389/1989 e n. 113/1985), il pubblico ministero insiste nella domanda di adozione della cautela reale, previa «disapplicazione» delle nominate norme di diritto interno, contrastanti. In via subordinata, il p.m. seguendo la traccia segnata dalla parte motiva dell'ordinanza a tenore della quale il Tribunale di Terni ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 commi 25, 26, 27, 28 e 29 della legge 15 dicembre 2004, n. 308, per violazione degli artt. 11 e 117, comma primo, Costituzione, chiede al tribunale di sollevare analoga questione e di rimettere gli atti alla Corte costituzionale. Si vedra' di seguito perche', pur ritenendo sussistere nella specie le condizioni legittimanti la «non applicazione» delle norme di diritto interno contrastanti, il tribunale ritenga di non potere addivenire, per l'intanto, a tale soluzione. Si vedra' di seguito per quali motivi (dissimili, in parte, da quelli proposti dal giudice di Terni) il Tribunale ritenga essere doveroso eleggere la via della rimessione degli atti alla Corte costituzionale. A margine si osserva che il difensore ha chiesto volersi rigettare l'appello proposto dal p.m. per i motivi enunciati dal giudice di prime cure. 3. - Rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita' dell'art. 14 del convertito decreto-legge dell'8 luglio 2002, n. 138 e dell'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29 della legge 15 dicembre 2004, n. 308, nella parte in cui prevedono che «I rottami ferrosi» siano esclusi dal catalogo dei «rifiuti e dalla disciplina normativa concernente la loro gestione, per violazione degli articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione. 3.1. - Premesse note. La gestione dei rifiuti trova, nell'ordinamento interno italiano, la sua prima fonte di disciplina nel decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, emanato in attuazione della legge delega 6 febbraio 1996, n. 52 [recante «disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' europee - legge comunitaria 1994, Ecologia»], con il quale si da' attuazione alle Direttive CEE 75/442, 91/156/CEE e 94/62/CE. L'art.6, n. 1, lettera a) del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 definisce il concetto di «rifiuto» alla stregua di due criteri, come «qualsiasi sostanza o oggetto che rientra nelle categorie di cui all'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». Quanto al primo criterio, quello dell'appartenenza all'allegato A, vale richiamare che esso riprende l'elenco dei rifiuti contenuto nell'allegato 1 della Direttiva CEE 75/442, catalogo puramente indicativo, perche' accanto a voci nominate, esso ha riguardo a voci in bianco che fanno riferimento a «qualunque [altra] sostanza o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate» (punto Q 16 del predetto elenco). Quanto al secondo criterio, attinente alle condotte relative al «disfarsi» occorre richiamare che l'art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 convertito dalla legge 8 agosto 2002, n. 178 ha reso «interpretazione autentica» della definizione di rifiuto contenuta nell'art. 6, n. 1, lettera a) specificando che le espressioni «disfarsi», «abbia deciso» e «abbia l'obbligo di disfarsi», vanno lette nel senso che, a che' un residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla qualifica di «rifiuto», e' sufficiente che esso sia o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza recare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza concorso di operazioni di recupero ai sensi dell'allegato II B della Direttiva 75/442. Un tanto al fine di escludere dalla nozione di rifiuto, (a dette condizioni) i residui di produzione o consumo idonei ad essere riutilizzati, ossia i cc.dd sottoprodotti dei quali un'impresa non ha intenzione di disfarsi ma che intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari. Tale «interpretazione autentica» e' stata giudicata non conforme al diritto comunitario dalla Corte di Giustizia delle Comunita' europee, che, pronunciando con sentenza C/457 dell'11 novembre 2004 sull'interpretazione della direttiva 75/442/CEE, ai sensi dell'art. 234 Trattato CE (in un caso originato dal sequestro di un carico di materiali ferrosi), ha stabilito un principio di diritto incompatibile con la possibilita' di applicazione del citato art. 14, legge n. 178/2002. Secondo la Corte di Giustizia, i termini delle sollevate questioni pregiudiziali devono essere interpretati in termini coerenti con la ratio di tutela delle nominate direttive europee. Puo' anche ammettersi che un residuo di produzione possa essere considerato sottoprodotto di cui l'impresa non ha intenzione di disfarsi, spiega la Corte: e pero' alla condizione che il suo riutilizzo sia non solo eventuale, ma certo; e che avvenga nel corso del processo di produzione (punto 45). L'«interpretazione autentica» dettata dall'art. 14 del convertito decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, spiega la Corte, sottrae alla qualifica di «rifiuto» residui di produzione o di consumo che corrispondono alla definizione sancita dall'art. 1, lettera a), primo comma, della direttiva 75/442. Osserva la Corte di Giustizia: [...] [50]. Orbene, secondo l'interpretazione risultante da una disposizione quale l'art. 14 del decreto-legge n. 138/2002, affinche' un residuo di produzione o di consumo sia sottratto alla qualifica come rifiuto sarebbe sufficiente che esso sia o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B della direttiva 75/442. [51] Un'interpretazione del genere si risolve manifestamente nel sottrarre alla qualifica come rifiuto residui di produzione o di consumo che invece corrispondono alla definizione sancita dall'art. 1, lettera a), primo comma, della direttiva 75/442. [52] In proposito, materiali come quelli oggetto del procedimento principale non sono riutilizzati in maniera certa e senza previa trasformazione nel corso di un medesimo processo di produzione o di utilizzazione, ma sono sostanze o materiali di cui i detentori si sono disfatti. Stando alle spiegazioni del sig. Niselli, i materiali in discussione sono stati successivamente sottoposti a cernita ed eventualmente a taluni trattamenti, e costituiscono una materia prima secondaria destinata alla siderurgia. In un tale contesto essi devono tuttavia conservare la qualifica di rifiuti finche' non siano effettivamente riciclati in prodotti siderurgici, finche' cioe' non costituiscano i prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati. Nelle fasi precedenti, essi non possono ancora, infatti, essere considerati riciclati poiche' il detto processo di trasformazione non e' terminato. Viceversa, fatto salvo il caso in cui i prodotti ottenuti siano a loro volta abbandonati, il momento in cui i materiali in questione perdono la qualifica di rifiuto non puo' che essere fissato ad uno stadio industriale o commerciale successivo alla loro trasformazione in prodotti siderurgici poiche', a partire da tale momento, essi non possono piu' essere distinti da altri prodotti siderurgici scaturiti da materie prime primarie (v., per il caso particolare dei rifiuti di imballaggio riciclati, sentenza 19 giugno 2003, causa C444/00, Mayer Parry Recycling, Racc. pag. 16163, punti 6175). [53] La seconda questione deve essere pertanto risolta dichiarando che la nozione di rifiuto ai sensi dell'art. 1, lettera a), primo comma, della direttiva 75/442 non deve essere interpretata nel senso che essa escluderebbe l'insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B di tale direttiva.». [...]. Conclude la Corte di Giustizia nel senso che: «1) La definizione di rifiuto contenuta nell'art. 1, lettera a), primo comma, della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE e dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE, non puo' essere interpretata nel senso che essa ricomprenderebbe tassativamente le sostanze o i materiali destinati o soggetti alle operazioni di smaltimento o di recupero menzionati negli allegati II A e II B della detta direttiva, oppure in elenchi equivalenti, o il cui detentore abbia l'intenzione o l'obbligo di destinarli a sifatte operazioni. 2) La nozione di rifiuto ai sensi dell'art. 1, lettera a), primo comma, della direttiva 75/442 come modificata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350, non deve essere interpretata nel senso che essa escluderebbe l'insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione odi consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B di tale direttiva.» Si osserva, a margine, che la condizione in cui si trovano i rottami ferrosi di cui e' stato negato il sequestro e esattamente quella sopra detta: di materiali che, pure potendo avere qualche valore economico, stando al principio enunciato dalla Corte di Giustizia comunitaria, devono conservare qualificazione di «rifiuto», giacche' risultano essere oggetto di dismissione da parte degli originari produttori e di conferimento ad utilizzatori altri, con destinazione al reimpiego in processo produttivo altro da quello di derivazione. Stando al principio enunciato dalla Corte di Giustizia, detti rottami devono conservare la qualificazione di «rifiuto», fino al momento di avvenuto riutilizzo in prodotti siderurgici. 3.2. - Puo' il giudice nazionale disapplicare la norma interna contrastante, qualora da tale atto siano suscettibili di derivare (comunque) effetti penali «in malam partem». Il tribunale versa in una situazione di primo impasse, perche', mentre la sentenza della Corte di Giustizia orienta nel senso della necessaria «disapplicazione» della norma di diritto interno contrastante, la legge 15 dicembre 2004, n. 308 [art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29], successiva alla pubblicazione della sentenza suddetta, ripropone la qualificazione disdetta, tal quale. Nella Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 2004 e' stata infatti pubblicata la legge 15 dicembre 2004, n. 308 (vige dall'11 gennaio 2005) che, oltre a rendere «delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale», prevedendo misure di immediata e diretta applicazione, detta modifiche del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, intercalando un «q-bis» nel testo dell' art. 6, comma 1. I commi 25, 26, 27, 28 e 29 dell'art. 1 recano nuove disposizioni in materia di rottami ferrosi (e non). Viene cosi' introdotta la definizione di «materia prima secondaria per attivita' siderurgiche e metallurgiche», tali i rottami, derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o ad altre specifiche nazionali e internazionali, nonche' i rottami scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche sopra merizionate». Risulta essere evidente che, in luogo di adeguare il dato normativo interno, la legge 15 dicembre 2004, n. 308, successiva alla sentenza della Corte di Giustizia C-457 11 novembre 2004, mantiene perentoriamente «fermo» il disposto dell'art. 14 del convertito decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (art. 1, comma 26.) finendo per disciplinare la vicenda della circolazione dei materiali ferrosi in termini ancora una volta incompatibili con l'ordinamento comunitario [art. 1, comma 25, 26, 27, 28 e 29]. Viene dunque in rilievo contrasto tra la sentenza dalla Corte di Giustizia delle Comunita' europee (interpretazione della direttiva 75/442/CEE) e l'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29 dalla successiva legge delega per l'ambiente 15 dicembre 2004, n. 308. Per quel che in questa sede interessa, si osserva che mentre la sentenza allerma che i rottami metallici devono conservare la qualifica di «rifiuti» finche' non risultino essere effettivamente riciclati in prodotti siderurgici, e, percio', finche' non costituiscano i prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati, la legge italiana successiva afferma il contrario, la' dove pone che tali rottami sono sottoposti al regime delle materie prime (non a quello dei rifiuti) se rispondenti alla definizione (introdotta dalla nominate disposizioni di diritto interno, contrastanti) di materia prima secondaria per attivita' siderurgiche e metallurgiche, purche' abbiano certe caratteristiche merceologiche e siano destinati in modo oggettivo ed effettivo al reimpiego nei richiamati cicli produttivi. Ed e' palese che con le nominate disposizioni di legge il nostro Paese si sia sottratto agli obblighi derivanti dall'appartenenza sua all'Unione europea obblighi sanciti dall'art. 249 del Trattato CE, spettando agli Stati membri di adottare ogni misura necessaria per conformarsi alle direttive, vincolanti; obblighi sanciti dall'art. 10 del medesimo Trattato, gravanti non solo sulle autorita' cui spettano il potere legislativo e quello regolamentare, ma anche sul giudice nazionale, che, stando il primato e la capacita' di penetrazione nell'ordinamento interno del diritto comunitario e' (anche) giudice comunitario; obblighi sanciti dall'art. 234 del medesimo Trattato, che, attraverso il ricorso in via pregiudiziale, realizza forme di necessaria cooperazione tra giudici nazionali e Corte di Giustizia, garante dell'interpretazione uniforme del diritto comunitario. Tanto premesso, osserva il Tribunale che, nella materia de qua la Corte di Giustizia comunitaria ha gia' fornito al giudice italiano tutti gli elementi interpretativi necessari per dirimere il contrasto. La proposizione chiave dell'appello proposto dal p.m. avverso il diniego del g.i.p. risulta essere fondato: il contrasto tra la sentenza della Corte di Giustizia comunitaria e la norme interne (anteriori e successive alla statuizione della stessa), potrebbe dirsi risolto, in quanto, adeguandosi all'insegnamento della Corte costituzionale, funzionari e giudici italiani devono «non applicare» le disposizioni tutte che qualificano i rottami metallici come materie prime secondarie: non solo perche' contrastanti con l'interpretazione di «rifiuto» dichiarata conforme al diritto comunitario dalla Corte di Giustizia, ma anche perche' contrastanti con il regolamento CEE n. 259/1993 relativo ai «trasporti transfrontalieri di rifiuti», fonte normativa obbligatoria in tutti i suoi elementi costitutivi e immediatamente applicabile in ciascuno degli Stati membri, che, espressamente richiama la definizione di matrice comunitaria, disattesa, come si e' detto, tanto dall'art. 14 del convertito decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, che dalla legge 15 dicembre 2004, n. 308 [art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29]. E, pertanto, ribadita la necessita' di applicazione immediata, diretta e prevalente, nell'ordinamento interno dei principi fissati [meno che da direttive non autoapplicative, quale quella oggetto di interpretazione da parte della nominata sentenza della Corte di Giustizia comunitaria] dai Regolamenti comunitari (cosi' Corte cost., ord. 144/1990) e dalle sentenze della Corte di Giustizia comunitaria (cosi' Corte cost., sentenza n. 389/1989 e n. 113/1985), ancora una volta richiamato che giusta sentenza C-457 di data 11 novembre 2004 il principio di diritto comunitario risulta essere incontrovertibile e che le nominate disposizioni di legge risultano essere con esso incompatibili [art. 14 del convertito decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 e art. 1 commi 25, 26, 27, 28 e 29 legge 15 dicembre 2004, n. 308], il tribunale ritiene sussistere nel caso sottoposto al suo esame condizioni vincolanti nel senso della disapplicazione delle norme di diritto interno in contrasto (tanto, seguendo la traccia segnata dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 170/1984). Sennonche' pure occorre richiamare che nel rendere giustificazione della primazia del diritto comunitario sul diritto interno, attraverso l'interpretazione del testo vigente dell'art. 11 Costituzione, la Corte costituzionale, a partire dalla nota sentenza n. 170/1984, descrive l'ordine dei rapporti esistenti tra ordinamento comunitario e ordinamento costituzionale italiano alla luce del principio di competenza, pensando a «sistemi autonomi e distinti, ancorche' coordinati». Come noto e' la stessa Corte costituzionale a individuare i punti nodali di tale relazione: 1) nella disapplicazione del diritto interno contrastante col diritto comunitario, da operarsi direttamente dal giudice ordinario, senza necessita' di sollevare apposita questione di costituzionalita'; 2) nella competenza pregiudiziale riservata alla Corte di Giustizia comunitaria sull'interpretazione (e sul controllo di legittimita) del diritto comunitario; 3) nella competenza riservata a se' del controllo ultimo sulla produzione normativa comunitaria, qualora urtasse «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» o rivelasse deficit nella protezione dei «diritti inalienabili della persona», l'un insieme e l'altro ritenuti imprescindibili, sicche' in caso di contrasto sara' detta norma comunitaria ad essere disapplicata dalla Corte costituzionale. Quanto al rapporto tra dritto penale e ordinamento comunitario, occorre richiamare che il punto fermo da preporre al discorso interpretativo risulta essere costituito dalla specifica «incompetenza» penale degli organi dell'Unione europea e della Comunita' europea. Nella prospettiva costituzionale italiana, l'improbabile esercizio della competenza penale da parte della CE urterebbe la riserva di legge sancita dall'art. 25, comma 2, della Costituzione, come «principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale». Il principio di competenza esclusiva degli Stati membri in materia penale e' del resto pacificamente riconosciuto dalla Corte di Giustizia come limite imposto alla norma di fonte comunitaria. La Corte di Giustizia non assume posizioni agnostiche sul punto: riconosciuto al principio di legalita' penale rango di principio generale dell'azione comunitaria, tale enunciazione fonda non solo con occhi rivolti alla tradizione costituzionale comune agli Stati membri, ma guardando immediatamente e direttamente all'art. 7 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo, i cui principi costituiscono principi generali del diritto comunitario, a norma dell'art. 6 del T.U.E. Puntuazione chiara di tali acquisizioni risulta essere costituita dalla sentenza 8 ottobre 1987, causa n. 80/1986, Kolpinghuis Nijmegen Bv, la' dove, ribadita la vincolativita' del principio di interpretazione conforme, la Corte di Giustizia spiega che l'obbligo di riferirsi al contenuto della direttiva nell'interpretare norme incriminatici di diritto interno incontra il limite dei «[...] principi giuridici generali che fanno parte del diritto comunitario e in particolare quelli della certezza del diritto e della irretroattivita»; principi che impediscono di riconoscere che una direttiva «[...] di per se' ed indipendentemente da una legge emanata per la sua attuazione» possa determinare o aggravare la responsabilita' penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni. Puntuazione ulteriore di tali acquisizioni risulta essere costituita dalla sentenza 26 settembre 1996, causa C168/1995, Arcaro, la' dove ancora una volta la Corte di Giustizia, evidenzia il significato del principio di legalita' penale nella dimensione del diritto comunitario, come limite proprio del vincolo di interpretazione conforme. L'ordine del discorso non muta qualora obblighi di interpretazione conforme del diritto interno derivino, meno che da una direttiva, derivino da fonte provvista di piu' sicura capacita' di penetrazione nell'ordinamento interno, quale il regolamento, immediatamente e direttamente applicabile senza necessita' di misure di attuazione (sentenza 7 gennaio 2004, causa 60/2002, Montres Rolex). In definitiva. ancorche' la Corte di Giustiza comunitaria abbia offerto al giudice nazionale tutti gli elementi interpretativi necessari per dirimere l'antinomia, sussistendo nel caso concreto le condizioni legittimanti la «disapplicazione» dell'art. 14 del convertito decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 e dell'art.1 commi 25-29 della legge 15 dicembre 2004, n. 308, il tribunale dubita di potere considerare (sia pure incidentalmente) tamquam non esset la norma di diritto interno contrastante, giacche' da tale atto deriverebbero nei confronti dell'indagato Lorenzato effetti penali in malam partem. Sul tribunale gravano, insieme, l'obbligo di interpretazione conforme al diritto comunitario (secondo cui le autorita' nazionali tutte devono adottare tutti i provvedimenti atti a garantire Iadempimento dei precetti comunitari come individuati e precisati attraverso una specifica pronuncia della Corte di Giustizia comunitaria) e obblighi di interpretazione conforme al dettato costituzionale, giacche' un intervento sulla cornice della tipicita', sia pure di portata endoprocedimentale, tramite «disapplicazione» della norma di diritto interno incompatibile, urterebbe il principio di riserva di legge sancita dall'art. 25 comma 2 della Costituzione. Il tribunale dubita che il giudice nazionale possa disanplicare la norma interna contrastante, qualora da tale atto siano suscettibili di derivare (comunque) effetti penali, in malam partem. 3.4. - Rivelanza e non manifesta infondatezza della questione per violazione degli articoli 11 e 117 primo comma, Costituzione. Si potrebbe pensare, a questo punto, che il diritto comunitario non disponga di strumenti giuridici idonei ad azionare anche solo mediatamente i suoi vincoli di tutela e/o a influire anche solo mediatamente sulla cornice della tipicita' penale, proprio a causa della unanimemente riconosciuta «incompetenza» penale degli organi dell'Unione europea e della Comunita' europea. E pero', quanto alla struttura della descritta antinomia, il tribunale osserva che essa non corrisponde affatto ad una inattuazione originaria (totale o parziale) dell'obbligo di tutela da parte del legislatore nazionale; e neppure ad una attuazione inadeguata o non proporzionata; ma ad una modificazione della norma interna preesistente, che [stando a quanto specificamente e incontrovertibilmente accertato dalla Corte di Giustizia] obblighi [di tutela] derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' europee andava espressamente attuando. Si vuole significare che il possibile vizio di legittimita' della norma interna modificatrice deriva [meno che dalla mancata attuazione] dalla revoca di una tutela gia' accordata, che, prima facie non sembra essere rispettosa dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario. Il tribunale si interroga: stante la «prevalenza» del diritto comunitario sul diritto interno, stante l'immediata e diretta applicabilita' in ambito interno delle decisioni della Corte di Giustizia comunitaria (Corte Cost. n. 113/1985; Corte Cost. n 232 e n. 389/1989), stante la capacita' di penetrazione nell'ordinamento interno del regolamento CEE n. 259/1993 relativo ai «trasporti transfrontalieri di rifiuti» (in quanto regolamento CEE), davvero, nessuna capacita' di «resistenza» puo' essere riconosciuta alle norme (penali o non, poco conta) attuative di obblighi derivanti da vincoli di natura comunitaria gia' adempiuti? E, comunque: e' costituzionalmente plausibile che la potesta' legislativa sia esercitata dallo Stato per sottrarsi a detti vincoli? Definitivamente chiarita dalla Corte di Giustizia l'antinomia di cui si e' detto (mediante sentenza C457 dell'11 novembre 2004), seriamente dubitando questo giudice di potere risolvere da se' il conflitto normativo esistente (sia pure incidentalmente, tramite «disapplicazione», giacche' da tale atto deriverebbero effetti in malam partem) il tribunale ritiene di dovere sollevare questione di legittimita' costituzionale, impugnando la norma interna - «abrogratrice» di qualsivoglia di forma tutela (nella materia de qua), norma interferente, per un verso, con l'ambito di applicazione della recepita Direttiva CEE 75/442, e, per altro verso, con l'ambito di applicazione del regolamento CEE n. 259/1993 relativo ai «trasporti transfrontalieri di rifiuti» per violazione dell'art. 11 della Costituzione. Il tribunale non ignora del tutto che, giusta costante giurisprudenza della Corte costituzionale, il contrasto tra norme interne e norme comunitarie non da' ordinariamente luogo a questioni di legittimita' costituzionale, per il motivo che nelle materie riservate alla competenza comunitaria le norme interne contrastanti non sono applicabili. E pero', considerato che l'antinomia emerge dalla modificazione di una norma interna che l'obbligo di tutela derivante dall'ordinamento comunitario andava gia' attuando, considerato che l'antinomia assume come termine di relazione immediato e diretto una sentenza della Corte di Giustizia comunitaria, e, inoltre, un regolamento CEE, nondimeno ritiene che il controllo di costituzionalita' sull'atto legislativo di revoca della tutela possa dirsi plausibile. Anche considerato che, sui limiti «costituzionali» pertinenti ai riflessi in malam [in materia penale] dell'obbligo di interpretazione conforme, non pare che la Corte costituzionale si sia espressamente pronunciata (e che una sua parola sul tema davvero potrebbe essere preziosa). Sennonche', sotto altro distinto profilo, rileva che il nuovo testo dell'art. 117 della Costituzione, introdotto dalla recente legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3, recante «Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione», qualcosa di inedito parrebbe potere significare la' dove, al primo comma, pone che la potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato [e dalle regioni] nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario [e dagli obblighi internazionali]. Non e' dunque pensabile che gli obblighi comunitari di tutela trovino segno di riconoscimento, oltre che nell'art. 11 Costituzione (sulla base dell'interpretazione del quale risultano essere stati fondati), anche nel nuovo testo dell'art. 117 comma primo Costituzione? Rimane ovviamente fermo che, appartenendo il principio di riserva di legge in materia penale (25 comma 2 Costituzione) al catalogo dei «principi fondamentali del nostro ordinamento», gli obblighi comunitari di tutela in nessun modo potrebbero condizionare il legislatore penale, la cui potesta' nell'esercizio della funzione incriminatrice rimane (deve rimanere) impregiudicata. E pero nel caso in esame, ancora una volta osserva il tribunale, non vengono in considerazione problemi di «adeguatezza» e/o di «razionalita» della tutela esatta da fonte comunitaria; e, neppure, a bene vedere, vengono in rilievo questioni attinenti all'«an» della tutela, sub specie di «inattuazione originaria» dell'obbligo. Giacche' si tratta, diversamente, di revoca legislativa di una tutela gia' accordata (si tratta di transizione dalla previsione di una qualche forma di reazione ordinamentale interna, doverosa, a nessuna reazione). Percio' il tribunale ritiene di dovere sollevare questione di legittimita' costituzionale, impugnando la norma interna «abrogativa» della tutela anteriormente apprestata, in ottemperanza a vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, per violazione dell'art. 117 della Costituzione che, al suo primo comma, quei i vincoli pone la necesita' di rispettare. In questa prospettiva sembra essere rilevante che nel caso particolare [interferendo con l'ambito di applicazione della gia' recepita Direttiva CEE 75/442, stante l'antinomia accertata dalla Corte di Giustizia comunitaria con la sentenza suddetta, interferendo con l'ambito di applicazione del regolamento CEE n. 259/1993 relativo ai «trasporti transfrontalieri di rifiuti»] il legislatore nazionale abbia «revocato» ogni tutela, comunitariamente necessaria (essendo incidentale il fatto che, rispettando vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, egli avesse anteriormente ritenuto necessario approntare tutela «penale», giacche', come noto, obblighi comunitari e/o costituzionali di tutela «penale» non sono punto configurabili). In nessun modo il tribunale considera plausibile che le modifiche apportate dalla legge costituzionale n. 3/2001 al titolo V della parte seconda della Costituzione possano indurre la Corte ad assumere il controllo di legittimita' di leggi confliggenti con il diritto comunitario, in quanto tali. Tanto piu' che, stabilendo garanzie costituzionali di attuazione di obblighi [internazionali e] comunitari e ponendo a priori limiti concernenti l'esercizio della potesta' legislativa, l'art. 117 primo comma Costituzione non attiene alle modalita' di attuazione di detti obblighi nell'ordinamento interno. Sicche' il Tribunale e' bene consapevole che la riforma dell'art. 117 risulta essere coerente con gli orientamenti consolidati della giurisprudenza costituzionale italiana, che hanno riguardo, piuttosto, alla necessita' (imposta al giudice ordinario dall'ordinamento interno) di disapplicare leggi confliggenti con il diritto comunitario. E pero', osserva il tribunale, che seppure e' impensabile che la legge di riforma costituzionale n. 3/2001 intendesse mettere in discussione gli esiti di tanto significativa evoluzione della giurisprudenza costituzionale, seppure e' impensabile che essa intendesse mutare assetto dei rapporti fra ordinamento interno ed ordinamento comunitario, pure e' innegabile che il nuovo testo dell'art. 117 primo comma Costituzione appresta garanzie di osservanza di vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario attraverso la previsione di un limite esterno all'esercizio della potesta' legislativa. Una volta liberamente eletta la via della attuazione dell'obbligo comunitario di tutela, puo' il legislatore ordinario revocare tout court la tutela gia' apprestata? In ordine alla rilevanza della questione, osserva il tribunale che gli esiti dell'appello promosso dalla Procura della Repubblica ai sensi dell'art.322-bis c.p.p. dipendono essenzialmente dal come essa possa essere preventivamente risolta, trattandosi di pregiudiziale condizionante altresi' la decisione finale del processo: la norma ordinaria (di diritto interno) di cui si sospetta la non conformita' a Costituzione risulta essere di indispensabile applicazione per giudicare sul caso concreto, essendo dato procedere per presunta violazione degli obblighi, penalmente sanzionati, relativi a rottami metallici considerati «rifiuti», peraltro oggetto di «spedizione transfrontaliera», in quanto, come evidenziato in modo corretto dalla difesa, superato il problema di tale qualificazione, giusta diritto sopravvenuto alla sentenza della Corte di Gustizia comunitaria (e alla cogenza di detto regolamento CEE), l'ipotesi contravvenzionale di riferimento, costituente titolo della domanda di cautela reale respinta dal giudice di prime cure, non sarebbe punto configurabile. Taluno potrebbe opinare che, rimettendo gli atti alla Corte, il tribunale auspica pronunce suscettibili di dar luogo a modifiche in peius del trattamento penale. Se tale rilievo fosse fondato (e non lo e) la questione sarebbe, certo, manifestamente inammissibile, ostando il comma secondo dell'art. 25 Costituzione, la' dove e' noto al rimettente che la Corte costituzionale non puo' introdurre in via additiva nuovi reati; e dove pure e' noto che l'effetto di una sentenza della Corte costituzionale non puo' consistere nell'ampliare o aggravare figure di reato gia' esistenti: trattandosi, questi, di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalita' del legislatore. Parrebbero essere pero' suscettibili di sindacato di costituzionalita', anche in malam partem, disposizioni di legge aventi chiara connotazione «di favore»: e dunque, norme, quali quelle in esame, che per determinati soggetti o per determinate categorie di beni, stabiliscano un trattamento penalistico favorevole rispetto a quello che deriverebbe dall'applicazione di norme generali o comuni (ex plurimis, sentenze 148/1983; 25/1994; 167/1993; 194/1993). In proposito osserva il rimettente che, se il criterio distintivo in base al quale valutare il rispetto della riserva di legge risiede nel fatto che, sempre e comunque, la funzione incriminatrice deve essere riservata al Parlamento, nel caso particolare, meno che la prerogativa di creazione della norma penale da parte del legislatore (gia' esercitata), risulta essere in discussione un suo «limite esterno». Ne', come accennato, la Corte costituzionale viene sollecitata dal tribunale ad esprimere giudizi in termini di adeguatezza o di proporzionalita' o di razionalita' della tutela. Sicche', l'eventuale ablazione della norma «di favore» si limiterebbe a ricondurre la fattispecie (oggetto di trattamento derogatorio) alla norma generale, preesistente, dettata dallo stesso legislatore. Sulla base di questi presupposti il giudice rimettente evidenzia che da una pronuncia della Corte costituzionale che eliminasse dalla scena la norma impugnata non deriverebbe fumus di creazione legislativa in malam partem: la Corte assumerebbe unicamente il ruolo di garante del rispetto di un «limite esterno», stando il quale, attesa la necessita' costituzionalmente imposta di rispettare vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, nelle materie ripartite, il legislatore non puo' perentoriamente revocare la tutela gia' accordata [irrilevante essendo il fatto che si tratti di tutela penale o di altra tutela, giacche', pure si e' detto che il, tribunale non pensa affatto che l'art. 117 comma primo Costituzione produca l'effetto di costituzionalizzare vincoli di razionalita' della tutela richiesta da fonte comunitaria]. La fattispecie penale (pre)esiste. Ne' si chiede alla Corte di estendere o comunque intervenire sul suo ambito di operativita', ogni valutazione di meritevolezza e/o necessita' della pena restando di esclusivo dominio del legislatore nazionale: che tutto puo', salvo revocare tout court la tutela gia' accordata, sottraendosi a vincoli immediatamente e direttamente derivanti dall'ordinamento comunitario.