ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 36, comma 1,
del   decreto   legislativo   9 luglio   1997,   n. 241   (Norme   di
semplificazione   degli  adempimenti  dei  contribuenti  in  sede  di
dichiarazione dei redditi e dell'imposta sul valore aggiunto, nonche'
di  modernizzazione del sistema di gestione delle dichiarazioni), nel
testo  risultante dall'integrazione apportata dall'art. 1 del decreto
legislativo  28 dicembre  1998,  n. 490 (Disposizioni integrative del
decreto  legislativo  9 luglio 1997, n. 241, concernenti la revisione
della  disciplina  dei  centri  di  assistenza fiscale), promosso con
ordinanza  del  4 maggio  2004 dal Tribunale amministrativo regionale
del  Lazio sul ricorso proposto da Giuseppina Fallica ed altri contro
il  Ministero  dell'economia  e delle finanze, iscritta al n. 760 del
registro  ordinanze  2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 41, 1ª serie speciale, dell'anno 2004.
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  Giuseppina Fallica ed altri,
nonche'  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri;
    Udito   nell'udienza  pubblica  del  21  giugno 2005  il  giudice
relatore Franco Gallo;
    Uditi  l'avvocato  Elio  Vitale per Giuseppina Fallica ed altri e
l'avvocato  dello  Stato  Ruggero  Di  Martino  per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
    Ritenuto  che,  nel  corso  di  un  giudizio  promosso  da alcuni
avvocati  tributaristi  aventi  la  qualifica di revisori contabili e
diretto  all'annullamento  dell'art. 1 del decreto del Ministro delle
finanze  29 dicembre  1999 (Disposizioni in materia di certificazione
tributaria),   che   attribuisce   solo   ad   alcune   categorie  di
professionisti   diverse  da  quelle  dei  ricorrenti  il  potere  di
effettuare  la  certificazione  tributaria  dei redditi d'impresa dei
clienti  operanti  in  regime di contabilita' ordinaria, il Tribunale
amministrativo  regionale  del  Lazio,  con ordinanza datata 24 marzo
2004  e  depositata  il  4 maggio 2004, ha sollevato - in riferimento
agli  artt. 3, 35, 76 e 97 della Costituzione - questione incidentale
di  legittimita' costituzionale della disposizione di legge di cui il
decreto   ministeriale  impugnato  costituisce  attuazione,  e  cioe'
dell'art. 36,  comma 1, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241
(Norme  di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti in sede
di  dichiarazione  dei  redditi  e  dell'imposta sul valore aggiunto,
nonche'   di   modernizzazione   del   sistema   di   gestione  delle
dichiarazioni),  nel  testo  risultante  dall'integrazione  apportata
dall'art. 1   del   decreto   legislativo  28 dicembre  1998,  n. 490
(Disposizioni  integrative  del  decreto  legislativo  9 luglio 1997,
n. 241,  concernenti  la  revisione  della  disciplina  dei centri di
assistenza fiscale);
        che,   con   tale   ordinanza  di  rimessione,  il  Tribunale
amministrativo  regionale  del  Lazio  ha reiterato la questione gia'
sollevata  nello  stesso  giudizio  e dichiarata da questa Corte, con
ordinanza  n. 499  del 2002, manifestamente inammissibile per difetto
di motivazione sulla rilevanza;
        che  il  giudice  rimettente  muove  dalla  constatazione che
l'art. 1  del  decreto  ministeriale impugnato dai ricorrenti attua e
riproduce la norma di legge censurata, la quale attribuisce il potere
di  effettuare,  ai  soli  fini  fiscali,  la suddetta certificazione
tributaria  -  prevista dal comma 2 del denunciato art. 36 del d.lgs.
n. 241  del  1997  nei  riguardi dei contribuenti titolari di redditi
d'impresa  operanti,  anche se per opzione, in regime di contabilita'
ordinaria  - esclusivamente ai revisori contabili iscritti negli albi
dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali e dei
consulenti  del  lavoro,  alla  condizione  che abbiano esercitato la
professione  per almeno cinque anni e che abbiano tenuto le scritture
contabili dei contribuenti stessi nel corso del periodo d'imposta cui
si riferisce la certificazione;
        che, secondo il Tribunale amministrativo regionale del Lazio,
le  disposizioni  censurate impedirebbero agli avvocati tributaristi,
pur  a  parita'  di  ogni  altra condizione, di effettuare l'indicata
certificazione tributaria;
        che,  su tale premessa, il giudice a quo afferma che la norma
denunciata  violerebbe: a) l'art. 35 Cost., perche' «l'attribuzione a
determinate  categorie  di  soggetti,  legittimati  a  rilasciare  la
certificazione,    anche    della   tenuta   della   contabilita'   e
dell'effettuazione  della  dichiarazione  dei redditi», comporterebbe
«una sorta di riserva monopolizzatrice» di tali attivita' a favore di
alcuni   professionisti   ed   a   scapito   di   altri,  che  invece
legittimamente  la  potrebbero  esercitare,  e  si  risolverebbe, non
ricorrendo  ragioni  di  interesse  generale,  in una «ingiustificata
limitazione  alla  scelta  lavorativa  e  al  libero  svolgimento  di
attivita'   lavorative»;   b)   l'art. 76  Cost.,  perche'  l'art. 3,
comma 134,   lettera d),   della  legge  di  delegazione  legislativa
23 dicembre  1996,  n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica),  nello  stabilire  il criterio direttivo di individuare le
modalita'  di  presentazione  delle  dichiarazioni,  anche attraverso
strutture intermedie tra contribuente ed amministrazione finanziaria,
a  fini di semplificazione e di agevolazione degli uffici finanziari,
non  avrebbe  consentito  al  legislatore  delegato  di escludere dal
novero  dei  soggetti  abilitati  alla certificazione tributaria quei
professionisti  (come gli avvocati tributaristi) che offrano garanzie
di  esperienza  e  di  provata  professionalita'  pari  a  quelle dei
soggetti  espressamente abilitati; c) l'art. 3 Cost., perche' sarebbe
in  contrasto  con  il  «principio  perequativo»; d) l'art. 97 Cost.,
perche'  sarebbe  contraria  ai  principi  di razionalita' e di buona
amministrazione;
        che  la  questione  sarebbe  rilevante  -  per  il  Tribunale
amministrativo  regionale  del  Lazio  -  perche'  la declaratoria di
illegittimita'  costituzionale  della  norma denunciata comporterebbe
l'illegittimita'   derivata   dell'impugnato   articolo  del  decreto
ministeriale  che  la  riproduce, con il conseguente accoglimento del
ricorso;
        che il rimettente aggiunge, sempre in punto di rilevanza, che
i ricorrenti, in adempimento di una specifica richiesta del Tribunale
ed  a  seguito  dell'indicata  ordinanza  della  Corte costituzionale
n. 499  del  2002,  hanno  espressamente dichiarato, sotto la propria
personale  responsabilita',  di essere avvocati tributaristi iscritti
«al  registro dei revisori contabili, di esercitare la professione di
revisore  contabile da almeno cinque anni e di detenere presso di se'
le scritture contabili dei propri clienti»;
        che  in  virtu'  di  tale  dichiarazione sarebbe venuta meno,
secondo  il giudice a quo, la carenza di motivazione sulla rilevanza,
constatata dalla citata ordinanza n. 499 del 2002, emessa dalla Corte
costituzionale    in    riferimento    alla    medesima    questione,
precedentemente sollevata nello stesso giudizio principale;
        che   si  sono  costituite  le  parti  private  del  giudizio
principale,   insistendo   genericamente   per  l'accoglimento  della
sollevata questione;
        che  e'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio
dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato,  concludendo  per  la  declaratoria  di  inammissibilita' o di
manifesta infondatezza della questione;
        che,   in  punto  di  inammissibilita',  la  difesa  erariale
eccepisce  che  il rimettente, nel limitarsi a prendere acriticamente
atto  delle  dichiarazioni  rese dalle parti private sul possesso dei
requisiti    necessari   per   l'abilitazione   alla   certificazione
tributaria,  avrebbe  omesso  qualsiasi  valutazione  sulla  concreta
attitudine  degli  elementi  istruttori  acquisiti  a comprovare tale
possesso   e  sarebbe  cosi'  incorso  in  un  vizio  di  carenza  di
motivazione  sulla  rilevanza,  tale  da  indurre ad una pronuncia di
manifesta   inammissibilita'  non  diversa  da  quella  dell'indicata
ordinanza n. 499 del 2002 della Corte costituzionale;
        che,   quanto   alla   manifesta  infondatezza,  l'Avvocatura
generale  dello  Stato  afferma  che  sarebbe  escluso  il denunciato
eccesso  di  delega,  perche'  il  legislatore  delegato  si  sarebbe
limitato,  con  la  disposizione  censurata,  ad adempiere il compito
demandatogli  dalla legge di delegazione di specificare adempimenti e
responsabilita'  di  alcuni  «studi professionali» - quali «strutture
intermedie»  tra i contribuenti e l'Amministrazione finanziaria dello
Stato  -  nella presentazione delle dichiarazioni dei loro clienti in
materia di imposte sul reddito e di IVA;
        che,  sempre in ordine alla manifesta infondatezza, la difesa
erariale,  in  relazione agli altri parametri costituzionali evocati,
afferma   che   la   delicatezza   e   l'importanza   della  potesta'
certificativa  prevista dall'art. 36 del d.lgs. n. 241 del 1997 hanno
indotto  il  legislatore  delegato,  con  «scelta  [...] non soltanto
ragionevole  ma  [...]  addirittura  necessitata», ad attribuire tale
potesta'  soltanto a soggetti appartenenti a determinate categorie in
possesso  di  specifici  requisiti  professionali, in connessione con
l'ulteriore  requisito  -  ragionevole  e  coerente con le funzioni e
responsabilita'  demandate  agli  stessi soggetti - consistente nella
tenuta  (o  nel  diretto  controllo)  delle  scritture  contabili dei
clienti  certificati,  nel  periodo  d'imposta  di riferimento, fermo
restando  che il controllo finale sull'operato del contribuente resta
di   pertinenza  esclusiva  dell'Amministrazione  finanziaria,  senza
alcuna  possibilita'  di  conflitti  di  interesse tra professionista
certificatore e contribuente certificato;
        che  l'Avvocatura generale dello Stato, nell'escludere che la
norma  denunciata  istituisca un «monopolio» di attivita' a favore di
alcune   categorie   professionali,  osserva  che  la  certificazione
tributaria  non  e'  condizione  di  validita' della dichiarazione di
imposta  e  che  la circostanza che il contribuente possa in concreto
ritenere  preferibile avvalersi della consulenza di un professionista
abilitato   alla   certificazione   tributaria  costituisce  un  mero
accadimento  di  fatto,  inidoneo  a fondare il prospettato dubbio di
legittimita' costituzionale;
        che,  nell'imminenza della pubblica udienza, le parti private
hanno  depositato una memoria illustrativa, affermando la rilevanza e
la   fondatezza   della  questione:  la  rilevanza  conseguirebbe  al
contenuto  delle dichiarazioni rilasciate dai ricorrenti nel giudizio
principale,  sia in punto di anzianita' dell'iscrizione all'albo, sia
in  punto  di  tenuta  della  contabilita' dei clienti; la fondatezza
deriverebbe   dalla   duplice  considerazione  che  «un'attivita'  di
consulenza    fiscale   "protetta"»,   quale   quella   dei   dottori
commercialisti o dei ragionieri, non potrebbe operare «a danno» degli
avvocati  tributaristi  con qualifica di revisori dei conti, e che la
certificazione   tributaria  e'  consentita  dalla  norma  denunciata
perfino  ai  periti commerciali ed ai consulenti del lavoro, ai quali
non  compete attivita' di consulenza fiscale o di tenuta di scritture
contabili.
    Considerato  che  il Tribunale amministrativo regionale del Lazio
dubita  della  legittimita' costituzionale dell'art. 36, comma 1, del
decreto  legislativo  9 luglio 1997, n. 241 (Norme di semplificazione
degli  adempimenti  dei  contribuenti  in  sede  di dichiarazione dei
redditi    e   dell'imposta   sul   valore   aggiunto,   nonche'   di
modernizzazione  del  sistema  di  gestione delle dichiarazioni), nel
testo  risultante dall'integrazione apportata dall'art. 1 del decreto
legislativo  28 dicembre  1998,  n. 490 (Disposizioni integrative del
decreto  legislativo  9 luglio 1997, n. 241, concernenti la revisione
della disciplina dei centri di assistenza fiscale);
        che,  secondo il giudice rimettente, la norma denunciata, nel
riservare   l'attivita'  di  certificazione  tributaria  ai  revisori
contabili   iscritti  negli  albi  dei  dottori  commercialisti,  dei
ragionieri  e  periti  commerciali  e dei consulenti del lavoro, alla
condizione  che  abbiano  esercitato  la professione da almeno cinque
anni  e  che  abbiano  tenuto le scritture contabili dei contribuenti
loro  clienti  nel  corso  del  periodo d'imposta cui si riferisce la
certificazione,    violerebbe:    a)    l'art. 35    Cost.,   perche'
«l'attribuzione  a  determinate  categorie di soggetti, legittimati a
rilasciare la certificazione, anche della tenuta della contabilita' e
dell'effettuazione  della  dichiarazione  dei  redditi» comporterebbe
«una sorta di riserva monopolizzatrice» di tali attivita' a favore di
alcuni  professionisti  e  si risolverebbe, non ricorrendo ragioni di
interesse  generale,  in  una «ingiustificata limitazione alla scelta
lavorativa  e  al  libero  svolgimento  di  attivita' lavorative»; b)
l'art. 76  Cost.,  per  eccesso  di  delega,  perche', escludendo dal
novero   dei   soggetti   abilitati  alla  certificazione  tributaria
professionisti  (come gli avvocati tributaristi) che offrono garanzie
di  esperienza  e  di  provata  professionalita'  pari  a  quelle dei
soggetti abilitati, violerebbe la norma interposta di cui all'art. 3,
comma 134,   lettera d),   della  legge  di  delegazione  legislativa
23 dicembre  1996,  n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica),  la  quale  stabilisce  soltanto  il criterio direttivo di
individuare  le  modalita' di presentazione delle dichiarazioni anche
attraverso «strutture intermedie» tra contribuente ed amministrazione
finanziaria, a fini di semplificazione e di agevolazione degli uffici
finanziari;  c)  l'art. 3 Cost., perche' si porrebbe in contrasto con
il  «principio  perequativo»;  d)  l'art. 97  Cost.,  perche' sarebbe
contraria alla razionalita' ed alla buona amministrazione;
        che  la  questione  e'  stata  gia'  sollevata  nel  medesimo
giudizio   principale   ed   e'   stata   dichiarata   manifestamente
inammissibile  da questa Corte con ordinanza n. 499 del 2002, perche'
nell'ordinanza di rimessione mancava «qualsiasi specifico riferimento
(salva  la  notazione  che  gli avvocati tributaristi ricorrenti sono
revisori  contabili)  ai  profili  di rilevanza della questione nella
concreta  fattispecie  all'esame del giudice a quo, in riferimento al
possesso  [...]  degli altri requisiti che devono accompagnare quello
relativo  all'iscrizione  negli  appositi albi dei revisori contabili
(esercizio  da parte dei revisori della professione per almeno cinque
anni;  tenuta  di  scritture contabili) per poter essere abilitati al
rilascio,  ai  soli fini fiscali, della certificazione tributaria, di
cui  al  comma 2  dell'art. 36 del decreto legislativo 9 luglio 1997,
n. 241»;
        che  il  Tribunale  amministrativo  regionale  del Lazio, nel
riproporre  la  questione, ha inteso colmare le indicate lacune della
motivazione   sulla   rilevanza   mediante  il  mero  richiamo  della
dichiarazione, rilasciata da ciascuno dei ricorrenti sotto la propria
personale   responsabilita'   ed  in  adempimento  di  una  specifica
richiesta  del  Tribunale  stesso,  di  essere «avvocato tributarista
iscritto  al  registro  dei  revisori  contabili,  di  esercitare  la
professione di revisore contabile da almeno cinque anni e di detenere
presso di se' le scritture contabili dei propri clienti»;
        che, tuttavia, neppure con la seconda ordinanza di rimessione
le suddette rilevate lacune sono state colmate;
        che,  in  primo luogo, quanto al requisito dell'«esercizio da
parte  dei revisori della professione per almeno cinque anni» (citata
ord.  n. 499  del  2002),  il  rimettente  omette di specificare se i
revisori  contabili  ricorrenti  abbiano esercitato la professione di
avvocato  tributarista  da  almeno cinque anni, perche', erroneamente
interpretando   sia   l'indicata   ordinanza   della   Corte  sia  la
disposizione censurata, da un lato considera sufficiente l'iscrizione
in   «albi»,   indipendentemente   dall'effettivo   esercizio   della
professione,   e  dall'altro  ritiene  che  tale  esercizio  riguardi
soltanto  la  «professione»  di  revisore contabile e non, invece, la
professione   specificamente   consentita  dall'iscrizione  nell'albo
professionale;
        che  l'erroneita'  dell'interpretazione seguita dal Tribunale
amministrativo  regionale risulta evidente dal tenore letterale della
disposizione denunciata, che esige l'esercizio per almeno cinque anni
della  professione consentita dall'iscrizione in «albi» professionali
(dottore  commercialista; ragioniere o perito commerciale; consulente
del  lavoro)  e  distingue  tale  esercizio  da quello della funzione
consentita dall'iscrizione nel «registro» dei revisori contabili (v.,
in  tal senso, il punto 1 del «Considerato in diritto» della sentenza
n. 307 del 2002, di questa Corte);
        che,  in  secondo  luogo,  quanto  alla  «tenuta di scritture
contabili» relative ai propri clienti da parte dei revisori contabili
ricorrenti,  il  rimettente  omette  di  precisare  se  nella  specie
sussista  tale  requisito,  perche',  confondendo  la  «tenuta  delle
scritture  contabili»  richiesta  dalla  norma denunciata con la mera
detenzione  materiale  dei  documenti  nei  quali  le  scritture sono
riportate,  si  limita  a  richiamare l'irrilevante circostanza della
«detenzione» dei documenti contabili «presso» i ricorrenti;
        che, invece, l'espressione «tenuta delle scritture contabili»
impiegata  dal  legislatore  nella  disposizione denunciata va intesa
come  formazione diretta di tali scritture o comunque come formazione
di   esse  sotto  il  diretto  controllo  e  la  responsabilita'  del
professionista,  secondo  quanto  risulta  sia dal comune significato
delle  parole,  sia  dalla  ratio  della norma (intesa a valorizzare,
nell'ambito  dei  vari  requisiti  stabiliti  per l'abilitazione alla
certificazione tributaria, la circostanza che il professionista abbia
formato,  nella  sostanza,  quelle  stesse  scritture contabili sulle
quali  e'  chiamato  ad  esprimere la propria valutazione), sia dalla
normativa  secondaria  di  attuazione  (che ha espressamente ribadito
tale  accezione,  da ultimo chiarendo che per «tenuta delle scritture
contabili»  deve intendersi non solo la diretta formazione di queste,
ma  anche  la  loro  formazione  sotto  il  diretto  controllo  e  la
responsabilita'  del  professionista:  art. 24,  comma 2, del decreto
ministeriale n. 164 del 1999);
        che,  in  terzo  luogo,  nell'ordinanza  di  rimessione manca
qualsiasi  motivazione  sulla  ricorrenza  dei predetti due requisiti
richiesti dalla norma denunciata per l'abilitazione al rilascio della
certificazione   tributaria,   perche'  il  Tribunale  amministrativo
regionale del Lazio si limita a riportare le dichiarazioni rilasciate
al  riguardo  dai  ricorrenti,  senza  dare  alcuna valutazione sulla
sussistenza effettiva di tali requisiti;
        che,  in  conclusione,  non  avendo il giudice a quo motivato
sulla   rilevanza  della  sollevata  questione,  questa  deve  essere
dichiarata manifestamente inammissibile, restando cosi' precluso ogni
esame  di  merito  (peraltro  gia'  affrontato  da  questa  Corte, in
riferimento   a  molti  dei  profili  sollevati  con  l'ordinanza  di
rimessione  indicata  in  epigrafe,  e  deciso  nel  senso  della non
fondatezza della questione con la sentenza n. 307 del 2002).