IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel corso dell'udienza preliminare relativa al procedimento n. 2501/04 RGNR a carico di Vigilante Carmelino, nato Vallecrosia (IM) 12 agosto 1961, imputato per i reati: a) 110, 368, comma 1 e 2 c.p.; b) 81 cpv., 110, 61 n. 2, 374 c.p.; c) 371-bis c.p.; d) 372 c.p. Nel corso della quale sono state prospettate sia dal p.m. sia dal difensore del teste c.d. «assistito» profili di illegittimita' costituzionale dell'art. 197-bis, comma 4 c.p.p. - per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. - nella parte in cui non prevede che anche l'imputato giudicato con sentenza di applicazione della pena passata in giudicato non possa essere obbligato a deporre. Il p.m. ha avanzato richiesta di rinvio a giudizio, oltre che per l'odierno imputato, anche nei confronti di Sabatino Bruno, Brunelli Guido, Barbabella Danilo e Fazzini Carmelo - questi ultimi tutti appartenenti all'Arma dei carabinieri, e all'epoca in servizio in Imperia - per fatti di calunnia, falsita' in atti, false dichiarazioni al p.m. e falsa testimonianza. Nella fase delle indagini preliminari, il coimputato mar. Ditta Salvatore chiedeva l'applicazione della pena cui seguiva, previo consenso del p.m., sentenza emessa dal g.i.p. Giunti all'udienza preliminare, le varie posizioni si sono scisse: l'imputato Vigilante chiedeva di essere giudicato con rito abbreviato condizionato all'audizione del mar. Ditta, il quale mai ha reso alcuna dichiarazione nel corso del procedimento. Laddove costui fosse stato condannato con sentenza passata in giudicato, ben avrebbe potuto avvalersi della facolta' di non rispondere; avendo patteggiato la pena (con sentenza passata in giudicato) tale evenienza non pare, a una prima lettura, possibile: il comma 4 dell'art. 197-bis c.p.p. recita, infatti, «... il testimone non puo' essere obbligato a deporre sui fatti per i quali e' stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel procedimento aveva negato la propria responsabilita' ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione.». Non sfugge a questo giudice come, in prima battuta, ben sarebbe possibile una lettura «costituzionalmente orientata» della disposizione in esame, in ottemperanza alle plurime indicazioni della Corte di legittimita', nel senso di ritenere ricompresa nella previsione di cui all'art. 197-bis, comma 4 c.p.p. anche la sentenza di applicazione della pena. Invero: la sentenza di patteggiamento e' equiparata dall'ordinamento a quella di condanna; art. 445, comma 1-bis c.p.p.: «Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza e' equiparata a una pronuncia di condanna»; la legge n. 134/2000, modificando l'art. 629 c.p.p., ha esteso la possibilita' del giudizio di revisione anche le sentenze di patteggiamento, cosi' - evidentemente - ammettendo il pieno accertamento del fatto anche per tale tipo di pronuncia. Tuttavia, una tale interpretazione trova un insormontabile ostacolo nella lettura degli atti parlamentari; queste le dichiarazioni del sen. Calvi (seduta senato commissione in sede deliberante 20 dicembre 2000) a proposito del comma 4 in discussione: «Per quanto riguarda invece il comma 4 osserva come - tenendo conto anche della diversa formulazione del comma 1 - la previsione di cui al primo periodo di tale comma debba essere interpretata nel senso che essa non ricomprende le ipotesi di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale. Si tratta di una scelta consapevole volta a far si' che, in tali ipotesi, il soggetto che assume l'obbligo testimoniale sia tenuto a rispondere anche sui fatti per i quali e' stata pronunciata nei suoi confronti la sentenza di applicazione della pena su richiesta, in modo da realizzare cosi una significativa riduzione dell'area del diritto al silenzio nell'ambito qui specificatamente considerato. Prospetta tuttavia la possibilita' di inserire nel comma 4 dell'art. 197-bis - come proposto con l'emendamento 6.2 - dopo la parola "pronunciata" le altre "in giudizio" al fine di evitare possibili dubbi interpretativi che potrebbero nascere in considerazione, tra l'altro, del disposto dell'art. 445, comma 1, ultimo periodo del codice di procedura penale». In definitiva, il legislatore ha oculatamentente vagliato la formulazione del comma 4 dell'art. 197-bis c.p.p., con l'esplicitata intenzione di volervi ricomprendere solo le «sentenze di condanna» emesse all'esito di un «giudizio»: con esclusione, quindi, tra le altre, delle sentenze di applicazione della pena, per definizione prive di una pregressa fase di «giudizio» in senso tecnico (tralasciandosi le questioni inerenti la natura di «giudizio» riconosciuta all'udienza preliminare dal Giudice delle leggi). Dunque, non resta che verificare la compatibilita' di una tale esplicita esclusione con i principi costituzionali. L'analisi non puo' che partire dalla ratio ispiratrice della disposizione in esame: nel contemperamento di due opposti principi - da un lato, il diritto dell'accusato al confronto col proprio accusatore (art. 111 Cost.); dall'altro, il diritto alla difesa (art. 24 Cost.) - l'ordinamento riconosce al c.d. «testimone assistito» il «diritto al silenzio» solo laddove sia stata operata una iniziale e irrevocabile scelta in tal senso (ovvero, ma non e' il caso che occupa, se abbia negato la propria responsabilita). Peraltro - laddove il dichiarante abbia l'obbligo di rispondere o non si sia avvalso della facolta' di astenersi dal deporre - l'assunzione della veste formale di testimone rende a costui applicabili le relative norme procedurali e sostanziali: di talche', tra le altre, egli potra' rispondere del reato di falsa testimonianza nonche' avvalersi, nella sussistenza dei presupposti, dell'esimente di cui all'art. 384 c.p. E proprio l'analisi di tale ultima disposizione, che rappresenta una norma di chiusura, appare necessaria al fine in discussione: essa prevede la non punibilita' - in ossequio al principio nemo tenetur se detegere - relativamente a una serie di reati laddove il fatto sia stato commesso dall'agente poiche' «costretto dalla necessita' di salvare se' medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella liberta' o nell'onore». Orbene, recentemente la suprema Corte ha piu' volte avuto modo di esprimersi su tale norma, esplicitando il principio espresso e definendone l'applicabilita' pro reo (con un evidente parallelismo rispetto all'ampliamento della tutela riconosciuta alle disposizioni sanzionatici dei delitti contro l'onore). Cosi', sono stati riconosciuti quali fatti costituenti pregiudizio ai sensi dell'art. 384 c.p.: il dover ammettere l'uso di sostanze stupefacenti: Cass. n. 37013/03 «ai fini dell'applicazione dell'esimente di cui all'art. 384 cod. pen. per il delitto di favoreggiamento personale, e' configurabile quale "grave e inevitabile nocumento nella liberta'", ed esclude dunque la punibilita' del fatto, la prospettiva dell'applicazione delle sanzioni amministrative delineate all'art. 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per evitare la quale il testimone abbia negato falsamente l'acquisto di stupefacente destinato al proprio personale consumo»; l'aver testimoniato il falso dopo aver sporto una querela calunniosa: Cass. n. 35554/3 «non e' punibile, per il principio nemo tenetur se detegere di cui all'art. 384, cpv. cod. pen., la persona che sia stata costretta a rendere falsa testimonianza nel procedimento promosso su sua querela, cosi' sostenendo l'accusa al fine di evitare l'incriminazione per calunnia»; il dover dichiarare di esercitare la prostituzione: Cass. n. 21431/2003 «in tema di reato di falsa testimonianza, l'esimente di cui all'art. 384 cod. pen. va applicata anche nei casi in cui la situazione di necessita' sia collegabile a scelte dell'agente. (Fattispecie in cui un soggetto aveva reso false dichiarazioni dettate dall'intento di non rivelare l'attivita' di prostituzione esercitata dall'agente che avrebbe determinato un grave nocumento al suo onore)». Inoltre, la suprema Corte ha attribuito assoluta rilevanza alle condizioni personali e sociali dell'agente, si da soggettivizzare l'esimente in esame: Cass. n. 11409/2003 «ai fini dell'applicabilita' dell'esimente di cui all'art. 384 cod. pen., il giudice deve valutare il pericolo del grave nocumento all'onore in relazione alla personalita' dell'autore, desunta anche dall'ambiente in cui vive e dalla sua incensuratezza e pertanto esso puo' ravvisarsi nella necessita' di difendere la propria onorabilita' per evitare di far conoscere la dipendenza dalla droga. (Fattispecie nella quale l'imputato rispondeva del delitto di favoreggiamento per aver ingoiato l'involucro contenente stupefacente, e si era difeso affermando che aveva agito non per favorire lo spacciatore ma per non far conoscere la sua tossicodipendenza)». In definitiva, ben puo' dirsi che nel nostro ordinamento il principio nemo tenetur se detegere tutela le condotte che, ancor prima di costituire illecito penalmente rilevante, potrebbero essere lesive dell'onore e del decoro dell'agente. Vieppiu', tale principio vige indipendentemente dalla sussistenza di una possibile diversa soluzione per l'agente, purche' si prospetti il pericolo per la liberta' e l'onore cfr. Cass. n. 44743/2003: «non e' punibile, ai sensi di cui all'art. 384 cod. pen., colui che ha posto in essere una condotta di favoreggiamento personale, consistita nel negare, agli agenti della polizia giudiziaria, la presenza nella propria abitazione degli autori di una rapina, quando l'agire in modo conforme alla legge avrebbe comportato un'accusa contro se stesso, in contrasto con il principio nemo tenetur se detegere senza che rilevi la circostanza che avrebbero potuto delinearsi altre e diverse possibilita' difensive». E, finanche, laddove lo stato di necessita' sia dipeso dalla volonta' dell'agente: cfr. Cass. n. 21431/2003 su riportata. Se cosi' e', non si vede come la norma della quale si sta valutando la legittimita' possa ritenersi conforme al dettato costituzionale laddove, a fronte di due situazioni assolutamente analoghe e assimilabili (ovvero, la sentenza di condanna e la sentenza di applicazione della pena), propone due antitetiche modalita' di assunzione della prova. Non si vede, allora, come una analoga tutela non possa essere accordata a colui che sceglie la via del «patteggiamento», spesso - come nel caso in esame - addirittura in fase pre-processuale, al dichiarato fine di evitare la stessa richiesta di rinvio a giudizio. In entrambi i casi, infatti, i testimoni assistiti hanno scelto la via del silenzio e hanno riportato una sentenza comportante l'irrogazione di una pena; entrambi, laddove costretti alla deposizione, ben potrebbero invocare a loro favore il principio del nemo tenetur se detegere: e, allora, non pare che il momento processuale in cui la sentenza e' stata emessa possa costituzionalmente giustificare la disparita' di trattamento. Si aggiunga che il tenore del comma 5 della norma in esame recita: «in ogni caso le dichiarazioni rese dai soggetti di cui al presente articolo non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette», cosi' escludendosi il giudizio disciplinare nel quale, pertanto, potrebbero essere utilizzate le dichiarazioni rese quale testimone assistito. Appare ovvio come, solo laddove sia lasciata la possibilita' di scelta, il dichiarante possa valutare le conseguenze e decidere se rispondere o meno: evenienza disattesa nel caso che ci occupa. A parere di questo giudice pare di tutta evidenza l'assoluta irragionevolezza del differente trattamento previsto per l'imputato che abbia «patteggiato» la pena rispetto colui che abbia subito una sentenza di condanna, poiche' le situazioni appaiono del tutto omogenee e sovrapponibili: consegue la violazione dell'art. 3 Cost. Consegue, altresi', la violazione del diritto alla difesa di cui all'art. 24, comma 2 Cost., poiche' nell'obbligo alla testimonianza vi e' palese violazione del diritto al silenzio codificato dall'art. 64 c.p.p., e poiche' espone il dichiarante al rischio di un procedimento per falsa testimonianza (ancorche' applicabile l'esimente di cui all'art. 384 c.p.). Innegabile la rilevanza della questione nel giudizio in esame, essendo stata ammessa l'audizione del mar. Ditta in sede di giudizio abbreviato cd. condizionato: avuta la presenza del teste, il difensore di costui ha chiesto venisse avvisato della facolta' di non rispondere, cui e' seguita l'eccezione di legittimita' costituzionale sollevata dal p.m. cui si e' associata, finanche, la difesa dell'imputato.