IL TRIBUNALE Sciogliendo la riserva assunta alla udienza dell'11 maggio 2005, premesso, che con ricorso, depositato in data 29 aprile 2005, 1'avv. Roberta Reina, curatore del fallimento della Baby Market s.n.c., ha proposto reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato che respingeva la richiesta di porre a carico dell'Erario, ai sensi dell'art. 146 d.P.R. n. 115/2002, il saldo del compenso a lei spettante; che, in particolare, la reclamante ha affermato, per il caso di incapienza della procedura, che il compenso del curatore dovrebbe essere posto a carico dell'Erario, dovendosi ritenere il curatore «ausiliario del giudice», e, quindi, ricompreso fra i soggetti beneficiari della disposizione di cui al citato art. 146, comma 3, lettera c), d.P.R. 115/2002. In caso contrario, secondo la prospettazione della reclamante, la norma sarebbe in contrasto con i principi costituzionali sanciti dall'art. 3 e 36 Cost. e con l'art. 39 LF, che afferma il principio della remimerativita' dell'incarico in oggetto. O s s e r v a 1) Sulla rilevanza della questione sollevata. L'art. 146, comma 3, lettera c), del d.P.R. n. 115/2002 stabilisce che sono a carico dell'Erario, e, quindi, da questo anticipati, le spese ed i compensi agli ausiliari del giudice nei casi in cui la procedura fallimentare sia priva dei fondi necessari. La norma non dice nulla circa la sorte dei compensi ai curatori, che abbiano prestato la propria attivita' nell'ambito di procedure c.d. incapienti. E', peraltro, evidente che una interpretazione estensiva della norma citata, che porti a ricondurre la figura del curatore nell'alveo del concetto di «ausiliario del giudice», risolverebbe ogni questione e consentirebbe di superare tutti i profili critici evidenziati dalla reclamante, garantendo ai curatori, indipendentemente dalla esistenza o meno di un attivo fallimentare sufficiente, l'effettiva remunerazione della carica. Questo Collegio, tuttavia, non ritiene di poter accedere a tale interpretazione, atteso che, come piu' volte evidenziato dalla migliore dottrina, quella del curatore e' figura del tutto peculiare, essendo quest'ultimo titolare di specifici poteri e doveri - in ragione dell'eccezionalita' della procedura fallimentare -, di cui tutti gli altri ausiliari del giudice sono privi. Il curatore e' chiamato a svolgere, invero, un ruolo fondamentale nell'impianto delineato dalla legge fallimentare, in quanto gli vengono attribuiti compiti che trascendono la mera gestione del patrimonio sottoposto all'esecuzione, e che vanno posti in relazione con tutte le modifiche giuridiche cui da' luogo la dichiarazione di insolvenza. Pure potendosi, pertanto, comparare - per taluni profili - la figura del curatore a quella degli altri ausiliari del magistrato, l'evidenziata peculiarita' delle funzioni, che rende il ruolo alquanto piu' complesso rispetto a quello degli altri predetti soggetti, ne impedisce l'equiparazione sic et sempliciter. E', quindi, evidente la rilevanza della questione sollevata, ai fini della decisione del reclamo sottoposto al vaglio di questo Collegio. Nel caso di specie, infatti, il curatore, pure avendo ottenuto la liquidazione dell'intero compenso dovuto per l'attivita' svolta, ha, di fatto, percepito solo parte degli onorari, non trovandosi nell'attivo fallimentare denaro sufficiente per pagare tutto l'importo. Esclusa la possibilita' di interpretazione estensiva, il giudizio della Corte incide in modo immediato e diretto sulla possibilita' di porre il compenso in discorso a carico dell'Erario, e, dunque, sulla decisione cui e' chiamato il Collegio. 2) Sulla non manifesta infondatezza. a) La novita' delle questioni prospettate. Osserva il tribunale che, nel sistema originariamente previsto, il curatore doveva essere iscritto in un apposito albo, e, in caso di fallimento c.d. incapiente, il compenso era posto a carico di un fondo di garanzia all'uopo costituito (cfr. legge 10 luglio 1930, n. 955). Venuto meno, nel 1946, l'albo speciale ed il relativo fondo, dottrina e giurisprudenza hanno cominciato a dibattere circa la sorte dei compensi ai curatori di fallimenti privi di fondi. La Corte costituzionale, piu' volte interpellata sul punto, si e' sempre pronunciata nel senso della non fondatezza o della inammissibilita' delle questioni proposte, richiamandosi ad un principio di «rotazione degli incarichi» (per cui la mancata corresponsione del compenso in caso di procedura priva di fondi sarebbe compensata, secondo l'id quod plerurnque accidit, dalla remunerativita' di altri incarichi), alla non obbligatorieta' dell'accettazione della funzione e piu' in generale alla impossibilita' di riconoscere alla prestazione svolta il carattere di «lavoro», tutelato dall'art. 36 l.f. (cfr. sentenza n. 302/1985; ord. n. 488/1993; sentenza n. 326/1996). La Corte costituzionale ha in sostanza, fino ad oggi, affermato che la mancata previsione di un sistema di salvaguardia per i professionisti, nominati quali curatori di un fallimento privo di fondi, non solo non si pone in contrasto con i principi costituzionali, per i motivi sinteticamente richiamati, ma e', altresi', espressione di una scelta discrezionale del legislatore. Non di meno, si deve evidenziare, opportunamente, che tutte le richiamate pronunce sono intervenute prima dell'intervento del c.d. T.U. in materia di spese di giustizia (d.P.R. n. 115/2002), il quale ha, tra l'altro, compiutamente disciplinato l'istituto del patrocinio a spese dello stato, ha abrogato l'art. 91 l.f. ed e' intervenuto ex novo sulle questioni relative al carico delle spese in caso di procedura fallimentare priva di fondi, ovvero con fondi insufficienti. In particolare, appare rilevante ricordare che, prima dell'intervento del citato testo unico, in materia fallimentare costituiva norma fondamentale - per l'argomento che ci riguarda - l'art. 91 l.f., il quale sanciva che, qualora nel fallimento non vi fossero i fondi sufficienti per fare fronte alle spese connesse agli atti giudiziari necessari alla procedura, queste erano anticipate dall'erario. La norma e' sempre stata interpretata, dalla giurisprudenza maggioritaria di legittimita' e di merito, in senso restrittivo, escludendosi, dunque, dal novero delle spese anticipabili dallo Stato sia le spese non relative al compimento di atti giudiziari, sia gli onorari a qualunque titolo dovuti agli ausiliari del giudice. Veniva, quindi, comunemente esclusa la possibilita' di porre a carico dell'Erario gli onorari richiesti dal CTU per la stima dei beni mobili ed immobili facenti parte della massa fallimentare, quelli richiesti dai notai per la redazione della relazione ipocatastale e della storia del dominio, e, in generale, qualunque onorario richiesto dai professionisti, che avessero esplicato il loro incarico nel contesto della procedura concorsuale (consulenti contabili, ecc.). Ancora, prima dell'intervento del testo unico, l'unica eccezione a siffatta «falcidia» era costituita dai legali delle procedure fallimentari senza fondi, ammesse al gratuito patrocinio. In tal caso, infatti, come per qualunque altro soggetto in possesso dei requisiti di legge ed ammesso a tale beneficio, le competenze maturate dall'avvocato erano poste a carico dello Stato. Nell'ambito del sistema, come sopra delineato, il mancato pagamento del compenso al curatore - in caso di procedura con fondi insufficienti - era, oltre che conforme al dettato legislativo, coerente con la disciplina generale, che limitava fortemente la possibilita' di porre oneri a carico dello Stato. Orbene, il quadro descritto e' stato profondamente modificato, a giudizio del Collegio, dall'intervento del citato testo unico. Infatti, limitando naturalmente l'analisi all'ambito fallimentare, la nuova disciplina prevede: l'anticipazione a carico dell'Erario delle spese ed onorari degli ausiliari del giudice (art. 146, comma 3, lettera c), d.P.R. n. 115/2002); l'ammissione al gratuito patrocinio, nel processo in cui e' parte un fallimento privo di fondi, in forza del decreto del giudice delegato, che attesta la mancanza di disponibilita' della liquidita' necessaria (art. 144, d.P.R. 115/2002); la conseguente possibilita' - in tale ultimo caso - di porre a carico dell'Erario le spese e gli onorari riconosciuti ai difensori, ai consulenti di parte, agli ausiliari del magistrato, sia per i procedimenti penali, che per quelli civili, amministrativi e tributari (cfr. artt. 74 e segg. d.P.R. citato). Appare, dunque, che con l'entrata in vigore del testo unico citato, sia stato introdotto il principio per cui tutti i professionisti che prestano la loro opera nel contesto di una procedura fallimentare priva di fondi possono, comunque, percepire il compenso per l'attivita' prestata, ai sensi degli artt. 144 e 146 cit., atteso che le norme in oggetto fanno espresso riferimento non solo alle spese sostenute, ma anche agli onorari. L'esame degli articoli citati - ed in particolare dell'art. 146 - induce, non di meno, ad una ulteriore riflessione, atteso che nessuno di essi disciplina la sorte del compenso del curatore, in caso di fallimento privo di fondi. Come gia' anticipato, il Collegio non ritiene di potere accedere ad una interpretazione estensiva della norma. L'estensione, infatti, risulta esclusa non solo alla luce delle considerazioni gia' spiegate circa la peculiarita' del ruolo del curatore, ma anche in forza del concreto dettato legislativo. In particolare, non si puo' non evidenziare che l'art. 3 (R) del d.P.R. n. 115/2002, alla lettera n), nell'individuare coloro che - ai fini dell'applicazione delle norme contenute nel Testo Unico - debbono essere considerati «ausiliario del magistrato», fa espresso riferimento al «perito», al «consulente tecnico», all«'interprete», al «traduttore» ed a «qualunque altro soggetto competente, in una determinata arte o professione o comunque idoneo al compimento di atti che il magistrato o il funzionario addetto all'ufficio puo' nominare a norma di legge», ma non prende in considerazione la figura del curatore. La norma induce, ancora una volta, ad escludere la possibilita' di ricomprendere il curatore tra i soggetti definiti «ausiliario del magistrato»; ne' si puo' ritenere che lo stesso possa rientrare tra gli «altri soggetti» di cui alla citata lettera n), atteso che, nell'ambito del T.U., il legislatore ha in piu' occasioni espressamente preso in considerazione la disciplina fallimentare, cosi' che l'omesso riferimento al curatore, nel caso di specie, non pare possa essere interpretata quale mera dimenticanza. Dunque, sembrerebbe ancora preclusa, pure dopo l'intervento del d.P.R. n. 115/2002, la possibilita' di riconoscere il concreto pagamento del compenso al curatore di un fallimento privo di fondi, o con fondi insufficienti. Tale circostanza si pone, ad avviso del Collegio, in contrasto con i principi sanciti dalla Costituzione, mentre la modifica normativa giustifica un ripensamento circa la rilevanza, l'ammissibilita' ed anche la fondatezza delle questioni, gia' in passato prospettate; b) i profili di illegittimita' Costituzionale. Occorre in primo luogo osservare che l'attivita' svolta dal curatore nell'ambito della procedura fallimentare ha senza dubbio carattere professionale, atteso che a rivestire tale incarico non possono essere chiamati soggetti che non siano liberi professionisti, iscritti nell'albo di una delle categorie, l'appartenenza alle quali e' richiesta per l'esercizio della funzione in questione. D'altra parte, la natura professionale dell'attivita' svolta e' confermata anche dal tipo di compenso percepito e, di conseguenza, dal regime fiscale allo stesso applicato. Si puo' sul punto richiamare quanto affermato dalla Commissione tributaria centrale, sez. XIII, con sentenza del 25 marzo 1991, n. 2433, a tenore della quale «Le prestazioni rese dal curatore fallimentare devono considerarsi effettuate nell'esercizio di una professione ai sensi dell'art. 5, lettera a) d.P.R. n. 633 del 1972, e conseguentemente, i compensi percepiti per l'attivita' prestata devono essere assoggettati ad Iva; ne', quando l'attivita' di curatela si sia esaurita in un'unica prestazione, puo' sostenersi che faccia difetto l'abitualita' della professione in quanto e' la professionalita' commercialistica e ragioneristica che costituisce il supporto della ulteriore prestazione professionale resa in qualita' di curatore». Anche la Corte di cassazione ha riconosciuto la natura professionale dell'attivita' svolta dal curatore ed il principio della remunerativita' dell'incarico, ai sensi dell'art. 39 l.f, riconducendo il compenso percepito nell'ambito dei diritti aventi natura patrimoniale e non personale (Cass. n. 12349/1999; Cass. n. 1650/1990). E', dunque, evidente che il curatore, attesa la qualifica professionale - peraltro presupposto indefettibile per l'assunzione della carica -, rientra nell'ambito dei soggetti che svolgono professione intellettuale (art. 2229 c.c.) e, quindi, nell'ambito del piu' ampio concetto di «lavoratore», a cui deve essere riconosciuto il diritto alla retribuzione, proporzionata alla qualita' ed alla quantita' del lavoro svolto, secondo quanto sancito dall'art. 36 Cost. In secondo luogo, appare opportuna una ulteriore riflessione in relazione alla affermata possibilita', per il curatore, di non accettare l'incarico. Tale circostanza, infatti, non determina una modifica della natura dell'attivita' prestata da coloro che hanno accettato l'incarico, dovendosi sempre e comunque trattare di liberi professionisti iscritti nell'albo di una delle categorie, l'appartenenza alle quali e' richiesta per l'esercizio della funzione in questione. Inoltre, riconoscere carattere discriminante alla facolta' di non accettare l'incarico qualora si tratti di procedura fallimentare con poche o nulle prospettive di acquisizione di attivo, conduce ad avallare prassi scorrette in base alle quali l'accesso alla funzione verrebbe di fatto consentito soltanto a coloro i quali possono fare affidamento su altri introiti, ovvero potrebbe condurre al paradosso della mancanza di professionisti disposti ad assumere gli incarichi, ovvero ancora potrebbe deternunare rinunce agli incarichi assunti - una volta verificata l'assenza di attivo -, con cio' causando innegabili ritardi e disfunzioni nella gestione delle procedure. Infine, il piu' grave profilo di incostituzionalita' della norma in esame si palesa, a giudizio del Tribunale, sotto il profilo della violazione dell'art. 3 Cost. Infatti, non potendo il curatore essere considerato tout court un ausiliario del giudice, per le motivazioni piu' volte richiamate, e non potendo di conseguenza trovare applicazione la disposizione di cui all'art. 146, comma 3, lett. c) del d.P.R. n. 115/2002, il medesimo, al quale non puo' non riconoscersi una peculiare ed anche piu' rilevante funzione nell'ambito della procedura fallimentare, rimane l'unico soggetto che in caso di fallimento privo di attivo non viene retribuito per l'attivita' svolta. In sostanza, quindi, nel caso in cui il fallimento giunga alla chiusura senza che si sia potuto acquisire l'attivo sufficiente per fare fronte al pagamento integrale dei debiti assunti dalla curatela per la gestione della procedura, mentre tutti gli altri soggetti che prestano la propria opera a favore della massa - stimatori, consulenti contabili e fiscali, notai, avvocati, ecc. - vengono retribuiti con compensi posti a carico dell'Erario, diverso trattamento patisce il curatore, che resta del tutto insoddisfatto nelle proprie - legittime - aspettative economiche. Il curatore, ad oggi, rimane l'unico professionista che svolge la propria attivita' in favore della massa senza avere la garanzia di ottenere l'effettiva remunerazione del lavoro svolto, realizzandosi, per l'effetto, una ingiustificata disparita' di trattamento. Per le considerazioni esposte, ritiene il Tribunale che l'art. 146 d.P.R. n. 115/2002 debba essere dichiarato incostituzionale sotto i richiamati profili della violazione degli artt. 3 Cost. e 36 Cost. nonche' sotto il profilo della violazione dell'art. 39 l.f. in relazione all'art. 36 Cost.