IL TRIBUNALE

    Nel  giudizio  direttissimo  incardinato,  a seguito dell'arresto
eseguito  addi'  16 marzo 2005 d'iniziativa del Commissariato P.S. di
Monfalcone,   ai   sensi   dell'art. 13,  comma  13-ter  del  decreto
legislativo n. 286/1998 come modificato dalla legge 12 novembre 2004,
n. 271,  nei  confronti  della  cittadina  straniera extracomunitaria
Milavic  Danijela  (di  nazionalita'  croata)  per  il  reato  di cui
all'art.  13,  comma  13,  d.lgs. n. 286/1998 - come sostituito dalla
legge 12 novembre 2004, n. 271.
    Ritenuto  che  all'esito  dell'istruttoria sia stata raggiunta la
prova  in  ordine agli elementi materiali del fatto di reato ascritto
all'imputata.
    Ritenuto  che  peraltro  debba  essere  accolta nonche' integrata
d'ufficio  la  questione  di  legittimita'  costituzionale, sollevata
dalla  difesa,  in  rel.  all'art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286/1998 -
come sostituito dalla legge 12 novembre 2004, n. 271 - nella parte in
cui prevede il limite minimo edittale di un anno di reclusione per lo
straniero  espulso  che  rientri  nel territorio dello Stato senza la
speciale  autorizzazione del Ministro dell'interno, norma in concreto
applicabile alla fattispecie per cui si procede.
    Ha pronunciato la seguente ordinanza.

                       In fatto ed in diritto

    E'  pregiudiziale  rispetta ogni altro profilo la risoluzione del
dubbio  di  costituzionalita',  sollevato  dalla  difesa e che questo
giudice,  condividendolo,  reputa  di  dover  comunque specificare ed
integrare  d'ufficio  circa  la  norma  di cui all'art. 13, comma 13,
d.lgs.  n. 286/1998  -  come sostituito dalla legge 12 novembre 2004,
n. 271  -  nella parte in cui prevede il limite minimo edittale di un
anno   di  reclusione  per  lo  straniero  espulso  che  rientri  nel
territorio  dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro
dell'interno,  per  contrasto con gli articoli 2, 3, 10 e 27, comma 3
della Costituzione.
    La questione e' rilevante, in relazione al presente procedimento,
e  cio' in quanto all'esito dell'espletata istruttoria dibattimentale
risulta  raggiunta  piena  prova  in ordine alle circostanze di fatto
integranti   il   reato  ascritto  all'imputata  Milavic  Danijela  e
segnatamente:
        che  in  data  11  febbraio  2005  nei confronti dell'odierna
imputata,   cittadina   straniera  extracomunitaria  di  nazionalita'
croata,  il  Prefetto  di Trieste ha emesso decreto di espulsione dal
territorio   nazionale   ai   sensi  dell'art. 13,  comma  3,  d.lgs.
n. 286/1998,  per  non  avere  la  stessa  richiesto  il  permesso di
soggiorno  entro  il  termine  di  otto  giorni lavorativi dal di lei
ingresso nello Stato, previsto dall'art. 5 comma 2, d.lgs. cit.;
        che il decreto di esplusione di cui sopra e' stato notificato
in  pari  data  alla  Milavic  corredato  di  traduzione nelle lingue
inglese,  francese  e  spagnola  (fermo  restando  che dagli atti, in
particolare  nel  verbale  di  s.i.t.  d.d.  16  marzo  2005  risulta
attestato  che  la predetta comprende e parla correttamente la lingua
italiana);
        che il provvedimento di accompagnamento alla frontiera emesso
in  data  11 febbraio 2005 dal Questore di Trieste, in esecuzione del
decreto  prefettizio,  pure notificato all'imputata e' stato altresi'
convalidato  dal  Giudice di pace di Trieste in pari data, ai sensi e
nelle  forme  prevista  dall'art. 13, comma 5-bis, d.lgs. n. 286/1998
come  mod.  ex legge 271/2004, ed e' stato quindi eseguito, sempre in
pari  data, dall'Ufficio stranieri della Questura di Trieste mediante
accompagnamento  alla frontiera marittima di Trieste ed imbarco della
predetta cittadina croata sul traghetto diretto a Spalato/Split (HR);
        che in data 16 marzo 2005 personale del Commissariato P.S. di
Monfalcone  ha  sorpreso  la  stessa  Milavic  in  Monfalcone, mentre
viaggiava a bordo di una autovettura con targa italiana insieme a due
cittadini  macedoni,  procedendo  quindi,  a  seguito  della  di  lei
identificazione   a   mezzo   valido  documento  ed  all'accertamento
dell'avvenuta   espulsione,   all'arresto  della  Milavic,  ai  sensi
dell'art.  13,  comma  13-ter  del  d.lgs. n. 286/1998, per l'ipotesi
delittuosa  p.  e  p. dall'art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286/1998 (nel
testo oggi vigente);
        che   a   seguito  della  convalida  dell'arresto  (essendosi
l'imputata  avvalsa  della  facolta'  di  non  rispondere)  e'  stato
incardinato  il  giudizio  direttissimo,  rinviato ad oggi, a seguito
richiesta  di  termine  a  difesa  ed  il  cui esito ha confermato le
circostanze documentali e di fatto precedentemente sintetizzate;
        che  pertanto  il  fatto  ascritto  all'imputata,  consistito
nell'avere  la  medesima, dopo essere stata espulsa fatto rientro nel
territorio   dello  Stato  senza  la  prescritta  autorizzazione  del
Ministro  dell'interno, risulta senz'altro comprovato in lutti i suoi
elementi costitutivi.
    Quanto  precede  parendo  senz'altro integrare la rilevanza della
questione  (data  dalla necessita' di determinare in concreto la pena
da applicarsi per il fatto accertato) si osserva quanto segue.
    I dubbi di costituzionalita' in ordine alla norma di cui all'art.
l3,  comma  13,  d.lgs.  n. 286/1998  (nella  parte in cui prevede il
limite  minimo  edittale di un anno di reclusione), paiono trovare in
primo  luogo fondamento nei principi giurisprudenziali costituzionali
elaborati  in  materia  di  discrezionalita'  del  legislatore  nella
determinazione della quantita' e qualita' della sanzione penale.
    In  particolare  la  Corte  costituzionale,  in  diverse pronunce
richiamate   e   ribadite   nella  sentenza  n. 341/1994,  dopo  aver
riaffermato il principio secondo cui appartiene alla discrezionalita'
del  legislatore  la  determinazione della quantita' e qualita' della
sanzione  penale  e non spetta quindi alla Corte stessa rimodulare le
scelte   punitive   effettuate   dal   legislatore,   ne'   stabilire
quantificazioni  sanzionatorie, ha pero' evidenziato come «alla Corte
rimane  il  compito  di  verificare  che l'uso della discrezionalita'
legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza».
    Detto   principio  e'  stato  cosi'  testualmente  esplicitato  e
ricostruito in prosieguo della sentenza n. 341/1994:
        «con  la sentenza n. 409 del 1989 la Corte ha definitivamente
chiarito  che  "il principio di eguaglianza, di cui all'art. 3, primo
comma,  Cost.,  esige  che la pena sia proporzionata al disvalore del
fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia
nel  contempo  alla  funzione di difesa sociale ed a quella di tutela
delle  posizioni  individuali: ... le valutazioni all'uopo necessarie
rientrano  nell'ambito  del  potere discrezionale del legislatore, il
cui   esercizio   puo'  essere  censurato,  sotto  il  profilo  della
legittimita'  costituzionale,  soltanto  nei  casi  in  cui sia stato
rispettato  il  limite  della  ragionevolezza"  (v. pure nello stesso
senso sentenze nn. 343 e 422 del 1993). Infatti, piu' in generale "il
principio  di  proporzionalita'  ...  nel  campo  del  diritto penale
equivale  a  negare  legittimita'  alle  incriminazioni che, anche se
presumibilmente   idonee   a   raggiungere   finalita'   statuali  di
prevenzione,  producono,  attraverso la pena, danni all'individuo (ai
suoi  diritti  fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente
maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
tutela  dei  beni  e  valori  offesi  dalle  predette incriminazioni"
(sentenza n. 409 del 1989).
    In  altre  recenti  decisioni,  inoltre,  la Corte ha maturato la
convinzione  che la finalita' rieducativa della pena non sia limitata
alla  sola  fase  dell'esecuzione, ma costituisca "una delle qualita'
essenziali  e  generali  che caratterizzano la pena nel suo contenuto
ontologico,   e   l'accompagnano   da   quando  nasce,  nell'astratta
previsione  normativa,  fino  a quando in concreto si estingue": tale
finalita'  rieducativa  implica  pertanto  un  costante "principio di
proporzione" tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e
offesa, dall'altra (sentenza n. 313 del 1990; v. pure sentenza n. 343
del 1993, confermata dalla sentenza n. 422 del 1993).
    In   applicazione  di  questi  principi  le  sentenze  da  ultimo
ricordate  sono  giunte  a dichiarare costituzionalmente illegittime,
come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali
giudicando   che  la  loro  manifesta  mancanza  di  proporzionalita'
rispetto  ai  fatti-rato  si traduceva in arbitrarie e ingiustificata
disparita'  disparita'  di trattamento, o in violazioni dell'art. 27,
terzo  comma  Cost.  In  particolare  la  sentenza n. 343 del 1993 ha
affermato  che  "la palese sproporzione del sacrificio della liberta'
personale"   provocata   dalla  previsione  di  una  sanzione  penale
manifestamente  eccesiva rispetto al disvalore dell'illecito "produce
...  una  vanificazione  del  fine  rieducativo della pena prescritto
dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella liberta'
costituisce  una  garanzia  istituzionale  in relazione allo stato di
detenzione"».
    Tutto  cio'  premesso,  va  osservato  che  -  nella  specie - la
discrezionalita'   del  legislatore  non  pare  esplicata  secondo  i
parametri sopra richiamati.
    Si   deve   premettere   come  la  mera  disamina  della  vicenda
legis1ativo-giurisprudenziale  che  ha  portato - nel novembre 2004 -
all'inasprimento  della  sanzione  penale  in  questione,  denoti che
l'intervento   del   legislatore,   benche'  abbia  riguardato  norme
sostanziali,  direttamente  incidenti  sulla  liberta' personale, sia
stato  ispirato  da  valutazioni ed esigenze di natura essenzialmente
processuale.
    In  proposito  va  osservato  in  primis  che dagli stessi lavori
preparatori della legge n. 271/2004 non emerge alcuna enunciazione di
ragioni supportanti l'inasprimento delle sanzioni penali (tra l'altro
di  recente  introduzione,  nella misura precedente alla modifica, ex
legge  n. 189/2002)  che  siano  riconducibili  a  scelte di politica
criminale  esercitate  discrezionalmente  innanzi  all'insorgenza, in
concomitanza  con  l'intervento  legislativo  de  quo,  di situazioni
particolari legate al fenomeno dell'immigrazione, venendo invece piu'
volte  rimarcata  espressamente, la necessita' di superare le censure
mosse  dalla  Corte  costituzionale  con le sentenze n. 222 e 223 del
2004  ("...  Sul  cammino della Bossi-Fini si e' abbattuta la mannaia
della  Corte  costituzionale  ... Ritengo che con il d.l. in esame il
Governo   ed   il  Parlamento  siano  intervenuti  correttamente  per
rispondere  ai  rilievi  della Corte ..." (A.C. 5369 discussione dd 2
novembre  2004  sul  testo  approvato  in  Senato il 20 ottobre 2004,
repliche del relatore alla legge).
    Va   in   propostto   rammentato  che  le  sentenze  della  Corte
costituzionale  n. 222  e  223  del 2004 hanno avuto ad oggetto norme
diverse  -  rispettivamente, l'art. 13, comma 5-bis e l'art 14, comma
5-quinquies  del  d.lgs.  n. 286/1988  -  dalla fattispecie della cui
legittimita' si verte.
    In particolare, la sentenza n. 223 ha dichiarato l'art. 14, comma
5-quinquies,  d.lgs.  n. 286/1998  (nel  testo  integrato dalla legge
n. 189/2002)  illegittimo  nella  parte  in  cui  stabiliva l'arresto
obbligatorio  per  la  contravvenzione  prevista al comma 5-ter dello
stesso articolo.
    A  seguito  di  cio',  il legislatore del novembre 2004 ha inteso
intervenire  a modifica del presupposto su cui si fondava la sentenza
n. 223/2004.
    Piu' precisamente, la fattispecie di cui all'art. 14, comma 5-ter
d.lgs.  n. 286/1998  - gia' contravvenzionale e' stata trasformata in
delitto (prima parte), e' stata sanzionata con la reclusione da uno a
quattro anni, ed e' stata nuovamente individuata come fattispecie per
la   quale   e'   previsto   l'arresto  obbligatorio  (gia'  ritenuto
illegittimo in relazione alla precedente previsione contravvenzionale
atteso  che  detta  limitazione  della  liberta'  personale  non  era
comunque  suscettibile di trasformarsi in qualsiasi misura coercitiva
...  e  percio' ... privo di qualsiasi sbocco processuale: cfr. sent.
223/04).
    In  sostanza,  tale intervento legislativo ha reso possibile - in
astratto  -  l'applicazione  alla fattispecie delle misure coercitive
secondo i limiti previsti dall'art. 280, comma 2 c.p.p.
    Del  tutto simile e' stato l'intervento legislativo operato sulla
norma  della  cui  ragionevolezza  qui  si  dubita, una tale modifica
dell'art. 13,  comma  13,  d.lgs.  n. 286/1998  avendo  evidentemente
assunto   carattere  preventivo  rispetto  ad  eventuali  censure  di
incostituzionalita'.
    In  particolare,  l'art.  1,  comma 2-ter, lett. a), c), legge 12
novembre 2004, n. 271:
        ha  trasformato la fattispecie da contravvenzione in delitto,
irrogando  la  sanzione  della  reclusione  da uno a quattro anni, in
luogo  dell'arresto  da sei mesi ad un anno (sanzione che era stata a
sua  volta aggravata dalla legge n. 189/2002, rispetto all'originario
testo  del  d.lgs.  n. 286/1998, che prevedeva l'arresto da due a sei
mesi);
        ha  previsto  l'arresto  obbligatorio anche fuori dai casi di
flagranza, in luogo dell'arresto facoltativo in flagranza;
        ha  cosi'  esteso  anche  a  detta  fattispecie,  per effetto
dell'innalzamento   della   pena   massima   edittale,   l'ambito  di
operativita'  del  sistema  generale  di  applicabilita' delle misure
coercitive, ai sensi dell'art. 280, comma 2 c.p.p.
    Alla  luce  di quanto sopra esposto, si ravvisano plurimi prolili
per  dubitare  della  ragionevolezza  dell'art.  13, comma 13, d.lgs.
n. 286/1998  -  come sostituito dalla legge 12 novembre 2004, n. 271,
nella  parte in cui e' stato introdotto il minimo edittale di un anno
di reclusione.
    Anche   a   prescindere   da  quanto  gia'  osservato  in  ordine
all'insussistenza  di  ragioni contingenti, individuate a supporto di
un aggravamento sanzionatorio di portata cosi' rilevante (consistito,
di  fatto,  nel  raddoppio  del  precedente minimo edittale oltre che
nella     trasformazione     in     delitto     dell'illecito    gia'
contravvenzionale), detta sanzione non sembra fondata su un ponderato
bilanciamento  tra  la  tutela  dei  sottesi  interessi dell'ordine e
sicurezza  pubblica  da un lato e quello della liberta' personale del
soggetto agente dall'altra e, pertanto, non pare conforme al criterio
di  ragionevolezza,  sotto  i  profili  della proporzione ex art. 3 e
della  finalita' rieducativa della pena ex art. 27, comma terzo Cost.
come delineati nelle decisioni menzionate in precedenza.
    Una  tale  sproporzione  risulta  peraltro  evidente dal semplice
raffronto  con  le  analoghe  ipotesi  di reato esistenti nel vigente
ordinamento  nelle  quali,  similmente alla fattispecie oggetto della
presente   ordinanza,   e'   cioe'   sanzionata   una   condotta   di
inottemperanza   ad   un   ordine  dell'autorita'  amministrativa  in
particolare:
        con   la   contravvenzione   prevista   dall'art.   650  c.p.
(inosservanza   dei   provvedimenti  dell'autorita),  sanzionata  con
l'arresto  fino  a  tre  mesi  o  con  l'ammenda  fino a euro 206,00,
nonche';
        con   la  contravvenzione  prevista  dall'art.  2,  legge  27
dicembre  1956/1423  (inosservanza  di  provvedimenti del questore da
parte  di  persone  pericolose) sanzionata con l'arresto da uno a sei
mesi.
    Sotto  altro profilo, con riferimento alla sanzione in esame, non
e'  dato  neppure di poter ravvisare la ratio piu' volte rimarcata in
sede  di  adozione del d.l. n. 241/2004 e di approvazione della legge
di  conversione  n. 271/2004,  ovvero la necessita' di «rimodulare il
testo   della   norma  censurata»  (ed  invero,  le  declaratorie  di
illegittimita'  costituzionale hanno investito altre norme (gli artt.
13,  comma  5-bis  e 14, comma 5-quinquies del d.lgs. n. 286/1998) e,
segnatamente,   in   relazione   all'art. 14,  comma  5-quinquies  la
declaratoria   di   illegittimita'   ha   riguardato   la  previsione
dell'arresto obbligatorio, previsione allora non contemplata (neppure
a  seguito  della  legge  n. 189/2001)  per la fattispecie che qui si
esamina  ed invece introdotta dalla legge n. 271/2004 anche fuori dai
casi di flagranza.
    La  previsione  di  un  minimo  edittale  cosi'  elevato,  sembra
comunque  irragionevole  anche  nell'ottica  della stessa ratio posta
essenzialmente alla base dell'inasprimento sanzionatorio complessivo,
vale  a  dire  dell'esigenza  di  rendere  la  fattispecie  in  esame
compatibile  con  il  sistema  generale  di applicazione delle misure
coercitive,  invero  disegnato  in relazione al parametro dei massimi
edittali inderogabili (cfr. 274, lett. c) e 280, comma 2 c.p.p.), non
assumendovi invece alcun rilievo i minimi edittali di pena.
    Oltre  che  rispetto  ai profili sin qui evidenziati, la norma in
oggetto  pare  altresi'  in  contrasto  con  gli artt. 3 e 2, in rel.
all'art.   10   della  Costituzione  (cio'  anche  al  di  la'  della
significativita'  dello stesso art. 3 Cost. gia' ritenuta dalla Corte
costituzionale   in  relazione  all'art. 27  c.p.  a  fondamento  del
parametro della proporzionalita).
    Va infatti considerato che tali articoli sanciscono e delineano i
principi  fondamentali  di  uguaglianza  davanti  alla  legge  e pari
dignita'   sociale,  nonche'  di  garanzia  dei  diritti  inviolabili
dell'uomo  tra i quali rientra evidentemente il diritto alla liberta'
individuale, e non pare dubitabile che, in ragione dell'art. 10 della
Costituzione,  tali  principi  fondamentali  spieghino  piena vigenza
anche  nei  confronti  degli  stranieri presenti sul territorio della
Repubblica.
    Ed   alla   luce   di  tali  principi  non  pare  ragionevolmente
giustificata  la  sostanziale  disparita'  di  trattamento data dalla
sottoesposizione  dei cittadini stranieri extracomunitari ad una pena
minima  edittale  di  un  anno  di reclusione per la violazione di un
ordine  amministrativo,  quando  le gia' citate fattispecie del tutto
analoghe  suscettibili  di applicazione ai cittadini italiani (vale a
dire agli artt. 650 c.p. e 2 legge 27 dicembre 1956/1423) sono invece
sanzionate  con pene di natura contravvenzionale e di entita' di gran
lunga  inferiori a quella prevista dalla norma oggetto della presente
ordinanza  (l'art. 650 c.p. prevedendo addirittura la possibilita' di
comminare la sola pena pecuniaria).
    Gli argomenti che precedono, confermando la rilevanza ai fini del
decidere  della  questione  proposta  e la non manifesta infondatezza
della stessa, inducono questo giudice a rimettere gli atti alla Corte
costituzionale per le valutazioni di competenza.