IL TRIBUNALE

    Eccepisce  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 14,  comma
5-ter,  d.lgs.  n. 286/1998  (modif.  dall'art. 1, comma 5-bis, legge
n. 271/2004   che   ha   convertito,   con   modificazioni,  il  d.l.
n. 241/2004)  per  contrasto  con  gli  artt. 3, 16 e 27, terzo comma
Cost.
    Quanto  alla rilevanza, si premette che l'imputata Gustav Larissa
e' stata tratta in arresto in data 14 marzo 2005, nella flagranza del
reato  previsto dall'art. 14, comma 5-ter, d.lgs. n. 286/1998 (modif.
dalla legge n. 271/2004 che ha convertito, con modificazioni, il d.l.
n. 241/2004).  All'imputata,  infatti, in data 6 marzo 2005, e' stato
notificato  il decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Milano in
pari  data,  nonche'  l'ordine di allontanamento dal territorio dello
Stato  entro 5 giorni emesso dal Questore di Milano lo stesso giorno.
Il  decreto  di  espulsione  e'  stato  emesso ai sensi dell'art. 13,
comma 2,  lettera a) per essersi la straniera introdotta illegalmente
nel territorio dello Stato, sottraendosi ai controlli di frontiera.
    Entrambi  i  provvedimenti  sono stati tradotti in lingua rumena,
compresa    e    parlata   dall'imputata.   Quest'ultima,   in   sede
d'interrogatorio,  reso  all'udienza  di  convalida, ha dichiarato di
avere  compreso  il  significato  dei due provvedimenti; non e' stato
dimostrato   alcun   giustificato   motivo   in   ordine  al  mancato
allontanamento.
    All'esito  dell'udienza  di  convalida, infine, Gustav Larissa ha
chiesto  ed  ottenuto  l'ammissione  al  rito  abbreviato; il p.m. ha
quindi  prodotto  il proprio fascicolo e le parti hanno rassegnato le
proprie conclusioni.
    Pertanto,  il  giudice  e'  chiamato  ad  applicare  il  disposto
dell'art. 14,  comma  5-ter,  d.lgs.  n. 286/1998  prima  parte, come
modificato  dall'art. 1,  comma  5-bis,  legge  n. 271/2004  (che  ha
convertito, con modificazioni, il d.l. n. 241/2004).
    In  ordine  alla  non  manifesta infondatezza della questione, si
rileva quanto segue.
    Il  reato  previsto  dalla  norma  della cui costituzionalita' si
dubita, e' stato introdotto dalla legge n. 189/2002; l'art. 14, comma
5-ter,  nella  sua  originaria formulazione, puniva lo straniero che,
senza giustificato motivo, si trattiene nel territorio dello Stato in
violazione  dell'ordine  del  questore,  impartito ai sensi del comma
5-bis stessa legge, con la pena dell'arresto da sei mesi ad un anno.
    In seguito, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 223/2004,
ha   dichiarato  l'illegittimita'  dell'art. 14,  comma  5-quinquies,
d.lgs.  n. 286/1998,  per contrasto con gli artt. 3 e 13 Cost. «nella
parte in cui stabilisce che per il reato previsto dal comma 5-ter del
medesimo art. 14 e' previsto l'arresto obbligatorio in flagranza». La
Corte  ha  infatti  osservato  che  «la  misura precautelare prevista
dall'art. 14,   comma   5-quinquies  (...)  non  essendo  finalizzata
all'adozione  di  alcun provvedimento coercitivo, si risolv(e) in una
limitazione  provvisoria  della liberta' personale priva di qualsiasi
funzione processuale e quindi (...) manifestamente irragionevole» (v.
sent. Corte cost. n. 223/2004).
    E' stato quindi emanato il d.l. n. 241/2004, il quale ha limitato
la misura dell'arresto obbligatorio all'ipotesi di reato prevista dal
comma  5-quater  dell'art. 14  (e  cioe' il reingresso nel territorio
dello Stato dello straniero espulso, delitto punito con la pena della
reclusione da uno a quattro anni).
    La  legge  di conversione del decreto, n. 271 del 2004, ha invece
profondamente  inciso  sulla  disciplina  sanzionatoria dell'art. 14,
comma 5-ter, il cui testo vigente e' il seguente:
        Lo  straniero  che senza giustificato motivo si trattiene nel
territorio  dello  Stato  in  violazione  dell'ordine  impartito  dal
questore ai sensi del comma 5-bis, e' punito con la reclusione da uno
a  quattro  anni  se  l'espulsione  e'  stata  disposta  per ingresso
illegale  sul  territorio  nazionale  ai sensi dell'art. 13, comma 2,
lettere  a)  e  c),  ovvero  per  non  aver  richiesto il permesso di
soggiorno  nel  termine  prescritto  in  assenza  di  cause  di forza
maggiore,  ovvero  per essere stato il permesso revocato o annullato.
Si   applica  la  pena  dell'arresto  da  sei  mesi  ad  un  anno  se
l'espulsione  e'  stata  disposta perche' il permesso di soggiorno e'
scaduto  da  piu'  di  sessanta giorni e non ne e' stato richiesto il
rinnovo.   In   ogni   caso  si  procede  all'adozione  di  un  nuovo
provvedimento  di  espulsione  con  accompagnamento  alla frontiera a
mezzo della forza pubblica.
    La  pena  edittale  -  per le condotte indicate nella prima parte
della norma - ha subito pertanto un notevole inasprimento, che questo
giudice   ritiene   superi   i   canoni   della   proporzionalita'  e
ragionevolezza.
    Il  rimettente  non  ignora  il costante orientamento della Corte
costituzionale  in ordine alla discrezionalita' del legislatore sulla
determinazione e quantificazione delle sanzioni penali.
    La   medesima  Corte,  peraltro,  pur  ricusando  il  compito  di
«rimodulare   le   scelte  punitive  effettuate  dal  legislatore»  e
«stabilire quantificazioni sanzionatorie» (sent. n. 341 del 1994, 217
e  370  del  1996,  ordinanze n. 89, 165 e 190 del 1997), ha tuttavia
affermato  che  «l'esercizio  di  tale  discrezionalita'  puo' essere
censurato  quando  esso non rispetti il limite della ragionevolezza e
dia   quindi  luogo  ad  una  disparita'  di  trattamento  palese  ed
ingiustificata»  (sent.  n. 25  del 1994, ordinanze n. 456 del 1997 e
435 del 1998).
    Inoltre,  con  la  nota  sentenza n. 341 del 1994, nella quale fu
dichiarata  l'illegittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., nella
parte  in  cui  prevedeva,  quale  minimo  edittale  per  il reato di
oltraggio  a p.u., la pena di sei mesi di reclusione, ha ribadito che
«alla   Corte  rimane  il  compito  di  verificare  che  l'uso  della
discrezionalita'  legislativa  in  materia  rispetti  il limite della
ragionevolezza».
    La Corte, infatti, ha ritenuto il superamento del predetto limite
contrasti innanzitutto con l'art. 3 Cost.
    Nella  sentenza  n. 409/1989,  ha  affermato che «il principio di
uguaglianza,  di cui all'art. 3, primo comma Cost., esige che la pena
sia  proporzionata  al disvalore del fatto illecito commesso, in modo
che  il  sistema  sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di
difesa  sociale  ed  a quella di tutela di posizioni individuali». Il
mancato  rispetto  del  limite  della  ragionevolezza porta a «negare
legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee
a   raggiungere   finalita'   statuali   di  prevenzione,  producono,
attraverso   la   pena,   danni   all'individuo   (ai   suoi  diritti
fondamentali)  ed  alla  societa',  sproporzionatamente  maggiori dei
vantaggi  ottenuti  con  la tutela dei beni e dei valori offesi dalle
predette incriminazioni» (sentenza n. 409 del 1989).
    Inoltre,   il   superamento  del  principio  di  proporzionalita'
contrasta  con  il disposto del terzo comma, art. 27 Cost., impedendo
la  funzione  rieducativa della pena. Questa, infatti, costituisceuna
«una  delle  sue qualita' essenziali e generali che caratterizzano la
pena  nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce,
nell'astratta  previsione  normativa,  fino  a  quando in concreto di
estingue»:  tale  finalita'  rieducativa implica pertanto un costante
«principio di proporzione tra qualita' e quantita' della sanzione, da
una  parte, e offesa, dall'altra» (sentenza n. 341 del 1994, con rif.
alla sentenza n. 313 del 1990).
    «La  palese  sproporzione del sacrificio della liberta' personale
(...)  produce, infatti, una vanificazione del fine rieducativo della
pena  prescritto  dall'art. 27,  terzo  comma  Cost.,  che  di quella
liberta'  costituisce  una  garanzia  istituzionale in relazione allo
stato di detenzione» (sentenza n. 343 del 1993).
    Sulla  scorta  di  tali  enunciazioni,  la Corte, con la sentenza
n. 341  del  1994,  ha  dichiarato  incostituzionale l'art. 341 c.p.,
nella  parte  in  cui  prevedeva come minimo edittale per il reato di
oltraggio a pubblico ufficiale la pena di sei mesi di reclusione.
    Innanzitutto,   la   Corte   ha   rilevato  l'incongruenza  della
previsione  rispetto  alla tradizione liberale italiana ed europea ed
inoltre  la  sua  estraneita'  alla  coscienza  democratica del Paese
sancita  dalla  Carta  costituzionale.  Inoltre,  ne  ha  evidenziato
l'irragionevolezza  se  raffrontata  al trattamento sanzionatorio del
reato di ingiuria previsto dall'art. 594 c.p.
    Piu'  di  recente, la Corte ha ribadito la necessita' che la pena
comminata  sia  commisurata all'effettivo disvalore sociale del fatto
punito (ordinanza n. 207 del 1999) e alla «particolare importanza del
bene protetto» (ordinanza n. 213 del 2000).
    Con  particolare  riferimento  alle  norme  che  qui  vengono  in
rilievo,  la  Corte  costituzionale  -  dichiarando  inammissibile la
richiesta  di  referendum abrogativo con la sentenza n. 31 del 2000 -
ha avuto modo di osservare che il decreto legislativo n. 286 del 1998
- in particolare il titolo II che concerne l'ingresso, il soggiorno e
l'allontanamento   dal   territorio   dello   Stato   -   costituisce
l'adempimento,  da  parte dello Stato italiano, agli obblighi imposti
agli  Stati  membri della Comunita' europea dal trattato di Amsterdam
(ratificato  e  reso  esecutivo con legge n. 209/1998) di regolare in
modo uniforme l'ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari
(art. 61  e  63  del  trattato  di  Roma,  modificato dal trattato di
Amsterdam).  Cio' in ottemperanza, inoltre, al Trattato di Maastricht
-  ratificato  e  reso esecutivo con legge n. 454/1992 - che annovera
tra  i  propri fini quello di conservare e sviluppare l'Unione «quale
spazio  di  liberta',  sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la
liberta'  di circolazione delle persone, insieme a misure appropriate
per  quanto  concerne  i  controlli  alle frontiere esterne, l'asilo,
l'immigrazione,  la  prevenzione della criminalita' e la lotta contro
quest'ultima»  (artt.  2, comma 1 e 29 del Trattato) (sent. n. 31 del
2000).
    La  disciplina in esame, infatti, regola e limita il diritto alla
libera   circolazione  delle  persone  nel  territorio  dello  Stato,
riconosciuto dall'art. 16 della Costituzione.
    Tale diritto, in quanto manifestazione di un diritto di liberta',
e'  riconosciuto  anche  allo  straniero,  per ripetuto e consolidato
orientamento   della   Corte  costituzionale,  la  quale  ha  ammesso
«l'applicabilita'   allo  straniero  del  principio  di  uguaglianza,
riconoscendone  la validita' a favore delle situazioni soggettive nel
campo  della  titolarita' dei diritti di liberta» (sentenza n. 46 del
1977).
    Tuttavia, la medesima Corte ha avallato limitazioni alle liberta'
fondamentali  dello  straniero, in nome della tutela della sicurezza,
della  sanita'  e  dell'ordine  pubblico  dei cittadini. Infatti, pur
ribadendo  che  «quando  venga  riferito  al  godimento  dei  diritti
inviolabili  dell'uomo,  qual  e'  nel caso la liberta' personale, il
principio  costituzionale  di  eguaglianza  in  generale  non tollera
discriminazioni  fra  la  posizione  del  cittadino  e  quella  dello
straniero,  va  tuttavia  precisato  che  inerisce  al  controllo  di
costituzionalita'  sotto  il  profilo della disparita' di trattamento
considerare  le  posizioni  messe  a confronto, non gia' in astratto,
bensi'   in   relazione   alla  concreta  fattispecie  oggetto  della
disciplina  normativa  contestata».  In  particolare  in  materia  di
espulsione,  la  Corte  ha  considerato  la posizione dello straniero
«peculiare  e  non  comparabile,  (...),  con  quella  del cittadino,
poiche'   l'espulsione  e'  una  misura  riferibile  unicamente  allo
straniero  e in nessun caso estensibile al cittadino. A quest'ultimo,
infatti, la Costituzione ha riservato, in relazione alle possibilita'
di  uscire  dal  territorio  della  Repubblica  e  di rientrarvi, una
posizione  assolutamente  opposta,  connotata  da  un generale status
libertatis»  (art. 16,  secondo  comma, della Costituzione). (...) Al
contrario, la mancanza nello straniero di un legame ontologico con la
comunita'  nazionale,  e quindi di un nesso giuridico costitutivo con
lo  Stato  italiano,  conduce  a  negare allo stesso una posizione di
liberta'  in  ordine  all'ingresso  e  alla permanenza nel territorio
italiano,  dal  momento  che  egli puo' «entrarvi e soggiornarvi solo
conseguendo  determinate  autorizzazioni (revocabili in ogni momento)
e, per lo piu', per un periodo determinato».
    Pertanto,  la  Corte ha considerato legittima la regolamentazione
dell'ingresso   e   del  soggiorno  dello  straniero  nel  territorio
nazionale, perche' «collegata alla ponderazione di svariati interessi
pubblici,  quali,  ad  esempio,  la  sicurezza e la sanita' pubblica,
l'ordine  pubblico,  i  vincoli  di  carattere  internazionale  e  la
politica  nazionale  in tema di immigrazione». Peraltro, ha precisato
che  seppure  la  ponderazione  degli  interessi pubblici considerati
«spetta  in  via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede
in  materia  un'ampia  discrezionalita»,  essa  trova  un'inevitabile
limitazione  «sotto  il  profilo  della  conformita'  a Costituzione,
soltanto  dal  vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente
irragionevoli»  (sentenza  n. 62 del 1994 e sentt. nn. 144 del 1970 e
104 del 1969).
    La compressione dei diritti fondamentali dello straniero, quindi,
e'  legittima  solo se, in comparazione con le esigenze dello Stato e
dei  cittadini,  sia  esercitata  ragionevolmente, alla stregua degli
altri parametri costituzionali prima citati.
    Alla  luce  dei  principi enunciati, si perviene alla conclusione
che   il   trattamento   sanzionatorio   ora  previsto  dall'art. 14,
comma 5-ter,   prima   parte,  per  il  reato  di  trattenimento  nel
territorio  dello  Stato  in violazione dell'ordine del questore, non
risponde  ai  canoni  della  proporzionalita'  e ragionevolezza. Essa
infatti   determina   un'eccessiva  compressione  della  liberta'  di
circolazione   dello  straniero,  in  proporzione  alle  esigenze  di
sicurezza dei cittadini, in violazione del principio di uguaglianza e
della  finalita' rieducativa della pena, nell'interpretazione fornita
dalle sentenze della Corte sin qui citate.
    Innanzitutto,  si  ritiene  che  la pena prevista per il reato di
trattenimento sia assolutamente sproporzionata quanto alla previsione
minima di un anno di reclusione.
    Si   evidenzia  che  la  norma  punisce  il  trattenimento  dello
straniero,  senza operare alcuna distinzione tra le varie ipotesi per
le  quali sia stata comminata l'espulsione: e cioe' ingresso illegale
nel  territorio  sottraendosi  ai  controlli  di  frontiera (art. 13,
comma 2, lett. a); appartenenza ad alcune delle categorie di soggetti
c.d.  «pericolosi  socialmente»  ovvero  indiziati  di appartenere ad
associazioni  mafiose  (lett.  c);  mancata richiesta del permesso di
soggiorno nei termini prescritti; revoca od annullamento del permesso
medesimo.
    Si  tratta  di  fattispecie che presentano tra loro una rilevante
diversita' quanto ad allarme sociale e disvalore del fatto illecito.
    L'assoluta  sproporzione  tra pena minima prevista e offensivita'
della  condotta  vale  innanzitutto  per le ipotesi, quale il caso in
esame,    del    trattenimento    sul    territorio   del   cittadino
extracomunitario,   soggiornante   in   Italia  da  circa  tre  mesi,
irregolare  sul  territorio ma comunque privo di precedenti penali od
anche   di   segnalazioni   dattiloscopiche,   destinatario   di   un
provvedimento  di  espulsione  perche'  sottrattosi, all'ingresso, ai
controlli  di frontiera. L'allarme sociale - invero modesto - destato
da   una   tale   condotta,   infatti,  non  appare  giustificare  la
comminazione di una sanzione tanto elevata nel minimo edittale.
    Giova  ricordare inoltre che, tra le cause di revoca del permesso
di  soggiorno,  l'art. 30,  comma 1-bis,  d.lgs,  cita l'accertamento
della  mancata  effettiva  convivenza  a  seguito  di  matrimonio con
cittadino italiano (salvo che vi sia prole). Inoltre, causa di revoca
del  permesso  di  soggiorno  rilasciato  per  motivi  di  lavoro  e'
costituita dalla cessazione del rapporto di lavoro.
    E'   evidente  che  anche  ipotesi  del  genere  -  di  frequente
verificazione  nella  prassi  - nelle quali lo straniero regolarmente
soggiornante  sul  territorio  veda  improvvisamente  venir  meno  il
presupposto della sua permanenza - per ragioni che prescindono da una
sua  reale  pericolosita'  sociale  - e sia costretto, nel brevissimo
termine  di cinque giorni, a lasciare il territorio dello Stato e non
vi   ottemperi,  presentano  una  scarsa  offensivita'  e  un  minimo
disvalore   sociale.   Tali   ipotesi,   in   effetti,  sembrerebbero
assimilabili piu' a quella prevista dalla seconda parte dell'art. 14,
comma 5-ter  -  e  cioe' trattenimento sul territorio dello straniero
espulso  per  mancata  richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno
scaduto  da  oltre  sessanta  giorni  - che ha mantenuto la natura di
reato contravvenzionale, punito con l'originaria pena dell'arresto da
sei mesi a un anno.
    Rispetto  alle  situazioni  qui  descritte, pertanto, la sanzione
minima di un anno di reclusione appare assolutamente irragionevole.
    Altrettanto  irragionevole  e sproporzionata appare anche la pena
massima  prevista (quadruplicata rispetto all'originaria previsione).
Oltre  alla  considerazione  che pure le ipotesi di maggiore gravita'
previste  dall'art. 14,  comma  5-ter  (trattenimento  nel territorio
dello  Stato  di  cittadino  straniero  espulso  perche'  socialmente
pericoloso,  ovvero  indiziato  di far parte di associazione mafiosa,
art. 13,  comma 2, lett. c) difficilmente saranno punite con una pena
cosi'  elevata,  giova  rilevare  che  la modifica e' intervenuta per
consentire  l'obbligatorieta'  dell'arresto  e  l'applicazione  della
misura  cautelare  custodiale, in adeguamento a quanto disposto dalla
Corte costituzionale con la citata sentenza n. 223 del 2004.
    Risulta  infatti dai lavori parlamentari che l'emendamento che ha
introdotto  la  modifica  del  trattamento  sanzionatorio  si e' reso
necessario al fine di individuare «una base normativa (effettivamente
non  prevista  dalla legge Bossi-Fini) per l'imposizione delle misure
coercitive ai soggetti di cui al comma 5-ter dell'art. 14 del decreto
legislativo  n. 286 del 1998» (v. resoconto stenografico della seduta
al Senato n. 678 del 20 ottobre 2004 in www.senato.it).
    Nessun cenno nella discussione ad un incrementato allarme sociale
eventualmente    verificatosi   nelle   more   tra   l'adozione   del
decreto-legge (che lasciava immutate le sanzioni della fattispecie in
oggetto) e la promulgazione della legge di conversione.
    Condividendo   sul   punto   le   motivazioni  dell'ordinanza  di
rimessione  a  questa  Corte  emessa  dal Tribunale di Genova in data
10 dicembre  2004, si ritiene che la discrezionalita' del legislatore
non  comprenda  esigenze  di  carattere  processuale  che  non  siano
sostenute  anche  da  ragioni  di politica criminale e di adeguamento
della  pena al mutato disvalore sociale del fatto (Trib. Genova, ord.
n. 544  del  10 dicembre  2004,  in  Guida al diritto n. 7 del 2005).
Invero,    l'applicazione   di   misure   cautelari   particolannente
afflittive, quali la custodia in carcere, e' consentita solo rispetto
a  fatti  di  rilevante  pericolosita':  e'  la  gravita'  del reato,
evidenziata  da  un elevato trattamento sanzionatorio, a giustificare
l'adozione  di  tale  misura.  Si dubita, invece, che il legislatore,
compiendo  un  percorso  logico  inverso,  possa  aumentare il limite
edittale  di  pena,  prescindendo dalla mutata gravita' del fatto, al
solo fine di rendere applicabile la misura coercitiva.
    Si  aggiunge  che  la  pena  della  fattispecie  in  esame appare
sproporzionata  anche in comparazione al trattamento sanzionatorio di
altre fattispecie incriminatrici.
    Innanzitutto     rispetto     alla    previsione    dell'art. 14,
comma 5-quater  del  medesimo  d.lgs.  n. 286/1998,  il quale punisce
(dopo   la   modifica   della  legge  n. 271/2004  che  ha  aumentato
l'originario limite massimo di quattro anni) con la reclusione da uno
a  cinque anni il regresso nel territorio dello Stato dello straniero
gia'  espulso. Prima della legge di conversione, il diverso disvalore
delle  due  fattispecie  era  sancito da un trattamento sanzionatorio
affatto  differente,  poiche',  coerentemente,  il  legislatore aveva
considerato notevolmente piu' grave la condotta di chi, gia' espulso,
rientri  sul  territorio  dello  Stato  rispetto  a  chi, pur essendo
espulso e dovendosi allontanare, ingiustificatamente vi si trattenga.
La  differenza  di un anno di reclusione nel massimo di pena edittale
(comunque   di   difficile   applicazione)  comporta  la  sostanziale
assimilazione,    nel    trattamento   sanzionatorio,   di   condotte
caratterizzate   da  una  diversa  offensivita';  scelta  che  appare
pertanto parimenti irragionevole.
    Inoltre,  la  sanzione  per  l'ipotesi  in esame appare del tutto
sperequata  rispetto  al trattamento sanzionatorio previsto per altre
fattispecie  analogamente  poste  a  tutela  di  beni  quali l'ordine
pubblico e la sicurezza pubblica.
    Si fa riferimento ad esempio alla norma di cui all'art. 650 c.p.,
che  punisce  con  l'arresto  fino  a  tre mesi o con la sola ammenda
l'inottemperanza  ad  un  ordine  legalmente  dato dall'autorita' per
ragioni di sicurezza pubblica od ordine pubblico.
    Ovvero,  all'art. 2,  legge  n. 1423/1956 che punisce con la pena
dell'arresto  da  uno  a sei mesi il contravventore del foglio di via
emesso  dal questore nei confronti di soggetti considerati pericolosi
per  la  sicurezza  pubblica.  In  tale  ultimo caso, tra l'altro, il
contravventore  e'  soggetto  gia'  considerato  «pericoloso»  da  un
provvedimento  dell'autorita',  circostanza  che invece, nell'ipotesi
dell'art. 14, comma 5-ter, e' solo eventuale.
    Altrettanto   significativo  e'  il  richiamo  alla  disposizione
dell'art. 6  legge  n. 401  del  1989, modificata dal d.l. n. 336 del
2001 (conv. in legge n. 377 del 2001). Il comma 6 punisce con la pena
della  reclusione  da  tre  a  diciotto  mesi  o con la sola multa il
contravventore  al  divieto  di  accesso ai luoghi in cui si svolgono
competizioni  agonistiche,  emesso  dal  questore.  In  tale caso, la
gravita'  della  pena  detentiva  (comunque  notevolmente inferiore a
quella  prevista  per  la fattispecie di trattenimento, e prevista in
alternativa  alla  pena pecuniaria) e' giustificata dalla circostanza
che  destinatari  del  provvedimento  del  questore sono «persone che
risultano   denunciate   o  condannate  per  uno  dei  reati  di  cui
all'art. 4,  primo  e  secondo  comma,  della  legge  18 aprile 1975,
n. 110,  all'art. 5  della  legge  22 maggio  1975,  n. 152 (1. armi,
n.d.r.),  all'art. 2,  comma  2,  del  decreto-legge  26 aprile 1993,
n. 122,  convertito,  con  modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993,
n. 205  (reati  in  materia  di  discriminazione  razziale,  etnica o
religiosa,  n.d.r.),  e  all'art. 6-bis,  commi 1 e 2, della presente
legge   (comportamenti   violenti   in  occasione  di  manifestazioni
sportive,  n.d.r.),  ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di
violenza  su  persone  o  cose in occasione o a causa di competizioni
agonistiche,  o  che  nelle  medesime  circostanze  abbiano incitato,
inneggiato o indotto alla violenza».
    Ritenuta   pertanto   la  pena  prevista  per  il  reato  di  cui
all'art. 14,  comma 5-ter,  prima  parte  d.lgs. n. 286/1998, (modif.
dalla  legge  n. 189/2002  e  dalla  legge n. 271/2004) assolutamente
irragionevole,  nel  massimo e nel minimo, rispetto alla gravita' del
fatto   e   sproporzionata   in  relazione  alla  pena  prevista  per
fattispecie analoghe.