IL TRIBUNALE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nella causa iscritta al
n. 10670 del R.G.O. dell'anno 2004 tra A.E.T. S.r.l., rappresentata e
difesa dagli avv. Michele Ferrero e Giuseppe Romano, attrice, e Banca
Monte  dei  Paschi di Siena S.p.A., rappresentata e difesa dagli avv.
Francesco  Carbonetti,  Roberto  Della  Vecchia  ed Andrea Moschiano,
convenuta.

                              F a t t o

    Con atto di citazione notificato in data 27 marzo 2004, la S.r.l.
A.E.T.  conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli la Banca
Monte  dei  Paschi  di  Siena  S.p.A. al fine di far accertare che le
transazioni  finanziarie  poste  in essere, con riferimento alla loro
componente  derivativa, erano inesistenti ovvero nulle per violazione
dell'art. 23  del  decreto  legislativo  n. 58  del  1998  e  di ogni
ulteriore  disposizione  imperativa  di  legge  nonche' condannare la
banca alla restituzione, anche a titolo di risarcimento del danno, di
tutte  le  somme corrisposte, oltre rivalutazione ed interessi, ed al
pagamento  delle  ulteriori  seguenti somme (ovvero a quelle diverse,
minori   o  maggiori,  ritenute  dovute  ai  medesimi  titoli):  euro
1.000.000, 00 a titolo di danno morale, euro 1.000.000,00 a titolo di
danno per culpa in contrahendo e colpa nell'esecuzione del contratto,
euro 1.000.000,00 a titolo di danno da mispresentation pubblicitaria.
    A  sostegno  della  domanda, premesso che essa societa' era stata
costituita  a  seguito della fusione della S.r.l. Steel Beton e della
CO.FI.PA  S.r.l.,  esponeva  che  queste  ultime  societa', nel corso
dell'anno  1999,  avevano  acquistato  dalla Banca del Salento S.p.A.
(poi  divenuta  Banca  121 S.p.A. ed infine Banca Monte dei Paschi di
Siena  S.p.A.)  dei prodotti finanziari, risultati essere il BTP - 1°
luglio  2006  ed  il  BTP  -  1°  gennaio  2004  c.d.  Tel;  che,  in
particolare,  la  dr.  Rossella  Paliotto,  all'epoca  degli acquisti
legale  rappresentante  di  entrambe  le  societa' estinte, era stata
contattata  dal  personale  della  filiale di Napoli - piazza Carita'
della  banca,  che  le  aveva  proposto  l'acquisto  di  un  prodotto
finanziario indicato come «BTP della Salento» a «capitale garantito»,
con  scadenza al primo luglio 2006, cui era associata una cedola piu'
elevata  di  quella  propria  dei  titoli  di  Stato  omologhi,  pari
all'8,75%  lordo;  che  la  legale  rappresentante si era convinta ad
acquistarlo  per  il  fatto che le era stato assicurato dal personale
dell'istituto  di  credito  che  il prodotto finanziario proposto non
presentava   alcun   rischio   per   il   capitale   investito;   che
successivamente  a  quell'investimento  la predetta veniva piu' volte
rassicurata, sempre dal personale della banca, sul buon andamento del
prodotto  tanto  da  addivenire all'acquisto di un ulteriore prodotto
finanziario,  definito sempre «BTP della Salento», con scadenza primo
gennaio  2004,  cui  era  associata una cedola leggermente piu' bassa
pari all'8,50% lordo su base annua; che, nel corso dell'anno 2002, la
societa' attrice era venuta a conoscenza, anche attraverso gli organi
di  stampa,  del  fatto che la Banca del Salento aveva realizzato una
serie  di  operazioni  che, richiamanti nel proprio nome un titolo di
Stato,  in  realta'  risultavano  essere  operazioni «strutturate» ad
altissimo  rischio  finanziario, che avevano subito o stavano subendo
perdite  ingenti  in  conto capitale; che anche presso la banca aveva
ricevuto  conferma del fatto che in realta' i titoli acquistati erano
un prodotto ad alto rischio finanziario.
    Instauratosi  il contraddittorio si costituiva alla prima udienza
di  comparizione  la  Banca  Monte  dei  Paschi  di Siena S.p.A., che
pregiudizialmente  eccepiva  l'inosservanza  delle  disposizioni  del
decreto  legislativo  n. 5  del  2003, chiedendo poi il rigetto della
domanda  perche'  infondata.  In  quella  stessa  udienza il giudice,
rientrando  la  causa  tra  le controversie indicate nella lettera d)
dell'art. 1, comma 5, del decreto legislativo, disponeva il passaggio
dal   rito   ordinario   al  «rito  societario»  e  nel  contempo  la
cancellazione della causa dal ruolo.
    Avvenuta  la  cancellazione,  la  S.r.l.  A.E.T. ha notificato un
nuovo atto di citazione, nella forma prevista dal decreto legislativo
n. 5  del  2003,  alla Banca Monte dei Paschi di Siena, contenente le
medesime  domande, sia presso il domicilio eletto nel giudizio per il
quale  vi  e' stata cancellazione (il 17 novembre 2004) che presso la
sede  legale  della  banca ( il 20 novembre 2004), depositando poi in
cancelleria  il  26  novembre  2004  una  «istanza  di rimessione sul
ruolo».
    La  Banca  Monte  dei  Paschi di Siena S.p.a. si e' costituita in
data   27  gennaio  2005  assumendo  che  il  «vecchio  procedimento»
instaurato  nelle  forme  del rito ordinario sarebbe estinto ai sensi
dell'art. 8,  comma  4  del  decreto  legislativo  n. 5 del 2003, non
avendo  la  parte  attrice  notificato  ad essa convenuta una propria
memoria  di  replica  ex  art. 6  del  decreto  stesso  ne' formulato
un'apposita   istanza   di   fissazione  dell'udienza  ma  scelto  di
instaurare  una  nuova  causa  nelle  forme  del  rito societario. Ha
chiesto, comunque, il rigetto della domanda perche' infondata.
    A  seguito di nuova memoria di replica dell'attrice depositata il
21  febbraio 2005, la banca, con memoria depositata il 21 marzo 2005,
ha eccepito l'estinzione del processo di cui alla causa n. 10670/04 e
la  mancata  costituzione  nella  nuova  causa  che l'attrice avrebbe
inteso  instaurare  con l'atto notificato alla Banca Monte dei Paschi
di Siena presso la sede legale il 20 novembre 2004.
    Indi,   a   seguito   di   istanza   di  fissazione  dell'udienza
dell'attrice,  la  convenuta ha depositato nota di precisazione delle
conclusioni ribadendo l'eccezione di estinzione del processo.
    Con  decreto  del  10 maggio 2005, ai sensi dell'art. 12, comma 5
del  decreto legislativo n. 5 del 2003, apparendo fondata l'eccezione
proposta dalla banca, si e' provveduto alla convocazione delle parti,
rilevandosi  nel  contempo  che  il  Tribunale  di  Napoli aveva gia'
sollevato   in   altro   giudizio   la   questione   incidentale   di
costituzionalita' del decreto legislativo.
    All'udienza   del   16   giugno   2005  le  parti  sono  comparse
riportandosi  alle  precedenti difese e questo giudice relatore si e'
riservato di decidere.

                               Diritto

    La   questione   di   costituzionalita'   va  affrontata  in  via
preliminare  rispetto  alle altre questioni e deve essere considerata
rilevante,  secondo  quanto  gia' statuito dal Collegio della seconda
sezione  civile e da quello della sezione civile ottava del Tribunale
di Napoli.
    L'art. 12  della  legge  di delega 3 ottobre 2001, n. 366 prevede
che:
        «1.  -  Il  Governo e' inoltre delegato ad emanare norme che,
senza  modifiche della competenza per territorio e per materia, siano
dirette  ad  assicurare  una  piu'  rapida ed efficace definizione di
procedimenti nelle seguenti materie:
          a) diritto societario, comprese le controversie relative al
trasferimento delle partecipazioni sociali ed ai patti parasociali;
          b)  materie disciplinate dal testo unico delle disposizioni
in   materia  di  intermediazione  finanziaria,  di  cui  al  decreto
legislativo  24  febbraio  1998, n. 58, e successive modificazioni, e
dal  testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui
al  decreto  legislativo  1°  settembre  1993,  n. 385,  e successive
modificazioni.
        2.  - Per il perseguimento delle finalita' e nelle materie di
cui  al comma 1, il Governo e' delegato a dettare regole processuali,
che in particolare possano prevedere:
          a)  la  concentrazione  del procedimento e la riduzione dei
termini processuali;
          b) l'attribuzione di tutte le controversie nelle materie di
cui al comma 1 al tribunale in composizione collegiale, salvo ipotesi
eccezionali  di  giudizio  monocratico in considerazione della natura
degli interessi coinvolti;
          c)  la  mera  facoltativita' della successiva instaurazione
della  causa  di  merito dopo l'emanazione di un provvedimento emesso
all'esito  di  un  procedimento  sommario cautelare in relazione alle
controversie  nelle  materie  di  cui  al comma 1, con la conseguente
definitivita'   degli   effetti   prodotti  da  detti  provvedimenti,
ancorche'  gli  stessi non acquistino efficacia di giudicato in altri
eventuali giudizi promossi per finalita' diverse;
          d)   un  giudizio  sommario  non  cautelare,  improntato  a
particolare   celerita'   ma   con  il  rispetto  del  principio  del
contraddittorio,  che  conduca  alla  emanazione  di un provvedimento
esecutivo anche se privo di efficacia di giudicato;
          e)  la  possibilita' per il giudice di operare un tentativo
preliminare di conciliazione, suggerendone espressamente gli elementi
essenziali,  assegnando eventualmente un termine per la modificazione
o  la rinnovazione di atti negoziali su cui verte la causa e, in caso
di    mancata    conciliazione,    tenendo    successivamente   conto
dell'atteggiamento  al  riguardo  assunto  dalle  parti ai fini della
decisione sulle spese di lite;
          f)  uno  o  piu'  procedimenti  camerali, anche mediante la
modifica degli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile
ed  in  estensione  delle  ipotesi  attualmente  previste  che, senza
compromettere  la  rapidita'  di  tali  procedimenti,  assicurino  il
rispetto dei principi del giusto processo;
          g)  forme  di  comunicazione  periodica  dei  tempi medi di
durata   dei  diversi  tipi  di  procedimento  di  cui  alle  lettere
precedenti  trattati  dai  tribunali,  dalle corti di appello e dalla
Corte di cassazione».
    In  relazione alla struttura che il legislatore delegato e' stato
chiamato a delineare per il processo ordinario - e con esclusione del
riferimento  ai  principi  dettati  in tema di giudizio cautelare che
concernono  profili  non  rilevanti in questo giudizio - dal disposto
dell'art. 12  della  legge  n. 366  del  2001  sono  estrapolabili  i
seguenti   principi:   1)   divieto   di  modifica  della  competenza
territoriale  e  per  materia;  2)  necessita' di assicurare una piu'
rapida  ed  efficace  definizione di procedimenti; 3) possibilita' di
dettare  regole processuali, che in particolare possano prevedere: a)
la  concentrazione  del  procedimento  e  la  riduzione  dei  termini
processuali; b) l'attribuzione di tutte le controversie nelle materie
di  cui  al  comma  1  al tribunale in composizione collegiale, salvo
ipotesi  eccezionali  di giudizio monocratico in considerazione della
natura  degli  interessi coinvolti; c) la possibilita' per il giudice
di  operare  un  tentativo preliminare di conciliazione, suggerendone
espressamente  gli  elementi  essenziali, assegnando eventualmente un
termine  per  la modificazione o la rinnovazione di atti negoziali su
cui  verte  la  causa  e,  in  caso di mancata conciliazione, tenendo
successivamente  conto  dell'atteggiamento  al riguardo assunto dalle
parti ai fini della decisione sulle spese di lite.
    Nella legge n. 366/2001 il legislatore, dunque, si e' limitato ad
indicare  le  materie  nelle  quali  il  governo  poteva intervenire,
l'obiettivo  di  rendere  piu'  rapida ed efficace la definizione dei
procedimenti, il divieto di modificare la competenza per territorio e
materia,   la   tendenziale   collegialita'   del   procedimento,  la
possibilita'  di  valutare  '  l'atteggiamento delle parti in sede di
tentativo  di  conciliazione  e la possibilita' di dettare regole che
favorissero   la  riduzione  dei  termini  e  la  concentrazione  del
procedimento.
    L'assoluta  genericita'  dell'indicazione relativa alle modalita'
da  seguire,  per la realizzazione dell'obiettivo dichiarato di voler
assicurare  una  piu'  rapida ed efficace definizione di procedimenti
nelle  materie  individuate,  ha  di  fatto consentito al legislatore
delegato   di   creare   un   nuovo  modello  processuale  che  esula
completamente  dallo  schema  del procedimento ordinario disciplinato
dal codice di procedura civile.
    A  fronte della situazione di fatto venutasi a creare che vede da
un lato una legge delega che nulla o quasi dice in ordine ai principi
direttivi  che  avrebbero  dovuto  ispirare il legislatore delegato e
dall'altro   un   decreto  legislativo  che  crea  un  nuovo  modello
processuale,  sovvertendo,  nelle  materie  indicate  dalla  legge di
delega,  i  tradizionali  canoni  che governano il processo civile, a
questo giudice si pongono due opzioni interpretative che in ogni caso
conducono  ad un dubbio di costituzionalita' in relazione all'art. 76
della Costituzione.
    La  prima  opzione  interpretativa,  sia  in ordine logico sia di
scelta,  che  questo  collegio  reputa  piu' consona allo spirito del
complesso  normativo  costituito  dalla  legge  delega  e dal decreto
legislativo,  e'  quella di ritenere che il legislatore delegante non
abbia  indicato  con  sufficiente determinazione i principi e criteri
normativi  che  avrebbero  dovuto  guidare  l'operato del legislatore
delegato  e  che  quindi  l'art. 12  della  legge n. 366 del 2001 non
soddisfi  il precetto dell'art. 76 della Costituzione che consente la
delega  dell'esercizio  della  funzione  legislativa  al Governo solo
previa determinazione di principi e criteri direttivi.
    Non  ignora  questo  Tribunale  come, per giurisprudenza costante
della  Corte costituzionale, i principi direttivi che l'art. 76 Cost.
richiede  alla legge delega non escludono la possibilita' di lasciare
al   legislatore   delegato  un  ampio  margine  di  discrezionalita'
nell'individuazione  delle  modalita'  attraverso le quali realizzare
gli  obiettivi prefissati dalla legge delega. Il potere attribuito al
legislatore   delegato,   pero',  per  quanto  ampio,  non  puo'  mai
travalicare  il  limite della discrezionalita' nel senso che, come la
Corte  costituzionale  insegna, sin da risalenti pronunzie, «la legge
delegante   va   considerata   con   riferimento   all'art. 76  della
Costituzione,  per  accertare se sia stato rispettato il precetto che
ne  legittima  il processo formativo. L'art. 76 indica i limiti entro
cui  puo'  essere  conferito  al  Governo  l'esercizio della funzione
legislativa.  Per quanto la legge delegante sia a carattere normativo
generale, ma sempre vincolante per l'organo delegato, essa si pone in
funzione   di   limite   per  lo  sviluppo  dell'ulteriore  attivita'
legislativa  del  Governo. I limiti dei principi e criteri direttivi,
del tempo entro il quale puo' essere emanata la legge delegata, degli
oggetti degli interventi, da un lato servono a circoscrivere il campo
della  delegazione  si'  da evitare che la delega venga esercitata in
modo  divergente  dalle  finalita'  che  la determinarono; dall'altro
devono  consentire  al potere delegato la possibilita' di valutare le
particolari  situazioni giuridiche della legislazione precedente, che
nella  legge  delegata deve trovare una nuova regolamentazione. Se la
legge  delegante  non  contiene, anche in parte, i cennati requisiti,
sorge   il  contrasto  tra  norma  dell'art. 76  e  norma  delegante,
denunciabile  al sindacato della Corte costituzionale, s'intende dopo
l'emanazione  della  legge  delegata»  (cosi'  Corte cost. 26 gennaio
1957,  n. 3).  In  particolare,  per  quel che rileva in questa sede,
nulla  ha  detto la legge delega in ordine allo schema processuale da
adottare,  lasciato non alla scelta discrezionale ma all'arbitrio del
legislatore  delegato,  come  emerge  chiaramente  dal  contenuto del
decreto  legislativo che ha creato un nuovo modello di processo al di
fuori delle regole dettate dal codice di procedura civile.
    Il  «rito  societario»  costituisce, infatti, come indicato dalla
stessa  relazione  della  commissione ministeriale, un vero e proprio
nuovo  modello  processuale,  che  si  distacca  volutamente  sia dal
modello  processuale  del 1942, sia da quello del processo del lavoro
del  1973  ed  infine  anche da quello delineatosi con la riforma del
1990.
    In  particolare,  si tratta di un rito di cognizione nel quale la
prima  fase  del  processo  avviene  senza  l'intervento del giudice:
nell'atto  di  citazione  ai  sensi  dell'art. 2 non e' piu' indicata
l'udienza  avanti  al  giudice  ed  il  termine che l'attore fissa al
convenuto   per  la  comunicazione  della  comparsa  di  risposta  e'
stabilito  solo nel minimo, cosi' nella comparsa di risposta ai sensi
dell'art. 4  il  convenuto  puo'  a  sua volta fissare all'attore per
eventuale  replica  un  termine  stabilito  ancora una volta solo nel
minimo,  e  con lo stesso meccanismo l'art. 6 prevede la possibilita'
di una replica da parte dell'attore e l'art. 7 la possibilita' di una
controreplica  da parte del convenuto e poi ancora ulteriori repliche
e  controrepliche.  Solo  a  seguito  dell'istanza  di  fissazione di
udienza  di cui all'art. 8 interviene il giudice, in un momento pero'
in  cui  sia  il thema decidendum che il thema probandum si sono gia'
definitivamente  formati, quindi totalmente al di fuori del controllo
del  giudice,  il  quale tra l'altro solo in un secondo momento, e in
teoria   anche   dopo   moltissimo  tempo  dalla  notifica  dell'atto
introduttivo,  ha  la possibilita' concreta di verificare l'eventuale
invalidita'  dell'atto di citazione e/o della notifica, la necessita'
di integrare il contraddittorio, e tutti questi aspetti preliminari.
    Inoltre, a differenza di quel che accade nel rito del lavoro e in
quello  delineato  dalla  riforma  del  `90, ove secondo la dominante
interpretazione  giurisprudenziale  il  giudice, d'ufficio, proprio a
tutela della «durata ragionevole del processo», verifica le eventuali
preclusioni  di  merito  e/o istruttorie, il decreto legislativo n. 5
del  2003  condiziona tale verifica all'eccezione di parte (artt. 10,
comma 2 e 13, comma 4).
    Ed  ancora,  la  stessa istanza di fissazione di udienza, con gli
effetti  preclusivi  rilevantissimi  stabiliti  dall'art. 10,  e' uno
strumento lasciato nella totale disponibilita' delle parti o anche di
una  sola di esse, che puo' utilizzarlo a suo piacimento, nel momento
ritenuto piu' opportuno.
    Infine,   va   segnalato   l'art. 13  in  tema  di  contumacia  o
costituzione   tardiva  del  convenuto,  che  al  comma  2  introduce
l'innovativo  principio  (di  cui nella delega non v'e' traccia), per
cui  nel  caso  in  cui  il  convenuto  non  notifichi la comparsa di
risposta   nel   termine   stabilito  o  anche  solo  si  costituisca
tardivamente  «i  fatti  affermati  dall'attore  ... si intendono non
contestati   e  il  tribunale  decide  sulla  domanda  in  base  alla
concludenza di questa».
    Tutte   queste  peculiarita'  confermano  con  chiarezza  che  il
legislatore  delegato,  in  forza di una delega assolutamente carente
sotto  il  profilo  dell'indicazione  di criteri direttivi, ha potuto
creare una disciplina interamente nuova per il processo societario di
cognizione ordinaria, anticipando quel rito ordinario prefigurato dal
testo  redatto  dalla  commissione  ministeriale  per  la riforma del
processo civile (il c.d. «progetto Vaccarella»).
    Questo  tribunale  reputa,  appunto,  che  cio'  sia avvenuto per
effetto di una legge di delega priva di reali principi di riferimento
e   limitatasi  ad  indicare  un  unico  vero  obiettivo,  quello  di
«assicurare una piu' rapida ed efficace definizione di procedimenti»,
requisito  tra l'altro nemmeno particolarmente qualificante in quanto
comune a qualsivoglia progetto di riforma del processo civile; ne' lo
stesso   viene   qualificato   dal   riferimento  alla  finalita'  di
concentrazione del procedimento e riduzione dei termini processuali»,
trattandosi  appunto  di  indicazioni  di  massima  con  mera valenza
teorica,  che  finiscono  per  identificarsi  con lo stesso obiettivo
dell'accelerazione  processuale;  cosi'  come evidentemente non hanno
alcun valore delimitativo ed individuante gli altri criteri-guida del
divieto  di  modifica  della  competenza  territoriale e per materia,
della  preferenza  per  la  collegialita'  e della valorizzazione del
ruolo del tentativo di conciliazione.
    Di   conseguenza,   ad  avviso  del  giudicante,  in  quanto  non
manifestamente   infondata   sotto   il   profilo   della  violazione
dell'art. 76  Cost.  per  inosservanza  del  «contenuto minimo» delle
leggi   delega,   va  sollevata  la  questione  di  costituzionalita'
dell'art. 12  della  legge  n. 336  del  2001 nella parte relativa al
procedimento  ordinario  di  primo  grado  e,  per derivazione, degli
articoli da 2 a 17 del decreto legislativo n. 5 del 2003.
    La  questione  e' altresi' rilevante in quanto vertendosi in tema
di  responsabilita'  dell'intermediatore finanziario il giudizio deve
essere deciso facendosi applicazione del decreto legislativo n. 5 del
2003  emanato  in  forza  della  predetta  legge  di  delega, e dalla
pronunzia   della   Corte   costituzionale  dipende  l'applicabilita'
dell'intera nuova disciplina processuale alla controversia sottoposta
al vaglio di questo tribunale e, in particolare, la risoluzione della
questione   dell'estinzione   del   processo  sollevata  dalla  parte
convenuta.
    In  via  subordinata  e  per  l'ipotesi  in  cui la Corte dovesse
ritenere  costituzionalmente  legittimo  l'art. 12 della legge n. 366
del  2001, questo giudice relatore ritiene che non sia manifestamente
infondato  il  dubbio di costituzionalita' degli articoli 2, 3, 4, 5,
6,  7,  8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 17 del decreto legislativo
n. 5  del  2003  per  contrasto  con  l'art. 76 della Costituzione in
quanto  emanati  eccedendo  dai  principi e criteri direttivi dettati
dalla legge n. 366 del 2001.
    Per    evitare    il    sospetto   di   incostituzionalita'   per
indeterminatezza e genericita', si dovrebbe invero compiere lo sforzo
interpretativo   di   leggere   la  legge  n. 366  del  2001  facendo
riferimento  alla  disciplina  del  vigente  processo  di  cognizione
davanti  al tribunale, come contenuta nel libro II, titolo I, c.p.c.,
il  rito  cioe' che sino al 31 dicembre 2003 e' stato applicato anche
alle  controversie  societarie  e  che il legislatore delegante aveva
come  punto  di  riferimento all'atto della concessione della delega;
sforzo  interpretativo  gia' compiuto da altri giudici ordinari (cfr.
Tribunale  Brescia  18  ottobre  2004,  che  ha  rimesso per primo la
questione alla Corte costituzionale).
    La  disciplina  del  processo  di cognizione davanti al tribunale
contenuta  nel  codice di procedura civile prevede che il processo si
svolga   attraverso   la   successione   di  piu'  udienze  fisse  ed
obbligatorie,  in  particolare quella di prima comparizione (art. 180
c.p.c.),  quindi  la  prima udienza di trattazione (art. 183 c.p.c.),
cui  puo'  seguire un'udienza per la discussione e l'ammissione delle
prove  (art. 184  c.p.c.)  ed  eventualmente  un'ulteriore udienza di
precisazione delle conclusioni (art. 189 c.p.c.).
    Se   si   volesse  individuare  una  determinatezza  dei  criteri
direttivi  nella  legge  di delega dovrebbe necessariamente ritenersi
che    il   legislatore   delegante   indicando   il   principio   di
«concentrazione  del  procedimento»  abbia  avuto  come  elemento  di
riferimento  proprio questa scansione prevista nel processo ordinario
vigente,  il  quale,  in particolare, prevede che tra il giorno della
notificazione  della  citazione e quello dell'udienza di comparizione
debbano  intercorrere  termini  liberi non minori di sessanta giorni,
fissa  il  termine  meramente  ordinatorio  di quindici giorni per la
successione  fra  le varie udienze (art. 81 delle norme di attuazione
c.p.c.),  stabilisce  ai  sensi dell'art. 183 c.p.c., quinto comma un
termine  massimo  di  trenta  giorni  per il deposito di memorie e di
altri  trenta  per  le repliche, non stabilisce nessun termine per il
deposito  delle  memorie  istruttorie  ex art. 184 c.p.c. primo comma
seconda parte e prevede il termine di sessanta giorni per il deposito
delle comparse conclusionali e di venti per eventuali repliche.
    Soltanto  con il riferimento a tali termini potrebbe riempirsi di
contenuto  la  generica  indicazione  del  legislatore  delegante del
principio   di  «riduzione  dei  termini  processuali».  Solo  questa
lettura,   estremamente  riduttiva  e  per  questo  proposta  in  via
subordinata,   dei   principi   fissati   dal  legislatore  delegante
consentirebbe  di  evitare  il  su citato dubbio di costituzionalita'
dell'art. 12  della legge n. 366 del 2001. E', pero', evidente che in
questo  caso l'articolato contenuto negli artt. da 2 a 17 del decreto
legislativo  17  gennaio  2003  n. 5,  con  cui  si  e'  inteso  dare
attuazione  alla  delega,  contrasterebbe  con i principi fissati dal
legislatore  delegante  per  «eccesso  di  delega»,  alla  luce della
caratteristiche   del   nuovo   rito   societario   come  gia'  sopra
sintetizzate.  L'operazione effettuata dal decreto legislativo non e'
stata,  infatti,  quella  di  prevedere  un rito concentrato rispetto
all'attuale  rito  ordinario disciplinato dagli artt. 163 ss. c.p.c.,
bensi'  quella,  lo  si  ribadisce, di introdurre nell'ordinamento un
modello  processuale  del  tutto  diverso,  anticipatorio  di  quello
prefigurato  nel  «progetto  Vaccarella»,  nel quale, in particolare,
«scompaiono»  le  prime  due udienze dell'attuale processo ordinario,
sostituite   da   una  fase  preliminare  di  definizione  del  thema
decidendum  sottratta  all'intervento  giudiziale e rimessa solo alla
disponibilita'   delle   parti,  legittimate  a  chiudere  tale  fase
notificandosi  rispettivamente  l'istanza  di  fissazione d'udienza e
uniche abilitate a rilevare l'eventuale inammissibilita' delle altrui
istanze,   istruttorie  e  di  merito  (artt. da  2  ad  10).  Appare
impossibile  non  vedere  in questa «degiurisdizionalizzazione» della
fase  introduttiva,  con  un  intervento  del  giudice essenzialmente
rivolto  solo all'istruzione e alla decisione della causa, una vera e
propria «rivoluzione» di una struttura processuale ormai consolidata,
e non una semplice «accelerazione» e «concentrazione processuale».
    Vi  e'  poi  l'assoluta  novita'  della ficta confessio di cui al
citato  art. 13  del  decreto,  norma che, se e' vero che accelera il
processo  evitando  l'istruttoria in caso di costituzione tardiva del
convenuto,  e'  altrettanto vero che oltre a tale effetti ne realizza
altri,  non  indicati  nemmeno  implicitamente nella legge delega: si
introduce, infatti, una novita' assoluta nell'ordinamento processuale
italiano,  sinora  restio  a dare significato alla contumacia (tranne
l'ipotesi  che  sara' subito esaminata), prevedendosi sostanzialmente
una   nuova   prova   legale,  la  non  contestazione  del  convenuto
costituitosi  in  ritardo  (che e' cosa ben diversa rispetto alla non
contestazione  del  soggetto  che,  costituendosi, non impugna alcuni
fatti  dedotti  ex  adverso ovvero svolga difese incompatibili con la
contestazione  di alcuni fatti). Ebbene, la legge delega non contiene
alcuna  direttiva  o indicazione sul punto e a maggior ragione non la
contiene  ove  rapportata all'attuale assetto processuale, poiche' al
silenzio  della  legge delega fa da contraltare la negazione da parte
dell'ordinamento  attuale  di qualsivoglia valore alla contumacia (ad
eccezione  del  disconoscimento  tacito  di  cui  all'art. 215,  n. 1
c.p.c.,   che   peraltro   resta   neutralizzato   dalla   successiva
costituzione  con  disconoscimento,  con un meccanismo ben diverso da
quello dell'art. 13, decreto n. 5 del 2003).
    Oltre  agli  eccessi  di delega appena evidenziati, il nuovo rito
societario  prevede norme che, viceversa, sembrano porsi in contrasto
con l'idea di accelerazione processuale propugnata dall'art. 12 della
legge n. 366 del 2001.
    Ed  infatti, si e' detto che il decreto legislativo n. 5 del 2003
prevede  una  fase  introduttiva  priva di controllo giudiziale ed al
contempo   articolata   e   complessa,  che  puo'  svolgersi  con  un
«ping-pong»  di  atti,  repliche  e  controrepliche (artt. 2 a 7) che
finisce  col rendere sovrabbondante la fase introduttiva, sicuramente
non  meno  dell'assetto attuale contraddistinto, nella peggiore delle
ipotesi,  dagli  atti  introduttivi, dalle due udienze ex artt. 180 e
183,  dalle  memorie  ex  art. 180  e  183,  ult. comma c.p.c.. Si e'
altresi'  detto  che il nuovo rito esclude l'intervento ufficioso del
giudice  per  rilevare  le  preclusioni  e decadenze istruttorie e di
merito (artt. 10, comma 2 e 13, comma 4) e prevede poi che il giudice
verifichi  la  regolarita'  della  notifica  dell'atto di citazione o
l'eventuale assenza di litisconsorti necessari solo al momento in cui
la  causa gli sia presentata con la richiesta di fissazione d'udienza
(art. 12, ultimi commi).
    Sul  primo aspetto, si e' gia' implicitamente evidenziato come la
fase  introduttiva,  per  come delineata dal decreto legislativo, non
pare  idonea  a snellire i tempi del processo, ne' vale obiettare che
si  tratta di una fase pregiudiziale, in quanto la causa non e' stata
ancora sottoposta al giudice, dal momento che il giudizio, per regola
generale,  sorge  con  la  notifica dell'atto di citazione, ossia con
l'instaurazione    del   contraddittorio,   mentre   e'   irrilevante
l'«assenza»  del giudice, alla luce della stessa giurisprudenza della
Corte  europea  dei  Diritti dell'Uomo, secondo cui nel computo della
durata complessiva di un processo civile deve essere ricompreso anche
il  periodo  impiegato  per  lo  scambio  degli  atti  tra  le  parti
precedente  l'istanza  di  fissazione dell'udienza (CDEU, II sez., 29
luglio 2003, Price e LOWE c. Regno Unito, in Giur. it. 2004, 487).
    Quanto  agli  altri  due  punti,  e'  pacifico  che  l'intervento
ufficioso  del  giudice  sia  ritenuto  dalla  giurisprudenza, sia di
legittimita'  che  di  merito,  insito nel novella del `90, attesa la
portata  della  riforma,  volta  a  realizzare  l'interesse di ordine
pubblico   (e   quindi   indisponibile  per  le  parti)  alla  rapida
definizione  dei  procedimenti.  Ne  deriva  giocoforza che rimettere
nuovamente  alle  parti  la  decisione  di  valutare  l'ingresso  nel
processo  di  domande,  eccezioni  o istanze istruttorie tardive puo'
incidere  negativamente  sui  tempi  del processo, destinato a durare
piu'  a  lungo  se  le  parti  accettino il contraddittorio su simili
domande, eccezioni, istanze tardive.
    Ugualmente   e'   pacifico  che  sia  l'invalida  notifica  della
citazione   sia   l'assenza   di   tutti  i  litisconsorti  necessari
costituiscono  vizi  che,  se  accertati  solo  in sede di udienza di
discussione,  all'esito  della  fase  introduttiva  «fuori  udienza»,
comportano   notevoli   ritardi   processuali,  nella  prima  ipotesi
addirittura  con  una  naturale  regressione  del  processo alla fase
introduttiva,  prima  dell'inizio di quel «ping-pong» di notifiche di
atti  tra  le parti che puo' durare anche molto tempo. Ed e' evidente
che  la soluzione prescelta dal legislatore delegato comporta effetti
«deceleratori»   rispetto   alla   situazione   fisiologia  del  rito
attualmente  vigente,  in  cui  il giudice immediatamente, alla prima
udienza,  e' tenuto a simili verifiche preliminari, eliminando subito
il  vizio  senza  eccessivi ritardi se non quelli legati ad una nuova
udienza  di  comparizione  coi  termini  per  la regolarizzazione del
contraddittorio.   Quindi,   per  le  menzionate  disposizioni  degli
artt. 2-7,  10,  comma  2,  13,  comma  4  e 12, ultimi commi, sempre
qualora  si  accolga  la  tesi subordinata della determinatezza della
legge  delega siccome riferita all'attuale assetto processuale, vi e'
l'ulteriore  sospetto  di  un vizio non solo di eccesso di delega, ma
anche  di  contrasto con la legge delega. L'intera struttura del rito
societario viene, quindi, ancora piu' messa in discussione.
    Sul  punto  della inosservanza della legge delega (sia in termini
di  eccesso  che  di  contrasto),  vi e' altresi' da precisare che la
questione  e'  e resta aperta nonostante il rito societario sia stato
ormai  «esportato»  prima nelle controversie in materia di proprieta'
industriale (art. 134, comma 1, decreto legislativo n. 30 del 2005) e
poi   addirittura   in  tutte  le  controversie,  con  l'introduzione
dell'alternativita' col rito vigente stabilita dall'art. 70-ter disp.
att.  c.p.c. quale introdotto dalla recentissima legge di conversione
del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (legge 14 marzo 2005, n. 80).
    Invero,  al di la' del fatto che l'art. 70-ter disp. att. c.p.c.,
secondo  la previsione dell'art. 3-quater della legge di conversione,
entrera'  in  vigore  solo il 12 settembre 2005, non rileva in questa
sede  che  il  legislatore ordinario, ossia il Parlamento, con questi
interventi  abbia  in  pratica  legittimato  le  scelte  del  decreto
legislativo n. 5 del 2003 rispetto alla legge delega n. 366 del 2001,
perche'  tale  legittimazione  e'  stata solo in fatto, non essendosi
avuta  un'iniziativa  volta a trasformare in legge «formale» la legge
«materiale»  emessa in violazione della legge delega (come ad esempio
e'  accaduto  con  l'art. 7  della  legge  n. 205  del  2000,  che ha
sostituito  gli artt. 33 e 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998,
viziati da eccesso di delega), ma solo una mera applicazione del rito
societario,  nella sua attuale configurazione, ad altre controversie,
senza  alcuna  ratifica formale di detto rito societario in relazione
alle  controversie  societarie,  che  sono appunto quelle oggetto del
decreto legislativo n. 5 del 2003.
    Anche   la   questione   di  costituzionalita'  proposta  in  via
subordinata  e' rilevante ai fini del presente giudizio per le stesse
ragioni  indicate  per la questione proposta in via principale. Oltre
al  sospetto  di  incostituzionalita' dell'intero rito di cognizione,
coi conseguenti dubbi di applicabilita' nel suo complesso della nuova
disciplina,  deve essere stabilito se il processo debba essere o meno
dichiarato estinto ai sensi dell'art. 12, comma 5.
    Tanto premesso in fatto e diritto, va disposta la sospensione del
presente   giudizio   e   la   trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale  per  la  decisone  sulla  questione  pregiudiziale di
legittimita'  costituzionale,  siccome rilevante e non manifestamente
infondata.   Alla  cancelleria  vanno  affidati  gli  adempimenti  di
competenza, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.