ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 1, secondo
comma,  ultima  proposizione, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267
(Disciplina    del    fallimento,    del    concordato    preventivo,
dell'amministrazione   controllata   e   della   liquidazione  coatta
amministrativa),  promosso  con  ordinanza  del  23 agosto 2004 dalla
Corte  d'appello  di Venezia sul reclamo proposto da Simonetta Giatti
contro  Colorlife  di Lanza Simonetta & C. S.n.c., iscritta al n. 979
del  registro  ordinanze  2004  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 49, 1ª serie speciale, dell'anno 2004.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 12 ottobre 2005 il giudice
relatore Romano Vaccarella.
    Ritenuto  che  la  Corte  d'appello  di  Venezia, investita di un
reclamo  proposto  - ai sensi dell'art. 22 del regio decreto 16 marzo
1942,  n. 267  (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo,
dell'amministrazione   controllata   e   della   liquidazione  coatta
amministrativa)  -  avverso il decreto in data 5 maggio 2004, con cui
il  Tribunale  ordinario  di  Rovigo  ha  respinto  l'istanza  di  un
creditore  tendente ad ottenere la dichiarazione di fallimento di una
societa'   in  nome  collettivo,  ha  sollevato,  con  ordinanza  del
23 agosto   2004,   questione   di  legittimita'  costituzionale,  in
riferimento   all'art. 3  della  Costituzione,  dell'art. 1,  secondo
comma,  ultima proposizione, del citato regio decreto n. 267 del 1942
(«legge fallimentare»), nella parte in cui non esonera dal fallimento
le piccole societa' commerciali;
        che,  in  punto  di  fatto,  il  giudice a quo riferisce che,
accertati lo stato di insolvenza della societa' debitrice e la natura
commerciale dell'attivita' da essa esercitata (commercio al minuto di
abbigliamento),  l'istanza  di  fallimento  era  stata  respinta  dal
Tribunale  in  quanto  la  societa',  tenuto  conto  delle dimensioni
dell'impresa  (risultanti dall'impiego di non piu' di due dipendenti,
da  un  modesto  volume di affari e da un modesto reddito d'impresa),
doveva  qualificarsi  piccolo  imprenditore  ed  in  quanto l'art. 1,
secondo  comma, del r.d. n. 267 del 1942 sarebbe stato implicitamente
abrogato,  nella  parte  in  cui  stabilisce che «in nessun caso sono
considerate piccoli imprenditori le societa' commerciali»;
        che,  in  punto di diritto, la Corte territoriale osserva che
la  Corte  costituzionale,  dopo aver indicato, nella sentenza n. 570
del  1989,  i  criteri per definire i limiti dell'assoggettabilita' a
fallimento  -  vale  a  dire  il  riferimento  all'attivita'  svolta,
all'organizzazione  dei  mezzi impiegati, all'entita' dell'impresa ed
alle  ripercussioni  che  il dissesto produce nell'economia generale;
criteri  che  sembrano  applicabili  sia  all'impresa individuale sia
all'impresa  collettiva  -  si e' ripetutamente pronunciata nel senso
che non contrasta con l'art. 3 Cost. il diverso trattamento riservato
dall'ordinamento  alle  societa' commerciali, passibili di fallimento
anche  se  di  modeste  dimensioni, rispetto alle societa' artigiane,
che,  avendo  i  caratteri  del  piccolo imprenditore, quali previsti
dall'art. 2083  del codice civile, non falliscono (sentenze n. 54 del
1991 e n. 266 del 1994);
        che  da  tali  pronunce deve desumersi la persistente vigenza
dell'art. 1,  secondo  comma,  ultima  parte,  della legge fall. («in
nessun   caso  sono  considerate  piccoli  imprenditori  le  societa'
commerciali»), per le societa' non artigiane;
        che  il  giudice  rimettente  - pur consapevole di un recente
orientamento  interpretativo  della  Corte di cassazione, secondo cui
l'ultimo  inciso del secondo comma del citato art. 1, poiche' operava
in relazione alle presunzioni di fallibilita' fissate nelle prime due
proposizioni   dello   stesso  comma,  avrebbe  perso  significato  e
possibilita'  di  applicazione  a  seguito dell'abrogazione implicita
della  prima  presunzione  e  della  dichiarazione  di illegittimita'
costituzionale  della seconda (sentenza 21 dicembre 2002, n. 18235) -
non  ritiene di poter aderire a tale interpretazione, che piegherebbe
inammissibilmente  la  lettera della norma, «la quale non dispone che
le  due  presunzioni  citate  non valgono se si e' in presenza di una
societa' commerciale, e neppure che non vige alcuna presunzione se si
e' in presenza di societa' commerciale, bensi' dispone che "in nessun
caso sono considerate piccoli imprenditori le societa' commerciali"»;
        che,  quanto alla non manifesta infondatezza della questione,
il  giudice a quo osserva che la disciplina delle societa' artigiane,
dettata   dalla   legge   8 agosto  1985,  n. 443  (Legge-quadro  per
l'artigianato),   e'   stata   modificata,  dall'art. 1  della  legge
20 maggio 1997, n. 133 (Modifiche all'articolo 3 della legge 8 agosto
1985,  n. 443, in materia di impresa artigiana costituita in forma di
societa'  a responsabilita' limitata con unico socio o di societa' in
accomandita semplice), e, poi, dall'art. 13 della legge 5 marzo 2001,
n. 57   (Disposizioni  in  materia  di  apertura  e  regolazione  dei
mercati),  nel senso che e' ora consentito, a determinate condizioni,
di  costituire  ed  esercitare  l'impresa artigiana anche in forma di
societa'   in   accomandita   semplice  e  in  forma  di  societa'  a
responsabilita'  limitata,  sia con unico socio sia con pluralita' di
soci,   e   che   cio'   renderebbe   necessario   un  riesame  della
compatibilita' con l'art. 3 Cost. della differenza di trattamento tra
una   societa'   a   responsabilita'  limitata  esercente  un'impresa
artigianale di piccole dimensioni e una societa' di persone esercente
un'impresa commerciale di analoghe piccole dimensioni;
        che, inoltre, la presunzione di speculazione e profitto - che
sarebbe  insita  nella  forma societaria e mancherebbe, invece, nella
piccola  impresa  individuale  e che dovrebbe giustificare il diverso
trattamento   fatto   alle   societa'  rispetto  a  quello  riservato
all'imprenditore   persona  fisica  -  appare,  nell'attuale  assetto
economico-sociale,  essere  il  portato  di un'impostazione astratta,
inidonea a fornire una ragionevole giustificazione alla disparita' di
trattamento  che  nel  concreto  si  verifica, specie nel settore del
commercio,  essendo innumerevoli le imprese collettive nelle quali il
capitale  investito  e  l'apporto  personale  di  pochi soci non sono
quantitativamente  e qualitativamente diversi da quelli di un'impresa
individuale esercitata da un «piccolo commerciante»;
        che,  quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo
osserva  che,  essendo  gia'  acclarato  e non contestato lo stato di
insolvenza,  la  possibilita'  o  meno  di  considerare  la  societa'
debitrice  quale  piccolo  imprenditore - possibilita' preclusa dalla
norma  denunciata  -  e'  determinante  ai  fini  della decisione sul
reclamo;
        che  e'  intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio
dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato,   il   quale  ha  chiesto  che  la  questione  sia  dichiarata
inammissibile  o, comunque, infondata, sottolineando che la questione
e'   in   tutto   analoga   a  quella  gia'  esaminata  e  dichiarata
inammissibile  dalla  Corte  costituzionale con la sentenza n. 54 del
1991,  ed  inoltre  che, nel nostro sistema giuridico, la qualita' di
«piccolo  imprenditore»  (art. 2083 cod. civ.) e' riferibile soltanto
all'imprenditore  individuale  ed  e' ignota la figura della «piccola
societa'  commerciale»,  in  quanto  nella forma sociale va ravvisato
l'elemento  organizzativo  (base  di  un'intermediazione  speculativa
funzionale  al  profitto),  che,  nella  valutazione del legislatore,
assume  carattere preminente e qualificante, rispetto ad un'eventuale
struttura economicamente piccola dell'impresa;
        che  l'assoggettabilita'  alla  procedura  concorsuale  delle
societa',  anche  se  di  modeste dimensioni, trova, quindi, adeguata
giustificazione  nella  presunzione di speculazione e profitto che e'
insita nella loro costituzione;
        che non e', pertanto, irrazionale la denunziata diversita' di
disciplina,  frutto  di  una scelta fra le varie soluzioni possibili,
che  -  come ha riconosciuto la Corte costituzionale nella richiamata
sentenza  n. 54 del 1991 - spetta solo al legislatore e rientra nella
sua  sfera  di  discrezionalita',  in  quanto attinente alla generale
politica economica e giudiziaria;
        che, peraltro, nemmeno puo' ritenersi irrazionale l'esenzione
dal  fallimento  della  societa' artigiana di modeste dimensioni, dal
momento  che,  laddove  l'impresa superi i limiti dell'organizzazione
artigianale  e il guadagno assuma i connotati del profitto, anch'essa
acquista le dimensioni dell'impresa commerciale o industriale, ed e',
in  quanto caratterizzata dal fine della speculazione e del profitto,
soggetta al fallimento;
        che,  in  definitiva, e' del tutto ragionevole la valutazione
del  legislatore,  secondo  la  quale o l'impresa collettiva ha certe
caratteristiche  e  dimensioni  e  allora e' artigiana e sottratta al
fallimento,   o   non  ha  quelle  caratteristiche  o  supera  quelle
dimensioni  e  allora  e'  impresa  commerciale  o  industriale ed e'
percio' soggetta al fallimento.
    Considerato  che  la  Corte  d'appello  di  Venezia  dubita della
legittimita'   costituzionale,   in   riferimento   all'art. 3  della
Costituzione,  dell'art. 1,  comma  secondo, ultima proposizione, del
regio  decreto  16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del
concordato   preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e  della
liquidazione  coatta amministrativa), nella parte in cui - stabilendo
che «in nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le societa'
commerciali»  -  non  esonera  dal  fallimento  le  piccole  societa'
commerciali,  e cio' in quanto esso determinerebbe una ingiustificata
disparita' di trattamento tra una societa' a responsabilita' limitata
esercente  un'impresa artigianale di piccole dimensioni (non soggetta
a   fallimento)  e  una  societa'  di  persone  esercente  un'impresa
commerciale di analoghe piccole dimensioni, ed in quanto, inoltre, la
disparita'  di  trattamento  fra  un'impresa  collettiva e un'impresa
individuale,  esercitate  con un modesto capitale investito e apporto
lavorativo   personale   (di   pochi   soci  nell'una,  del  titolare
nell'altra),  non e' giustificata dalla presunzione di speculazione e
profitto,  che  sarebbe  insita nella forma societaria e mancherebbe,
invece, nella piccola impresa individuale;
        che la questione e' manifestamente infondata sotto entrambi i
profili prospettati dal giudice rimettente;
        che  va  premesso, quanto alla perdurante vigenza della norma
denunciata  di  illegittimita'  costituzionale, che questa Corte deve
limitarsi  -  come sempre in passato si e' limitata - a prendere atto
della  non  implausibilita'  della  tesi interpretativa preferita dal
rimettente, senza che l'esame nel merito della questione stessa possa
intendersi,  come fa il rimettente a proposito di precedenti pronunce
di questa Corte, quale avallo di una opzione interpretativa contraria
a  quella  da ultimo adottata, peraltro in taluni obiter dicta, dalla
Corte di cassazione e da non pochi giudici di merito;
        che,   quanto   alla   pretesa  irragionevole  disparita'  di
trattamento  rispetto  alla  societa'  artigiana  - a prescindere dal
rilievo  che  la  ragionevolezza  di  una regola generale si vorrebbe
fosse  saggiata  adottando,  come tertium comparationis, un'eccezione
alla  regola  stessa  - le novita' legislative segnalate in proposito
dal   giudice  rimettente  sono  irrilevanti  rispetto  al  criterio,
enunciato da questa Corte con la sentenza n. 266 del 1994, secondo il
quale  «la  disciplina della impresa artigiana costituisce oggetto di
un   complesso   di   valutazioni,  e  disposizioni  legislative  non
limitabili   esclusivamente  al  problema  dell'assoggettabilita'  al
fallimento»; il che esclude, come gia' statuito con la sentenza n. 54
del 1991, la violazione dell'art. 3 Cost;
        che,   quanto   alla   pretesa  irragionevole  disparita'  di
trattamento  tra  impresa collettiva e impresa individuale, i rilievi
svolti  dal  giudice  rimettente  non  possono  portare all'auspicata
dichiarazione di illegittimita' costituzionale della norma in quanto,
anche a voler ritenere che la presunzione di speculazione e profitto,
fondata  sulla  forma  giuridica assunta dall'impresa (cosi' sentenza
n. 54  del  1991), sia divenuta meno aderente alla realta' economica,
e'  indubbio  che essa non puo' dirsi manifestamente irragionevole, e
non  puo'  dirsi,  pertanto, che il legislatore abbia fatto uso della
sua discrezionalita' in modo da violare il principio di uguaglianza e
di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.