IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza sul ricorso n. 454/2004 di
Gabrijel Culic, rappresentato e difeso dall'avv. Cristiano Leone, con
elezione  di  domicilio  presso  lo  studio dell'avv. Raffaele Leo in
Trieste;
    Contro   il   Ministero   dell'interno,  in  persona  del  legale
rappresentante  pro  tempore,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura
distrettuale  dello  Stato domiciliataria ex lege; per l'annullamento
del provvedimento di revoca del permesso di soggiorno;
    Visto  il  ricorso, ritualmente notificato e depositato presso la
segreteria;
    Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'amministrazione;
    Viste le memorie prodotte dalle parti tutte;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Uditi,  alla  pubblica  udienza  del 14 luglio 2005 - relatore il
consigliere Oria Settesoldi - i difensori delle parti presenti;
    Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue:

                              F a t t o

    La  censurata  revoca del permesso di soggiorno e' stata adottata
in  applicazione  degli  artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 286/1998 a seguito
della condanna con sospensione della pena riportata dal ricorrente in
data  27 novembre 2003 e divenuta irrevocabile il 23 gennaio 2004 per
violazione degli art. 81 cpv. e 73 d.P.R. n. 309/1990.
    Il  ricorrente  deduce  l'eccesso  di potere per travisamento dei
fatti   e   l'erronea  applicazione  dell'art. 2  del  codice  penale
nell'assunto  che  la  revoca  del  permesso di soggiorno - in quanto
inquadrabile   quale   sanzione   accessoria   alla   condanna  -  si
applicherebbe  solo  agli episodi criminosi successivi all'entrata in
vigore  della  legge  n. 189/2002  mentre  gli  episodi  criminosi di
cessione  illecita di sostanze stupefacenti continuate si riferiscono
a periodo anteriore.
    Mancherebbe   inoltre  la  complessiva  nuova  valutazione  degli
interessi pubblici rilevanti in ragione del riferimento al compimento
di   una   siffatta   attivita'  di  cessione  illecita  di  sostanze
stupefacenti anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 189/2002.
    Si   e'   costituita   in   giudizio  l'amministrazione  intimata
controdeducendo per il rigetto del ricorso.

                            D i r i t t o

    Il ricorso si rivela allo stato inaccoglibile perche' infondato.
    Osserva  il  Collegio  anzitutto che l'impugnato provvedimento di
revoca  del permesso di soggiorno non costituisce alcuna applicazione
retroattiva  di una norma penale perche' non siamo in presenza di una
fattispecie  di  applicazione  di  una  legge  penale ad un fatto non
preveduto  come  reato  al  momento della sua commissione, bensi' del
diverso  caso di applicazione di una legge che impedisce al cittadino
straniero  che  abbia  commesso  determinati  reati  di  ottenere  il
rilascio   del   permesso   di   soggiorno  (T.a.r  Abruzzo,  Pescara
n. 572/2003).
    In  particolare la sopravvenienza di sentenza di condanna per una
delle  ipotesi  di  reato  previste dalla legge e' il presupposto che
impone  e  legittima  l'adozione  del provvedimento amministrativo di
revoca  del  permesso  gia'  concesso  o  del  rifiuto di permesso di
soggiorno  o  di  rinnovo dello stesso, cioe' dei vari atti di cui la
legge  impone  l'adozione qualora non sussistano i presupposti per il
rilascio di un permesso, a causa della riscontrata presenza di reati,
indipendentemente  dall'epoca  della  loro  commissione  e dall'epoca
dell'intervento delle relative condanne.
    Assodato pertanto che nel caso di specie la puntuale applicazione
della normativa in vigore non puo' che portare al rigetto del ricorso
il  Collegio  ritiene  di  porsi d'ufficio il problema di valutare la
compatibilita'    della    normativa    suddetta   con   i   principi
costituzionali.
    Osserva   anzitutto   che  il  ricorrente  risulta  essere  stato
condannato  con  sentenza  del  27 gennaio 2003 per fatti avvenuti in
data 5 dicembre 2002, sicche' sia l'una che gli altri sono successivi
all'entrata  in  vigore  della  legge  30 luglio 2002, n. 189, con la
ulteriore  conseguenza  della  insussistenza  nel  caso di specie dei
presupposti  di  fatto  che hanno indotto il Tribunale amministrativo
regionale Lombardia Brescia, dapprima con l'ordinanza 25 agosto 2003,
n. 1190  e, successivamente, con l'ordinanza n. 561/2005, a sollevare
questione di legittimita' costituzionale della normativa in questione
in  considerazione  della  ritenuta applicabilita', ai fini della non
ammissione  in  Italia  dello  straniero,  anche  delle  sentenze  di
patteggiamento  pronunciate anteriormente all'entrata in vigore della
legge sopracitata.
    Il Collegio ritiene peraltro che rimanga ancora da considerare la
questione   di   costituzionalita'  dellart. 4  comma  3  del  d.lgs.
n. 286/1998 cosi' come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189,
per violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione sotto il profilo
della  irragionevolezza  e disparita' di trattamento, nella parte cui
pone quale elemento ostativo all'ingresso e alla permanenza in Italia
dello  straniero  la  condanna  per  determinati  reati senza imporre
l'ulteriore verifica di pericolosita' sociale dello stesso.
    Come  messo  in rilievo nelle sopracitate ordinanze del Tribunale
amministrativo regionale Brescia l'art. 15 dello stesso d.lgs. n. 286
del  1998,  nel  disciplinare  l'espulsione  a  titolo  di  misura di
sicurezza,  consente  invece al giudice di ordinare la stessa qualora
lo  straniero  sia  stato  condannato per taluno dei delitti previsti
degli  articoli  380 e 381 del codice di procedura penale, sempre che
lo stesso risulti «socialmente pericoloso».
    La  questione  e', ad avviso del Collegio, direttamente rilevante
in  causa  perche'  l'espulsione  amministrativa e' configurata dalla
legge  come conseguenza inevitabile ed automatica dell'impossibilita'
di  ottenere il permesso di soggiorno, sicche' e' solo nel momento in
cui  viene  effettuato  il  riscontro  dei  presupposti  di  siffatta
impossibilita'  che puo' inserirsi la valutazione della pericolosita'
sociale  del  soggetto.  Infatti,  una  volta che nei confronti dello
straniero  sia  stato  adottato  un  atto che attesta la verifica dei
presupposti  di  legge che rendono impossibile il conseguimento di un
valido titolo di soggiorno l'espulsione e' una conseguenza immediata,
automatica  ed  inevitabile  e  viene  disposta con provvedimento che
appartiene  alla  categoria  degli  atti  vincolati.  Non e' pertanto
neanche   astrattamente   ipotizzabile   che   la  valutazione  della
pericolosita' sociale possa essere effettuata dall'autorita' chiamata
a  disporre l'espulsione dopo che si e' gia' concluso il procedimento
di  diniego/revoca  o  rifiuto  di rinnovo del permesso di soggiorno,
dato   che  non  e'  giuridicamente  ipotizzabile  che  possa  essere
consentito di trattenersi legittimamente nel territorio dello Stato a
persona  nei  cui confronti e' gia' stata esclusa la possibilita' del
rilascio di valido titolo di soggiorno.
    Ad  avviso  del  Collegio  l'unica  conclusione  coerente  con il
sistema  normativo  dovrebbe  essere  quella  che  il  giudizio sulla
pericolosita'  sociale  dello  straniero  condannato  per determinati
reati  -  qualora  ritenuto  necessario -  debba essere anticipato al
momento  in  cui l'autorita' amministrativa sia chiamata a valutare i
requisiti per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, non
potendosi rinviare detta verifica alla fase successiva di espulsione,
la  quale,  come gia' ampiamente precisato, segue automaticamente per
l'assenza  del  titolo  che  legittima  la permanenza in Italia dello
stesso.
    Nel  caso  in  esame  risulta ostativa al rinnovo del permesso di
soggiorno  la condanna per il reato di detenzione e cessione illecita
di sostanze stupefacenti continuate, pronunciata dal G.u.p. presso il
Tribunale di Pordenone ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura
penale,  divenuta  irrevocabile  il  23 gennaio  2004,  senza che, al
riguardo,   l'autorita'   amministrativa   sia   tenuta   a  svolgere
l'ulteriore giudizio di pericolosita' sociale del ricorrente.
    La Corte costituzionale, con sentenza 24 febbraio 1995, n. 58, ha
gia'   avuto   modo   di  dichiarare  costituzionalmente  illegittimo
l'art. 86,  comma  1  del t.u. 9 ottobre 1990, n. 309, per violazione
dell'art. 3  della  Costituzione,  nella  parte  in  cui obbligava il
giudice  ad  emettere,  senza  l'accertamento  della  sussistenza  in
concreto  della  pericolosita'  sociale,  prevista  in  via  generale
dall'art. 31  della  legge  10 ottobre  1986, n. 663, contestualmente
alla condanna, l'ordine di espulsione dello straniero, condannato per
uno  dei  reati  in  materia  di  stupefacenti e sostanze psicotrope,
previsti  dal  t.u.  stesso,  e  con  conseguente  preclusione  della
sospensione  condizionale  della pena, in quanto per le altre ipotesi
di  espulsione  dello straniero, previste dagli artt. 235 e 312 c.p.,
per  reati  altrettanto gravi, sarebbe stata consentita al giudice la
valutazione   in   concreto   della   pericolosita'  dello  straniero
condannato.
    Tale  principio  e'  stato  effettivamente  recepito dall'art. 15
dello  stesso  d.lgs.  n. 286  del  1998,  il quale, nel disciplinare
l'espulsione  a titolo di misura di sicurezza, consente al giudice di
ordinare  la  stessa  qualora  lo  straniero sia stato condannato per
taluno  dei  delitti  previsti degli articoli 380 e 381 del codice di
procedura   penale,   sempre   che  lo  stesso  risulti  «socialmente
pericoloso».
    A  giudizio  del Collegio l'art. 4, comma 3 del d.lgs. n. 286 del
1998  applicato  in  correlazione con i successivi artt. 5, comma 5 e
13, comma 2, lett. b) appare pertanto in contrasto con l'art. 3 della
Costituzione, sotto il profilo della irragionevolezza e disparita' di
trattamento,  poiche'  dall'impossibilita' di ottenere o mantenere un
legittimo  titolo  di  soggiorno  deriva  come automatica conseguenza
l'obbligo  dell'autorita'  amministrativa di disporre l'espulsione in
via   amministrativa  dello  straniero  dal  territorio  italiano  in
presenza  della  sola condanna per determinati reati, senza che venga
valutata,  in concreto, la pericolosita' sociale dell'individuo, cosa
che invece e' tenuto a fare il giudice nell'applicazione della stessa
espulsione  a  titolo  di  misura  di sicurezza. Infatti, pur essendo
diverse    le   situazioni   e   i   procedimenti   sopra   descritti
(amministrativo  l'uno e giurisdizionale l'altro), appare necessario,
al  fine  di  garantire  il  rispetto dell'art. 3 della Costituzione,
attribuire  la medesima rilevanza allo stesso provvedimento (condanna
per   determinati   reati)   che   costituisce,  in  ultima  analisi,
presupposto  dell'espulsione,  indipendentemente  dal  fatto  che  la
stessa   venga   disposta  nella  sede  amministrativa  o  in  quella
giurisdizionale poiche', in entrambi i contesti, identici risultano i
conseguenti    risultati,   consistenti   nell'allontanamento   dello
straniero  dal territorio italiano e la conseguente impossibilita' di
esercitare   i   diritti   e  godere  delle  liberta'  che  la  Carta
costituzionale  riconosce  all'individuo  (art. 13  citato,  ma anche
quelli di cui agli artt. 2, 4, 16, 29 ss.).
    La  violazione  dell'art. 3  della Costituzione, sotto il profilo
dell'irragionevolezza  e della disparita' di trattamento in relazione
a  quanto  sopra  illustrato, risulta altresi' evidente col fatto che
l'art. 445 del codice di procedura penale non consente l'applicazione
di  misure  di  sicurezza  per  le  sentenze pronunciate a seguito di
patteggiamento,  stante  il  carattere  di premialita' attribuito dal
legislatore a tale rito, come contropartita alla economia processuale
che  la  scelta delle parti consente. Nel caso in esame, pertanto, il
ricorrente,   essendo   stato   condannato  per  reati  inerenti  gli
stupefacenti  con  sentenza  pronunciata  ai  sensi dell'art. 444 del
codice di procedura penale, non potrebbe subire, in sede giudiziaria,
l'applicazione   della   misura   di  sicurezza  dell'espulsione  dal
territorio dello Stato, mentre dovrebbe necessariamente subirla nella
sede  amministrativa  a seguito dell'obbligatoria revoca del permesso
di  soggiorno,  in applicazione dell'art. 13, comma 2, lettera b) del
d.lgs.   n. 286   del  1998,  vanificando  cosi'  l'effetto  premiale
riconosciuto in sede giudiziaria.
    Trattandosi   di  misura  che  incide  sulla  liberta'  personale
dell'individuo,  sia  l'espulsione  disposta  in via amministrativa -
come  inevitabile  conseguenza  del  diniego o revoca del permesso di
soggiorno  - che l'espulsione disposta dal giudice a titolo di misura
di  sicurezza,  non  assistite  dal  previo  giudizio  generale sulla
pericolosita'   sociale,   risulterebbero   in  contrasto  anche  con
l'art. 13  della  Costituzione  applicabile  a  tutti  gli  individui
cittadini  e  non  cittadini  come  riconosciuto  dalla  stessa Corte
costituzionale (sent. n. 62 del 1994).
    La  sopra  illustrata  questione di illegittimita' costituzionale
appare, ad avviso del Collegio, quindi non manifestamente infondata e
rilevante in causa.
    Sotto  altro aspetto la violazione dell'art. 3 della Costituzione
appare    non    manifestamente    infondata   anche   in   relazione
all'irragionevolezza  ed  alla sproporzione della scelta compiuta dal
Legislatore   che  intende,  nella  sede  amministrativa,  sanzionare
automaticamente  con  il diniego di rinnovo o il rifiuto del permesso
di   soggiorno   o   con   l'obbligo   di   disporne   la  revoca  e,
conseguentemente,  con l'espulsione dal territorio dello Stato, anche
fatti  di  lieve e lievissima entita', ancorche' penalmente rilevanti
ed  ascrivibili ai reati di cui all'art. 4, comma 3 del d.lgs. n. 286
del  1998  nel  testo modificato dalla legge n. 189 del 2002, che non
sono stati ritenuti meritevoli di analoga misura in quest'ultima sede
in  cui, addirittura, potrebbero aver goduto di attenuanti oltre alla
sola  sanzione  pecuniaria,  in  quanto comportanti un minore allarme
sociale  che non giustifica misure repressive che incidono su diritti
costituzionalmente  garantiti  espressione,  piu'  in  generale,  dei
diritti dell'uomo riconosciuti a livello sovranazionale.
    In  assenza  di  un ragionevole giudizio di pericolosita' sociale
quale  necessario  momento  di  valutazione  e di applicazione di una
misura proporzionale alla gravita' dei fatti commessi, anche fatti di
lieve   o  lievissima  entita'  possono  cosi'  incidere  nella  sede
amministrativa,  al  pari  delle  sanzioni  penali  e delle misure di
sicurezza,  sulla  sfera  soggettiva  dell'individuo,  che vede cosi'
compromessi  i  propri  diritti  costituzionalmente  garantiti  quali
diritti inviolabili dell'uomo che la Repubblica intende riconoscere e
garantire  a  norma dell'art. 2 della Costituzione e, in particolare,
il  diritto al lavoro (art. 4), alla libera circolazione (art. 16) ed
alla liberta' personale (art. 13).