IL TRIBUNALE Nell'udienza del 27 settembre 2005 nel procedimento penale a carico di dell'Utri Marcello, Luzi Romano, Comincioli Romano, ha pronunciato la seguente ordinanza. Il p.m. di Milano, nel corso dell'udienza del 30 giugno u.s., pronunciandosi in via preliminare nel corso dell'apertura dell'udienza medesima riassunta dinanzi a questo collegio penale in seguito alla comunicazione formale della sentenza pervenuta alla cancelleria di questa sezione da parte della Corte di Giustizia della CE nei procedimenti riuniti C-387/02, C391/02, C403/02, ha richiesto a questo collegio la sospensione ed il conseguente rinvio del presente procedimento in attesa che la Corte costituzionale si pronunci sulla richiesta di incostituzionalita' dell'art. 2622 c.c. (cosi' come modificato dall'art. 1 del d.l. n. 61 del 2002), per violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione in relazione all'art. 6 della Direttiva del Consiglio dell'Unione europea n. 68/151/CEE, richiesta inviata alla suddetta Corte dal giudice per le indagini preliminari di Potenza con ordinanza del 1° giugno 2005. Il motivo addotto dal p.m. nella richiesta in questione e' stato la sostanziale coincidenza della vicenda sottoposta al giudizio di questo tribunale con quella sottoposta al giudizio del giudice di Potenza e conseguentemente prospettata alla corte con l'ordinanza che si e' citata. I difensori degli imputati si sono opposti alla richiesta del p.m., insistendo, anche e soprattutto alla luce delle conclusioni della sentenza della Corte di Giustizia CE, per il proscioglimento dei loro assistiti, essendo ormai trascorso il termine massimo di prescrizione per i reati loro contestati. Questo collegio si e' riservata la decisione, avendo la necessita' di acquisire la ordinanza del G.i.p. di Potenza e di leggere le motivazioni nella stessa contenute. Va comunque rammentato che, per piu' correttamente inquadrare la vicenda in questione, nel corso dell'udienza del 29 ottobre 2002 questo stesso collegio, nel rispondere ad una articolata richiesta del p.m. che eccepiva l'incostituzionalita' della stessa norma in esame (artt. 2621 e 2622 c.c.) emanava una lunga e complessa ordinanza ai sensi dell'art. 234 (gia' art. 177) del Trattato CE, chiedendo alla Corte di Giustizia della CE una pronuncia pregiudiziale in merito alla interpretazione dell'art. 6 della Prima Direttiva n. 168/151 del Consiglio del 9 marzo 1968, e dell'art. 5 del Trattato CEE, ordinanza sospensiva del procedimento in questione, che si ritiene opportuno e necessario compiutamente richiamare: «Il p.m. di Milano, nel corso dell'udienza del 24 settembre u.s. nel procedimento in questione (procedimento a carico di Dell'Utri Marcello, Luzi Romano e Comincioli Romano in relazione, tra l'altro, ai reati di falso in bilancio commessi fino al 1993, originariamente puniti ai sensi dell'art. 2621, 2640 c.c., e successivamente tramutati in violazione dell'art. 2622 c.c.), ha eccepito: l'incostituzionalita' dell'art. 1 comma 2 del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61 (e per quanto occorra, dell'art. 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366) nella parte in cui prevede la procedibilita' a querela per il reato nello stesso previsto, per violazione dell'art. 3 della Costituzione; ovvero, in subordine, l'incostituzionalita' degli artt. 1 comma 2 e 5 del d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61 (e, per quanto occorra, della legge 3 ottobre 2001, n. 366) nella parte in cui prevedono la procedibilita' a querela per i reati negli stessi previsti, commessi anteriormente alla sua entrata in vigore per violazione degli artt. 11 e 117 della Costituzione. In conseguenza di tale eccezione egli ha richiesto al Collegio procedente di ritenere tale questione rilevante e non manifestamente infondata, e di trasmettere gli atti alla Corte costituzionale per la decisione. In via subordinata, infine, ha chiesto che il tribunale, ove lo ritenga necessario, adisca in via incidentale la Corte di Giustizia delle comunita' europee perche' dichiari che la normativa introdotta dal decreto legislativo n. 61/2002 non e' adeguata a sanzionare i fatti di falso in bilancio, dai quali sia derivato un danno, commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso. Il discorso del p.m., nel trattare e motivare l'eccezione in questione, parte da una premessa e si sviluppa su due piani paralleli ma convergenti nel richiedere la declaratoria di incostituzionalita' delle norme indicate (melius: la declaratoria di non manifesta infondatezza delle questioni proposte): In primo luogo il p.m. (e tutto cio' costituisce la premessa del suo ragionamento), ritiene di poter legittimamente affermare (sulla base di alcune sentenze di giudici di merito e di legittimita) la «continuita' normativa» tra la norma preesistente punitiva dei comportamenti sussumibili sub specie «falso in bilancio» ovvero «falsita' in comunicazioni sociali», e cioe' il vecchio art. 2621 del c.c., e le norme introdotte dal decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61, e cioe' i nuovi articoli 2621 e 2622 c.c. indicati nel corpus legislativo citato come «False comunicazioni sociali» e «False comunicazioni sociali in danno di soci o creditori». Partendo da tale presupposto e dal corollario interpretativo conseguente della «residualita» del nuovo art. 2621 rispetto al nuovo art. 2622 c.c. (nel senso di ritenere applicabile l'art. 2621 ogni qual volta, pur essendosi causato un danno, non sia stata pronunciata querela dai soggetti legittimati ex art. 2622 c.c.), il p.m. eccepisce (melius: richiede di eccepire) l'incostituzionalita' della nuova norma sotto due diversi profili. La prima censura di incostituzionalita' riguarda la parte della norma di cui all'art. 2622 c.c. in cui si prevede la procedibilita' a querela dei soci e dei creditori sociali di societa' non quotate in borsa (societa' non soggette alle disposizioni della parte IV titolo III, capo II del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58): secondo l'ufficio procedente tale previsione consentirebbe una evidente disparita' di trattamento con la ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 2621 c.c., nella misura in cui prevederebbe una perseguibilita' a querela per fatti piu' gravi (e cioe' causativi di danno) rispetto a fatti meno gravi (e cioe' senza danno); da cio' la censura di incostituzionalita' in relazione all'art. 3 della Corte costituzionale. La seconda eccezione proposta dal p.m. e' piuttosto articolata e si basa su una lettura congiunta degli art. 11 e 117 della Carta Costituzionale in relazione all'art. 6 della Direttiva del Consiglio dell'Unione europea datata 9 marzo 1968, n. 68/151, nella parte in cui prescrive che «... gli Stati membri stabiliscano adeguate sanzioni per il caso di mancata pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite». Secondo il p.m. il combinato disposto degli artt. 2622 citato e 5 del decreto legislativo n. 61/2002 (che prevede, come disposizione transitoria, il termine di tre mesi per poter presentare la querela da parte dei soggetti legittimati ex art. 2622 per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto medesimo) configurerebbe una situazione di incostituzionalita' ai sensi degli articoli e della direttiva citate, in quanto apparirebbe del tutto inadeguata la sanzione cosi' prevista per tali fattispecie, che sarebbero, ineluttabilmente, destinate alla prescrizione. Sempre secondo l'Accusa, il concetto di adeguatezza di cui al citato art. 6 corrisponderebbe a quelli di «efficacia, effettivita', dissuasivita» delle norme sanzionatorie previste, concetti che mancherebbero del tutto nella fattispecie in questione. Continua il p.m. richiedendo, di conseguenza, la declaratoria di incostituzionalita' delle norme citate: nella misura in cui occorra una valutazione ed una declaratoria del contrasto tra le suddette norme e la direttiva comunitaria, egli infine chiede a questo Collegio di adire la Corte di Giustizia delle comunita' europee affinche' si pronunci, incidentalmente, sul contrasto medesimo e dichiari che la normativa introdotta dal legislatore italiano con il d.lgs. n. 61/2002 non e' adeguata a sanzionare i fatti di falso in bilancio in ordine ai quali il procedimento fosse ancora in corso all'entrata in vigore del decreto medesimo. Fin qui' il p.m. Le altri parti presenti all'udienza si sono rimesse (Avvocatura dello Stato), ovvero hanno chiesto di respingere le eccezioni proposte (difensori degli imputati) sostenendone la manifesta infondatezza ed insistendo per la declaratoria di proscioglimento dei propri assistiti proprio alla luce della introduzione delle norme di cui al d.lgs. n. 61/2002. Prima di affrontare in modo dettagliato le eccezioni proposte dal p.m., questo Collegio ritiene preliminare, ex art. 23 legge 11 marzo 1953, la valutazione della c.d. «rilevanza» della questione proposta, sia in funzione di una eventuale immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, una volta risolta anche la non manifesta infondatezza della medesima, sia anche in relazione ad un preliminare invio degli atti alla Corte di Giustizia ex art. 234 (gia' 177) Trattato CEE, affinche' si pronunci sulla interpretazione della direttiva citata e quindi risolva, in modo obbligatorio per il Tribunale procedente, il problema della fondatezza della questione proposta. E' infatti evidente, perlomeno nella valutazione di chi scrive, che l'eventuale trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia porti alla sospensione del procedimento e non consenta di procedere nella ulteriore valutazione di fondatezza della questione senza che, su tale argomento, si sia pronunciata la corte adita proprio a tal fine interpretativo. In ogni caso la valutazione di rilevanza della eccezione proposta precede, logicamente e temporalmente, l'ulteriore approfondimento della vicenda: e' evidente che nel momento in cui questo Collegio dovesse ritenerla irrilevante ai fini, della soluzione dei fatti di causa, apparirebbe del tutto privo di ragionevolezza percorrere l'iter procedurale di cui si e' parlato, essendo poi preclusa al Collegio medesimo la richiesta di declaratoria di incostituzionalita'. La questione della «rilevanza» di una eccezione di incostituzionalita' che preveda un intervento «in malam partem» della Corte costituzionale (cosa che avverrebbe senza dubbio nel caso in esame attesa la richiesta di declaratoria di illegittimita' di una norma che prevede un trattamento piu' favorevole per il soggetto imputato, anche soltanto abolendo una condizione di procedibilita' quale la querela e', senza dubbio, un argomento fortemente dibattuto in dottrina ed in giurisprudenza, toccando in maniera inequivoca l'interpretazione dell'art. 2 del codice penale e quindi uno dei massimi pilastri che sorreggono la costruzione del sistema processualpenalistico. La Corte, anche recentemente, ha piu' volte affermato, pronunciandosi sull'argomento, che le questioni riguardanti gli interventi additivi in malam partem «sono manifestamente inammissibili, in quanto il fondamentale principio di strette legalita' dei reati e delle pene preclude pronunzie che configurino nuove ipotesi di reato o aggravamenti di pena» (ord. n. 432 del 1996), ovvero «sono inammissibili le questioni di legittimita' costituzionale in riferimento agli artt. 3, 9, 10, 11, 25, 32, 41, 117, 101 e 102 Cost. della legge 17 maggio 1995, n. 172, ...(Omissis). ...Le questioni sollevate tendono inammissibilmente ad introdurre, o a reintrodurre, figure di reato o aggravamenti di pena chiedendo una pronuncia che esula dai poteri della Corte, cost., giacche' il potere di creare fattispecie penali o di aggravare le pene e' esclusivamente riservato al legislatore, in forza del principio di stretta legalita' dei reati e delle pene, sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost. (sentenza n. 330 del 1996). Va tuttavia rilevato che le questioni c.d. «additive in malam partem» non costituiscono l'unica possibile modalita' di intervento abrogativo dei giudici costituzionali, e che, anzi, e' stata proprio la stessa Corte che, nella sentenza n. 148 del 1983, ha affrontato e risolto una volta per tutte, proprio l'argomento che si sta ora affrontando: «.... Una, infatti e' la garanzia che i principi del diritto penale/costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l'efficacia spettante a dichiarazioni di illegittimita' delle norme penali di favore; altro e' il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione all'interno delle quali la legislazione stessa diverrebbe incontrollabile ............. in secondo luogo le norme penali di favore fanno anch'esse parte del sistema al pari di qualunque altra norma costitutiva dell'ordinamento: lo stabilire in quali modi il sistema potrebbe reagire all'annullamento di norme del genere, non e' quesito cui la Corte possa rispondere in astratto, salve le implicazioni ricavabili dal principio di irretroattivita' dei reati e delle pene; sicche', per questa parte, va confermato che si tratta di un problema (ovvero di una somma di problemi), inerente all'interpretazione di norme diverse da quelle annullate, che i singoli giudici dovranno comunque affrontare, caso per caso, nell'ambito delle rispettive competenze. In terzo luogo la tesi che le questioni di illegittimita' costituzionale concernenti norme penali di favore non siano mai pregiudiziali ai fini del giudizio a quo, muove da una visione troppo semplificante delle pronunce che questa Corte potrebbe adottare, una volta affrontato il merito di tali impugnative... ln altre parole non puo' escludersi a priori che il giudizio della Corte su una norma penale di favore si concluda con una sentenza interpretativa di rigetta o con una pronuncia comunque correttiva delle premesse esegetiche su cui si fosse comunque pronunciata l'ordinanza di rimessione: donde una serie di decisioni certamente suscettibili di in fluire sugli esiti del giudizio penale pendente». In breve, per cercare di riassumere quanto autorevolmente riportato, la prospettazione alla Corte costituzionale dell'eventuale illegittimita' di norme penali «di favore», appare attivita' del tutto legittima (ed anzi, obbligatoria ove ne sussistano i presupposti), e nient'affatto inammissibile, considerati i limiti dell'intervento della stessa Corte in relazione alle norme costituzionali esistenti, a fronte di una possibilita' di intervento dei giudici supremi che possa certamente influire sugli esiti del giudizio a quo: «le norme penali di favore, quindi ben possono essere sospettate di incostituzionalita', in quanto la sentenza della Corte costituzionale dichiarativa di incostituzionalita', anche se non puo' produrre retroattivamente conseguenze sfavorevoli al reo e far venir meno (retroattivamente) cause di giustificazione, puo' sempre incidere sul dispositivo e sulla «ratio decidendi» spettando al giudice de quo stabilire in qual modo il sistema giuridico debba reagire, in caso di annullamento di norme di favore» (Corte cost. sentenza citata n. 148). Va, tra l'altro, rammentato che l'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale delle norme eccepite con ogni probabilita' non verrebbe a colpire la sanzionabilita' e la punibilita' di attivita' commesse prima dell'approvazione e promulgazione della norma in questione, in virtu' della possibile reviviscenza delle norme pregresse e della loro esistenza al momento dei fatti commessi. In breve, e concludendo sul punto, le questioni proposte nella eccezione del p.m. appaiono sicuramente rilevanti nel procedimento in corso e la loro eventuale declaratoria di illegittimita' non escluderebbe «a priori» la punibilita' degli autori per i fatti commessi anteriormente alla loro promulgazione (si ricordi che i reati attualmente sottoposti al giudizio di questo Tribunale riguardano fattispecie commesse entro il 1993). Passando ora a trattare l'argomento che il p.m. ha posto come premessa del suo ragionamento, e cioe' la continuita' normativa tra il «vecchio» art. 2621 c.c. ed i nuovi artt. 2621 e 2622 c.c., deve osservarsi che tale questione puo' ormai ritenersi acclarata, sulla base di numerose pronunce dei giudici di merito (tra cui quelle della II sezione del Tribunale di Milano citate dal p.m.), e dei giudici di legittimita': oltre, infatti alla pronuncia della V sezione della S.C. del 21 maggio 2002, n. 6921, che l'accusa ha allegato alla sua eccezione e che appariva gia' definitoria dell'argomento, puo' citarsi anche la sentenza della V sezione della Corte di Cassazione dell'8 maggio - 3 giugno 2002, n. 21532, che cosi' recita «La nuova disciplina del falso in bilancio di cui agli artt. 2621 e 2622 del codice civile, cosi' come modificata dal d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, realizza un fenomeno di successione di norme nell'ambito del quale la vigente disciplina si pone in rapporto di specialita' rispetto a quella precedente (art. 2621 del c.c. nel testo previgente): la fattispecie astratta originariamente delineata dal legislatore risulta incompresa in quelle ora incriminate con l'aggiunta di alcuni elementi specializzanti; in tal modo, mentre i fatti attualmente punibili gia' lo erano in precedenza, non tutti quelli rilevanti penalmente in passato lo sono ancora. In particolare i novellati articoli 2621 e 2622 che hanno appunto un ambito di applicabilita' piu' ristretto, richiedono, sul piano oggettivo, l'idoneita' delle false esposizioni e delle comunicazioni omesse ad indurre in errore i destinatari delle medesime e la violazione configura una contravvenzione, salvo che il fatto abbia cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori nel qual caso, ferma restando l'ipotesi delittuosa, la procedibilita' e' subordinata alla querela, a meno che si tratti di societa' quotate». Quanto poi alla citata «residualita» del nuovo art. 2621 rispetto al 2622, la stessa, come giustamente indicato dal p.m. deriva da ragioni letterali, procedurali e sistematiche: la sostanziale sovrapponibilita' tra le due fattispecie (che differiscono solo per quel che concerne la procedibilita' a querela e la causazione del danno per la seconda rispetto alla prima), la necessita' sistematica di «coprire» la «plurioffensivita» dell'originaria fattispecie, la maggiore ampiezza della prima fattispecie rispetto alla seconda (da cui deriva evidentemente, la ricaduta dei comportamenti criminosi dal secondo reato al primo nel momento in cui, mancando la querela, non appare possibile procedere nell'accertamento del reato di cui all'art. 2622 c.c.). Tale residualita' appare vieppiu' significativa nella vicenda in questione nel momento in cui, come si e' detto, il meccanismo sanzionatorio costruito dal legislatore in relazione ai reati di falso in bilancio appare complessivamente strutturato in modo tale da coprire sia le falsificazioni senza danno patrimoniale (perseguibili d'ufficio), sia quelle in cui il danno sia la conseguenza della condotta (perseguibili, per le societa' non quotate, solo a querela): ed infatti tale costruzione apparirebbe monca o comunque instabile se si dovesse ritenere che le due fattispecie non siano figlie del medesimo grembo e quindi ricollegate in termini procedurali e sostanziali nel modo che si e' fin qui evidenziato. In breve il legislatore, con il d.lgs. n. 61/2002, in ossequio alla delega contenuta nella legge 3 ottobre 2001, n. 366, ha inteso perseguire una scelta di politica criminale ben precisa «che tende a specificare e distinguere in varie ipotesi il contenuto del reato, ritenendo in alcuni casi rilevante penalmente la semplice pericolosita' delle false comunicazioni sociali ed in altri, richiedendo l'esistenza di un danno effettivamente cagionato a soci e creditori, ed escludendo nelle ipotesi di minor rilievo la punibilita'. La scelta attiene, in parte, ad un dato sociologico, che riguarda l'evoluzione delle strutture societarie verso nuove forme di aggregazione anche a carattere sovranazionale, tali da rendere piu' efficiente il controllo effettuato dal mercato rispetto a quello penale. A cio' deve aggiungersi la scelta effettuata dal legislatore di affievolire il controllo penale della correttezza degli amministratori delle societa', attenuando le sanzioni ed escludendo la responsabilita' nei casi di minore gravita» (Cass., V sezione penale, sentenza 21 maggio 2002, n. 6921). Venendo ora a trattare della prima delle eccezioni di incostituzionalita' sollevate dal p.m., e cioe' l'illegittimita' del nuovo art. 2622 c.c., nella parte in cui prevede la procedibilita' a querela per i reati commessi nell'ambito di' societa' non quotate, nei confronti dell'art. 3 della Costituzione, deve osservarsi quanto segue: come si e' gia' detto riportando le sentenze della S.C. sull'argomento, la nuova strutturazione dei reati che puniscono il falso in bilancio (e cioe' i nuovi artt. 2621 e 2622 c.c.) appare conseguente ad una volonta' di politica legislativa tendente a mantenere una fattispecie a piu' ampio spettro, di tipo contravvenzionale, punibile ad iniziativa d'ufficio (l'art. 2621 c.c.), ed a creare un'altra fattispecie, di tipo delittuoso, punibile a querela di parte per i fatti commessi nell'ambito di societa' non quotate in borsa, e causativa di un danno patrimoniale per i soci o i creditori sociali (l'art. 2622 c.c.); in questo senso e' ben vero quanto riferito dal p.m., e cioe' che per i reati meno gravi e' prevista una procedibilita' d'ufficio, mentre per i reati piu' gravi (sempre se commessi nelle societa' non quotate) e' richiesta una querela di parte: deve tuttavia rilevarsi che, al di la' di tale meccanismo procedurale, la pena prevista per i reati «piu' gravi» e' sensibilmente piu' alta (e di specie diversa, trattandosi di delitto e non di contravvenzionale) di quella indicata per i reati «meno gravi», che appare invece assai esigua e collegata, come si vedra' in seguito, ad una estinzione per prescrizione significativamente piu' breve della prima (4 anni e mezzo rispetto a 15 anni in toto comprensivi, in ambedue i casi delle eventuali interruzioni). Il collegare quindi, per i reati previsti dalla prima parte dell'art. 2622 c.c., la procedibilita' ad una richiesta qualificata della parte interessata (e cioe' ad una querele), sembra essere una esigenza dovuta piu' alla ricaduta patrimoniale della condotta prevista (che, come si e' visto, deve aver causato un danno patrimoniale per poter attingere alla punibilita) che ad una valutazione di gravita' di comportamenti; gravita' che, in presenza di un danno, appare comunque tutelata dalla previsione normativa di una pena non esigua. In breve, e prescindendo per un attimo anche dalla costante giurisprudenza della S.C. in tema di uguaglianza, responsabilita' penale e pene che e' sempre stata assolutamente costante nel rigettare le eccezioni del tipo di quella che si sta trattando, deve ritenersi che l'assunto del posto a base della sua richiesta (che cioe' i fatti piu' gravi verrebbero, nella norma in esame, trattati in modo meno grave rispetto ai fatti meno gravi) appare non condivisibile in quanto non rispondente alla realta' normativa in esame: il prevedere, per le societa' non quotate in borsa, nel cui ambito si sia creato un falso in bilancio causativo di danno una punibilita' a querela di parte (soci o creditori), non appare irragionevolmente dovuto ad una valutazione di trattamento diverso rispetto a societa' in cui tale danno non si sia verificato, ma soltanto collegato ad una conseguenza patrimoniale dannosa non presente nella ipotesi alternativa; la presenza di una pena notevolmente piu' alta per il caso in questione rispetto a quella prevista per il caso alternativo consente di bilanciare in modo apprezzabile la gravita' dei comportamenti dei soggetti dell'attivita' delittuosa. In ogni caso, e per fugare qualsiasi dubbio in merito alla opportunita' di prospettare tale questione alla Corte costituzionale, si vedano le sentenze o le ordinanze di tale organo, costanti nel tempo nel rigettare eccezioni relative a tali argomenti: in particolare, ordinanza n. 288 del 2002 («questa Corte ha costantemente affermato che la determinazione delle condotte punibili e delle relative sanzioni, siano esse penali o amministrative, rientra nella piu' ampia discrezionalita' del legislatore e che lo scrutinio sul merito delle scelte sanzionatorie e' ammissibile soltanto ove l'opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza»); ordinanza n. 33 del 2001, sentenza n. 84 del 1997, ordinanza n. 267 del 1999, sentenza n. 341 del 1994, sentenza n. 333 del 1991. Per tali considerazioni la prima eccezione di incostituzionalita' proposta dal p.m. va ritenuta manifestamente infondate e quindi respinta. Passando ora a trattare il secondo profilo di incostituzionalita' che il p.m. ha sollevato in merito al d.lgs. n. 61/2002, deve osservarsi quanto segue: Il percorso argomentativo dell'accusa nella vicenda in questione appare molto piu' complesso ed articolato rispetto a quello seguito nella precedente eccezione partendo dal condivisibile presupposto della prevalenza della norma comunitaria (nel caso in questione l'art. 6 della prima direttiva CEE 68/151) sulla norma nazionale (il citato), prevalenza piu' volte confermata anche dalla S.C. vedi, per es. sentenza della C.C. n. 170 del 5 giugno 1964), ma ritenendo comunque che, nel caso di possibile abrogazione di norme penali operi il fondamentale principio costituzionale della riserva di legge ex art. 25 Cost., e che quindi il giudice nazionale non potrebbe, ex se, disapplicare una norma penale interna in contrasto con una fattispecie di diritto comunitario, il p.m. ritiene necessario rivolgersi alle Corte costituzionale affinche' la stessa, una volta che gli sia stato prospettato il contrasto tra la norma internazionale e e quella interna, valuti se quest'ultima sia ancora conforme alla Costituzione ovvero contrevvenga al disposto degli artt. 11 e 117 della stessa (norme che consentono, attraverso il riconoscimento del rinvio pattizio, l'ingresso delle fonti comunitarie nel diritto interno). A questo punto il p.m. con argomentazioni che appaiono largamente condivisibili), interpretando il significato del termine «adeguata» riferibile al concetto di sanzione nell'ambito dell'art. 6 della citata direttiva, come di «efficacia in concreto e di reale capacita' dissuasiva» della stessa (anche, e soprattutto, alla luce di altra sentenza della Corte di Giustizia, del 21 settembre 1998 C68/88, la c.d. sentenza del «mais greco», nella quale si e' detto che le sanzioni alle violazioni del diritto comunitario devono avere carattere di «effettivita', proporzionalita', e capacita' dissuasiva»), e raffrontando tali significati in concreto con la norma che punisce con una sanzione di tipo contravvenzionale il falso in bilancio non causativo di danno patrimoniale (e cioe' il nuovo art. 2621 c.c.), giunge, evidentemente, al risultato di ritenere tale normativa del tutto inadeguata, a livello sanzionatorio, per contrastare efficacemente la condotta punibile suindicata. Come, infatti, e' assolutamente notorio fra gli operatori del diritto nel nostro paese, (ma come peraltro e' facilmente interpretabile anche da un lettore sprovvisto di pregresse conoscenze autoctone) le violazioni di tipo contravvenzionale sono punite con pene risibili in termini quantitativi (inferiori quasi sempre a due anni di reclusione e quindi rientranti nell'ambito della sospensione condizionale della pena), con una massima previsione prescrizionale di 4 anni e mezzo, comprensiva di ogni possibile allungamento temporale dovuto alle interruzioni della prescrizione medesima; non vi e' chi non veda (e questo Collegio e' fra questi vedenti) che non c'e' alcuna pratica possibilita' (se non in casi estremi «di scuola» di condurre a termine un processo penale per vicende di falso in bilancio correlate a sanzioni cosi' limitate in un termine rientrante nella previsione prescrizionale suddetta: questo, sia ben chiaro, non per incapacita' professionali da parte degli operatori del diritto, ma per evidente sproporzione tra la presenza di garanzie procedurali che prevedono tre gradi di giudizio per ottenere una sentenza definitivamente operativa ed un termine prescrizionale assolutamente contenuto quale quello anzidetto; in piu' va sottolineato che l'accertamento del reato in questione (e cioe' il falso in bilancio) appare assolutamente difficile e complesso (collegandosi a violazioni documentali di tipo contabile ed economico) e quindi richiedendo all'interprete un sovrappiu' di tipo temporale del tutto incoercibile nell'ambito ristretto delle indagini preliminari cosi' come attualmente strutturate; tanto piu' che il termine prescrizionale decorre dalla data di commissione del fatto, che puo' essere (e normalmente e) ben antecedente a quella del suo accertamento. Va inoltre rilevato urulteriore profilo rispetto a quelli fin qui' evidenziati dal p.m. a norma dell'art. 42, quarto comma c.p., «nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa». In materia contravvenzionale, pertanto, la regola generale e' la punibilita' a titolo di dolo o di colpa: a fronte, tuttavia, di una pena assai contenuta ed alla previsione di un termine prescrizionale molto breve, per l'autorita' giudiziaria che procede sotto il profilo dell accertamento del l'elemento soggettivo, e' normalmente meno impegnativo ravvisare la colpa ai fini della punibilita' dei reato, o comunque la presenza di una previsione colposa amplia lo spettro delle condotte punibili. Si tratta, con tutta evidenza, di una scelta di politica criminale; nel caso di specie, con la modifica dell'art. 2621 c.c., viene creata una vistosa eccezione alta logica di questo sistema: si prevede una contravvenzione, ma si richiede la sussistenza di un elemento soggettivo particolarmente qualificato; non solo il dolo, ma addirittura il dolo specifico, spesso di difficile accertamento, con una evidente conseguenza di indebolimento della tutela del bene giuridico protetto. Sotto questo ultimo profilo va ancora ricordato che, alla luce della costante giurisprudenza formatasi sotto il previgente regime, l'impianto della tutela penale in materia societaria dovrebbe mirare a garantire la protezione di una pluralita' di beni giuridici quali, da un lato, gli interessi economici o patrimoniali della societa' o dei soci, e, dall'altro, l'interesse pubblico alla affidabilita' e trasparenza delle scritture sociali (vedi in tal senso, Cass. Sez. V n. 14730 del 29 dicembre 1999, e Cass. Sez. V n. 6889 del 20 febbraio 2001: ebbene, il nuovo impianto normativo di cui si discute sembra invece limitare l'effettiva tutela della trasparenza del mercato (per il caso di societa' non quotate in borsa) alle sole violazioni piu' lievi, e cioe' a quelle che non abbiano causato un danno patrimoniale ai soci ed ai creditori, lasciando, in tale seconda ipotesi, che l'esercizio dell'azione penale sia subordinato al consenso dell'offeso, pur in presenza di una possibile lesione del bene giuridico della fede pubblica, che dovrebbe caratterizzarsi quale diritto tipicamente indisponibile. Al termine di tale lungo (e, come si e' detto, complessivamente condivisibile) excursus nel quale si e' attentamente valutata la «inadeguatezza» del nuovo art. 2621 c.c. rispetto alla normativa sovranazionale indicata a sanzionare le violazioni di falso in bilancio senza danno, il p.m. chiede tuttavia di limitare il possibile sindacato della Corte costituzionale al solo art. 2622 c.c. «nella parte in cui prevede che il falso in bilancio dal quale sia derivato danno sia punito a querela di parte anche nei processi in corso alla sua entrata in vigore»; e cioe' l'art. 5 del d.lgs. n. 61/2002 che, come norma transitoria, prevede la possibilita' per gli aventi diritto di proporre querela nei tre mesi conseguenti alla entrata in vigore della legge, per i fatti antecedenti commessi. Come si e' infine gia' riferito, il p.m. (offre al Collegio procedente una duplice possibilita': o ritenere immediatamente operativa la disciplina introdotta dalla direttiva comunitaria in esame (anche sulla base del precedente della Corte di Giustizia del 4 dicembre 1997, C97/96 che, secondo l'accusa, avrebbe gia' deciso un caso analogo); ovvero ricorrere in via interpretativa ed incidentale alla Corte di Giustizia medesima affinche' dichiari che la normativa italiana sia in palese contrasto con la direttiva CEE piu' volte citata. Esaminando e valutando in maniera piu' dettagliata le argomentazioni dell'accusa, deve osservarsi quanto segue: La prima direttiva 68/151/CEE del Consiglio, del 9 marzo 1968, e' stata adottata, come si legge nella parte iniziale della stessa «per coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle societa' a mente dell'art. 58, secondo comma, del Trattato per proteggere gli interessi dei soci e dei terzi, e poi continuando considerando che il coordinamento delle disposizioni nazionali concernenti la pubblicita', la validita' degli obblighi di tali societa', e la nullita' di queste ultime riveste una importanza particolare, soprattutto in ordine alla tutela degli interessi dei terzi; considerando che nei predetti settori devono adottarsi simultaneamente disposizioni comunitarie per tali societa', poiche' esse non offrono ai terzi altra garanzia che il patrimonio sociale; considerando che la pubblicita' deve consentire ai terzi di conoscere gli atti essenziali della societa', ... (Omissis)... considerando che la tutela dei terzi deve essere assicurata mediante disposizioni che limitino, per quanto possibile, le cause di invalidita' delle obbligazioni assunte in nome della societa'; considerando che e' necessario, per garantire la certezza del diritto nei rapporti tra la societa' ed i terzi, nonche' nei rapporti fra i soci, limitare i casi di nullita'...»; per tali motivi, all'art. 6 si prevede che «Gli Stati membri stabiliscono adeguate sanzioni per i casi di - mancata pubblicita' del bilancio e del conto profitti e perdite, come prescritta dall'art. 2, paragrafo 1, lettera f), - mancanza, nei documenti commerciali, delle indicazioni obbligatorie, di cui all'art. 4. Come si vede si tratta di una c.d. «Direttiva dettagliata» indirizzata a tutti i paesi membri della Comunita' (e quindi, esplicitamente, anche all'Italia), che riguarda, in particolare, gli obblighi concernenti la pubblicita' degli organi sociali e dei documenti contabili ed economici atti a garantire l'esistenza della societa', il suo stato patrimoniale, i suoi obblighi giuridici ed economici nei confronti dei soci e dei terzi (e cioe' il bilancio ed il conto profitti e perdite). In considerazione di cio', l'art. 6 prevede, a garanzia di tutto questo, che gli Stati membri adottino «adeguate sanzioni» per i casi (che qui interessano) di «mancata pubblicita' del bilancio». Dice il p.m. che «non necessita di motivazione la constatazione che se sanzioni adeguate devono essere previste per la mancata pubblicazione del bilancio a maggior ragione ne devono essere previste per il bilancio presentato, ma falso»; Deve invece rilevarsi che tale equiparazione interpretativa avrebbe grande necessita' di una qualche motivazione ulteriore: una cosa sono le sanzioni, presumibilmente di tipo civilistico o amministrativo atteso l'impianto complessivo della normativa, che lo Stato deve garantire in mancanza di pubblicita' di un bilancio, altra cosa sono (o potrebbero essere) le sanzioni penali adeguate in presenza di una constatata falsita' del bilancio sociale; il passaggio di logica deduttiva che il p.m. compie appare si giustificabile sulla base di una analisi di tipo analogico/interpretativo, ma assai pericoloso ai fini di una corretta ed inequivoca impostazione della fattispecie in esame. In breve, e fatte salve le considerazioni che in seguito si svolgeranno, l'interpretazione autentica della normativa comunitaria in oggetto appare compito da affidarsi con sicurezza alla Corte di Giustizia, senza adottare scorciatoie interpretative che consentano una lettura «in malam partem» a danno dei soggetti dalla stessa obbligati. E' ben vero, cosi' come suggerito dal p.m. che la stessa Corte di Giustizia, giudicando in un caso che appare analogo a quello in corso (e cioe' il caso «Verband/Dahiatsu» del 4 dicembre 1997), ha ritenuto che «l'art. 6 della prima direttiva va interpretato nel senso che esso osta alla legge di uno Stato membro che preveda solo per i soci creditori nonche' la commissione interna della societa', il diritto di chiedere la sanzione prevista da tale normativa nazionale, nel caso di mancato rispetto da parte di una societa' degli obblighi in materia di pubblicita' dei conti annuali», ma e' altrettanto vero che nel caso in questione si parlava di una possibilita' di chiedere una sanzione da parte di soggetti che ne apparivano esclusi in via di principio (terzi non creditori), e quindi d una possibilita' di tutela che invece e' garantita (perlomeno formalmente) dalla normativa italiana all'art. 2621 del c.c.; va inoltre rilevato che il criterio di «adeguatezza» della sanzione appare comunque e sempre riferibile ad una mancata pubblicazione dei dati sociali e non alla loro falsificazione; che infine, sebbene il giudice tedesco remittente parli di una irrogazione di' una ammenda, la Corte non sembra aver definito in modo esplicito la possibilita' di intervenire sulla quantificazione della stessa e quindi sul concetto di pena in concreto irrogabile. In breve questo Collegio ritiene che, pur in presenza di un «precedente» del tipo di quello indicato dal p.m., relativo alla interpretazione che la Corte di Giustizia ha dato in merito all'art. 6 della direttiva in parola, appaia comunque necessario che, se ritenuto pregiudiziale alla vicenda in esame, sia la Corte di Giustizia a fornire una nuova interpretazione autentica della norma di cui si tratta, non ritenendosi che la presenza di tale sentenza (C97/96) costituisca un esauriente supporto chiarificatorio delle possibilita' di applicazione della norma. Continuando l'esegesi delle richieste del p.m., deve a questo punto rilevarsi che data per acquisita la proposizione della questione incidentale alla Corte di Giustizia sulla interpretazione dell'art. 6 della prima direttiva, la domanda che l'organo dell'accusa richiede sia posta da parte del Collegio procedente appare sostanzialmente irrilevante e priva di significato nella vicenda in questione: ed infatti richiedere alla Corte se la normativa introdotta con il d.lgs. n. 61/2002 dal legislatore italiano sia idonea ed adeguata a sanzionare i fatti di falso in bilancio in ordine ai quali il procedimento fosse in corso alla data di entrata in vigore del decreto medesimo, significa, senza possibilita' di dubbio, farsi rispondere di si', nella misura in cui la Corte verifichi che nel coacervo delle norme in esame vi sia proprio quella di cui all'art. 5 del d.lgs. in parola, e cioe' la norma transitoria che consente a chi non doveva farlo prima, di proporre querela nei confronti dei soggetti autori di falsi in bilancio che abbiano arrecato un danno patrimoniale ai terzi qualiticati in breve, non vi e' dubbio che prevedere da parte del legislatore italiano una norma transitoria come quella suindicata, costituisce un esercizio dovuto di correttezza istituzionale e costituzionale nel momento in cui equipara i comportamenti commessi prima della emanazione della norma con quelli commessi posteriormente. Ne' altro poteva fare il legislatore, a pena di incorrere, questa volta certamente, nella violazione dell'art. 3 della Costituzione o dell'art. 25 della stessa. In questo senso l'inadeguatezza della normativa di cui il p.m. chiede il confronto con la direttiva comunitaria non e' sicuramente quella di cui al novellato art. 2622 c.c. e 5 d.lgs. n. 61/2002, per quel che concerne il trattamento dei reati commessi prima della emanazione del d.lgs., ma, con ogni evidenza, quella che si ricava dal combinato disposto tra gli artt. 2621 e 2622 c.c. della citata legge, nella misura in cui, in presenza di falso in bilancio non causativo di danno ovvero causativo di danno ma non procedibile per carenza di querela, prevede una pena detentiva di un anno e sei mesi di arresto, e cioe' una pena contravvenzionale di risibile portata e significato. In questo senso la presenza della querela rileva non per la sua necessita' procedurale collegabile a reati gia' commessi (che, a questo riguardo, ripara la presenza del citato art. 5 d.lgs. n. 61/2002), ma, ex adverso, in relazione alla sua possibile mancanza e quindi alla ricaduta dei comportamenti colpevoli nell'ambito della violazione prevista dall'art. 2621 c.c. In estrema sintesi quella che appare prima et secunda facie inadeguata nella indicata normativa e' la pena edittale prevista nell'art. 2621 c.c., sia che si guardi il reato ex se, e cioe' come semplice falso in bilancio non causativo di danno patrimoniale, sia che lo si guardi (ed e' il caso in esame) come reato di riserva rispetto a quello previsto dall'art. 2622 c.c. nel momento in cui, pur in presenza di un danno, magari grave a livello patrimoniale, la carenza della querela comporti la ricaduta dei comportamenti colpevoli nella violazione «meno grave» di cui al citato art. 2621 c.c. Pertanto nel momento in cui questo Collegio ritenga possibile ed utile l'invio degli atti alla Corte di Giustizia per la risoluzione della questione citata, lo fara' per sottoporre alla stessa una valutazione di adeguatezza dell'intero combinato disposto fra le norme di cui ai novellati artt. 2621 e 2622 c.c. e 5 d.lgs. n. 61/2002, non limitando la questione alla sola domanda posta dal p.m., che deve ritenersi limitativa ed insufficiente per chiarire l'argomento in esame. A questo punto, e conseguentemente a quanto affermato nel corso della presente trattazione, va affrontata e risolta la questione fondamentale che la eccezione del p.m. ha posto nel caso in esame (sebbene, a parere di questo collegio, non cogliendo in maniera precisa l'oggetto principale del problema), e cioe': la possibilita' e l'opportunita' di rivolgersi alla Corte di Giustizia della CE, ai sensi dell'art. 234 (gia' 177) del Trattato istitutivo della comunita', ai fini di richiedere, in via incidentale, una sentenza interpretativa dell'art. 6 della direttiva n. 68/151, consentendo alla stessa Corte un intervento sulla legislazione penale di uno Stato membro; nella misura in cui si dia una risposta positiva alla prima questione: quali domande porre alla Corte stessa in modo tale da chiarire, in via obbligatoria per le parti in causa, l'oggetto della controversia, e cioe' il rapporto tra il contenuto del suddetto art. 6 e le norme del d.lgs. in esame. In via di principio sia la dottrina piu' attenta ai rapporti tra diritto comunitario e diritto penale, sia la costante (sebbene non numerosa) giurisprudenza della Corte di Giustizia sull'argomento (di cui in seguito) hanno ritenuto e ritengono che una «competenza penale comunitaria» abbia assoluto diritto di cittadinanza sia nel nostro che negli altri Paesi che aderiscono alla CE. Ed infatti, partendo dal condiviso presupposto della preminenza del diritto comunitario su quello nazionale (vedi sentenze Corte costituzionale n. 170 del 1984, n. 113 del 1985, n. 168 del 1991 con la quale e' stata riconosciuta l'efficacia diretta delle direttive comunitarie nell'ambito dell'ordinamento nazionale), la Corte di Giustizia ha piu' volte riconosciuto la propria competenza ad occuparsi di materie che riguardino un ambito legislativo di tipo processualpenalistico. Si vedano, in tal senso, la sentenza del 21 marzo 1972, 82/71 caso S.A.I.L. (secondo la Corte «l'efficacia del diritto comunitario non puo' variare a seconda dei diversi settori del diritto nazionale nei quali esso puo' spiegare effetti»), la sentenza 21 settembre 1989, 68/88 nella causa detta del «mais greco» (nella quale la Corte ha chiaramente riconosciuto, sulla base dell'art. 5 T.C.E., l'obbligo per gli Stati, ivi compresi i relativi organi, di perseguire con concreta adeguatezza sotto il profilo sostanziale e procedurale, le violazioni del diritto comunitario «in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza» e comunque in termini tali «da conferire alla sanzione un carattere di effettivita', di proporzionalita', e di capacita' dissuasiva»), la sentenza 13 luglio 1990, 2/88 nell'affare Zwartveld (nella quale la Corte ha ribadito che l'art. 5 T.C.E. obbliga ªgli Stati membri ad adottare tutte le misure atte a garantire, se necessario anche penalmente, la portata e l'efficacia del diritto comunitario») la sentenza 10 aprile 1984, 14/83 caso Von Colson/Land (dalla quale si desume che il diritto comunitario preclude la previsione e la irrogazione di pene sproporzionate per difetto, tanto che la Corte ha obbligato i giudici nazionali a trovare nel proprio ordinamento sanzioni «non simboliche» per le violazioni attinenti all'ambito comunitario), la sentenza del 10 luglio 1990, 326/88, nel caso Hansen & Son (nella quale la Corte e' intervenuta nella valutazione di proporzionalita' di un'ammenda comminata in una causa relativa ad infortunio sul lavoro) ed infine la sentenza del 4 dicembre 1997 n. 97/1996, nel caso Dahiatsu che ha gia' formato oggetto di analisi nel corso della presente trattazione. Sulla base di quanto fin qui' esposto puo' quindi dirsi con ragionevole certezza che esiste un nesso di dipendenza del diritto penale nazionale dal diritto penale comunitario, seguendo il filo indicato dal principio di cui al citato art. 5 del T.C.E.: la Corte di Giustizia (come si e' cercato di dimostrare) ha evidenziato piu' di una volta di poter esercitare un esplicito sindacato sia sull'attribuzione (o non attribuzione) da parte dello Stato membro del carattere penale ad una certa fattispecie, sia sulla tecnica di incriminazione, sia sui livelli di pena. In questo senso non puo', a parere di questo Collegio, dubitarsi che lo Stato membro della CE non sia piu' del tutto «libero» nella scelta dei mezzi sanzionatori che esso ritiene adeguati nel prevenire o colpire una certa fattispecie penale, dovendo la sua liberta' fare i conti con delle esigenze sovranazionali trasfuse negli atti degli organi a cio' preposti. Pertanto, una volta che lo Stato nazionale abbia emanato una norma che assicuri una tutela al bene o al diritto comunitario in questione, non vi e' dubbio che l'adeguatezza di tale tutela debba poter essere sindacabile da parte degli organi di giustizia preposti a tale valutazione, e cioe', nel caso, da parte della Corte di Giustizia, ovvero anche da parte dei singoli giudici nazionali chiamati ad operare, ex art. 5 del Trattato, come organi obbligati alla solidarieta' comunitaria. Per questi motivi non sembra dubitabile che la norma penale non possa sfuggire al dominio comunitario, non solo per la parte precettiva, ma anche per quella piu' prettamente sanzionatoria: per cui la risposta che questo Collegio deve darsi alla prima questione proposta (se cioe' sia possibile rivolgersi alla Corte di Giustizia per chiedere di interpretare una norma che rientri in un ambito penalistico) e' certamente positiva. In questo senso va rammentato che rivolgersi, da parte del giudice procedente, alla Corte di Giustizia ex art. 234 (gia' 177) Trattato CE, affinche' risolva, in via incidentale, una questione di interpretazione di un qualsiasi atto compiuto da una delle istituzioni della comunita', e' attivita' non obbligatoria nel momento in cui, come nel caso in esame non si tratti di un giudice di ultima istanza; ma, come insegna la copiosa giurisprudenza della Corte, in casi di difficile o ambigua interpretazione di diritto comunitario (che cioe' non abbiano costituito un oggetto di interpretazione univoca e costante da parte dei giudici comunitari sentenza 6 ottobre 1982, caso CILFIT) il ricorso ex art. 234 (gia' 177) Trattato CE diventa certamente opportuno e consigliabile ai fini di ottenere una interpretazione autoritativa che risolva senza margini di dubbio il caso sottoposto alla valutazione del giudice procedente. Il caso in esame, sia per la complessita' della questione esaminata, sia per le sue eventuali ricadute in termini di illegittimita' costituzionale di norme penali incriminatrici, sia per la mancanza di precedenti univocamente interpretativi della norma in questione, appare senza dubbio un caso da sottoporre alla valutazione della Corte. Sembra, in definitiva, necessario al Collegio procedente, prima di continuare l'iter procedurale nella vicenda in questione, chiedere alla Corte di Giustizia la corretta interpretazione dell'art. 6 della Direttiva 68/151 CEE e, in particolare, se tale interpretazione confligga con le norme di cui al d.lgs. n. 61/2002, anche e soprattutto alla luce degli obblighi previsti dall'art. 5 del Trattato CEE incombenti nei confronti degli Stati membri e dei propri organi di giustizia. Pertanto, tirando le somme di tutte le argomentazioni fin qui' spese, questo Collegio ritiene necessario rivolgersi ex art. 234 (gia' 177) Trattato CEE alla Corte di Giustizia della Comunita' europee, affinche' risponda in via incidentale ai seguenti quesiti interpretativi: se l'art. 6 della direttiva 68/151 (prima direttiva) CEE possa essere inteso nel senso di obbligare gli Stati membri a stabilire adeguate sanzioni non solo per la mancata pubblicita' del bilancio e del conto profitti e perdite delle societa' commerciali, ma anche per la falsificazione dello stesso, delle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, o di qualsiasi informazione sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria che la societa' abbia obbligo di fornire sulla societa' stessa o sul gruppo alla quale essa appartiene; se, anche ai sensi dell'art. 5 del Trattato CEE, il concetto di «adeguatezza» della sanzione debba essere inteso in modo concretamente valutabile nell'ambito normativo (sia penale che procedurale) del Paese membro, e cioe' come sanzione «efficace, effettiva, realmente dissuasiva»; se, infine, tali caratteristiche siano riscontrabili nel combinato disposto dei novellati artt. 2621 c.c., 2622 c.c. cosi' modificati dal d.lgs. emanato dallo Stato italiano l'11 aprile 2002, n. 61: in particolare se possa definirsi «efficacemente dissuasiva» e «concretamente adeguata» la norma che prevede (all'art. 2621 c.c. citato) per i reati di falso in bilancio non causativi di danno patrimoniale ovvero causativi di danno ma ritenuti improcedibili ex art. 2622 c.c. per carenza di querela, una pena contravvenzionale di anni 1 e mesi 6 di arresto; se, infine, risulti adeguato prevedere, per i reati previsti dal primo comma dell'art. 2622 c.c. (e cioe' commessi nell'ambito di societa' commerciali non quotate in Borsa) una procedibilita' a querela di parte (e cioe' a querela di soci e di creditori) anche in relazione alla concreta tutela del bene collettivo della «trasparenza» del mercato societario sotto il profilo della possibile estensione comunitaria dello stesso. Questo Collegio sa che la Corte, chiamata a rispondere ex art. 234 (gia' 177) Trattato CEE, non e' formalmente competente ad interpretare il diritto nazionale ne' a pronunciarsi sulla validita' dello stesso, ma sa anche che, sempre sulla base di costante giurisprudenza della Corte medesima (si veda, per es. sentenza 26 gennaio 1990, n. 286/1988, Caso Falciola/comune di Pavia), la stessa puo' fornire al giudice interno elementi interpretativi del diritto comunitario che consentano al giudice di pronunciarsi (o di chiedere che la Corte costituzionale si pronunci) in merito alla compatibilita' di leggi nazionali con il diritto comunitario interpretato. In questo senso, e per queste ragioni, si ritiene opportuno che la Corte possa e debba avere una piena conoscenza della vicenda in esame, e pertanto si dispone la trasmissione alla stessa degli atti processuali in questione.