Il  giudice  per  le  indagini preliminari, dott. Angela Scalise,
letti gli atti del procedimento penale a carico del senatore Raffaele
Iannuzzi,  nato  a Grottella (Avellino) il 20 febbraio 1928, indagato
per i seguenti reati:
        A)  delitto  p.  e  p.  degli  articoli  595 c.p., 13 legge 8
febbraio  1948  n. 47,  61  n. 10,  99, comma 4, c.p., perche' autore
dell'articolo   intitolato  «Pressione  bassa  e  udienze  infinite»,
pubblicato  sul  settimanale Panorama nel numero del 22 novembre 2001
ed  il  cui  contenuto  deve qui intendersi integralmente richiamato,
offendeva la reputazione di Caselli Giancarlo, gia' Procuratore della
Repubblica   presso   il   Tribunale  di  Palermo,  Lo  Forte  Guido,
Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Palermo,
Scarpinato  Roberto,  Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il
Tribunale  di  Palermo  e  Natoli  Gioacchino,  Sostituto Procuratore
presso il Tribunale di Palermo, in particolare affermando:
          «In  realta', secondo la ricostruzione della nuova edizione
del Processo del secolo ( Oscar Mondadori, ottobre 2001 ) il processo
ad   Andreotti   e'   cominciato  molto  prima  e  fuori  dalle  aule
giudiziarie, e' stato preparato e provocato, ne sono stati prediposti
per  tempo  gli  strumenti,  a cominciare dai magistrati dell'accusa.
Dalle  prime  accuse  di Leoluca Orlando contro Lima e Andreotti alle
false  accuse  del  pentito  Pellegrini,  dagli  attacchi  a Giovanni
Falcone  all'assassinio  di  Salvo Lima, dal processo a Lima ( invece
che   ai   suoi   assassini)   all'inchiesta   di  Luciano  Violante,
dall'assassinio  di  Falcone  al  processo ad Andreotti: questa e' la
sequenza  degli  avvenimenti  passando  per  la  nomina  di Caselli a
procuratore  di  Palermo  e  dalla nomina di Gianni De Gennaro a capo
della Dia. Forse non basta ancora per parlare di complotto politico e
per  sostenere  che  Lima  e Falcone sono stati uccisi per processare
Andreotti,  ma  e'  certamente singolare che si continui a parlare in
tutti  i  processi  per  le  stragi  di  Capaci  e di via D'Amelio di
"mandanti  occulti"  e  nessuno abbia ancora indagato nella direzione
indicata  da  questa  sequenza dei fatti. Al contrario hanno indagato
per  anni  per  scoprire  se  per  caso i mandanti dell'assassinio di
Falcone  e  Borsellino  non  siano stati Silvio Berlusconi e Marcello
Dell'Utri»;
        ed aggiungendo nel medesimo articolo:
          «Basterebbe   cominciare  con  una  inchiesta  seria  sulla
gestione  dei  "pentiti".  Ci sono ormai decine di "pentiti" che sono
stati  dichiarati "inattendibili" nelle sentenze di assoluzione degli
imputati  da  loro  accusati:  perche'  non  vengono  processati  per
calunnia? Che cosa intendeva dire Balduccio Di Maggio, il pentito che
aveva visto Andreotti baciare Toto' Riina e che intanto aveva ripreso
ad  uccidere e che non temeva di essere scoperto e punito perche' lui
aveva  "i  cani  attaccati"?  E  quando  gli  e'  stato chiesto a chi
alludeva,  non  ha  esitato  a  indicare i magistrati Guido Lo Forte,
Roberto  Scarpinato  e  Gioacchino Natoli, i tre p.m. del processo di
primo  grado  ad  Andreotti:  perche'  Di Maggio era sicuro di "avere
nelle mani" i p.m. del processo ad Andreotti?»;
    Con   le   aggravanti   di   aver   arrecato   l'offesa  mediante
l'attribuzione  di  fatti  determinati  e  di  aver commesso il fatto
contro   pubblici  ufficiali  a  causa  dell'adempimerto  delle  loro
funzioni.
    Con la recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale.
    In Milano, il 22 novembre 2001.
        B)  delitto p. e p. dagli artt. 595 c.p., 13 legge 8 febbraio
1948  n. 47,  61  n. 10,  99,  comma  4,  c.p., perche', quale autore
dell'articolo  intitolato  «Il  pentito?  Ai p.m. piace double face»,
pubblicato  sul  settimanale Panorama nel numero del 29 novembre 2001
ed  il  cui  contenuto deve qui intendersi, integralmente richiamato,
offendeva la reputazione di Caselli Giancarlo, gia' Procuratore della
Repubblica   presso   il   Tribunale  di  Palermo,  Lo  Forte  Guido,
Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Palermo,
Antonio  Ingroia,  Sostituto  Procuratore  della  Repubblica Aggiunto
presso  il  Tribunale  di  Palermo  e  Natoli  Gioacchino,  Sostituto
Procuratore   presso   il   Tribunale   di  Palermo,  in  particolare
affermando:
          «Ma   mai   come  questa  volta  l'avvocato  Taormina,  che
notoriamente  ha  un  temperamento vivace, ha avuto ragione. Che cosa
dice  Taormina?  Che  anche  dalle  motivazioni  dell'assoluzione  in
appello  di  Bruno  Contrada,  depositate  di  recente, si evince che
questa drammatica vicenda giudiziaria ( una via crucis durata 9 anni,
quasi  4  anni  di  carcere, la condanna a 10 anni in primo grado) le
maggiori  responsabilita'  sono  dei  magistrati  piuttosto  che  dei
"pentiti"  arruolati  per  accusarlo.  E come si fa a negarlo? Furono
intanto  i  magistrati  e  in particolare il sostituto procuratore di
Palermo Gioacchino Natoli a volerlo a tutti i costi arrestare, quando
lo stesso Gianni De Gennaro, che allora dirigeva la Dia e arruolava i
"pentiti", era favorevole a che Contrada fosse inquisito, incrinato e
processato  a piede libero (a lui bastava che Contrada fosse comunque
tolto  di  mezzo).  E sono stati i magistrati, i sostituti piu' dello
stesso  procuratore  (Gian  Carlo  Caselli e' arrivato a Palermo piu'
tardi)  a  gestire  i  "pentiti" di De Gennaro in maniera indecente e
scandalosa.  Basta  rileggersi  i verbali degli interrogatori dei tre
"pentiti"  di  punta  del processo: Rosario Spatola, Francesco Marino
Mannoia e Tommaso Buscetta. Spatola, in un primo verbale, dichiara di
aver  visto  Contrada pranzare a tavola nella saletta riservata di un
noto  ristorante  di  Palermo  con  il  boss  Rosario  Riccobono. Gli
avvocati  di  Contrada  esibiscono  ai  magistrati la planimetria del
ristorante  e  dimostrano  che  in  quel  locale non esistono salette
riservate.  E quelli della procura che ti fanno? Invece di screditare
Spatola   e   di   togliergli   la  patente  di  pentito,  gli  fanno
sottoscrivere  un nuovo verbale in cui si corregge e dichiara che non
di  una  saletta  riservata  si trattava, ma di un angolino appartato
dell'unico  locale  del  ristorante,  Contrada  sedeva  a  tavola con
Riccobono  accanto  alla  porta  dei  cessi (in modo che lo potessero
vedere  tutti  i  clienti  che  andavano  in bagno). Francesco Marino
Mannoia,  interrogato per due volte di seguito nel mese di aprile del
1993,  dice ai magistrati di Caltanissetta e Palermo che non ha mai e
poi  mai sentito parlare di rapporti di' Contrada con la mafia. Sette
mesi  dopo,  nel gennaio del 1994, richiamato a deporre e interrogato
con  insistenza, Mannoia "ricorda" improvvisamente che in Cosa nostra
tutti  dicevano  che  Contrada  era pappa e ciccia con i boss Tommaso
Buscetta,  interrogato nel 1984 da Giovanni Falcone (un magistrato di
tutt'altra  razza), mette a verbale che negli ambienti di Cosa nostra
Rosario  Riccobono era tenuto in sospetto ed era chiamato «lo sbirro»
perche'  era  sospettato di fare da confidente a Contrada. Dieci anni
dopo,  interrogato  dagli indegni eredi di Falcone, rovescia la prima
deposizione  e  dichiara  che  era  lo  sbirro Contrada che faceva da
confidente  a  Riccobono  e  lo avvertiva quando stavano per emettere
mandati di cattura per i suoi amici».
    Con   le   aggravanti   di   aver   arrecato   l'offesa  mediante
l'attribuzione  di  fatti  determinati  e  di  aver commesso il fatto
contro   pubblici  ufficiali  a  causa  dell'adempimento  delle  loro
funzioni.
    Con la recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale.
    In Milano, il 29 novembre 2001.
    Rilevato  che  i  magistrati  Caselli  Giancarlo, Lo Forte Guido,
Scarpinato  Roberto  e  Natoli  Gioacchino hanno proposto querela nei
confronti   del  predetto  senatore  Raffaele  Iannuzzi  nonche'  del
direttore   pro   tempore   del   settimanale  «Panorama»,  ritenendo
diffamatorie le affermazioni riportate poiche' nell'articolo indicato
al  capo A) si era propalata la tesi secondo cui, sostanzialmente, il
processo  al  senatore  Giulio  Andreotti  era  stato  instaurato per
finalita' politiche;
    Rilevato  che  i  magistrati  Caselli  Giancarlo, Lo Forte Guido,
Antonio  Ingoia  e Natoli Gioacchino hanno proposto ulteriore querela
nei  confronti  del  predetto  senatore Raffaele lannuzzi nonche' del
direttore   pro   tempore   del   settimanale  «Panorama»,  ritenendo
diffamatorie le affermazioni riportate poiche' nell'articolo indicato
al  capo B)  si  era propalata la tesi che i predetti, nell'esercizio
delle  loro  funzioni,  avessero  commesso  abusi e illegalita' nella
gestione dei collaboratori di giustizia;
    Rilevato  che  con  lettera  in  data  25  marzo 2003 il senatore
Raffaele  Iannuzzi  ha  sottoposto  al  Senato  della  Repubblica  la
questione   dell'applicabilita'  dell'art.  68,  primo  comma,  della
Costituzione,  in relazione al procedimento penale n. 7305/02 riunito
al  7376/02  R.G.N.R.,  pendente  nei  suoi confronti a seguito della
presentazione delle querele sopra richiamate;
    Rilevato  che  il Senato della Repubblica, nel corso della seduta
del 23 luglio 2003, in accoglimento di conforme proposta della Giunta
delle  elezioni  e  delle  immunita' parlamentari, ha riconosciuto ai
sensi     dell'art. 68,     primo     comma    della    Costituzione,
l'insindacabilita'  delle  opinioni  espresse  dal  senatore Raffaele
Iannuzzi  nell'ambito  degli  articoli di stampa oggetto del presente
procedimento   in   quanto  espresse  nell'esercizio  della  funzione
parlamentare;
    Rilevato  che  in  data  21 ottobre 2003 il pubblico ministero ha
separato  la  posizione  del senatore Raffaele Iannuzzi da quella del
direttore  del  settimanale  «Panorama»,  Rossella  Carlo  e che, con
richiesta  del  23  ottobre  2003,  pervenuta  il 25 ottobre 2003, ha
chiesto  a questo giudice per le indagini preliminari l'archiviazione
del   procedimento   nei  confronti  del  senatore  lannuzzi,  previa
valutazione  degli  elementi  per sollevare conflitto di attribuzione
tra   i   poteri   dello  Stato  ai  sensi  dell'articolo  134  della
Costituzione  e  degli  articoli 37, 23, 25 e 26 della legge 11 marzo
1953,  n. 87  in  relazione alla delibera IV-quater n. 14 assunta dal
Senato della Repubblica nella seduta del 23 luglio 2003;
    Rilevato  che  in  data 5 luglio 2004 questo giudice ha proceduto
alla fissazione dell'udienza ex art. 409, secondo comma, c.p.p.
    Rilevato  che  all'udienza  del  21  ottobre  2004  il p.m. si e'
riportato  alle  conclusioni  sopra  richiamate,  il  difensore delle
persone  offese  ha  chiesto  sollevarsi conflitto di attribuzione ai
sensi  dell'  art. 37,  il  difensore  dell'indagato ha insistito per
l'accoglimento  della  richiesta di archiviazione e che il giudice ha
riservato la decisione;
    Ritenuto,  per  i  motivi  di  seguito  esposti, che, nel caso di
specie,  appare  necessario  sollevare  conflitto di attribuzione tra
poteri  dello  Stato,  conflitto  ammissibile  sia  sotto  il profilo
soggettivo   (questo  giudice  e'  l'organo  competente  a  decidere,
nell'ambito delle funzioni giurisdizionali attribuite, sulla asserita
illiceita'   della   condotta   ascritta  all'indagato  e  quindi  «a
dichiarare  la  volonta'  del  potere cui appartiene, in posizione di
piena  indipendenza garantita dalla Costituzione»: cfr. fra le altre,
ordinanze  Corte  cost.  n. 60  del  1999; nn. 469, 407, 261, 254 del
1998),  sia sotto quello oggettivo, trattandosi della sussistenza dei
presupposti   per   l'applicazione  dell'art. 68  primo  comma  della
Costituzione  e  della  lesione  della  propria sfera di attribuzioni
giurisdizionali,      costituzionalmente      garantita,     giacche'
illegittimamente  menomata  dalla suindicata deliberazione del Senato
della Repubblica;
    Occorre,  innanzitutto rilevare che la giunta, nell'affrontare la
problematica      inerente     all'ampiezza     della     prerogativa
dell'insindacabilita'  riconosciuta  agli appartenenti alle Camere ha
evidenziato che: «l'agire del parlamentare non puo' essere delimitato
esclusivamente agli ambiti di esercizio usuale, ma deve essere esteso
altresi'  a  quelle  sedi  "informali",  quali  ad esempio i mezzi di
informazione,  che  ricoprono  un  ruolo  sempre  piu'  rilevante nel
dibattito politico ... data l'evoluzione che la figura del politico -
parlamentare  ha subito e continua a subire, non sembra nello spirito
del   principio   costituzionale   restringere   le   prerogative  di
insindacabilita'  esclusivamente  alle  discussioni  che  si  tengono
all'interno delle Aule e che siano intimamente connesse alla funzione
stessa.  Il  mandato  elettorale, infatti, si esplica in tutte quelle
occasioni  nelle  quali  il  parlamentare  raggiunge  il cittadino ed
illustra  la  propria  posizione  anche,  e  forse tanto piu', quando
questo   avvenga  al  di  fuori  dei  luoghi  deputati  all'attivita'
legislativa  in  senso  stretto  e  si  espliciti invece nei mezzi di
informazione, negli organi di stampa e in televisione».
    Dopo  aver evidenziato alcuni giudizi espressi dai querelanti nei
confronti  del  senatore  Iannuzzi, la giunta ha ritenuto che «... la
risposta  data  dal procuratore Grasso ad atti di sindacato ispettivo
proposti in Parlamento, citata dai querelanti, e' sicuramente la piu'
puntuale  smentita  dell'organo  giudiziario in questione alle accuse
rivoltegli   ma,   proprio  per  questo,  dimostra  che  tali  accuse
(contenute  nell'interrogazione  Milio del 4 novembre 1999, 4 - 17031
della  XIII  legislatura)  hanno  dignita'  ben superiore a quelle di
"capziosa  deformazione  dei  fatti" che i querelanti assumono essere
l'unico  scopo  dell'articolo  del  senatore  Iannuzzi, e possono ben
rientrare  nell'esercizio  della  funzione  di  denuncia e di critica
politica  propria  di  un  rappresentante  eletto  dal popolo» ed ha,
quindi,  concluso,  che  «nel  caso in questione, e' riscontrabile la
fattispecie  di opinioni espresse nel quadro di quelle attivita' che,
nel  loro  complesso,  possono ritenersi facenti parte dell'attivita'
parlamentare,  dal  momento che si tratta dell'estrinsecazione, in un
organo  di  stampa,  della  posizione  di  un senatore in relazione a
rilevanti fatti pubblici».
    La  conclusione  adottata  appare  in  contrasto  con la costante
giurisprudenza costituzionale.
    A titolo esemplificativo puo' essere evidenziato quanto affermato
nelle  sentenze  numeri 10  e  11 dell'11 gennaio 2000 (alle quali si
sono  richiamate,  tra  le altre, le successive sentenze n. 52 del 27
febbraio 2002; n. 207 del 20 maggio 2002; n. 294 del 19 giugno 2002).
        «...   E'   pacifico   che  costituiscono  opinioni  espresse
nell'esercizio  della  funzione  quelle  manifesta  te  nel corso dei
lavori  della  Camera  e  dei  suoi  vari  organi, in occasione dello
svolgimento  di  una  qualsiasi  fra  le funzioni svolte dalla Camera
medesima,  ovvero manifestate in atti, anche individuali, costituenti
estrinsecazione  delle  facolta'  proprie  del parlamentare in quanto
membro dell'assemblea.
        Invece  l'attivita'  politica  svolta  dal parlamentare al di
fuori  di  questo ambito non puo' dirsi di per se' esplicazione della
funzione  parlamentare  nel senso preciso cui si riferisce l'art. 68,
primo comma, della Costituzione.
        Nel   normale   svolgimento  della  vita  democratica  e  del
dibattito politico, le opinioni che il parlamentare esprima fuori dai
compiti  e  dalle  attivita'  propri  delle  assemblee  rappresentano
piuttosto  esercizio  della  liberta' di espressione comune a tutti i
consociati: ad esse dunque non puo' estendersi, senza snaturarla, una
immunita'  che  la  Costituzione  ha  voluto,  in  deroga al generale
principio  di  legalita' e di giustiziabilita' dei diritti, riservare
alle opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni.
        La  linea  di  confine  fra  la tutela dell'autonomia e della
liberta'  delle  Camere, e, a tal fine, della liberta' di espressione
dei  loro  membri,  da  un  lato,  e  la  tutela  dei diritti e degli
interessi,  costituzionalmente  protetti, suscettibili di essere lesi
dall'espressione  di  opinioni,  dall'altro  lato,  e'  fissata dalla
Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell'ambito della
prerogativa.   Senza   questa   delimitazione,  l'applicazione  della
prerogativa  la  trasformerebbe  in  un  privilegio  personale  (cfr.
sentenza  n. 375 del 1997), finendo per conferire ai parlamentari una
sorta  di  statuto  personale di favore quanto all'ambito e ai limiti
della  loro  liberta'  di  manifestazione del pensiero: con possibili
distorsioni  anche  del  principio  di  eguaglianza  e  di parita' di
opportunita'  fra  cittadini  nella  dialettica politica. Discende da
quanto  osservato  che  la  semplice  comunanza  di  argomento fra la
dichiarazione  che  si  pretende  lesiva  e  le opinioni espresse dal
deputato  o  dal  senatore  in  sede  parlamentare non puo' bastare a
fondare l'estensione alla prima dell'immunita' che copre le seconde.
        Tanto  meno  puo'  bastare  a  tal  fine  la ricorrenza di un
contesto genericamente politico in cui la dichiarazione si inserisca.
Siffatto  tipo di collegamenti non puo' valere di per se' a conferire
carattere  di attivita' parlamentare a manifestazioni di opinioni che
siano   oggettivamente   ad  essa  estranee.  Sarebbe,  oltre  tutto,
contraddittorio  da un lato negare - come e' inevitabile negare - che
di  per  se'  l'espressione  di  opinioni  nelle  piu'  diverse  sedi
pubbliche   costituisca   esercizio   di   funzione  parlamentare,  e
dall'altro  lato  ammettere che essa invece acquisti tale carattere e
valore in forza di generici collegamenti contenutistici con attivita'
parlamentari svolte dallo stesso membro delle Camere.
        In  questo  senso  va  precisato  il  significato  del «nesso
funzionale»    che    deve    riscontrarsi,    per   poter   ritenere
l'insindacabilita',  tra la dichiarazione e l'attivita' parlamentare.
Non  cioe'  come semplice collegamento di argomento o di contesto fra
attivita'  parlamentare  e  dichiarazione,  ma  come identificabiita'
della   dichiarazione   stessa   quale   espressione   di   attivita'
parlamentare  ...  nel  caso  di  riproduzione all'esterno della sede
parlamentare,    e'    necessario,    per   ritenere   che   sussista
l'insindacabiita',  che  si  riscontri  la  identita'  sostanziale di
contenuto  fra  l'opinione  espressa  in  sede  parlamentare e quella
manifestata nella sede esterna.
        Cio'  che  si  richiede,  ovviamente,  non  e'  una  puntuale
coincidenza   testuale,   ma   una   sostanziale   corrispondenza  di
contenuti...  Nei  casi  in  cui  non  e'  riscontrabile esercizio di
funzioni  parlamentari, il valore della legalita' - giurisdizione non
collide certo con quello dell'autonomia delle Camere e cosi si spiega
che  la  giurisprudenza  costituzionale  abbia  appunto stabilito che
l'immunita'  non  vale per tutte quelle opinioni che «il parlamentare
manifesta  nel  piu' esteso ambito della politica». Alla luce di tale
interpretazione  si debbono pertanto ritenere, in linea di principio,
sindacabili  tutte  quelle  dichiarazioni,  che fuoriescono dal campo
applicativo del «diritto parlamentare» e che non siano immediatamente
collegabili   con   specifiche   forme   di   esercizio  di  funzioni
parlamentari,  anche se siano caratterizzate da un asserito «contesto
politico»  o  ritenute,  per  il contenuto delle espressioni o per il
destinatario  o  la  sede  in  cui sono state rese, manifestazione di
sindacato  ispettivo.  Questa  forma di controllo politico rimessa al
singolo  parlamentare  puo'  infatti  aver  rilievo,  nei  giudizi in
oggetto,   soltanto   se   si  esplica  come  funzione  parlamentare,
attraverso  atti  e procedure specificamente previsti dai regolamenti
parlamentari.
        Se  dunque  l'immunita' copre il membro del Parlamento per il
contenuto   delle  proprie  dichiarazioni  soltanto  se  concorre  il
contesto   funzionale,   il   problema   specifico,  che  non  appare
irrilevante in questo conflitto, della riproduzione all'esterno degli
organi  parlamentari  di  dichiarazioni  gia  rese  nell'esercizio di
funzioni     parlamentari     si    puo'    risolvere    nel    senso
dell'insindacabilita'   solo  ove  sia  riscontrabile  corrispondenza
sostanziale   di  contenuti  con  l'atto  parlamentare,  non  essendo
sufficiente a questo riguardo una mera comunanza di tematiche».
    L'orientamento  della  Corte costituzionale e' stato recentemente
ribadito  con  la  sentenza n. 120 del 16 aprile 2004; nel dichiarare
infondate  le  questioni di legittimita' costituzionale sollevate con
riferimento  all'art. 3, comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140,
si e' affermato che: «... Nonostante le evoluzioni subite, nel tempo,
nella  giurisprudenza  di  questa Corte, e' enucleabile un principio,
che   e'   possibile  oggi  individuare  come  limite  estremo  della
prerogativa   dell'insindacabilita',   e   con   cio'   stesso  delle
virtualita'  interpretative  astrattamente  ascrivibili  all'art. 68:
questa  non  puo'  mai trasformarsi in un privilegio personale, quale
sarebbe  una  immunita'  dalla  giurisdizione  conseguente  alla mera
"qualita'"  di  parlamentare».  Per  tale  ragione l'itinerario della
giurisprudenza  della Corte si e' sviluppato attorno alla nozione del
cd.  «nesso  funzionale», che solo consente di discernere le opinioni
del   parlamentare   riconducibili  alla  libera  manifestazione  del
pensiero,  garantita  ad  ogni  cittadino  nei  limiti generali della
liberta'  di  espressione, da quelle che riguardano l'esercizio della
funzione parlamentare.
    Certamente  rientrano  nello sfera dell'insindacabilita' tutte le
opinioni   manifestate   con   atti  tipici  nell'ambito  dei  lavori
parlamentari,  mentre per quanto attiene alle attivita' non tipizzate
esse  si debbono tuttavia considerare «coperte» dalla garanzia di cui
all'art. 68,  nei casi in cui si esplicano mediante strumenti, atti e
procedure,  anche  «innominati»,  ma comunque rientranti nel campo di
applicazione  del  diritto parlamentare, che il membro del Parlamento
e'  in  grado  di  porre  in essere e di utilizzare proprio solo e in
quanto  riveste tale carica (cfr. sentenze n. 56 del 2000, n. 509 del
2002    e    n. 219   del   2003).   Cio'   che   rileva,   ai   fini
dell'insindacabilita',  e'  dunque  il collegamento necessario con le
«funzioni» del Parlamento, cioe' l'ambito funzionale entro cui l'atto
si  iscrive,  a  prescindere dal suo contenuto comunicativo, che puo'
essere  il  piu'  vario,  ma  che  in  ogni  caso deve essere tale da
rappresentare esercizio in concreto delle funzioni proprie dei membri
delle  Camere,  anche  se  attuato  in  forma  «innominata» sul piano
regolamentare.  Sotto  questo  profilo  non c'e' percio' una sorta di
automatica  equivalenza  tra  l'atto  non  previsto  dai  regolamenti
parlamentari  e l'atto estraneo alla funzione parlamentare, giacche',
come gia' detto, deve essere accertato in concreto se esista un nesso
che permetta di identificare l'atto in questione come «espressione di
attivita' parlamentare» (cfr. sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, n. 379
e n. 219 del 2003).
    E'  in  questa  prospettiva  che va effettuato lo scrutinio della
disposizione  denunciata. Le attivita' di «ispezione di divulgazione,
di  critica  e di denuncia politica» che appunto il censurato art. 3,
comma  1,  riferisce  all'ambito  di applicazione dell'art. 68, primo
comma,   non  rappresentano,  di  per  se',  un'ipotesi  di  indebito
allargamento  della  garanzia  dell'insindacabilita' apprestata dalla
norma  costituzionale, proprio perche' esse, anche se non manifestate
in   atti  «tipizzarti»,  debbono  comunque,  secondo  la  previsione
legislativa e in conformita' con il dettato costituzionale, risultare
in  connessione  con l'esercizio di funzioni parlamentari. E' appunto
questo «nesso» il presidio delle prerogative parlamentari e, insieme,
del  principio  di  eguaglianza  e dei diritti fondamentali dei terzi
lesi.».
    Occorre,  altresi',  evidenziare  che la legge n. 140/2003 non ha
natura   di  legge  costituzionale  e,  pertanto,  non  e'  idonea  a
stravolgere   i   limiti   delineati   dalla   Corte   in   relazione
all'applicabilita' dell'art. 68 comma primo della Costituzione.
    Pertanto,  si  ritiene che anche il riferimento alle attivita' di
«ispezione  divulgazione,  critica  e  denuncia  politica», espletate
fuori  dal  Parlamento  che  devono essere connesse alla «funzione di
parlamentare»  non  possa  prescindere  dall'applicazione dei criteri
delineati  dalla  Corte  costituzionale  sopra richiamati. La diversa
interpretazione,     diretta     a    ricomprendere    nella    sfera
dell'insindacabilita' qualsiasi attivita' politica posta in essere da
parlamentare al di fuori dal Parlamento, oltre che porsi in contrasto
con  lo  stesso art. 68 della Costituzione, determinerebbe, di fatto,
la   compromissione   dei  diritti  all'onore  ed  alla  reputazione,
anch'essi costituzionalmente tutelati.
    La  deliberazione  adottata  dal  Senato  della  Repubblica nella
seduta del 23 luglio 2003 appare in contrasto con i richiamati canoni
interpretativi atteso che non contiene alcun elemento concreto da cui
poter desumere la sussistenza di una corrispondenza sostanziale tra i
contenuti  degli  articoli  oggetto  delle querele e le opinioni gia'
espresse  dal  senatore  in  specifici atti parlamentari, non essendo
sufficiente una mera comunanza di tematiche e un generico riferimento
alla rilevanza dei fatti pubblici.
    L'interpretazione  prospettata  dalla  decisione  di cui trattasi
comporta,   di   fatto,   che   l'istituto   previsto   dalla   norma
costituzionale  si  trasformi da «esenzione di responsabilita' legata
alla  funzione  in  privilegio  personale»  (cfr.  sent.  11/00, gia'
citata)  con  la  conseguenza  che  le  opinioni  e  le dichiarazioni
manifestate  da un parlamentare sarebbero sempre e comunque sottratte
alla verifica giurisdizionale.
    Deve,   pertanto,  ritenersi  che  la  condotta  addebitabile  al
senatore  Iannuzzi,  astrattamente  idonea,  nella sua specificita' e
gravita'   ad  integrare  un  illecito,  esula  dall'esercizio  delle
funzioni  parlamentari e non presenta oggettivamente alcun legame con
atti  parlamentari  neppure  nell'accezione  piu'  ampia  e come tale
dovrebbe   rientrare   nella   cognizione   riservata   al  sindacato
giurisdizionale.
    Le  opinioni  manifestate  dal senatore lannuzzi non possono, per
carenza  del  nesso  funzionale,  ritenersi rese nell'esercizio delle
funzioni   parlamentari   e   quindi   per  esse  non  e'  invocabile
l'immunita', ai sensi dell'art. 68, primo comma della Costituzione.